Lampedusa dopo sette anni: la cultura del benessere secondo papa Francesco

messa a 7 anni da visita a Lampedusa

il papa:

è Dio che ci chiede di poter sbarcare


7 anni dopo la sua visita nell’isola siciliana il Papa nella Messa a Santa Marta:

“La Libia è un inferno, un lager. Ci danno solo una versione distillata. Nessuno può immaginare cosa si vive lì”

 

è Dio “che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito, chiedendo di poter sbarcare”

Così si è espresso il Papa nell’omelia della Messa dedicata ai migranti, nel settimo anniversario della sua visita a Lampedusa.

“La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza”.

Sono passati sette anni dalla visita di papa Francesco a Lampedusa e da quella domanda rivolta all’umanità nella Messa celebrata al campo sportivo dell’isola nel cuore del Mediterraneo: «Dov’è tuo fratello?, la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi». Una domanda che risuona ancora oggi, dopo quel viaggio durato poche ore che però è considerato – come ricorda anche l’Osservatore Romano – in qualche modo “programmatico” per il Pontificato di Francesco. Lì, nella punta Sud dell’Europa, il Papa ha mostrato cosa intenda quando parla di “Chiesa in uscita”. Ha reso visibile l’affermazione che la realtà si vede meglio dalle periferie che dal centro. In mezzo ai migranti fuggiti dalla guerra e dalla miseria, ha fatto toccare con mano il suo sogno di una “Chiesa povera e per i poveri”. E ancora a Lampedusa parlando di Caino e Abele, Francesco aveva anche posto in primo piano l’interrogativo sulla fratellanza.
“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”: ha citato questo versetto del Vangelo di Matteo Francesco per sottolineare che questo vale “nel bene e nel male! Questo monito risulta oggi di bruciante attualità. Dovremmo usarlo tutti come punto fondamentale del nostro esame di coscienza che facciamo tutti i giorni. Penso alla Libia, ai campi di detenzione, agli abusi e alle violenze di cui sono vittime i migranti, ai viaggi della speranza, ai salvataggi e ai respingimenti”. La Libia è un “inferno”, un “lager”, di cui “ci danno una versione ‘distillata’. La guerra sì è brutta, lo sappiamo, ma voi non immaginate l’inferno che si vive lì, in quei lager di detenzione. E questa gente veniva soltanto con la speranza e di attraversare il mare”.

E nel finale l’invocazione alla Madonna: “La Vergine Maria, Solacium migrantium, ci aiuti a scoprire il volto del suo Figlio in tutti i fratelli e le sorelle costretti a fuggire dalla loro terra per tante ingiustizie da cui è ancora afflitto il nostro mondo”.




vergogna

LAMPEDUSA

DISINFETTATI COME ANIMALI

 

Lampedusa

 

cose inverosimili, eppure succedono: la realtà più macabra supera la immaginazione più crudele, i nostri centri di accoglienza si manifestano ancora una volta dei veri campi di concentramento di infelice memoria

vedere per credere le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

qui sotto la ricostruzione che del fatto fa E. Fierro su ‘il Fatto quotidiano’ e a seguire una riflessione su questo fatto vergognoso di A. Prosperi per ‘la Repubblica’ odierna, e infine una richiesta di perdono che Toni dell’Olio rivolge direttamente ad Ahmed: “Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più”

UN VIDEO DEL TG2 MOSTRA COME, NEL CENTRO DI ACCOGLIENZA SULL’ISOLA, CON UNA MOTOPOMPA VIENE SPRUZZATO IL FARMACO CONTRO LA SCABBIA SUI CORPI DI MIGRANTI NUDI E AL GELO. BOLDRINI: “È INDEGNO”.

Un ragazzo dalla pelle scura nudo, al freddo, altri che aspettano, nudi e in fila. Un uomo con una tuta gialla e una “motopompa” che spruzza il disinfettante contro la scabbia. Non si fa così neppure con i cavalli. Con gli uomini sì, e non siamo in un lager nazista o della Siberia staliniana, siamo in Italia, a Lampedusa. Sono queste le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

Le altre immagini mostrano operatori del Centro che urlano, altri che distribuiscono vestiti lanciandoli in aria, e sempre quella maledetta motopompa che disinfetta gli uomini nell’anno del Signore 2013, esattamente come si faceva agli inizi del Novecento su un’altra isola maledetta, Ellis Island, Usa, dove sbarcavano affamati e lerci gli italiani del Sud. Il servizio del Tg2, rilanciato dal web, ha provocato lo sdegno dell’intero mondo politico. Ministri e parlamentari hanno pubblicato comunicati grondanti sdegno e amarezza, fioccheranno le interrogazioni parlamentari. Ma sono parole vuote, tardive e false. Perché tutti sapevano, almeno da ottobre, quando c’è stata l’ultima ecatombe del mare con 600 morti, quali erano le condizioni dei vivi, di quei disperati costretti nel Centro di accoglienza di Lampedusa.

Quando ci fu il primo naufragio con 300 morti, il nostro giornale, le telecamere del nostro sito e quelle dei network di tutto il mondo, documentarono le condizioni di vita dei superstiti. Uomini e donne costretti a vivere all’aperto, bambini che dormivano su materassi di spugna lerci, capanne improvvisate con i sacchi della spazzatura. Cibo scarso e di pessima qualità. In quei capannoni dove potevano essere ospitate al massimo 300 persone, ne dormivano fino a mille. Un bagno solo per centinaia di uomini e donne. Queste cose le hanno viste tutti. Anche Letta e Alfano, arrivati a Lampedusa per un summit e portati per pochi minuti a visitare il Centro. Quelle donne mortificate e i bambini costretti a convivere con i cani randagi sono stati visti anche dalla ministra Kashetu Cécile Kyenge. Quando chiedemmo all’assessore alla Sanità della Regione Sicilia, Lucia Borsellino, cosa aveva visto scoppiò in lacrime. Tutti hanno promesso miracoli, quando a luglio è arrivato sull’isola Papa Francesco e ha gridato forte il suo “mai più”, tutti si sono asciugati le lacrime. Nessuno ha mosso un dito. Le condizioni del Centro sono rimaste come prima, se possibile, peggiorate. Passata l’onda mediatica, andati via giornalisti e tv, su Lampedusa e le sue miserie è calata una pietra tombale. Le uniche indignazioni che vale la pena rappresentare, sono quelle di chi sull’isola vive e da anni offre tutto se stesso per accudire, assistere, consolare gli immigrati venuti dal mare. E allora in questo articolo non leggerete per esteso dichiarazioni di ministri e politici (hanno parlato tutti. Boldrini: “trattamento indegno di un Paese civile”, Kyenge: “Tutto ciò è inaccettabile in uno Stato democratico”), ma quella del dottor Pietro Bartolo sì. L’ultima volta che lo abbiamo incontrato era il mese di ottobre, era sul molo Favarolo a occuparsi dei vivi, e dei morti.

AVEVA GLI OCCHI gonfi di lacrime per i troppi cadaveri di bambini e il corpo segnato da un recente ictus. Era in malattia, ma quel giorno decise di esserci e di fare la sua parte di medico. “È indegno di un Paese civile, un trattamento schifoso che viola la dignità umana. Ma perché non li hanno portati da me, li avrei curati nel mio studio rispettando la loro dignità di uomini e donne”. Giusi Nico-lini, sindaco dell’Isola che da anni si batte per la dignità dei suoi cittadini e dei migranti: “Che dire? Sono sconvolta, è una pratica degna di un lager”. Ora Enrico Letta promette un’inchiesta e minaccia sanzioni per i responsabili, ma è tardi. Perché la condizioni di quel centro e le modalità di gestione da parte di Lampedusa accoglienza, sono state ampiamente documentate da inchieste giornalistiche e reportage televisivi. Che attorno a Cie e Centri di accoglienza si sia organizzato un grande business è noto da anni. E allora, se una decisione va presa subito è quella di chiudere i Cie, di cancellare ogni tipo di contratto con cooperative e società non in grado di assicurare condizioni di vita umane in quelle strutture. Quando in ottobre intervistammo per il fattoquotidiano.it   Cono Galipò, numero uno della società che gestisce il centro di Lampedusa, respinse ogni accusa e contestazione. Per lui le condizioni di vita nel centro erano più che accettabili, al solito erano i giornalisti a fare inutili polemiche. Chissà come commenterà ora queste immagini che fanno vergognare l’Italia di fronte al mondo intero.

Da Il Fatto Quotidiano del 18/12/2013.

 

LA NOSTRA VERGOGNA

A. Prosperi

Il telefono di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi. Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.

Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.

Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamo ed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo.

Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggiquesto strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.

Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose.

L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato.

È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.

Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

Umiliati

Mosaico dei giorni

18 dicembre 2013 – Tonio Dell’Olio

Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più. Sei eritreo, siriano, tunisno o sudanese. Forse nel centro di Aleppo avevi un negozietto di piccole cose e tiravi avanti, ma la guerra ti ha costretto a fuggire. Non hai trovato altro modo che affidarti agli uomini senza scrupoli dell’organizzazione dei viaggi clandestini. Tutti i tuoi risparmi sono finiti nelle loro mani. Sofferenze indicibili. Viaggio infinito. Umiliazioni per te, per tua moglie e per i tuoi bambini. Cose che a volte non hai nemmeno lo stomaco di raccontare. Poi l’ultimo tratto. Forse il più pericoloso. Il mare. Una volta toccato terra speravi di aver raggiunto la salvezza e invece è stato un altro calvario. Insieme a te contadini, studenti, professionisti, gente comune che in alcuni casi viveva dignitosamente nella propria terra e che ora è umiliata in condizioni subumane, che non hanno nulla a che vedere con l’accoglienza e non sono giustificabili né con il primo soccorso né con l’emergenza. Ti chiedo perdono. Non ho altre parole se non per gli operatori della cooperativa “Lampedusa accoglienza” del consorzio Sisifo che gestisce quel centro e che forse erano in piazza ad applaudire le parole del Papa nel corso della sua visita a Lampedusa. Per ciascuno di voi quella cooperativa incassa 30-40 euro al giorno. L’ultimo segmento della gestione mafiosa dei migranti.

http://www.peacelink.it/mosaico/a/39508.html 




Lampedusa scive a Napolitano

lampedusa

 

Lampedusa al limite scrive a Napolitano: “Non abbiamo bisogno della vostra spettacolarizzazione, si riprenda le medaglie”

Una lettera durissima, quella scritta dai lampedusani al Colle, in cui, difendendo gli immigrati, i cittadini si scagliano contro le istituzioni, che abbandonano il popolo e spettacolarizzano le tragedie.

Lampedusa è arrivata al limite. E no, non ce l’ha con gli immigrati, ma con la politica. I lampedusani accolgono e difendono i clandestini, ma non tollerano più le false lacrime delle istituzioni che, dopo la tragedia del 3 ottobre, si sono riempite la bocca di belle parole, per poi ridimenticarsi della situazione in cui versano i cittadini e i migranti.

Per questo, l’Associazione Culturale Askavusa ha deciso di rompere il silenzio e protestare contro quella stessa politica che interviene solo a fronte di incredibili tragedie, dimenticandosi però che sono anni che uomini, donne e bambini muoiono nel Canale di Sicilia, senza che nessuno ne dica niente. E di fronte a quella che ritengono un’ipocrisia, hanno scelto di restituire al Presidente della Repubblica le medaglie al valore ottenute nel 2011 e nel 2012.

E’ una lettera dura e significativa, quella che l’Associazione invia al Colle, nel quale si denuncia l’abbandono da parte dello Stato, sottoposto ad un “golpe”, che dimentica i cittadini. Annunciando la restituzione, i lampedusani spiegano come il gesto sia da imputare al dolore, alla rabbia e allo strazio a cui hanno assistito.

“Rifiutiamo la spettacolarizzazione mediatica con cui il naufragio del 3 ottobre scorso è stato rappresentato e diffuso dall’industria dell’intrattenimento”, hanno scritto. “Dietro la morbosità con cui la fabbrica delle lacrime e del cordoglio del “lutto nazionale” provano a confezionare il format della rappresentazione della tragedia, dietro i riflettori, le conferenze stampa, le visite ufficiali, crediamo ci sia molto altro che vada denunciato.”

“Di fronte ad una strage come quella appena consumatasi, di fronte alle centinaia di corpi ancora ostaggio di un mare che certo non ha colpe pari a quelle della società umana, non accettiamo che ci sia chi venga sull’isola promettendo e assicurando”, aggiungono. “Non accettiamo più che ci si riempia la bocca di promesse, che si diano in pasto alle televisioni le lacrime di circostanza, le commozioni di rito, le figure degli “eroi” e dei salvatori, lasciando poi che le prime pagine si occupino d’altro, che i riflettori si spengano, che i giornalisti ripartano, lasciando tutto così come era prima.”

“A partire dalla legge 40/1998, legge che sicuramente Lei conoscerà bene dato che porta anche il Suo nome”, ricordano ancora “l’Italia ha avviato una prassi di vero e proprio stato di eccezione, sancendo la detenzione ed il trattenimento di quanti non avevano commesso alcun reato.” “Con l’inasprirsi delle norme in materia di immigrazione”, poi, “la situazione è andata via via peggiorando. Il business dell’”accoglienza” si articola oggi lungo una rete di strutture e di centri detentivi che, appaltati a strutture varie, rendono i migranti materia prima di un processo di produzione di profitto che ha luogo in una costante dinamica emergenziale.”
“Come all’Aquila, come in Val di Susa”, ribadiscono. “Militarizzazione, gestione di emergenze alimentate ad arte, sospensione dei diritti e stato d’eccezione per creare laboratori di controllo sociale e di repressione.”

“L’ingerenza imperialista e neo-coloniale dei paesi cosiddetti occidentali destabilizza e rende subalterne intere aree geopolitiche, generando così fenomeni di emigrazione sempre più consistente”, si legge ancora. “Una emigrazione necessaria al capitalismo finanziario dei nostri giorni, il cui conflitto con il lavoro vivo necessita che si impongano nuove forme di governo e di istituzioni e che il mercato stesso del lavoro delle società europee venga stravolto. Occorrono dunque gli immigrati”, proseguono, “come manodopera di riserva, clandestina, sommersa, ricattabile, come marginalità sociale su cui far poggiare una riforma in senso neo-oligarchico delle società europee.”
“Accanto alla marginalità migrante si colloca”, però, “il disagio sociale di quanti, italiani, vivono ormai processi espulsivi di subordinazione, di impoverimento, di negazione della dignità, di quanti lasciano il nostro paese vestendo ancora una volta, anche loro, i panni che in passato abbiamo dovuto troppo spesso vestire, quelli degli emigranti”, che, però, sottolineano non sono quelli della “fuga dei cervelli”, ma le “migliaia che ogni anno lasciano il paese per poter anche solo avere la speranza di un lavoro che garantisca la sussistenza.”

“Così, sullo stesso scoglio di terra, nel canale di Sicilia, il migrante detenuto in un centro indegno, destinato a divenire un ingranaggio del motore del grande sfruttamento continentale”, ricordano e denunciano, “respira la stessa area della donna di Lampedusa che non può partorire sull’isola, perché non vi sono le strutture sanitarie adeguate, di chi rischierà di morire durante un disperato trasferimento in elicottero sulla terraferma per una emergenza che un ospedale avrebbe potuto benissimo affrontare, del bambino costretto in strutture scolastiche inadeguate, di un cittadino che è costretto a pagare i carburanti più cari d’Europa e che magari, essendo pescatore, è costretto a demolire la barca, perché il carburante è troppo caro.”

“Assistiamo ad un continuo scarica barile tra i vari rappresentanti delle istituzioni’”. “Quegli stessi”, affondano ancora, “che negli ultimi anni sono stati colpevolmente muti rispetto alla situazione di Lampedusa, che solo dopo il grande fatto di sangue è stata oggetto di una qualche grottesca attenzione.”

“Riteniamo che la crisi politica delle società europee stia sempre più privando l’Italia della propria sovranità”, scrivono ancora dall’Associazione. “Abbiamo perduto quella monetaria e siamo sempre più esposti ad un’erosione dell’autonomia e della capacità decisionale delle nostre istituzioni politiche. Una governance economico-politica, espressione delle élite tecnocratiche finanziarie e bancarie, impone ormai le proprie direttive e i propri selezionati referenti alle società europee ed alle loro istituzioni, senza che i loro cittadini siano in grado di opporvisi.”
“Per di più”, aggiungono, “l’Italia è succube ed asservita agli interessi militari e di ingerenza imperiale degli USA. Il nostro territorio, alla stregua di una colonia, è disseminato di istallazioni e basi militari e la vicenda del MUOS di Niscemi è solo l’ultima grottesca dimostrazione di uno svuotamento di senso dell’intero apparato politico-istituzionale del paese.”

“A cosa servono e che senso avrebbero queste medaglie”, si domandano dunque i lampedusani, “dopo aver sottoscritto un golpe costituzionale, voluto dai poteri economici e finanziari, quale quello del pareggio di bilancio, che strozzerà qualunque possibilità di un futuro per il paese intero? A cosa servirebbero dopo aver appoggiato la criminale aggressione della Libia, dopo aver condiviso e avallato un’operazione criminosa come la destabilizzazione della Siria, dopo aver sottoscritto il commissariamento da parte dell’oligarchia finanziaria di un intero paese che era un tempo la seconda forza manifatturiera del continente?”

“Quelle stesse istituzioni che vorrebbero appuntarci medaglie sul petto sono quelle che alimentano la macchina infame dei CIE”, attaccano. “Della militarizzazione della Val di Susa, della dislocazione coatta de L’Aquila, delle infinite emergenze dei rifiuti, dei legami organici e strutturali con le mafie, del pareggio di bilancio, della politica neo-coloniale che produce migrazioni, delle missioni di guerra spacciate per umanitarie e delle riforme del mercato del lavoro che generalizzano precarietà e marginalità.”

“Noi proseguiremo sul nostro cammino”, concludono infine, “convinti che la crisi epocale che stiamo vivendo può ospitare, in sé, i germi potenziali di un futuro altro e diverso, di una società rinnovata. Ma non abbiamo bisogno né vogliamo che siano queste medaglie a poter fungere da conferma e da riconoscimento di quanto da noi tentato. Perché se ad appuntarle è la stessa politica che, dopo una tragedia come quella di giovedì scorso, invoca rafforzamenti di Frontex, approfittando ancora una volta della questione migratoria per implementare la stretta militare sul Nord Africa, siamo convinti che la nostra strada vada in tutt’altra direzione”.

fonte: articolotre.com




riflessioni su quanto succede a Lampedusa

migranti

Consumismo
mediatico a Lampedusa

di Marco Loperfido

Ci risiamo: si riaccendono i riflettori sull’isola di Lampedusa, come un set cinematografico che ogni tanto gira una scena del suo reiterato, infinito film, arrivano decine di giornalisti che incominciano a sparpagliarsi dappertutto per intervistare la gente qualunque, mentre le istituzioni si danno da fare a dichiarare “parole” come un formicaio agitato da un’allerta improvvisa che subito passerà. Indignazione, orrore, rabbia, impotenza. Tutta l’Italia gira attorno a questo fazzoletto di terra che stende le braccia verso l’Africa. Tutta l’Italia si interroga su cosa fare, divora la notizia, sviscera, alla radio come in tv, nei bar come sui giornali, il tema dell’immigrazione e delle sue conseguenze faste o nefaste. Li vogliamo, non li vogliamo, sono poveri che scappano dalla guerra, sono clandestini, persone o non-persone, un bene, un male.

Non avrei mai voluto scrivere queste righe perché bisognerebbe avere la decenza di stare zitti e di rispettare il giorno dopo (il che non vuol dire istituire una giornata di lutto nazionale. A proposito: ma se è giornata di lutto nazionale, perché non vogliamo che i loro figli un giorno siano italiani?). Bisognerebbe abbracciare, piangere e dire solo due parole per confortare i parenti, come si fa nei funerali di chi ci era caro. E poi “esserci” davvero nei giorni a venire, quelli difficili. Ma mi è stato chiesto, in virtù dei miei studi sul rapporto tra morte e migranti, in virtù del mio breve viaggio a Lampedusa, di dire qualcosa e di aggiungermi alle mille e inutili parole già dette, e allora scrivo queste strane e sconclusionate frasi che stanno a mezza strada tra il ragionamento e lo sfogo, il che forse non mi giustifica neppure.

Ma lo sapete che tra il 1988 e oggi ci sono stati più di 19mila morti in mare? È una guerra silenziosa come la dimenticanza, come l’oblio, come la rimozione. Non li vogliamo vedere, sono fastidiosi come le mosche. Quando muoiono in 300 tutti insieme qualcosa ci tocca nel profondo dell’umanità sepolta. Ma poi?

Esistono vari tipi di morte. C’è la morte come sprofondamento nel nulla: quella del consumo. Ne fanno le spese i cittadini occidentali, incapaci di pensare la morte come elemento del processo vitale; ne fa le spese il pianeta, usato e poi gettato in un cassonetto; ne fanno le spese i migranti, considerati a mala pena “notizia” per un giorno. Poi c’è la morte-rinascita: accade infatti che qualcuno, vedendo tutti quei corpi stesi nell’hangar dell’aeroporto, magari un giornalista, sicuramente un pescatore che li ha salvati, senta una scossa dentro che lo sconquassa per sempre, che lo cambia facendolo rinascere. Succede quando la morte dell’altro la senti un po’ come la tua, quando riconosci che quel volto fermo nell’ultimo istante della vita è uno specchio in cui riflettersi. A quel punto, anche la morte è vitale e ti cambia nel profondo. Incredibile ma vero.

Le esperienze raccolte nelle mie interviste mi dicono fondamentalmente questo: quando vivi la morte… rinasci; quando rischi di morire ma non muori… diventi migliore; quando, come si dice, “la morte la vedi in faccia” perché è morto un tuo compagno di viaggio e tu no… la vita che vivrai da quel momento in poi sarà più densa e piena di significato. Chi gira dunque nelle strade italiane ed ha rischiato di morire nel viaggio è un essere superiore, bisogna saperlo. Chi lavora dieci ore al giorno per trenta euro nei campi di pomodori non è un poveraccio o un disperato, ma l’apice dell’umanità e il migliore italiano che ci possa essere in Italia. Se dunque vogliamo davvero fare qualcosa di buono da oggi in poi, se vogliamo davvero che questa terribile quanto annunciata notizia abbia un senso, non guardiamo oggi solo a Lampedusa e alla sua strage, ma al siriano che lavora come fruttivendolo, all’egiziano dell’internet point. I volti di questi stranieri sono gli stessi che sarebbero potuti essere nel cellophan a Lampedusa. È un puro caso se loro sono vivi e gli altri no. Forse quel giorno non c’era mare mosso, forse quel giorno la Guardia Costiera non aveva lavorato ad un altro soccorso fino alle quattro del mattino, forse quel giorno nessuno aveva una coperta a cui dare fuoco per farsi vedere.

Si dice che in questa vita stiamo tutti nella stessa barca, ma non è vero. Su quella barca loro ci sono stati, noi no.

* Università Roma Tre; autore di “La morte altrove. Il migrante al termine del viaggio” (Aracne, Roma, 2013)




rischio cinismo e disumanità

M5S

reato di clandestinità

anche questo bell’articolo di Concita De Gregorio, pubblicato sul ‘la Repubblica’ di oggi,, va utilmente aggiunto alle tante opportunità di riflessione che in questi giorni , nonostante tutto, sono emerse sui mass media in risposta all’ ‘assoluta vergogna’ del naufragio di Lampedusa:

IL CINISMO A CINQUESTELLE

(Concita De Gregorio)
 

 

È la legge del mare. È la legge di Dio. È la legge degli uomini da prima che ogni legge sia mai stata scritta. Salvare un uomo in mare. Non c’è nemmeno da spiegarlo, mancano le parole. Provate solo ad immaginare che succeda a voi. Siete in barca, vedete qualcuno che sta annegando e che vi chiede aiuto. Un ragazzo, una donna che annega a pochi metri da voi. Sareste capaci di lasciarlo morire sotto i vostri occhi? Gli chiedereste – di qualunque religione, partito politico, di qualunque razza voi siate – da dove viene e a fare che cosa o gli gettereste prima un salvagente? Vi buttereste voi stessi, quasi certamente. Non è una regola, è istinto. È ineludibile afflato di umanità. È quel che distingue gli essere umani dalle bestie, e non sempre perché spesso la lezione arriva dagli animali.

Ecco. Si fa moltissima fatica a dare un giudizio politico della censura di Beppe Grillo e dell’ideologo Casaleggio ai parlamentari cinque stelle che al Senato hanno proposto e poi votato un emendamento che dice questo: chi trova una persona in mezzo al mare può soccorrerla senza rischiare di commettere reato. «Non li lasceremo più morire. Più sicurezza e umanità», hanno scritto Maurizio Buccarella e Andrea Cioffi, i senatori cinque stelle poi sconfessati con durezza dal Capo. Si fa fatica a dare un giudizio politico su chi pensa ai suoi elettori – al suo consenso attuale ed eventuale – prima che ai morti. «Se avessimo proposto di abolire il reato di clandestinità avremmo ottenuto dei risultati elettorali da prefisso telefonico», si legge nella risoluzione pomeridiana del blog sovrano, la voce del Padrone. Non ci sarebbe convenuto, non ci conviene.

Quindi ora scusate se ai cinici sembrerà demagogia ma provate a pensare ai trecento morti in fondo al mare di Lampedusa, al morto «numero 11, maschio, forse anni 3», che se fosse stato vivo sarebbe stato clandestino anche lui, e perseguibile chi avesse salvato quel bambino di tre anni dal mare. Provate a dire se vi sembra degna di un essere umano una legge che sanziona chi soccorre un bimbo in mare, chiunque quel bambino sia perché questo e solo questo è: un bambino. Provate adesso a dare un giudizio politico a due leader politici che pretendono di rinnovare la politica e il Paese e intanto dicono questo: soccorrere uomini e donne in mare «è un invito ai clandestini di Africa e Medio Oriente ad imbarcarsi, ma qui un italiano su otto non ha i soldi per mangiare». Quindi non vengano, o se vengono affoghino. Servirà da lezione agli altri.

La Lega ha applaudito Grillo con osceno entusiasmo. Il Pdl, in una sua buona parte, si è accodato. L’emendamento è passato coi voti di altri Pdl, di Scelta civica di Sel e del Pd, oltre che dei quattro senatori cinque stelle in commissione. Niente affatto pentiti, questi ultimi. Immediata assemblea del gruppo, questa volta stranamente non in streaming. Giornalisti e militanti fuori dai piedi. Il tema immigrati non era nel programma, è l’argomento del fedelissimi al capo: gli eletti devono attenersi al mandato e non prendere iniziative personali. Ma, domandiamoci, ci sarà una ragione se non c’era una parola, neanche una, sul tema dell’immigrazione e delle leggi sui clandestini nel programma di Grillo, molto netto invece nel proporre – per esempio– un referendum sull’uscita dall’euro.

Poco a poco si delinea un profilo politico che pure era chiaro, ma che ha confuso una buona parte dell’elettorato di sinistra attratto dai temi sacrosanti del rinnovamento e dello strapotere corrotto della casta. Questa roba con un’Italia migliore non c’entra. È un calcolo, una strategia di marketing elettorale di ambigua origine e di sempre più nitido approdo. Ma di nuovo: dare un giudizio politico, in un caso come questo, è troppo onore. «Non li lasceremo più morire», non è una posizione politica, è ladeclinazione di un essere umano. Chi preferisce che anneghino faccia i conti con se stesso e certo poi, se crede, anche col suo elettorato.




piangere fa bene …

cento bare

a distanza di qualche giorno dall’immane tragedia delle centinaia di morti in mare mi fermo ancora a riflettere e sento ancora drammaticamente vera questa pagina di don Renato Sacco, e anch’io piango sentendo nell’animo come una grande spina che mi fa male, e quasi mi vergogno di queste lacrime, e però sento che nonostante tutto mi fanno bene, non so come e perché, ma così sento …

Davanti alla tragedia di oggi, 3 ottobre a Lampedusa, con centinaia di morti, ti vengono in mente le parole di Francesco, pronunciate là, a Lampedusa: “Chi ha pianto per quanti sono morti in mare?”. E ti chiedi se sei proprio tu interpellato. Con tutte le cose da fare, come ogni giorno. Cose anche serie, importanti. E non trovi lo spazio, il tempo per piangere, per sentirti umano e lasciarti andare. E devi incontrare le persone, fare delle cose con loro. Allora cerchi di guardarle con occhi diversi, quasi a voler comunicare il magone che hai dentro, e cerchi di essere più umano. E poi ti metti in macchina in un pomeriggio grigio, triste. Pensi alle storie di quelle persone, ai loro affetti, a chi sta aspettando qualche notizia per sapere se sono arrivati alla ‘terra promessa’. E cerchi di immaginarti al loro posto. Ma di loro non si saprà più nulla. Neanche i loro nomi. Solo Dio, che conosce il povero Lazzaro per nome. Noi invece conosciamo bene i nomi dei potenti, dei ricchi, di chi mette in atto una cultura di violenza e respingimento che è di morte, non di vita. I loro nomi li conosciamo. Abbiamo visto ieri il teatro-commedia in Parlamento.
E oggi la tragedia.
E, mentre sei fermo al semaforo, ti cade l’occhio sui manifesti della Lega che se la prende con chi si interessa di rom e migranti. Come fai a piangere? ‘Prima il Nord’. E ti viene la rabbia, più forte del magone. E non ce la fai a piangere. E ti senti in colpa di abitare in un Paese così, in un mondo così. Ti chiedi se non è davvero anche un po’ colpa tua, dei tuoi silenzi, della tua rassegnazione. E’ un pugno nello stomaco. E non sai se piangere o arrabbiarti. Forse ha ragione Francesco. Prima bisogna piangere. Per avere poi la forza di arrabbiarsi veramente. Di gridare con lui: “Vergogna”. La debolezza del pianto ti fa sentire un essere umano per reagire, per non essere complice di queste tragedie umane. Ormai è sera. Mi arriva un sms per dirmi che si parla di Lampedusa anche da Bruna Vespa. E da Santoro c’è pure il ministro della Difesa. No, basta. Non accendo neanche la Tv, se no la rabbia cresce a dismisura. Mi rileggo le parole di don Tonino Bello, al ritorno da Sarajevo, nel dicembre 1992: “Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere”.

3 ottobre 2013

d. Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi

d. Renato Sacco
Via alla Chiesa 20 – 28891 Cesara – Vb
0323-827120 *** 348-3035658
drenato@tin.it

 




perché?!

cento bare

“Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste”

una bella riflessione-denuncia che merita di esser letta e meditata:

Solo fortuna.

Luca Calvetta

 Io non ho chiesto a nessuno di nascere. Non ho scelto alcunché. Nè le mani, le labbra, il passato dei miei genitori. Nè il denaro e la sensibilità che mi avrebbero formato. E neanche le paure o l’amore che avrei ricevuto. Sono nato un giorno di settembre, io, senza volerlo. E senza meriti particolari. Senza altre colpe, neppure, che non fossero il sangue che ho in corpo.

Sono nato cittadino italiano, io. Per puro caso. Sono nato in una famiglia benestante. E non ingrasso se anche mangio molto. Sono nato uomo, bianco e con gli occhi verdi. E godo di tutti i privilegi che questa condizione mi riserva. Per puro caso. O se vogliamo, per la storia che l’umanità ha fino a qui sedimentato.

Per puro caso, allora, e per una certa antichissima violenza.

Sono nato dalla parte opportuna dell’ingranaggio. Acquisto vestiti, alimenti ed oggetti fabbricati in altre parti del mondo o in Italia, anche. Non molto curante, a dire il vero, dei processi, delle mani e dei corpi che li hanno portati fino a me. Deposito soldi, in banca. Spendo, perfino investo, io, dei soldi. Ancora meno consapevole delle loro traiettorie. Purché un margine di profitto sia garantito. E posso permettermi addirittura di esigere che quel cibo sia talvolta biologico, equo e solidale. Che quel conto corrente sia sufficientemente poco chiaro da non recare in calce il nome di una qualche dittatura, all’altro capo del pianeta.

Per puro caso, dunque, e per una certa deliziosa pigrizia.

Sono cresciuto attraversando molti paesi e culture. Camminando sul filo delle frontierecome un equilibrista in scena, durante l’esibizione. Senza pericolo alcuno di cadere. Senza pericolo alcuno di cadere, mai. Perché non mi erano destinate barriere di nessun genere. Dogane. Oceani o procedure di ammissione. Perché l’unica frontiera sono sempre stati i miei soli, altissimi desideri. E per questo, sempre, mi sono potuto dire cosmopolita. Democratico. Liberale. Per pura conseguenza del caso.

Io non ho mai dovuto chiedere a criminali di alcuna sorta un favore, un aiuto, una tutela. Perché solamente chi non ha diritti si trova a comprendere, fin dentro alla propria carne, che i diritti esistono. E si violano. E si lodano come un salmo alla domenica, mentre si pensa a tutt’altro. O non si pensa affatto.

Io non ho mai dovuto chiedere a nessuno che la mia dignità venisse rispettata. Perché la mia dignità poteva tranquillamente fare a meno di un lavoro, di una religione, di una patria, in qualche modo. Perché la mia dignità poteva tranquillamente oltrepassare le distinzioni di razza, orientamento sessuale o istruzione. Per mero frutto del caso e per niente altro ancora.

Io sono sempre stato profondamente europeista. Perché dalle finestre del mio appartamento all’ultimo piano, si gode di una vista meravigliosa sulle nuvole al tramonto. Ed è facile inseguire le più nobili astrazioni. Spetteranno agli altri, suppongo, accalcati negli autobus in basso, per la strada, le incoerenze e gli scarti dei miei sogni sovranazionali. Per la strada in basso e, certo, più lontano: al di là dei monti e delle acque. Al di là degli occhi.

Per mia sorte, mia sorte, mia grandissima sorte.

Io posso permettermi di dire, quindi, che le diverse leggi poste a guardia dei confini sono una barbarie. Io posso permettermi di dire che l’idea stessa di confine è un arbitrio morale e perfino filosofico. Io posso permettermi di insultare chi permane razzista e xenofobo. E posso dire che la retorica sopra i morti a Lampedusa e ovunque, non deve condannarsi, se serve a proporre una questione. E a porla davvero nei cuori. Di tutti. Per puro caso.

E posso perfino gridare che non cambierà mai nulla fin quando si insegnerà che l’essere umano deve salvarsi o redimere da una colpa precedente. Che la sua dignità gli deriva dal sudore della fronte. Dal lavoro. O i suoi diritti dalla condizione di cittadino di un numero limitato di nazioni. O fedele d’una specifica religione. Che la sua dignità e finanche la sua sopravvivenza gli derivano dall’essere maschio o femmina, omosessuale o altro ancora. Che la sua vita dipende, in altre parole, dal ruolo che gli spetta all’interno di un insieme più ampio. E nella misura in cui rimane subordinato agli interessi di chi controlla quello stesso insieme.

Io posso dire tutto questo, senza nessuna certezza di venire compreso. Per puro caso, posso dirlo e pensarlo. Quello che non posso, invece, dire per un semplice giro della fortuna, ma perché devo dirlo, è che Lampedusa, lei, non è figlia del caso. E non dipende da una legge. Dal coraggio di un peschereccio e neppure dai soli strumenti dell’Unione europea.

Perché Lampedusa non è un incidente. Un dramma. Una triste notizia. Ed i morti senza nome di Lampedusa non sono altri morti da quelli vomitati ogni singolo giorno dal nostro sistema nel suo complesso. In ciascuno dei nostri gesti. Gusti. E consumi. Ovunque si subordini l’umanità di una persona ad un criterio ulteriore. Ad un’altra, più stringente qualità. Oltre quella, semplicemente, di essere al mondo.

Genere, razza o fede, allora, cittadinanza, occupazione o produttività, assemblea degli azionisti o sfruttamento delle risorse naturali. Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste. Perché questo non è il caso. È la nostra responsabilità. E la logica di un sistema che implica per sua stessa natura partizioni, ingiustizie e morti.

O se ne cambia l’essenza, quindi. A piccoli passi, magari. Progressivamente. O Lampedusa tornerà senza sosta. Vicino e lontano e dentro ciascuno di noi. Perché non ho chiesto a nessuno di nascere, io, tanti anni fa, ma ho lasciato che qualcun altro morisse. Ogni giorno.




la burocrazia del mare che uccide

migranti-tuttacronaca

è giustamente arrabbiatissimo A. Padellaro, direttore de ‘il fatto quotidiano’ nei confronti della burocrazia marina (ma non solo) che in nome di protocolli e formalità astratte permette non solo la morte di tante persone non soccorse in tempo utile, ma impedisce a volontari di farlo, pena l’accusa di favoreggiamento dell’emigrazione illegale …

Lampedusa, il protocollo dell’Isola dei Conigli

di Antonio Padellaro 

Ma quali imperdonabili colpe hanno i poveri morti di Lampedusa abbandonati, bruciati, annegati e adesso usati, maneggiati, falsificati ed esibiti come una qualunque, dozzinale merce politica e televisiva? Che dire del ministro Alfano che “unendosi alla vergogna del Papa” ne tradisce il pensiero e lesto se ne appropria avendo, al contrario, Francesco rivolto il grido sdegnato anche e soprattutto a quegli uomini di governo che potevano fare e non hanno fatto. E che poco hanno intenzione di fare visto che Angelino mette le mani avanti e ci comunica che “forse non sarà l’ultima tragedia” come se gli oltre 6mila migranti, che in un decennio hanno concluso la loro traversata in fondo al mare morto siciliano, fossero la conseguenza di una fatalità imperscrutabile e inevitabile. Cosa dunque dobbiamo pensare quando la presidente della Camera Boldrini ci dice che “nulla dovrà essere più come prima”, visto che “prima” c’era lei che per conto dell’Onu si occupava a tempo pieno di quei rifugiati di cui ora non risulta che si occupi più nessuno? E quel tutto che deve cambiare perché nulla sia più come prima come potrà farlo in presenza di leggi infami e imbecilli come quella Bossi-Fini che prevede l’accusa di favoreggiamento anche per chi soccorre in mare persone stremate che stanno per morire? (Senza contare il reato di immigrazione clandestina che sarà contestato ai superstiti, colpevoli forse, di essere rimasti vivi). Come può cambiare la burocrazia vigliacca del nulla impastato col niente che, mentre le barche dei pescatori affondavano stracolme di corpi disperati, avrebbe risposto alla richiesta di trasbordarli sulle motovedette, “non possiamo, dobbiamo aspettare il protocollo”.

Frase talmente abietta che l’unica cosa da augurarsi è che non sia mai stata pronunciata. E se il premio Nobel per la Pace andrebbe giustamente assegnato alla nobile gente di Lampedusa, per il senso profondo che hanno dato alle parole accoglienza e soccorso, quale solenne menzione di biasimo si dovrebbe appuntare sul petto di chi doveva intercettare il barcone con il dispositivo Frontex o per lo meno, avvistarlo con i radar e che avrà per sempre sulla coscienza quella moltitudine implorante e sommersa a poche centinaia di metri dalla costa? Vicino a quell’Isola dei Conigli, dalla notte del 2 ottobre luogo geografico della disperazione e dell’ignavia. Che hanno fatto di male i poveri corpi di Lampedusa per essere esposti infine nei talk show della sera, vittime che i consueti ospiti urlanti si sono rinfacciate nel solito pollaio tra finta commozione e autentica oscenità? Potrebbe non essere l’ultima pena riservata a questi eritrei e somali colpevoli di essere fuggiti dalla fame se, come si teme, il minuto di silenzio loro tributato negli stadi dovesse essere interrotto dai fischi e cori razzisti. Sarebbe la degna marcia funebre per un Paese che è naufragato molto tempo fa.

Il Fatto Quotidiano, 6 Ottobre 2013




PRIME PAGINE

le prime pagine dei quotidiani italiani in occasione dell’incontro do papa Francesco coi migranti a Lampedusa

un piccolo miracolo fatto dal papa: almeno per oggi sembra che nessun quotidiano parli di ‘clandestini’

(vedi link qui sotto a sinistra)

PRIME PAGINE.




omelia della messa a Lampedusa

 

croce

così papa Francesco sull’altare-barca a Lampedusa:

Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà. Grazie!

Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.

Questa mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.

Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.

Signore in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».”