J. Moltmann e la croce di Gesù – l’impegno per la causa di tutti gli oppressi

 

di don Paolo Zambaldi

 

il Dio sofferente e crocifisso

un Dio che scende, assume la condizione degli ultimi e muore come loro, non può essere accolto da chi è in cerca di legittimazione per i propri soprusi

«Perché e in quale modo il Dio sofferente e crocifisso divenne il Dio dei poveri e degli abbandonati? Quale significato assume la mistica della croce nella pietà popolare? Manifestamente, queste persone emarginate lo hanno compreso, partendo dalla propria situazione, meglio dei ricchi e dei padroni. E questo perché giustamente avevano l’impressione di poterlo comprendere meglio di loro» (1).

Restituire la dignità.
Nel solidarizzare, nell’attraversare il medesimo deserto, Dio dimostra, verso i miseri, la più alta forma di amore: la condivisione.

«Nella sua passione e morte Gesù si identificò con gli schiavi e prese su di sé il loro tormento. E come lui non fu solo nella propria sofferenza, così anch’essi non si sentivano abbandonati nello strazio della loro schiavitù. Gesù era con loro. Su questo si fondava anche la speranza nella liberazione, per mezzo di colui che fu richiamato in vita, nella libertà di Dio. Gesù significava la loro identità con Dio, in un mondo che aveva sottratto loro ogni speranza e distrutto la loro dignità umana, fino a renderla irriconoscibile» (2).

Una mistica che porta alla trasformazione.

Porsi davanti al mistero Dio, rendersi disponibili alla relazione, accogliere il suo amore, porta necessariamente all’impegno per la causa degli oppressi.

«Senz’altro la mistica della passione può facilmente tramutarsi in una giustificazione della sofferenza, la mistica della croce può celebrare come virtù la rassegnazione al destino e sfociare in una malinconica apatia. Soffrire con il Crocifisso può anche condurre alla commiserazione di sé. In questi casi però la fede si dissocia dal Cristo sofferente, in quanto vede in lui soltanto uno dei modelli che rischiarano la nostra via dolorosa e lo comprende solo come esempio di rassegnazione, utile per insegnarci a sopportare un destino estraneo. Qui la sofferenza non viene ad assumere un significato particolare per l’integrazione del proprio soffrire. Non produce cambiamento alcuno, né nella sofferenza né nelle persone che soffrono. La chiesa ha gravemente abusato della teologia della croce e della mistica della sofferenza, soddisfacendo così gli interessi di coloro che furono la causa di tante pene» (3).

Conflitti inevitabili.

Dice il Signore: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (4).

«Di fronte al suo mondo Gesù non è rimasto passivo, ma ad un determinato ordine di rapporti contrappose un altro: con il suo messaggio e con la sua vita vissuta. […] Annunciando la giustizia di Dio come diritto della grazia a coloro che spietatamente erano stati emarginati dalla società, egli provocò la dura reazione dei tutori della legge. Facendosi “amico dei peccatori e dei pubblicani”, si rese nemici i loro nemici. Rivendicando un Dio che sta dalla parte dei senza Dio, s’attirò l’opposizione delle persone pie e venne cacciato nell’assenza di Dio del Golgotha. Quanto più la mistica della croce prende coscienza di questa realtà, tanto meno sarà tentata di vedere in Gesù il modello della sopportazione e della rassegnazione al destino. […] Egli patì a causa della parola liberante di Dio e morì a motivo della sua comunione liberante con gli schiavi. La sua passione e morte sono quindi la passione e morte messianiche del “Cristo di Dio”…I suoi dolori, in altri termini, sono i dolori inferti dall’amore per gli uomini abbandonati, verso i quali ci conduce questa mistica della croce quando traspone le sofferenze degli uomini nelle sofferenze di Cristo. Il noto inno che i cristiani elevano alla povertà non può essere cristiano quando si limita a tracciare una benedizione religiosa sulla situazione in cui versano i poveri, promettendo loro una ricompensa in cielo, perché sulla terra i poveri diventino sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Secondo la concezione di Gesù, povertà significa “diventare poveri”, cioè alienare e impegnare ciò che si è e ciò che si ha per la liberazione dei poveri» (5).

La chiesa del crocifisso.
Seguire Cristo significa ripercorre le sue opzioni ed essere segno di contraddizione davanti all’Iniquità (6).

«Nella stessa misura in cui i poveri, con questa mistica della croce, vedono la croce come croce di Cristo, verranno anche liberati dalla loro apatia e rassegnazione alla sorte. La pietà della croce, vissuta da questi poveri, dispone dunque di un potenziale ben diverso da quello che la religione dominante ha riconosciuto in essa. La ripresentazione del Messia crocifisso da parte degli schiavi è quindi, per i padroni, altrettanto pericolosa della loro lettura della Bibbia. La chiesa del Crocifisso è stata fin dagli inizi, ma fondamentalmente lo sarà sempre, la chiesa degli umiliati e degli offesi, dei poveri e dei miseri, la chiesa del popolo. E d’altra parte, è la chiesa di coloro che rompono con le proprie forme di potere e di oppressione, esercitate sia all’interno che all’esterno. Non è invece la chiesa di quelli che si giustificano interiormente e che esercitano il proprio dominio sui loro simili. Se realmente conserva intatto il ricordo del Crocifisso, essa non potrà lasciar spazio a un atteggiamento di smorta indifferenza religiosa nei confronti di qualsiasi persona» (7).

(1) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, traduzione dal tedesco di Dino Pezzetta, Queriniana, Brescia (1973) 2013, p. 62-63
(2) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 64
(3) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 64
(4) Vangelo di Matteo 10, 34
(5) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit.,67-68
(6) Vangelo di Luca 2, 33-35
(7) Jürgen Moltmann, Il Dio crocifisso, cit., p. 68




preghiera è liberazioine degli oppressi

preghiera per la liberazione degli oppressi

“Chiesa e teologia devono rompere con l'idolatria del sistema dominante per imparare a discernere la presenza inquietante di Dio nel mondo degli oppressi" (P. Richard)

Vieni, Signore!
Scendi a liberare gli oppressi dalla mano dei Faraoni di oggi.
Hai ascoltato il loro grido, conosci le loro sofferenze, hai visto i tormenti sopportati semplicemente per non perire (1).
Piegati dalla fatica e dalle umiliazioni non hanno più la forza né per ribellarsi né per sperare in un giorno diverso.
Mangiano polvere. Signore, liberali!
Converti il cuore dei loro oppressori. Guariscili dalla perversione del profitto e dell’accumulo. Dona loro di sperimentare la gioia che viene dalla solidarietà e dalle relazioni senza calcolo. Libera il cuore di questi schiavi della ricchezza e del potere che sfruttano i loro fratelli.
Vieni, Signore!
Manda noi dai Faraoni di oggi che vivono asserragliati nelle loro proprietà sporche del sangue dei poveri e nelle false sicurezze sporche del sangue dei disoccupati e dei precari.
Manda noi ad annunciare la liberazione, che il tempo è compiuto, che il tuo Regno è vicino, che il tuo Regno è in mezzo a noi (2).
Vieni, Signore!
Fa’ che noi possiamo partecipare all’Esodo del tuo popolo (dei poveri, degli oppressi, dei piccoli, degli ultimi) verso la terra che hai preparato, verso la fratellanza che hai sognato, verso la dimora della Giustizia e della Misericordia.
Realizza, ti preghiamo, ancora una volta questa Parola:

«Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre.
Io sono il Signore: questo è il mio nome;
non cederò la mia gloria ad altri,
né il mio onore agli idoli.
I primi fatti, ecco, sono avvenuti
e i nuovi io preannunzio;
prima che spuntino,
ve li faccio sentire”» (3).

(1) Cfr. Esodo 3, 7-12
(2) Cfr Vangelo di Marco 1,14-15; Vangelo di Luca 17,21
(3) Isaia 42,6-9




la spiritualità della liberazione non è sopportazione né rassegnazione

storia di salvezza

da Altranarrazione

«Strappa l’oppresso dal potere dell’oppressore, non esser pusillanime quando giudichi» (1).

I dominatori del mondo, nella bulimica smania di conquista, non si appropriano solo della terra e della vita degli oppressi, ma anche del loro Dio. Così, promuovono la squallida manipolazione della Scrittura, che trasforma la spiritualità della liberazione in psicologia della sopportazione (tendente alla rassegnazione) e convincono, spesso, la Chiesa, in cambio di qualche triste privilegio, a mettersi al loro servizio, oppure a mantenersi equidistante, cioè pusillanime nel giudizio. Agiscono pure sugli oppressi facendo apparire conveniente la collaborazione con la catena di sfruttamento, che prevede qualche eccezione, a cui possono aspirare. Dio, invece, agisce in modo opposto, salvando l’ultimo. Su questo non abbiamo alcun dubbio, ma occorre riflettere sulle modalità. Sicuramente non adopera mezzi magici o spettacolari, e neanche procede dall’alto, sfoggiando poteri o prerogative. Dio scende, assume la condizione dell’oppresso, ed incarnandosi dimostra fattivamente da che parte si pone. Entra nella storia degli oppressi, la scrive camminando nelle profondità degli abissi (2) insieme a loro, e la legge da quella prospettiva. Dio cammina con i calpestati verso il Regno, ma non prescindendo da loro. Si tratta di una causa che richiede partecipazione e coinvolgimento. Si tratta, al tempo stesso, di vocazione e di missione, di un dono da ricevere e di un impegno da portare avanti. C’è la schiavitù che si può decidere di accettare e la libertà che si può, ancora, conquistare. In mezzo si trova il deserto, il nulla, l’incertezza. L’oppresso deve scegliere di attraversarlo, rompendo ogni indugio, rinunciando ad ogni calcolo, senza attendere autorizzazioni o aspettarsi applausi. Come unica certezza la Parola eterna che Dio ha pronunciato:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso» (3).

(1) Siracide 4,9

(2) Cfr. Siracide 24,5

(3) Esodo 3,7-8




c’è anche il ‘sacro’ che crea ‘liberazione’ …

il cristianesimo non è religione del sacro, ma fede in quel Dio che ha deciso di condividere la condizione umana, non sul trono dei cesari, ma sul terribile supplicium (Cicerone) dei reietti. Considera tentazione satanica il potere, sceglie di essere il messia della croce. Inchiodato su quel legno, reso in-potente, dice il suo amore per ogni uomo e ci lasca liberi di accettare o rifiutare, persino di insultarlo
c’è un sacro come apertura all’infinito che esprime il mistero dell’essere, materia informe e matrice di tutte le utopie. Nella sua totalità assume i lineamenti del volto di Dio, non come feticcio manipolabile dalle caste sacerdotali in funzione del potere, ma come il Totalmente Altro di fronte a tutti i nostri tentativi di definirlo, che sempre ti invita a uscir fuori dalla schiavitù d’Egitto e da ogni altra schiavitù

D'Arcais

Paolo Flores d’Arcais nel suo libro La Guerra del Sacro (Raffaello Cortina Editore, Milano 2016), partendo dagli avvenimenti parigini del 7 gennaio 2015 interpreta il terrorismo jihadista come la punta di diamante di tutto il fondamentalismo islamico, anche quando si dice contrario. In fin dei conti l’aspirazione è la stessa: la realizzazione della umma nella sua vocazione universale, l’intero mondo governato dalla sharia che esprime la volontà di Dio, Signore del cielo e della terra. Non combatte le altre religioni per occupare il loro spazio, ma la modernità che ha affermato il primato dell’homo sapiens nella sua autonomia, in antitesi ad ogni nomos-eteros dell’Altro e dall’Alto. Il fondamentalismo islamico esprime, nonostante le apparenti differenze, l’essenza di ogni monoteismo, ossia il primato di Dio sull’uomo e la vittoria dell’eteronomia sull’autonomia. Nella città non c’è posto per due sovranità: o quella di Dio, o quella del cittadino che costruisce il proprio futuro etsi Deus non daretur.

Mi permetto due osservazioni. Il fenomeno del jihadismo attuale ha come fondamento non solo la fede religiosa, ma anche un’aspirazione identitaria. Sino all’inizio dell’era moderna l’islam era più forte militarmente, più colto e più civile, tanto da poter guardare con superiorità il rozzo e arretrato Occidente. La posizione si è rovesciata quando l’Occidente ha fatto un balzo in avanti con la rivoluzione scientifica e la rivoluzione politica. Il mondo arabo nella sua staticità è stato sottomesso dal colonialismo degli Stati occidentali: umiliazione inaccettabile e quindi volontà di riscatto, ma non c’è una bandiera nazionale per coagulare la rivincita della propria identità. L’unico punto in comune è la religione che però scade in ideologia e fondamentalismo.

In secondo luogo non mi sembra accettabile l’equiparazione del jihadismo alla religione in generale sia per la rivendicazione della supremazia di Dio, che per la volontà di affermare l’etica dell’eteronomia. Così si esprime Flores d’Arcais: «Il fondamentalismo islamico non costituisce l’aberrazione del sacro, bensì la rivendicazione della verità essenziale del monoteismo, la sovranità di Dio. L’essenza della religione è la religione sovrana che sottomette alla legge ogni fibra dell’esistenza» (p. 19). «Strutturalmente e ontologicamente è la guerra santa dell’eteros-nomos contro l’autos-nomos… contro l’empio orgoglio dell’homo sapiens di decidere da sé nella vita collettiva e individuale» (p. 18). Risuona qui l’eco delle parole di Nietzsche in La Gaia Scienza (aforisma 343). Noi filosofi e spiriti liberi alla notizia che il vecchio dio è morto ci sentiamo illuminati da una nuova aurora, finalmente l’orizzonte ci appare di nuovo libero, finalmente i nostri vascelli possono riprendere il mare aperto dove ogni audacia è consentita a chi vuol conoscere.

Se non si vuol fare confusione è opportuno tener conto di una distinzione nel concetto di sacro.

C’è un sacro come apertura all’infinito che esprime il mistero dell’essere, materia informe e matrice di tutte le utopie. Nella sua totalità assume i lineamenti del volto di Dio, non come feticcio manipolabile dalle caste sacerdotali in funzione del potere, ma come il Totalmente Altro di fronte a tutti i nostri tentativi di definirlo, che sempre ti invita a uscir fuori dalla schiavitù d’Egitto e da ogni altra schiavitù. Questa è l’essenza dell’uomo che si caratterizza come libertà, continuo ex-sistere, freccia del desiderio. Ogni cosa che sbarra il sentiero all’uomo e presume sottometterlo, in rapporto a questo orizzonte viene ricondotta alla sua finitezza e superata. Senza questa apertura all’infinito non avrebbe senso l’evocazione della parola poetica, né il sacrificio eroico per un ideale e per la persona amata. Nella contrapposizione tra la finitezza del dato e il suo fugace tramonto e dall’altra parte il desiderio di infinito, nasce l’inquietante coscienza della morte e si formula il problema del senso della propria identità e del vivere.

Ma il sacro può essere anche una realtà sensibile sottratta all’uso umano e deputata a rappresentare la divinità: il tempio, l’idolo, la persona, la formula… Quest’oggetto impone dei divieti e degli obblighi, genera il profano, ossia il territorio che sta fuori del tempio, ma non lo può accettare nella sua autonomia, lo deve sottomettere a nome di Dio, sovrano dominatore di tutte le cose. Proprio perché rappresenta la divinità non può essere messo in discussione, impone l’imperativo categorico della sottomissione. Alle estreme conseguenze è la sacralità della pantofola del papa. Galilei dalla prigione scrive a Urbano VIII «umilmente prostrato al bacio della sacra pantofola, oso presentare la mia supplica…». Alla chiusura, precipitosa per l’arrivo dei bersaglieri, del Concilio Vaticano I che ha proclamato l’infallibilità del papa, tutti i vescovi si sono congedati con il bacio della sacra pantofola. Venuto il turno del patriarca orientale che non accetta il dogma dell’infallibilità, Pio IX l’ha sottratta al bacio e l’ha posta sopra la testa, dicendo: «Quando capirete?». Qui che c’entra Dio, ho la sfrontatezza di suggerire il mio libro Ma liberaci dal… sacro (Di Giacomo Editore, Trapani 2012).

Il cristianesimo non è religione del sacro, ma fede in quel Dio che ha deciso di condividere la condizione umana, non sul trono dei cesari, ma sul terribile supplicium (Cicerone) dei reietti. Considera tentazione satanica il potere, sceglie di essere il messia della croce. Inchiodato su quel legno, reso in-potente, dice il suo amore per ogni uomo e ci lasca liberi di accettare o rifiutare, persino di insultarlo. Non alzi il dito! Conosco gli infiniti tradimenti, ho insegnato storia con il coraggio della verità, posso spiegare, mai giustificare… ma Cristo è un’altra cosa e in suo nome continuo a ribellarmi.




quale teologia per una vera liberazione: 50 anni di ‘Concilium’ e 50 anni del Cocilio Vaticano secondo

lotte per un mondo più inclusivo

Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

lungo i cammini della liberazione

le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

 
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

Il suo primo numero la rivista internazionale di teologia Concilium lo ha pubblicato nel 1965 prima ancora della conclusione del Vaticano II, con la lucida consapevolezza – come evidenziano i teologi brasiliani Maria Clara Bingemer e Luiz Carlos Susinnell’editoriale del numero, il primo del 2016, che celebra il «duplice giubileo» – che, «per una Chiesa che si rinnovava in modo così radicale», fosse «necessaria una teologia ugualmente rinnovata». E non ci sono davvero dubbi che la rivista sia stata «una delle espressioni più qualificate di questo rinnovamento teologico».

Chiamata dunque a celebrare il doppio appuntamento, quello del cinquantesimo anniversario del Concilio, con tutto ciò che questo ha comportato per la vita della Chiesa, e quello del suo cinquantesimo compleanno, la rivista aveva organizzato, nel maggio del 2015, alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, un grande convegno internazionale, sul tema “Cammini di liberazione: gioie e speranze per il futuro”. Titolo, questo, che, oltre a recuperare «la bella e felice» espressione iniziale della Costituzione pastorale Gaudium et spes, voleva indicare la necessità non solo e non tanto di fare memoria di un evento passato, per quanto straordinaria sia stata la sua importanza per la Chiesa, quanto piuttosto, spiegano Bingemer e Susin, di «riscattare tutto il potenziale di innovazione e di appello che questa espressione conteneva, puntando al futuro» e dunque di domandarsi come quell’avvenimento «continui a invitarci a guardare avanti, attenti alle domande e alle inquietudini delle nuove generazioni e disposti a una fedele creatività nel tentativo di rispondere a esse». Con la convinzione, espressa dal teologo Jon Sobrino nel suo intervento, che «vi sono eventi passati che seppelliscono la storia e catene che la imprigionano. E vi sono eventi passati che liberano la storia dalle catene, come molle che spingono in avanti».

Non sorprende allora come, raccogliendo in questo primo numero del 2016, il cui titolo riprende esattamente quello del convegno, le riflessioni tenute a Rio de Janeiro nel maggio del 2015, la rivista Concilium dimostri nella maniera più chiara come la teologia da essa elaborata nel corso di questi cinquant’anni abbia «sempre seguito da vicino i cambiamenti epocali avvenuti nella cultura e l’avvento di nuovi paradigmi che hanno orientato l’intelligenza della fede verso inevitabili trasformazioni». Trasformazioni che, come evidenzia nel suo intervento André Torres Queiruga,portano con sé sfide di enorme portata, a cominciare da quella «lanciata al pensiero religioso dalla Modernità con la scoperta dell’autonomia». Una questione di fronte a cui la teologia si rivela ad oggi piuttosto impreparata, non avendo ancora trovato parole che presentino le questioni religiose «che ci interessano realmente» in maniera «davvero significativa, al di là della semplice ripetizione di formule o di concetti che non parlano affatto o dicono molto poco». Basti pensare, spiega il teologo spagnolo, a quanto sia difficile parlare, «in un ambiente mediamente critico», di questioni come la Trinità, o di Gesù Cristo, del male, della preghiera e di molti altri temi che costituiscono il nucleo del messaggio cristiano.

Deriva da qui, secondo il teologo indiano Felix Wilfred, la necessità per la teologia di diventare «umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando» e di cooperare con svariate altre forze, focalizzandosi «sugli elementi essenziali». Perché proprio come, di fronte alla casa in fiamme, si ha il tempo di salvare solo le cose fondamentali, così, «quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie, sia nel Nord che nel Sud del mondo, che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanità e del creato». Una sfida che, per la teologia, presuppone anche la disponibilità, come sottolinea la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn, a lasciarsi interpellare e «interrompere» da dubbi e domande, da inquietudini e provocazioni.

di seguito alcuni stralci della riflessione di Wilfred
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

 

L’intera vita è un viaggio; così anche la liberazione. Eguaglianza e inclusione sono i due occhi della liberazione; sono anche i mezzi per valutare la distanza che abbiamo percorso sulla strada della libertà: maggiori sono l’eguaglianza e l’inclusione, più grande è la liberazione. L’assenza di eguaglianza e di inclusione implicherebbe un mondo di crescente violenza e di crescenti contraddizioni. (…)

Nel mondo in via di globalizzazione il neoliberismo e il capitalismo avanzato, come grandi metanarrazioni, pervadono e controllano – sia come prassi che come ideologia – tutti gli ambiti della vita. L’umanità e la natura hanno bisogno di essere progressivamente liberate dalla loro morsa. (…). In questo cammino di lotta e di liberazione (…) da parte di donne e uomini di ogni nazione, le religioni e le teologie potrebbero svolgere un ruolo importante, con tutte le loro risorse.

Il ruolo della teologia si pone nel contesto della lotta per l’eguaglianza e l’inclusione ispirate dalla compassione e dalla solidarietà. Sulle orme di Gesù, una teologia genuina affronterà le questioni pressanti che toccano l’umanità e la natura, e intreccerà con questi temi la questione di Dio, dal momento che l’umano, il divino e l’universo sono inestricabilmente interconnessi a formare un unico mistero. (…).

UNA TEOLOGIA FOCALIZZATA SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI

Senza un contatto diretto con la realtà; la teologia rischia la propria credibilità, per quanto brillantemente possa spiegare gli assunti dottrinali in riferimento alla Scrittura e alla tradizione. È necessario che la teologia diventi umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando e sia pronta a cooperare con svariate altre forze. In un mondo segnato dalla frammentazione – della conoscenza, del sé, della comunità, dell’economia, della politica ecc. – la teologia, credo, potrebbe offrire un qualche senso di speranza. Una teologia correttamente orientata (…) possiede il potenziale per una visione olistica e mistica e per un approccio integrale. Questo è ciò che si richiede oggi per rispondere alla diseguaglianza e all’esclusione, all’oppressione e all’ingiustizia.

Quando la casa ha preso fuoco, si ha il tempo di salvare solo le cose essenziali. Quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie – sia nel Nord che nel Sud del mondo – che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanitå e del creato. La teologia è tenuta a rispondere e ha una responsabilità nei confronti dell’umanità e della creazione di Dio. Può essere interessante compiere studi sulla verginità di Maria e fare sottili distinzioni teologiche tra la verginità ante partum, in partu, post partum ecc. Può essere stimolante discutere sul riavvicinamento tra i protestanti e i cattolici in merito alla interpretazione della dottrina della giustificazione. Ma tali interessi dottrinali che hanno impegnato e continuano a impegnare tanta attenzione del mondo teologico, devono retrocedere in secondo piano di fronte alla vastità dei problemi che l’umanità sta affrontando: problemi di diseguaglianza, esclusione, violazione della dignità e dei diritti umani, violenza, guerra, oppressione delle donne e discriminazione nei loro confronti, questioni ambientali. Purtroppo, un’ampia parte della teologia odierna – anche tra i teologi che asseriscono di trarre ispirazione dal Vaticano II  – è spesso evasiva sulla questione della povertà, della diseguaglianza e dell’esclusione.

Questi teologi spesso si perdono nelle discussioni se il Vaticano II sia in continuità con la tradizione o rappresenti una rottura e focalizzano la loro attenzione su minuzie esegetiche nell’ermeneutica dei testi conciliari. Una teologia che si limitasse a spiegare e a interpretare gli aspetti dottrinali del cristianesimo e il suo sistema simbolico non renderebbe un buon servizio all’umanità. La teologia ha bisogno di puntare il suo sguardo sul mondo e di cercare di rispondere alle questioni cruciali che gli esseri umani individualmente e collettivamente trovano proprio al centro della loro esistenza.

Vi è un grande divario fra la teologia classicista e l’empirica esperienza della vita quotidiana e delle sue lotte. Dio ha identificato il sé di Dio con l’umanità (verbum caro factum est). Giustamente, dunque, Nicolò Cusano ci ricorda che Dio è un cerchio infinito il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte. Esiliare Dio e il prossimo dall’orizzonte dell’economia per perseguire un egoismo e un individualismo grossolani costituisce la più grande sfida da affrontare per la teologia odierna. Se il sabato (…) rappresenta un’interruzione, una pausa per pensare al tutto in vista di una trasformazione creativa, allora il ruolo della teologia sarebbe quello di promuovere la pratica del sabato in ogni campo della vita umana, personale e collettiva. Ciò significherà aiutare a connettere ogni frammento con il tutto; connettere ogni giorno con il giorno che non avrà fine.

Per seguire l’umanità nel suo cammino di liberazione, la teologia ha bisogno di attuare una riallocazione del sacro, rispetto agli spazi e agli oggetti tradizionalmente venerati; ha bisogno di nutrire rispetto per l’intera creazione e per tutte le forme di vita, dal filo d’erba agli esseri umani. Una delle intuizioni fondamentali della Bibbia è che la qualità di una comunità si misura dal modo in cui si prende cura dei suoi membri più deboli e più vulnerabili, e per tutto questo l’eguaglianza e la giustizia sono essenziali e centrali. Tale visione ricorre nell’intero corpus della tradizione biblica, in cui l’idolatria e l’ingiustizia sono interconnesse. Infatti, abbandonare il Signore ha provocato ingiustizia e diseguaglianza nella società; e, inversamente, l’ingiustizia sociale ha allontanato dal Signore e ha portato agli idoli.

A sua volta, l’esclusione è diametralmente opposta alle dinamiche di interdipendenza che ci vengono presentate nella Genesi dal racconto della creazione. Nella creazione Dio connette tutte le creature fra loro in armonia; la creazione, tuttavia, conferisce a ogni creatura anche la propria peculiarità, unicità e identità. Quando l’esclusione viene messa in pratica come assimilazione dell’altro, nega la legittima diversità e pluralità. Ciò che Dio ha esercitato nella creazione dovrebbe caratterizzare anche le comunità umane. Qui sta un compito importante per la teologia: quello di contribuire a creare comunità senza esclusione, comunità che rispettino le differenze e la pluralità. Ed è un compito di importanza cruciale in questi tempi in cui il sistema economico imperante è diventato una forza di divisione e di conflitto fra comunità.

La liberazione e il perseguimento dell’eguaglianza e dell’inclusione saranno ispirati da un nuovo senso del sacro e nutriti dalla profonda fede di Gesù. In un mondo che ha sacralizzato la gerarchia e il potere, che ha coltivato la diseguaglianza e praticato l’esclusione, Gesù ha difeso e propugnato la dignità di ogni essere umano come nuovo tempio di Dio: l’esclusione dei poveri dalla conoscenza, dalla libertà, dalla dignità, dalla partecipazione e dalla comunità era il vero sacrilegio. I vangeli ci dicono che Gesù era più interessato alle sofferenze e alle privazioni degli esseri umani che al peccato. Purtroppo, la soteriologia cristiana giunse a essere costruita intorno al peccato e non sugli aspetti più importanti delle azioni di Gesù per il bene (salus) di esseri umani e comunità. La visione gesuana della liberazione era radicata nell’esperienza del divino inteso come un Dio compassionevole e solidale con l’umanità sofferente. L’esperienza della sofferenza, della povertà, delle privazioni e dell’asservimento degli esseri umani lo toccava profondamente. La compassione e la solidarietà gli sgorgavano dall’intimo, dalle viscere. Una teologia che segue le orme di Gesù incorporerà la sua visione, la sua passione e la sua prassi. Come Gesù, metterà in discussione quello che viene accettato come lampante e fuori di ogni dubbio.

FECONDAZIONE INCROCIATA DI TEOLOGIE

C’è stato un tempo in cui le questioni teologiche venivano impostate in Occidente e coloro che venivano dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania potevano dare un senso alla teologia solo nella misura in cui partecipavano dei dibattiti teologici di matrice occidentale. Oggi, la teologia occidentale, salvo alcune lodevoli eccezioni, è alle prese con una profonda crisi. I suoi approcci teologici pretenziosi e altisonanti si pongono in netto contrasto con la realtà effettiva di un cristianesimo occidentale logoro, dal quale i fedeli si allontanano in massa. Sembra esserci ben poca corrispondenza fra questa teologia e la situazione sul campo. La teologia occidentale dominante mi appare come un esercizio intellettuale per chi ha tempo libero, svincolata dalle problematiche urgenti dell’umanità e della natura. Ci si comincia a chiedere a chi sia rivolta questa teologia, e cui bono – cioè: a chi giova? Porrò la questione in maniera chiara e semplice: la teologia europea non ha futuro se non è disposta ad avviare un dialogo serio con le teologie emergenti in diverse parti del mondo, sulla base dell’esperienza di oppressione, di sofferenza, di diseguaglianza e di esclusione. (…).

CONCLUSIONE

Il cammino di liberazione è distribuito su molti deserti che devono essere attraversati con grande speranza. Sono i movimenti di resistenza in tutto il mondo contro la diseguaglianza e il rifiuto di abbattere l’esclusione a offrire speranza per il futuro. Questa resistenza è portata avanti da vari movimenti sociali, globali e locali. Sono oggi la coscienza del mondo e incarnano l’etica nella pratica.

In questo cammino di lotta e di liberazione, che deve essere intrapreso nella speranza congiuntamente da donne e uomini di ogni nazione, un giusto tipo di teologia potrebbe avere un ruolo molto significativo. Si potrebbe chiedere: “Che cosa si intende con giusto tipo di teologia?”. Risponderò ricordando una parabola di Buddha di 2.500 anni fa: la parabola della freccia avvelenata. Un uomo era stato colpito da una freccia mentre stava attraversando una foresta. Mentre i suoi amici e i suoi parenti si stavano dando da fare per aiutarlo, egli non volle in alcun modo che la freccia gli fosse tolta finché non gli fosse ben chiaro chi era stata la persona che lo aveva preso di mira con il dardo, quale fosse il suo nome, la sua età, il suo villaggio, la sua corporatura, la lunghezza dell’arco che aveva usato. E insistette nel voler sapere se le penne della freccia utilizzata fossero quelle di un avvoltoio, di una cicogna, di un falco o di un pavone! Questa parabola era una tagliente critica di Buddha contro l’alta casta dei brahmini del suo tempo, con la loro teologia piena di astruse speculazioni metafisiche, gravemente fallimentari dal punto di vista pratico. Buddha invitava ogni persona a rispondere alla sofferenza e all’oppressione con karuna (compassione e misericordia) e senza indugio. Nei suoi insegnamenti, Buddha sostenne l’eguaglianza di ogni uomo e di ogni donna senza distinzione, in virtù del fatto che ognuno è egualmente capace di illuminazione. Spezzò la stratificazione sociale delle caste che escludeva delle persone. Tuttavia, quando gli fu chiesto di Dio, Buddha tacque. L’enigmatico silenzio di Buddha costituisce in sé un grande tema.

Cinquecento anni dopo Buddha, Gesù si è identificato con l’umanità sofferente. Quello che colpisce è che Gesù ha rotto il silenzio di Buddha. Gesù ha aperto la sua bocca per parlare di un Dio, un Dio Padre-e-Madre profondamente coinvolto nella vita degli esseri umani e nelle loro sofferenze. Questo Dio non è una realtà alienante, ma un Dio compassionevole, misericordioso e solidale, che tratta con eguaglianza tutti i suoi figli e le sue figlie. Abbiamo così un grande messaggio di speranza per continuare a lottare per l’eguaglianza e l’inclusione e per proseguire sul cammino delle lotte per la liberazione, in questi tempi in cui la vita umana e la convivenza sono minacciate dal mercato liberista e dal suo modello di sviluppo. Una teologia sensibile alla questione dell’ineguaglianza e dell’esclusione nel nostro mondo odierno ha il compito liberatore di desacralizzare il “vitello d’oro” del libero mercato. La teologia cercherà costantemente di intrecciare la questione di Dio con i problerni epocali che affliggono l’umanità e di fornire una visione che si basi sull’unità di fondo del mistero dell’umano, del divino e dell’universo.




Gesù liberatore (Alberto Maggi)

 

cuore naturale

(…)Perché tanto astio attorno la figura di Gesù? Cosa ha detto e fatto di tanto grave da attirarsi contemporaneamente addosso diffidenza, ostilità, rabbia omicida e lo condurranno a finire, nella più completa solitudine abbandonato dalla famiglia, dai suoi discepoli e deriso dalle autorità religiose, inchiodato al patibolo riservato ai maledetti da Dio (Dt 21,23)?
Gesù nell’insegnamento e nella pratica ha distrutto il concetto stesso di religione proponendo – e dimostrando di essere – il Dio con noi (Mt 1,23), un Dio a servizio degli uomini, un Dio liberatore..L’immagine di Dio con Gesù cambia radicalmente: non più l’uomo al servizio di Dio ma Dio al servizio degli uomini, come insegna Paolo nel discorso di Atene:
“[Dio]non si lascia servire dall’uomo come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (At 17,24-25).
L’immagine di un Dio che si mette a servizio degli uomini per liberarli era completamente sconosciuta nel panorama religioso contemporaneo a Gesù. In ogni religione veniva insegnato che l’uomo – creato o no dal suo dio – aveva compito di servire il suo Dio. Un Dio presentato sempre come Sovrano. Un uomo sempre nella condizione di servo.
Un Dio che continuamente chiede agli uomini, sottraendo loro cose, tempo, energie.
La nuova immagine proposta da Gesù di un Dio a servizio degli uomini, è alla base della libertà dell’individuo. Questo nuovo rapporto con il Padre non incide soltanto nel rapporto dell’uomo verso Dio, ma pure quello nei rapporti tra gli uomini, inaugurando una nuova relazione nella quale viene esclusa qualunque forma di dominio o di potere nell’ambito dei rapporti umani: se Dio stesso non domina ma serve nessuno può più dominare gli altri – tantomeno in nome di Dio.
Ciò causa l’allarme nei tre ambiti dove dominio e potere venivano esercitati e il concetto di libertà era completamente sconosciuto:
La famiglia dove il marito era il padrone della moglie e dei figli,
la nazione dove chi deteneva il comando spadroneggiava sui sudditi,
e la religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri ambiti di potere si fermavano: l’intimo della persona, la coscienza.
Questi tre poteri si scateneranno contro Gesù e i suoi discepoli:(…)
http://www.studibiblici.it/appunti/Presentazione%20del%20Vangelo.pdf