l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi»

cercando in ogni giorno l’incanto del Regno

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”

Angelo Casati, L’alfabeto di Dio, Il Saggiatore

Casati

Max Weber, il padre della sociologia, definiva la modernità come l’epoca del «disincantamento del mondo», in cui la scienza aveva esautorato dalla natura il magico, lo spirituale, il sacro. Eppure, adesso più che mai, l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi». Perché «se ti incanti davanti a un volto non ti accadrà di sfigurarlo; se ti incanti davanti a un’anima, non ti accadrà di occuparla; se ti incanti davanti a una terra, non ti accadrà di sfruttarla».

L’autore di queste parole, Angelo Casati, è un esperto sul tema. Nei suoi oltre sessant’anni di ministero sacerdotale, si è esercitato nell’arte di incantarsi, accogliendo il suggerimento di Isacco di Ninive. Don Casati si incanta di fronte ai visi degli uomini e delle donne, ai fiori che si ostinano a spuntare sui marciapiedi della ‘sua’ Milano, al mattino, al vento, ai bambini, ai vecchi. In una parola, alla vita. Quella che comincia ogni giorno «quando sgusci dalle coperte e termina quando vi rientri la notte». Perché lì, nella carne, nella storia «bistrattata» degli umani, Dio scrive, col suo alfabeto, il sogno del Regno.

Il recente libro di don Casati, L’alfabeto di Dio è un elogio dei piccoli, degli ordinari, degli esclusi: i preferiti di Gesù, secondo il Vangelo

Casati

Il saggio si ‘srotola’ come un piccolo dizionario di suggestioni e riflessioni bibliche, intorno ad alcune parole-chiave. E a soffermarsi sull’elenco dei 38 termini scelti, s’intravede, in controluce, il filo rosso che li unisce. È la ricerca estenuante e gioiosa del volto di Dio nel mondo. Pur sapendo che, scrive don Angelo, nessuno sguardo né parola umana, pur gloriosa, può contenere «l’incandescenza della sua luce o della luce della verità». Per questo, da poeta qual è, l’autore preferisce «scrutare il cielo e la terra a tutto campo», non intristito «dall’arroganza del possesso della verità», per «sorprenderne i segni», «innamorarsi delle tracce». Solo così, il sacerdote può davvero entrare nella casa dell’altro. A cui non si accede sfondando la porta bensì come fa Dio «bussando al silenzio e alla libertà». Questa è la mitezza evangelica. Non debolezza di fronte al male. «Proprio perché la mitezza nasce dalla carezza del volto dell’altro, dalla sua difesa, nei veri miti, e si pensi a Gesù, trovi questa mescola sorprendente di mitezza e di fortezza». Certo, non è facile familiarizzare con l’alfabeto di Dio sparso nei granelli di sabbia dei nostri giorni e delle nostre notti. Ci vuole un’esistenza intera e nemmeno questa basta. Come scolaretti, però, non possiamo sottrarci al fascino di provare a catturare qualche lettera, fosse anche uno scarabocchio. Magari gli occhi si sono fatti opachi, per la «cataratta dello spirito» «incapaci di sorprendere il mistero che abita le cose». Allora non resta che fermarsi, «indugiare alla soglia delle cose». Se la fretta ci fa predatori e l’effimero ci imprigiona nel qui e ora, l’antidoto alla disumanizzazione in questo tempo del consumo vorace e spietato è, ancora una volta, l’incanto.

il difficile rapporto delle religioni con le donne

“Dio odia le donne”? Lo dicono le religioni. Un libro di Giuliana Sgrena

“Dio odia le donne”?

lo dicono le religioni

un libro di Giuliana Sgrena

da: Adista Notizie n° 21 del 04/06/2016

Al titolo provocatorio del libro di Giuliana Sgrena Dio odia le donne (Saggiatore, 2016) mi viene da contrapporre l’incipit di un saggio di Giovanni Fioravanti (in Italialaica) «Dio è morto, la religione no. Se si uccide in nome della propria fede, non è Dio che si sta cercando ma esclusivamente la propria affermazione terrena…». Aggiungo: si può uccidere anche senza l’uso delle armi, semplicemente rendendo la persona umana invisibile. L’uomo-maschio si è servito nei secoli del mito dell’onnipotenza della divinità per affermare e difendere il proprio dominio sulle donne create come esseri inferiori.

È questa sorta di complicità che ha mantenuto in vita la religione che non è – come comunemente si pensa – il ponte tra l’umanità e Dio. Basta percorrere la ricchissima documentazione proposta dall’autrice, frutto di un’accurata ricerca sui testi fondamentali delle 3 grandi religioni monoteiste per rendersene conto. Ma quando è morto Dio? E poi, Dio è veramente morto? È morto alcuni secoli fa, se consideriamo le “guerre di religione” che dal Medioevo in poi hanno funestato le nostre società, le persecuzioni degli “eretici”, degli “infedeli”, delle “streghe”. Non così nel mondo antico, dove le guerre venivano scopertamente combattute per estendere il proprio dominio su terre e mercati e agli dei venivano tributati sacrifici e doni propiziatori. Le sconfitte erano considerate vendette per doni mancati o inadeguati… Dio potrebbe essere morto, ucciso dal progresso scientifico e dalla complessità dei centri di potere dell’Età moderna.

Ma Dio non è morto. Segni della sua vitalità sono la ricerca di spiritualità in chiave non fondamentalista, e i fondamentalismi risorgenti dovuti alla crisi dei valori, all’ignoranza, alla sete di protagonismo (cfr. Introduzione). La ricerca di spiritualità passa necessariamente per la laicità fondandosi sul rifiuto delle discriminazioni offerte a piene mani dai testi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam, e sulla negazione dell’Assoluto. E laico è nel metodo e nel merito questo saggio di Giuliana Sgrena.

Nel metodo: non si instaura alcun confronto gerarchico tra le 3 religioni. I dettami di ciascuna vengono calati senza pregiudizi nelle realtà conosciute dall’autrice durante la sua attività di giornalista in Medio Oriente e in Nord Africa, e durante i giorni del suo sequestro. Piovono come pietre sul capo di donne che non conoscono la distinzione tra imperativo religioso e leggi dello Stato.

Nel merito: le religioni non sono affrontate come una “disciplina di studio”, ma per le ricadute tutte ugualmente discriminanti nei confronti delle donne. Ben altro approccio rispetto a quella “Storia delle religioni” invocata da molti come antidoto all’insegnamento della religione cattolica concordatario. Infatti è la religione, non le religioni la causa reale della mancata liberazione delle donne. Le religioni sono le varianti contestualizzate nelle diverse culture, ma è la religione quel groviglio di tradizioni, pregiudizi, legami irrinunciabili che formano l’appartenenza, e l’impossibilità per la gran parte delle donne di formarsi una propria identità al di fuori dell’obbedienza.

Dalle pagine di questo terribile libro escono figure come Gulnaz, la giovane donna di Kabul, stuprata dal marito della cugina; potrebbe fuggire, aiutata da un’associazione, ma alla fine resta senza più speranze, sposa il cugino stupratore, vive nella sua casa con la prima moglie, che ha 4 figli, mentre lei ne avrà tre. “È rassegnata, non rivolge mai lo sguardo al marito stupratore”… figure come Amina in Somalia «una donna bellissima ma i suoi occhi sono spenti». Ha sperimentato sulla sua bambina la pratica delle mutilazioni genitali femminili (mgf). Una pratica che viene accettata di buon grado dalle donne di quel Paese (e non solo) poiché il dolore fisico da loro subito rende la famiglia degna di onorabilità…

I primi due capitoli riguardano il tema della creazione e della verginità. Notevole l’immagine di Lilith, la divinità mesopotamica entrata nella cabala ebraica, creata dalla terra come Adamo, ma ribellatasi a lui viene associata al demonio, seminatrice di vento e tempesta. Per questo Dio creò Eva dalla costola di Adamo e non dalla terra, perché gli fosse per sempre sottomessa… I capitoli a seguire evidenziano le inferiorità attribuite alla donna: invisibili e svergognate per l’impurità del corpo di cui sono portatrici e che devono continuare a espiare, a partire da segregazioni, lavaggi, aspersioni, fino al rito macabro del mgf che Sgrena descrive con pagine di intensa partecipazione.

Una riflessione sulle circostanziate descrizioni degli effetti prodotti sulle donne dalle Scritture non può che farci concludere che la religione – emanazione di regole e norme patriarcali per mantenere inalterato il potere in mano maschile – non è certo il ponte che conduce a Dio.

Resta uno scoglio, quello della nostra appartenenza. Il rifugio in un Dio, che depuriamo di tutte le discriminazioni contenute nei Sacri Testi, un Dio che in qualche modo “ci appartiene?” O il passo ulteriore, dalla laicità all’ateismo?

un libro che racconta il ’68 nella chiesa

Alle radici del dissenso cattolico. Un libro racconta il ’68 nella Chiesa

alle radici del dissenso cattolico

 

un libro racconta il ’68 nella Chiesa

 da: Adista Notizie n° 19 del 21/05/2016
un libro prezioso, per chi voglia conoscere la temperie culturale, i nomi, le date, gli avvenimenti, le ragioni e le dinamiche che hanno contrassegnato, all’interno della più generale mobilitazione di una intera generazione – quella del “mitico” ’68 composta da ampi settori della sinistra di classe e dei movimenti giovanili – il cosiddetto “dissenso cattolico”. Un libro, per di più, scritto da un “esperto” della materia (ma con un linguaggio non specialistico e con un buon taglio narrativo), cioè uno storico contemporaneista. Si tratta di La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 di Alessandro Santagata, appena pubblicato per i tipi dell’editore Viella (2016, pp. 284, euro 28) 

 

Il volume nasce dalla rielaborazione della sua tesi di dottorato all’Università degli studi di Roma Tor Vergata e trae spunto dalla conclusione delle celebrazioni del cinquantenario del Concilio Vaticano II (1962-1965) e dall’ampio dibattito che questo anniversario ha suscitato, dentro e fuori la Chiesa. È infatti il Concilio il motore stesso, secondo Santagata (ma la pensano allo stesso modo molti dei cattolici che furono protagonisti di quegli anni, a partire da Raniero La Valle) di tutte le dinamiche che a livello ecclesiale si innescarono negli anni successivi alla sua conclusione. Anche perché nell’Italia del boom economico e del post Concilio si inizia ad avvertire come insopportabile ed opprimente lo scarto tra le attese di riforma che venivano dal Vaticano II e la loro concreta attuazione in un Paese in cui era (ed è) in vigore il Concordato stipulato con il regime fascista, ma anche dentro una Chiesa che, dal centro alla periferia, era ancora strutturata ed organizzata sul modello tridentino. Vi è poi da considerare l’inizio della “diaspora” dei credenti che, rifiutando il dogma dell’unità politica del cattolici, iniziavano a guardare con sempre maggiore interesse verso sinistra, al Psi, al Pci ma anche alle formazioni della “Nuova Sinistra”. E anche la secolarizzazione avanzava in modi e forme – dentro e fuori la Chiesa (divorzio, obiezione di coscienza, libertà sessuale e legalizzazione degli anti-concezionali) – che apparivano foriere di grandi trasformazioni. Anche per questo, «dalla fine degli anni Sessanta – scrive Santagata nella sua introduzione – si era diffusa ai vertici della Chiesa l’idea che un’apertura alla contemporaneità, come quella portata avanti da certi ambienti post-conciliari, avrebbe condotto il cristianesimo romano a perdere la propria identità. Occorreva di conseguenza prendere le distanze da questa visione dell’“aggiornamento” e (ri)leggere il Concilio nella tradizione tridentina per interpretare correttamente quei punti che potevano apparire di rottura con l’insegnamento precedente». La secolarizzazione e le spinte conciliari sarebbero quindi state, ancor prima del marxismo, determinanti nelle rapide trasformazioni che investivano la Chiesa istituzionale, oltre che quella “reale” delle comunità e dei gruppi ecclesiali. Per questa ed altre ragioni, alla fine di un processo convulso e non privo di contraddizioni, l’istituzione ecclesiastica deciderà di marginalizzare, o condannare, una parte del movimento conciliare, pretendendo di porlo “fuori” dalla Chiesa; un tentativo in parte riuscito in parte fallito, visto il risultato che questa parte più radicalmente fedele al dettato conciliare riuscirà a realizzare sia nella propria militanza politica, sia nella testimonianza ecclesiale. E però, spiega Santagata, «sull’impatto del Concilio non esiste ancora un retroterra di ricerche storiche tale da tenere insieme i contesti nazionali con quello romano; il piano ecclesiale con quello culturale, sociale e politico. I contributi più importanti sono venuti dai teologi e dagli studiosi di storia della Chiesa ma, in molti casi, questi risentono di una prospettiva non sufficientemente attenta alle relazioni tra l’universo religioso e quello secolare».

Concilio: figli e figliastri

Il libro, che ha per oggetto la nascita della contestazione cattolica e non il suo successivo sviluppo, tralascia la polemica intra-ecclesiale sull’ermeneutica del Vaticano per privilegiare la ricezione politica come punto centrale dello scontro tra due letture diverse del Concilio; solo infatti all’interno della più generale trasformazione della società italiana è possibile, secondo l’autore, leggere anche quella del cattolicesimo. In questa prospettiva, la nascita del “dissenso” viene raccontata «privilegiando la chiave interpretativa politico-religiosa» (a discapito di una ricostruzione complessiva del fenomeno, dei suoi attori e campi di azione). È così possibile per Santagata mettere in luce le diverse matrici e declinazioni della contestazione, oltre che l’incidenza del fenomeno nei vari ambienti e nelle organizzazioni che ne componevano il segmento cattolico. «Il risultato – scrive l’autore – è stato restituire il dissenso alla storia della trasformazione italiana, spiegandone il significato nell’intreccio tra questa e il percorso di ricezione conciliare».

Certo, un quadro veramente esaustivo di tutte le realtà che hanno composto il mosaico della contestazione cattolica è forse impossibile da condensare in un volume. Anche per questa ragione Santagata ha scelto di privilegiare l’attenta analisi della genesi e del primo sviluppo della “contestazione cattolica”, inserita nella complessità della storia della società e della Chiesa italiana degli anni ‘50-’60. In questo modo l’autore riesce comunque a fornire alcuni elementi fondamentali per comprendere i caratteri e gli elementi unificanti anche della stagione politica ed ecclesiale successiva. Il libro prende inoltre in esame solo alcuni movimenti che hanno caratterizzato il ’68 cattolico (Gioventù studentesca e i gruppi spontanei, dai quali deriveranno da un lato esperienze come Comunione e liberazione; dall’altro movimenti come quello delle Comunità Cristiane di base) e dà ampio spazio alla pubblicistica, in particolare, alle riviste più impegnate nella discussione sui rapporti tra fede e politica dopo il Vaticano II. Le quali, rileva Santagata, svolsero un ruolo importantissimo nel creare coscienza e nel veicolare strumenti teorici e materiale di riflessione per una intera generazione di cattolici impegnati in politica. Basti pensare alla saldatura tra le istanze del movimento del ‘68 e quelle dei giovani cattolici (l’occupazione nel 1967 della Cattolica di Milano; l’occupazione, nel 1968, del duomo di Parma da parte di giovani cattolici, diversi dei quali impegnati nella Fuci); oppure l’avvicinamento fra cattolici e marxisti a partire dai temi del pacifismo, del disarmo, del terzomondismo, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, ecc.

Tra queste riviste, anche Adista, di cui Santagata parla in diverse occasioni, rilevando in particolare il ruolo di collegamento svolto dalla nostra testata, assieme a Questitalia (che con Vladimiro Dorigo ne era stata sin dall’inizio l’ispiratrice e l’organizzatrice) ed a Settegiorni in occasione del secondo incontro nazionale del febbraio 1968 a Bologna dei gruppi spontanei della nuova sinistra (“Credenti e non credenti per una nuova sinistra”), alla presenza di circa 600 partecipanti, rappresentativi di oltre 80 circoli. Il libro accenna poi solo rapidamente agli anni della repressione e della marginalizzazione delle istanze post conciliari. La “restaurazione aggiornata” di Paolo VI, la stretta repressiva nei confronti di teologi, preti, religiosi, gruppi e realtà di base di “frontiera”, il sostegno ai movimenti carismatici ed all’Opus Dei, l’elezione di Giovanni Paolo II e la lotta senza quartiere alla Teologia della Liberazione, il “ventennio ruiniano” alla guida della Chiesa, la “notte” politico-istituzionale della Repubblica (datata almeno dal rapimento e assassinio di Aldo Moro) sono tutte ragioni che spiegano l’arretramento di quelle istanze, di quelle ragioni, di quelle speranze che avevano animato il ’68 dentro la Chiesa. Che però, come un fiume carsico, nel corso di questi 50 anni sono spesso riemerse. E tante volte hanno trasformato in profondità se non l’istituzione ecclesiastica, per lo meno le pratiche (oltre che i riferimenti teorici ed ideali) che ancora innervano il tessuto ecclesiale del Paese.

il diario della piccola rom

 

Il diario di Sunita, scolara rom a Pisa diventa un libro – Repubblica.it

esce per Rizzoli la storia di una ragazzina che ha potuto studiare

la racconta Luca Randazzo, insegnante e scrittore

è una ribelle docile Sunita: «Questo diario è una cretinata. E’ un’idea della mia maestra per farmi scrivere. Ma io non scrivo niente ». Affida ai fogli di un quaderno il racconto delle sue giornate: «Me l’ero dimenticata la scuola, a furia di non andarci. Cioè, non dico il posto. Quello è sempre uguale, ma le materie

Sunita

Per esempio la matematica». Scanzonata, irriverente. Il suo campo è una baracca, fra i rom della Bigattiera, in mezzo alla pineta a Marina di Pisa: «Mia sorella Teodora non ha più vestiti. L’ho detto a Luca quando è venuto a prendermi. Praticamente fa troppo freddo e la mia mamma non può lavare». Perché al campo non c’è corrente elettrica e nemmeno una lavatrice da quando quel pezzo di terra è diventato un accampamento irregolare: «La mia mamma ha preso due pentoloni e li ha riempiti d’acqua. Meno male che ne usciva abbastanza dal tubo… Ha scaldato l’acqua sulla stufa… C’erano così tanti panni stesi che pareva un labirinto».

Sunita ha dieci anni quando comincia a scrivere il suo diario e quando Luca e Clelia la accolgono nella loro casa come affidatari. “La scuola è una pizza ma io ci vado lo stesso” è il sottotitolo del libro “Diario di Sunita” (pp. 251, euro 18) appena pubblicato da Rizzoli e firmato da Luca Randazzo. Maestro in una primaria di Pisa, nato a Milano, Randazzo abita a Pisa, città nella quale si è laureato in Fisica. «Sunita è una ragazzina che esiste per davvero e che ho incontrato nella scuola dove insegno, la Don Milani» racconta. Un giorno comincia a scrivere il suo diario: «Sì, è stato nell’anno in cui ha vissuto in casa nostra – riprende Randazzo che ha già pubblicato altri libri per ragazzi, “Le città parallele” (Salani 2008) e “L’estate di Giacomo” (Rizzoli 2014) – .

Sunita era in famiglia con mia moglie e le nostre figlie e nel fine settimana la riportavamo dalla sua vera famiglia». Il diario della ragazzina è ispirato a un quaderno pieno di note realmente esistito e custodito dal maestro. L’idea di Randazzo parte da lì ma la storia viene rielaborata: «Nella realtà Sunita è umbra, ma la sua famiglia è rom di origine macedone. Lei non è mai stata in Macedonia eppure appartiene a quella nazionalità». Il diario ripercorre la fatica di chi non ha diritti, di chi è invisibile, di un’infanzia cresciuta ai margini di tutto. Lo fa con un tono lieve e a tratti ironico. Lo sguardo di Sunita non è mai cupo: ma capace di stupirsi per una lezione di calcio, per aver imparato a scrivere in corsivo, per poter decidere di non mangiare i broccoli nella casa dei “gadze” come i rom chiamano gli altri, i “non rom”.

«I proventi del libro andranno tutti all’associazione Articolo 34 di Pisa » spiega l’autore impegnato a lavorare nel volontariato e nell’integrazione. Uno dei momenti più divertenti e amari al tempo stesso delle pagine di questo diario è quando la bambina viene portata dalla dentista e lei fa il confronto con la sua mamma (vera) che ha mille carie e dal dentista non ci è mai stata: «A casa dei gadze si lavano tutti i denti. Perfino Bianca che non ne ha ancora perso uno. (…) A me lavarmi i denti mi piace, anche se mi sembra strano. A casa mia non lo fa nessuno. A parte che non abbiamo lo spazzolino ». Un altro momento di ironia è quando fa il confronto tra la sua seconda famiglia dove tutti stanno a tavola per cena e la prima dove non c’è nemmeno una tavola: «Ieri mi sono messa sotto le coperte con tutta la testa. Non ho fatto nemmeno in tempo a coprirmi che Clelia aveva già tolto la coperta e si era seduta accanto a me.

Dice che in quella casa si mangia tutti insieme, che è un momento in cui ci si raccontano le cose (…). Ma che cretinata è dico io? Se non voglio mangiare cosa ci sto a fare a tavola?». E poi «che schifo la cucina di Luca » con i broccoli, Sunita li detesta, mentre ama quello che trova al campo «dove ognuno mangia quando vuole e ci sono sempre patatine e Coca-Cola». E adesso dov’è

 

Sunita e tutta la sua famiglia? “A casa mia – risponde lo scrittore – li ospito per qualche giorno fino a che non trovano una casa in affitto”. Ha un appartamento grande? “Centometri quadri, un solo bagno. Siamo in dodici”. Questione di generosità e di sentire addosso come un comandamento le parole di uno striscione in una delle tante proteste dopo lo sgombero del campo diventato abusivo a  Pisa, c’era scritto: “siamo umani”.

 

Benigni e il nuovo libro di papa Francesco

Benigni presenta il libro del Papa

«Francesco sta tirando la Chiesa verso il cristianesimo»

Benigni

Esce in contemporanea in 86 Paesi il libro colloquio di papa Francesco con Andrea Tornielli. Al tavolo, per “Il nome di Dio è misericordia”, edito da Piemme, anche il cardinale Pietro Parolin, il cinese Zhang Agostino Jianqing, detenuto a Padova, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi e il direttore della Lev monsignor Giuseppe Costa.

 

«Papa Francesco sta tirando la Chiesa con tutte le sue forze. E dove la sta tirando? La sta tirando verso il cristianesimo». Sono 26 minuti da mattatore quelli di Roberto Benigni alla presentazione del libro-intervista di papa Francesco “Il nome di Dio è misericordia”.

«Anzi, libro-colloquio», precisa padre Federico Lombardi un libro che «come ha detto lo stesso Papa Francesco ieri ricevendo la prima copia, non è letteratura, è esperienza, è vita, è la mia vita». Andrea Tornielli, il giornalista che ha “raccolto” la voce di Bergoglio, (il libro è edito da Piemme) ricorda, per dire che Francesco si inserisce in una lunga scia di predecessori, l’abbraccio di Giovanni XXIII al detenuto di Regina Coeli che gli si era buttato ai piedi al termine della storica visita che il “Papa buono” fece nel 1959 nel carcere romano.

E il cardinale di Stato, Pietro Parolin, gli rende merito di riuscire, con questo libro, a non andare in cerca di scoop – «chi è alla ricerca di rivelazioni resterà deluso», dice il segretario di Stato. Il libro ha invece il merito di «entrare nel grande e confortante mistero della misericordia di Dio».

«Solo papa Francesco», dice Benigni dopo la toccante testimonianza di Zhang Agostino, detenuto nel carcere di Padova, «poteva mettere insieme per la presentazione del suo libro un cardinale veneto, un carcerato cinese e un comico toscano».

E poi parte come un fiume in piena: «Chi ascolta la verità non è inferiore a chi la dice», sostiene citando a memoria passi del Vangelo, la guarigione della suocera di Pietro, l’episodio di Zaccheo, leggendo Bonhoeffer. Ricordando, soprattutto che «la gioia è il grande segreto del cristianesimo» e che «bisogna diffidare degli infelici». «Amare il proprio nemico è la frase più alta della storia dell’umanità», precisa ancora. Aggiungendo: «La misericordia non non è una virtù seduta in poltrona, non sta ferma un secondo ma va incontro ai poveri e ai peccatori».

Dunque, precisa, la misericordia è virtù esigente, attiva, non buonismo, non pietà o compassione. Ed è virtù che si incontra nel dolore, nella sofferenza, tra gli ultimi. Sottolinea che il Papa attinge a piene mani la misericordia da queste riserve, la attinge andando a Lampedusa, aprendo la prima porta santa a Bangui, visitando carceri, ascoltando gli ultimi. Perché il papa sa che «il dolore è più forte del male» e che «fra l’uomo e Dio non ci può essere collaborazione nella grazia se prima non c’è stato incontro nel dolore». E da questo dolore che tutto rinasce che tutto si trasforma, che tutto si perdona.
 

 

“il nome di Dio è ‘misericordia’”

 il nuovo libro di papa Francesco

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qui sotto la genesi di questo libretto di Andrea Tornielli col quale il libro è stato scritto e una riflessione di Vito Mancuso sui pregi e i limiti di esso:

e il Papa mi disse: “Dio perdona non con un decreto ma con una carezza”

di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 10 gennaio 2016

Tornielli

Il 13 marzo 2015, mentre ascoltavo l’omelia della liturgia penitenziale al termine della quale Papa Francesco stava per annunciare l’Anno Santo straordinario, ho pensato: sarebbe bello potergli porgere alcune domande incentrate sui temi della misericordia e del perdono, per approfondire ciò che quelle parole avevano significato per lui, come uomo e come sacerdote. Senza la preoccupazione di ottenere qualche frase a effetto che entrasse nel dibattito mediatico attorno al sinodo sulla famiglia, spesso ridotto a un derby fra opposte tifoserie. Mi piaceva l’idea di un’intervista che facesse emergere il cuore di Francesco, il suo sguardo. Un testo che lasciasse aperte delle porte, in un tempo, come quello giubilare, durante il quale la Chiesa intende mostrare in modo particolare, e ancora più significativo, il suo volto di misericordia. Il Papa ha accettato la proposta. Questo libro, «Il nome di Dio è Misericordia», è il frutto di un colloquio cominciato nel salottino della sua abitazione, nella Casa Santa Marta in Vaticano, in un afosissimo pomeriggio dello scorso luglio, pochi giorni dopo il ritorno dal viaggio in Ecuador, Bolivia e Paraguay. Avevo inviato con pochissimo anticipo un elenco di argomenti e domande che avrei voluto trattare. Mi sono presentato a Santa Marta munito di tre registratori: due digitali e uno con le vecchie micro-cassette. Mi era già capitato nel dicembre 2013, alla fine del colloquio poi pubblicato su La Stampa, di premere un tasto sbagliato e perdere un file audio (anche allora mi ero fortunatamente premunito di un secondo apparecchio). Francesco mi attendeva tenendo davanti a sé, sul tavolino, una concordanza della Bibbia e delle citazioni dei Padri della Chiesa. Mi ha subito invitato a togliermi la giacca, visto il caldo, per farmi mettere più a mio agio. Quindi si è accorto che non avevo un quaderno o blocco per appunti, ma soltanto un piccolo taccuino dove avevo segnato le domande. E si offerto di andare a prendere dei fogli bianchi. Abbiamo parlato a lungo, ha risposto ad ogni domanda. Ha parlato attraverso esempi legati alla sua esperienza di sacerdote e di vescovo, raccontando ad esempio del marito di una sua nipote, divorziato risposato all’epoca ancora in attesa della dichiarazione di nullità del primo matrimonio, il quale ogni settimana andava al confessionale per parlare con il sacerdote, pur anticipandogli sempre: «Lo so che lei non mi può assolvere». Ha raccontato del dolore provato al momento della morte di padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore incontrato casualmente in parrocchia quel 21 settembre 1953, nel giorno in cui la Chiesa celebra san Matteo apostolo ed evangelista. Jorge Mario Bergoglio era diciassettenne, e fu in quell’incontro che si sentì sorpreso da Dio, decidendo di abbracciare la vocazione religiosa e il sacerdozio. La sera del funerale di padre Duarte, avvenuta un anno dopo quell’incontro, il futuro Papa aveva «pianto tanto, nascosto nella mia stanza», «perché avevo perso una persona che mi faceva sentire la misericordia di Dio». Mi hanno particolarmente colpito le poche parole con le quali ha replicato a una domanda sulla sua famosa frase «Chi sono io per giudicare?», detta sul volo di ritorno da Rio de Janeiro nel luglio 2013 a proposito dei gay. Il Papa ha sottolineato l’importanza di parlare sempre di «persone omosessuali», perché «prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale». Come pure è significativa la distinzione tra peccatore e corrotto, che non riguarda innanzitutto la quantità o la gravità delle azioni commesse, ma il fatto che il primo umilmente riconosce di essere tale e continuamente chiede perdono per potersi rialzare, mentre per il secondo «viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere». O ancora le parole con le quali Papa Bergoglio parla dei suoi incontri con i carcerati, e di come non si senta migliore di loro: «Ogni volta che varco la porta di un carcere per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io?». Nelle sue risposte Francesco ha parlato più volte dell’importanza di sentirsi piccoli, bisognosi di
aiuto, peccatori. Spero che l’intervistato non se ne abbia a male se rivelo, a questo proposito, un piccolo retroscena. Si stava parlando della difficoltà a riconoscersi peccatori, e nella prima stesura che avevo preparato, Francesco affermava: «La medicina c’è, la guarigione c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio». Dopo aver riletto il testo, mi ha chiamato, chiedendomi di aggiungere: «…o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo», un’espressione che io avevo maldestramente lasciato cadere nel lavoro di sintesi. In questa aggiunta, o meglio in questo testo correttamente ripristinato, c’è tutto il cuore del pastore che cerca di uniformarsi al cuore di Dio e non lascia nulla di intentato per raggiungere il peccatore. Non trascura alcuno spiraglio, seppur minimo, per poter donare il perdono. Dio, spiega Francesco nel libro, ci attende a braccia aperte, ci basta muovere un passo verso di Lui come il Figliol Prodigo della parabola evangelica. Ma se non abbiamo la forza di compiere nemmeno questo, per quanto siamo deboli, basta almeno il desiderio di farlo. È già un inizio sufficiente, perché la grazia possa operare e la misericordia essere donata, secondo l’esperienza di una Chiesa che non si concepisce come una dogana, ma cerca ogni possibile via per perdonare. Ha detto Francesco in una delle omelie di Santa Marta: «Quanti di noi forse meriterebbero una condanna! E sarebbe anche giusta. Ma Lui perdona!». Come? «Con la misericordia che non cancella il peccato: è solo il perdono di Dio che lo cancella, mentre la misericordia va oltre». È «come il cielo: noi guardiamo il cielo, tante stelle, ma quando viene il sole al mattino, con tanta luce, le stelle non si vedono. Così è la misericordia di Dio: una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio perdona non con un decreto, ma con una carezza».

 

dal fedifrago devoto alla prostituta per forza: aneddoti di misericordia

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 10 gennaio 2016

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Non si deve chiedere quello che non può dare a questo libro-intervista di Papa Francesco con Andrea Tornielli, delle cui 120 pagine a stampa più di un terzo sono bianche o di strumenti redazionali. Quello che il libro può dare e dà effetti-vamente è la saggezza vissuta di un uomo di Dio che crede profondamente nel Vangelo e nella sua capacità di rinnovare la vita. Dalla sua lunga esperienza il papa trae una serie di aneddoti, uno più fresco dell’altro, raccontati sempre con grazia e delicatezza. C’è la vecchietta argentina che dice che Dio perdona sempre perché altrimenti il mondo non esisterebbe, la donna sola che per mantenere i figli si prostituisce e che ringrazia di essere chiamata comunque “signora”, l’uomo devoto che non perde una messa e ha una relazione con la cameriera e si giustifica dicendo che le cameriere ci sono anche per questo, la donna che non si confessa da quando aveva 13 anni perché allora il prete le chiese dove teneva le mani mentre dormiva, la signora cui vengono richiesti per prima cosa 5.000 dollari per la causa di nullità matrimoniale, la ragazza che nel postribolo incontra l’uomo che forse la sposerà e che per questo si reca in pellegrinaggio, e altri vividi esempi di concretissima umanità. Tutto il procedere del libro è segnato dall’esperienza del peccato, cui il papa attribuisce un’importanza decisiva, rendendola quasi una condizione indispensabile dell’esperienza spirituale: se il nome di Dio infatti è misericordia, solo chi ha bisogno di misericordia, cioè il peccatore, lo può incontrare. Il peccato, a partire dal peccato originale ritenuto “qualcosa di realmente accaduto alle origini dell’umanità” (p. 58), funziona quindi come un paradossale pre-sacramento. Per questo coloro che non ne hanno il rimorso sono il vero bersaglio polemico, cui il Papa giunge persino ad augurare di peccare: “Ad alcune persone tanto rigide farebbe bene una scivolata, perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Gesù” (p. 82). L’altro aspetto su cui il libro si sofferma a lungo è il sacramento della confessione, che per il Papa è il luogo concreto per incontrare la misericordia di Dio e al cui riguardo non mancano consigli ai confessori. Il libro è un campione esemplare della spiritualità di Bergoglio: la vita è una guerra, vi sono molti feriti, la Chiesa è un ospedale da campo, i suoi ministri devono operare come medici e infermieri. La misericordia di cui parla il Papa si configura quindi come un’operazione strettamente ecclesiastica. Anche il suo Dio è quello della più tradizionale dottrina cattolica basata sul nesso tra peccato originale e redenzione tramite il sacrificio: “Il Padre ha sacrificato suo Figlio”. Che cosa invece non si deve chiedere al libro perché non lo dà? Non si deve chiedere la trattazione, anche solo come accenno, delle capitali questioni filosofiche e teologiche sottese all’argomento trattato. Per quanto riguarda la dimensione filosofica, la questione del peccato e del suo perdono rimanda al rapporto tra coscienza, libertà e giudizio morale. E le domande che sorgono dal contesto contemporaneo sono: esiste realmente la coscienza? Siamo veramente liberi e quindi responsabili del bene e del male commessi? Il bene e il male esistono come qualcosa di oggettivo o si tratta di convenzioni culturali che l’uomo più evoluto può superare andando “al di là del bene e del male”? Per quanto riguarda la teologia, la questione principale concerne il rapporto tra grazia e libertà: la misericordia di Dio si dà del tutto gratuitamente o per renderla efficace è necessario un primo passo dell’uomo? La dottrina ecclesiastica condannò come eretica (definendola per la precisione semipelagiana) la prospettiva secondo cui la misericordia divina dipende da un primo piccolo passo dell’uomo. Eppure questa è esattamente la tesi sostenuta più volte dal papa (a pp. 15, 50 e 72), in linea con la tradizione della teologia gesuita che tra la fine del 500 e l’inizio del 600 scatenò una violenta e non conclusa polemica con i più tradizionali domenicani detta “controversia de auxiliis”. Vi è poi la questione della vita futura: se la misericordia è veramente il nome di Dio, come giustificare la dannazione eterna dell’inferno? Fosse anche solo per pochi, o anche solo per l’angelo decaduto diventato il Diavolo, l’esistenza dell’inferno eterno rende aporetica l’affermazione della
misericordia quale nome di Dio. Se la tesi del papa, come io ritengo, è vera, essa impone logicamente la dottrina detta “apocatastasi”, cioè il perdono finale per tutti. Essa lungo la storia fu sostenuta da grandi teologi, ma purtroppo è eretica per la dottrina ufficiale della Chiesa. Tali questioni non le si deve chiedere a questa pubblicazione d’occasione, ma al papa e alla sua sapienza ritengo di sì.

il pane da spezzare: un altro libro di E. Bianchi sul pane

«spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere»

il nuovo libro di Enzo Bianchi

la rivoluzione cristiana comincia a mensa

«Gesù amava la tavola come luogo di incontro con gli uomini, come occasione di benedizione e ringraziamento a Dio… Tra le tante rivoluzioni fatte da Gesù, c’è anche quella di aver rivoluzionato il modo di concepire il cibo»

Enzo Bianchi, fondatore e priore di Bose, introduce così il suo nuovo libro «Spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere», che esce oggi in libreria per Einaudi (pp. 106, euro 17)

«Non a caso proprio nel mangiare a tavola Gesù ha consegnato il segno grande della comunione tra sé e i discepoli, nel pane e nel vino ha voluto significare la sua vita spesa e donata per gli amici. Sí, c’è un magistero di Gesú a tavola che dobbiamo conoscere, per diventare piú umani, per scoprire o riscoprire la sapienza del vivere e del convivere».

La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale ‘passiamo’, non da soli ma con altri, va abitata. A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre stata percepita come l’emblema dell’umanizzazione, il luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia. 
 
Anche in queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola, magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola. Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a tavola si sperimenta anche l’uguaglianza, un’uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella convivialità. 
 
La tavola ha un magistero decisivo per noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne siamo consapevoli? Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti… La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. 
 
È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla, è un’arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni. La condivisione del cibo è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia: le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. 
 
E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l’urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che si ha davanti. Qui si mostra l’ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. 
 
Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione! Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. 
Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l’amore, per rallegrarsi con un amico ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesú, quando voleva consegnare un’immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva all’immagine della tavola e del banchetto. 
 
Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un’immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l’anticamera dell’amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l’umanità, la possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela. Mettiamoci alla loro scuola. 
(fonte: Avvenire 24/11/2015)
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