Lidia Maggi di fronte alla figura di Maria

Maria, la testimone più autorevole di Gesù per la sua capacità di penetrare la Parola

di Lidia Maggi
in “dialoghi” n.242 del giugno 2016 Lidia Maggi

Maria accompagna il credente in un itinerario di ascolto dove vengono, di volta in volta, fornite al discepolo le istruzioni per una fede consapevole. Una vera scuola di discepolato, che, mentre narra le vicende di Maria, dall’annuncio della nascita di Gesù all’oracolo di Simeone, offre a chi legge le chiavi per rimanere nella Parola
La chiamata di Maria

Quando Maria riceve la chiamata è ancora una bambina. Promessa sposa a Giuseppe, attende che il suo corpo fiorisca, fino a diventare donna, per poter passare dalla casa paterna a quella del suo futuro sposo. Maria vive in un contesto difficile, che vede il suo popolo piegato dal giogo dell’ occupazione romana. Probabilmente ascolta i lamenti della sua gente e anche lei, come molti in Israele, attende il Messia che verrà a liberare il suo popolo. Ma Dio sta per agire proprio attraverso di lei per cambiare le sorti della storia. L’angelo saluta Maria con parole importanti, che la turbano e la interpellano: «si domandava cosa volesse dire un tale saluto» (Lc 1,29). Maria vuole capire. Con lei impariamo che Dio non si aspetta da noi l’ubbidienza incondizionata. Troppe donne sono state piegate, ammutolite da una fede che asservisce senza liberare, che mette a tacere ogni dubbio e censura le domande. Dio non chiede una tale fede. Non l’ha pretesa dai grandi uomini come Mosè, Elia, o Abramo. Non la chiede a Maria, la quale discute il progetto divino; e nemmeno alle altre donne. La fede nel Dio che chiama richiede intelligenza e libertà. Il discepolo-tipo, Maria, desidera comprendere appieno prima di dare il proprio assenso. Si confronta, dunque, con Dio, domandandosi come potrà portare avanti un simile progetto: «Come possono avvenire queste cose?» (Lc 1,34). Sa che Dio, quando chiama, fa sul serio e, come i grandi prima di lei, oppone resistenza alla chiamata, riconoscendosi inadeguata. Dio risponde non tanto spiegandole «biologicamente» come rimarrà incinta. Non è questo che Maria chiede: la ragazzina sa già che da lì a poco si unirà al suo sposo. Lei chiede piuttosto a Dio che non la lasci sola e l’accompagni nel percorso che le prospetta.

Dio, infatti, promette di non perderla di vista nemmeno per un momento, di essere la sua ombra e camminare con lei: «Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo sarà la tua ombra» (Lc 1,35). Maria non è incredula, come Zaccaria o Sara: è sconcertata, perplessa, spaventata, ma non incredula. Sa di ascoltare una parola che non si limita ad annunciare fatti futuri ma chiama in causa la sua stessa esistenza e vuole arrivare ad aderire al progetto divino con un sì per la vita. Ecco perché le ultime parole di questa solenne conversazione non sono affidate all’angelo, ma alla sua risposta: «Eccomi, sono la serva del Signore»(Lc 1,38). Dopo essersi interrogata e aver discusso con Dio, Maria risponde positivamente alla chiamata, fino a benedire: «Dio faccia con me come tu hai detto» (Lc 1,38), ovvero: che la parola di Dio si avveri, che quanto Dio sogna diventi realtà in me.

Maria ed Elisabetta: una fede in relazione

 

Maria riceve dall’angelo la notizia che Elisabetta, una sua parente, è incinta. La vergine e la sterile si trovano a vivere sul proprio corpo i segni concreti di una storia gravida di salvezza. La giovane si mette in viaggio per incontrare Elisabetta. In lei c’è l’urgenza dell’araldo, del testimone chiamato ad annunciare il tempo della salvezza. Altri viaggi dovrà compiere Maria, obbedendo a leggi umane, come quella del censimento; ma qui è lei, nella sua piena libertà, a decidere di andare per far visita ad Elisabetta, proprio come l’angelo ha visitato lei. Attraverso la fatica e la fretta del viaggio di una ragazza gravida, vengono tracciati altri elementi dell’identità di Maria: l’ autonomia, il coraggio, l’intraprendenza. Anche questi sono attributi della fede, da riscoprire in ogni vocazione, in particolar modo per quella delle donne.

La fede di Maria non è un’esperienza privata.

Nella visita ad Elisabetta c’è l’esigenza di un riconoscimento comunitario che, prima di passare attraverso il Tempio con le sue forme istituzionali, ricerca il confronto delle donne. Insieme, queste vogliono capire meglio quegli eventi straordinari, così da ascoltare nell’altra la voce di Dio. La lingua di Elisabetta non è rimasta muta, come quella di Zaccaria; il suo cuore non è stato vinto dal pregiudizio e dall’incredulità, dubitando dello status della ragazza. Elisabetta accoglie Maria con parole forti, capaci di lenire ogni preoccupazione. Parole che incoraggiano, benedicono, rafforzano e confermano nella vocazione: «Benedetta sei tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno. Come mai mi è dato che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,43). Parole-abbraccio, che avvolgono di fiducia. Elisabetta accoglie Maria ed è solo a questo punto che la lingua di Maria si scioglie intonando una lode. Maria non ha cantato davanti al Signore dell’universo che è apparso nella sua casa: canta, invece, dopo l’abbraccio di una donna che l’accoglie e la riconosce. Adesso sa che non è più sola: non solo perché lo Spirito del Signore è su di lei, ma anche perché l’accompagnano la stima, l’affetto e la benedizione di un’amica, una mentore, una sorella, una madre spirituale. Donne di diverse generazioni si accolgono reciprocamente e mettono in comune la propria esperienza di fede. Elisabetta comunica ad una giovane vocazione fiducia e accoglienza. Riconosce e conferma la sua chiamata fino a spingerla a proclamare la Parola. Se nelle nostre chiese le giovani vocazioni faticano a trovare una propria collocazione, forse è anche dovuto alla nostra sfiducia nei loro confronti. Fatichiamo a riconoscere e ad incoraggiare nuove chiamate. La giovane Maria ci è maestra, con la sua fede libera e determinata. Accanto a lei c’è Elisabetta, che ci ricorda un ministero sottovalutato: la chiamata ad accogliere giovani fedi, piccole o maestose che siano, per aiutarle a crescere e non farle abortire nella sfiducia e nel disprezzo.

Una fede che proclama la Parola di Dio

Maria, alla fine, canta: un inno liturgico, dove le gesta di Dio sono magnificate dalla voce e dalla vita di questa giovane donna. Nel salmo la scopriamo «donna del sorriso», abitata da una fede gioiosa e appassionata. Maria intona una lode a Dio come fece prima di lei, nell’Esodo, l’altra Maria, col timpano ed il tamburello. Il contesto è solenne, come il linguaggio. Maria si sente autorizzata e incoraggiata da Elisabetta a proclamare la Parola, a proclamare le grandi meraviglie di Dio, in un contesto liturgico. La casa di Elisabetta è il primo cenacolo cristiano dove una giovane donna incinta predica la Parola. Maria è la prima predicatrice della Chiesa, un ministero che, in seguito, verrà destinato solo agli uomini: ma «all’inizio non era così»! Canta, Maria, perché sa di essere beata, come lo sono i poveri a cui Dio volge lo sguardo. È beata perché ha udito la voce di Dio e non ha indurito il suo cuore. È beata perché ha saputo rispondere con serietà al Signore ma anche perché la sua chiamata ha trovato accoglienza in un’amica. Ha imparato che la storia non è abbandonata a se stessa. Dio agisce attraverso piccoli come lei. La storia non è chiusa: Dio è in grado di riaprirla, quando ormai è troppo tardi e si mostra sterile e avvizzita, come il corpo di Elisabetta, come anche quando non è ancora giunto il tempo («l’ora mia non è ancora venuta»). Dio può anticipare l’ora, proprio come in Maria la quale, nonostante il corpo acerbo, si ritrova gravida di vita. Non è mai troppo tardi per Dio, come non è mai troppo presto…

Lasciarsi mettere a nudo dalla Parola

C’è ancora una cosa che, alla scuola di Maria, il discepolo dovrà imparare: su come si accoglie la Parola. Il racconto di Luca, dopo averci narrato la nascita del Messia e l’adorazione dei pastori, ed averci mostrato Maria quale «custode della Parola», prosegue nel tempio di Gerusalemme (Lc 2,22-36). Qui Maria, insieme a Giuseppe e al bambino, incontra Simeone e Anna e ascolta l’oracolo di Simeone rivolto al bambino e alla madre. Egli dice a Maria una frase spesso letta in chiave doloristica, come anticipazione della passione: «E a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Ma la spada che penetra fino in fondo, che taglia in due l’anima e che mette a nudo i cuori, è la Parola di Dio! È come se a un certo punto Dio dicesse a questa discepola che quel rovesciamento del mondo cantato nel «Magnificat» deve avvenire anche dentro di lei. Che, pur essendo la madre di Dio, non è una privilegiata, non è esentata dal fare un percorso di conversione, poiché anche nel suo cuore c’ è una parte alta e una parte bassa che devono essere ribaltate; e quella parola di giudizio, da lei annunciata nel Magnificat, le deve penetrare l’anima e mettere sottosopra il cuore. L’evangelista, dopo averci presentato in sintesi una teologia della Parola incarnata in Maria, dopo averci mostrato come questa agisca in lei fino a renderla discepola del Figlio, mette in scena anche i fallimenti, accomunando la figura di Maria a quella degli altri discepoli. E così, subito dopo gli eventi della nascita di Gesù e l’episodio nel Tempio, troviamo una Maria disorientata dal figlio dodicenne, incapace di comprenderne il comportamento: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco tuo padre ed io angosciati…» (Lc 2,48). Più avanti, la troviamo in difficoltà con la vita nomade di Gesù. Più volte lo cerca per riportarlo a casa (Lc 8,19). Questi fraintendimenti sono un tratto caratteristico della narrazione biblica. Lo sguardo ironico di chi è chiamato a seguire Dio con umiltà impedisce 1′ autocelebrazione. Israele, come anche in seguito i discepoli, si racconta a partire dai propri fallimenti. È l’incomprensione a delineare la figura del vero discepolo, che non si sente mai arrivato, che sperimenta lo scarto tra la chiamata e il proprio vissuto, così da riconoscere di avere ancora bisogno di essere formato e convertito. Proprio perché Maria non si è nascosta, ma si è lasciata mettere a nudo dalla Parola fino a diventare «discepola del Figlio», la incontreremo, dopo la risurrezione di Gesù, nel centro della comunità riunita in attesa dello Spirito (At 1).


Maria in Giovanni

Il vangelo di Giovanni non ci dà informazioni sugli eventi legati alla nascita di Gesù; ci racconta però il segno con cui Gesù inaugura la sua vita pubblica, durante un banchetto di nozze. Quando nel mezzo della festa viene meno il vino, Maria segnala al figlio quella mancanza. «Non hanno più vino»(Gv 2,3): sono le sue prime parole. Ricorderemo quelle più solenni che seguono: «Fate tutto quello che egli vi dirà» (2,5); ma prima ci sono quelle che dicono un’attenzione al mondo, una lettura sapienziale della realtà. Cosa manca? Qual è il bisogno, il desiderio della gente? La parola di Dio non salta questo sguardo storico, proprio perché si fa carne. E Maria ce lo ricorda. Quella di Dio non è prima di tutto parola di giudizio, ma di salvezza. Maria, infatti, non giudica, non dice: guarda che sprovveduti… Il suo è uno sguardo empatico sul mondo, soprattutto quando manca di qualcosa. Come è diverso lo sguardo di molti cristiani, così giudicante sul mondo, pronto a mandare fulmini («Vuoi che chiediamo che un fulmine venga perché non ti hanno accolto?»). Lo sguardo di Maria non è spietato. Ricerca, invece, il bene del mondo, senza rinfacciare. Non dice: «hai bisogno di me, perché altrimenti non ce la fai». Maria ci insegna che non basta ascoltare e fare la Parola: occorre anche uno stile evangelico, che passa attraverso uno sguardo empatico, misericordioso, di cura. Al centro della scena il mondo: la parola che Maria rivolge non è per i discepoli, ma per i servi che si muovono dietro alle quinte. «Fate tutto quello che vi dirà» è una parola che agisce anche fuori dalle chiese. Precedentemente, dicendo: «Non hanno più vino» (2,3), Maria esprime un’invocazione rivolta al figlio, affinché faccia qualcosa. Ma Gesù si irrigidisce: «Che c’è tra me e te o donna? L’ ora mia non è ancora giunta». Maria, nonostante il tono duro della risposta, non si chiude. Non ne fa ragione di scontro personale, reclamando per sé l’ autorità materna. Dice, invece, ai servi di fare tutto quello che lui dirà. E da lì a poco, Gesù agirà ed il vino torna a fluire. In questa storia Maria non è la protagonista, e tuttavia è lei il personaggio-chiave che sollecita Gesù a dare inizio al suo ministero salvifico. È lei che prende l’iniziativa, che esorta, che forza i tempi. È una donna autorevole, per niente servile; dice parole imperative, richiamando all’ascolto. Lei, come il Giovanni Battista, è l’indice puntato verso il Messia. Invita a mettere in pratica la sua parola. Per Maria, ascoltare la Parola significa sollecitare Dio ad agire, anche se non è ancora la sua ora; dunque, ad anticipare i tempi, trasformando la preghiera di Gesù, «Venga il tuo Regno», in passione di vita. Dio, del resto, non ha forse anticipato i tempi nel suo corpo rendendola gravida quando ancora era troppo presto? Perché allora la nostra preghiera non dovrebbe sollecitare Dio ad agire prima dell’ ora? Maria a Cana prega il figlio di agire; e Gesù, sollecitato da questa discepola, si ritrova, suo malgrado, ad anticipare i tempi. Tutto prende il via dall’insistenza di una discepola che ha saputo aprire
una breccia nei tempi di Dio per forzare il Regno. L’evangelo è per chi ha desideri, patisce la ristrettezza del mondo ricercandone la redenzione. Maria, che apparentemente sembra non ascoltare Gesù che le dice: «ma allora non capisci che la mia ora non è ancora venuta?», ci rivela che la Parola è complessa: è un «già» e un «non ancora». Gesù ha sottolineato il «non ancora» del Regno; c’è però anche un «già» a cui Maria si richiama, fiduciosa che «l’ora» è già in azione. Maria è discepola ma anche ermeneuta, interprete della Parola. Non è anche la funzione del discepolo di Gesù quella di riconoscere che il Regno non è ancora giunto e proprio per questo continua ad invocarlo? «Venga il tuo Regno». Quando questa preghiera prende corpo, liberata dall’abitudine e dal rito ripetitivo, il Regno si fa più vicino. La testimonianza di Maria, ricollocata nell’ evangelo, riacquista forza invitandoci a lasciarci fecondare dalla Parola che riapre ciò che è chiuso facendo nuova ogni cosa.
* Lidia Maggi, nata nel 1964, è pastora dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia. Molto impegnata nella divulgazione biblica e nel dialogo ecumenico ed interreligioso, ha pubblicato vari contributi su differenti periodici. Tra i suoi ultimi libri: Quando Dio si diverte. La Bibbia sotto le lenti dell’ironia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2008; Le donne di Dio. Pagine bibliche al femminile, Claudiana, Torino 2009.20142; L’evangelo delle donne, Claudiana, Torino 2010. 20142; Elogio dell’amore imperfetto, Cittadella, Assisi 2010; (con L. Zoia) Amare oggi, Il Margine, Trento 2012; (con A. Reginato) Dire, fare, baciare… Il lettore e la Bibbia, Claudiana, Torino 2012; (con A. Reginato) Liberté, égalité, fraternitè. Il lettore, la storia e la Bibbia, Claudiana, Torino 2014; Giobbe, il dolore del mondo, Cittadella, Assisi 2014.

il vangelo della domenica

 CHI RIMANE IN ME E IO IN LUI PORTA MOLTO FRUTTO

commento al vangelo della quinta domenica di pasqua (3 maggio 2015) di P. Alberto Maggi:

maggi

Gv 15, 1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

In una famosa pagina del profeta Ezechiele, il profeta descrive il legno della vite. Che pregi ha? Nessuno. Il legno della vite è l’unico legno tra gli alberi della campagna con il quale non si può fare nulla; non ci si può fare un oggetto, un attrezzo utile. Il legno della vite è buono soltanto per far passare la linfa vitale ai tralci e produrre frutta. Quindi il legno della vite è il legno inservibile, se non per portare frutto. Ed è a questa immagine del Profeta Ezechiele che Gesù si riallaccia nel famoso discorso della vite e dei tralci, contenuto nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.
Gesù, ancora una volta, rivendica la pienezza della condizione divina. Quando Gesù dice “Io sono”, questo rappresenta la pienezza della condizione divina, perché “Io sono” è il nome di Dio.
Nella cultura d’Israele la vite era immagine del popolo, del popolo di Israele. C’è il famoso cantico d’amore del Signore per la sua vigna, contenuto nel capitolo 5 del Profeta Isaia; anche il Profeta Geremia parla di Israele come di una vite. Bene Gesù dichiara di essere “la vera vite”, quindi ci sono delle false viti. Gesù continua quel processo di sostituzione con le realtà di Israele con la propria persona:
– non la manna dal cielo, ma lui è il vero pane che da vita al popolo; – lui è la vera luce al contrario della legge; – lui è la vera vite, lui è il vero popolo piantato dal Signore.  
E il Padre “è l’agricoltore”. Allora ci sono dei ruoli ben distinti: Gesù è la vite, dove scorre la linfa vitale, il Padre è l’agricoltore. Qual è l’interesse dell’agricoltore? Che la vigna porti sempre più frutto e infatti, scrive l’evangelista, “ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie”. Qual è il significato di questa espressione? L’evangelista sta parlando della comunità cristiana dove c’è un amore che viene comunicato dal Signore, un amore ricevuto dal Signore, e questo amore si deve trasformare in amore dimostrato agli altri. E questo è caratteristico dell’Eucaristia. Nell’Eucaristia si accoglie un Gesù che si fa pane, fonte di vita, per poi essere disposti a farsi pane, fonte di vita per gli altri. Ci può essere il rischio che nella comunità ci sia una persona che assorba questa linfa vitale, assorba questa energia, assorba questo amore, assorba questo pane, ma poi non si faccia pane per gli altri, non trasformi l’amore che riceve in amore per gli altri. E’ un elemento passivo, che pensa soltanto al proprio interesse, a se stesso, e quindi non comunica vita.
Ebbene, non gli altri tralci, e neanche Gesù, ma il Padre, prende e lo toglie, perché è un tralcio che è inutile.
“Ma ogni tralcio che porta frutto”, cioè il tralcio che succhiando questa linfa vitale, quindi nell’Eucaristia il tralcio che ricevendo Gesù come pane si fa poi pane per gli altri, porta frutto.  Dispiace vedere che ancora i traduttori rendono il termine con ‘potare’  che non è quello adoperato dall’evangelista. Il verbo adoperato da Giovanni è ‘purificare’, non ‘potare’. Sono due cose completamente diverse. Cosa significa purificare? Il Padre che ha a cuore che il tralcio porti più frutto sa individuare quegli elementi nocivi, quelle impurità, quei difetti che ci sono nel tralcio e lui provvede a eliminarli. Questo è importante, l’azione è del Padre; non deve essere il tralcio a centrarsi su sé stesso, ad individuare i propri difetti e cercare di eliminarli, perché centrandosi su sé stesso farà un danno irreversibile.
L’uomo si realizza non quando pensa a se stesso, alla propria perfezione spirituale, che può essere tanto illusoria e lontana quanto è grande la propria ambizione; l’uomo deve centrarsi sul dono totale di sé, che è immediato. Allora, in ognuno di noi ci sono dei limiti, ci sono dei difetti, ci sono delle brutte tendenze. Ebbene noi non ci dobbiamo preoccupare. Sarà il Padre che, se vede che questi limiti, questi difetti, queste tendenze sono di impedimento al portare più frutto, lui penserà ad eliminarli, non noi. Perché facendolo noi possiamo andare a toccare quelli che sono i fili portanti della nostra struttura e fare dei danni tremendi.
Allora “Il Padre lo purifica”. Questo da piena serenità; l’unica preoccupazione del tralcio è portare frutto, tutti gli impedimenti a frutti abbondanti ci penserà il Padre, non gli altri tralci, neanche la vite, ma il Padre. Perché? “Perché porti più frutto”.
E dichiara Gesù “Voi siete già puri”, ecco vedete,  quando i traduttori traducono il verbo con ‘potare’ anziché ‘purificare’, non rendono questo gioco di parole che l’evangelista fa tra il verbo ‘purificare’ e l’aggettivo ‘puri’. Quindi prima Gesù ha detto “Lo purifica”, e poi dice “voi siete già puri”. Perché? “A causa della parola che vi ho annunziato”. La parola di Gesù è un amore che si fa servizio. Ciò che purifica l’uomo non è il fatto che gli lava i piedi, ma la disponibilità poi di lavare a sua volta i piedi agli altri. Quindi questa parola, il messaggio di Gesù, un amore che si fa servizio, rende pura la persona.  
Secondo la concezione dell’epoca Dio era nella sfera della santità, della purezza e soltanto chi era puro poteva entrarci pienamente in contatto. Ebbene, l’amore che si traduce in servizio è la garanzia di essere in pieno contatto con il Signore. E Gesù ripete e dice “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.” Quindi Gesù torna di nuovo a insistere che questo amore da lui ricevuto si deve trasformare in amore comunicato, altrimenti si è inutili.
Ritorna Gesù a rivendicare il suo titolo, la condizione divina: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui”, in questo processo dinamico di fusione di Dio – Dio chiede soltanto di essere accolto nella vita del credente, per dilatarne l’esistenza –  “porta molto frutto”. Si da la vita agli altri, più si da e più si riceve. Si ha soltanto quello che si è donato, più il dono della vita agli altri è grande, è illimitato, più la risposta di Dio sarà illimitata.
Poi Gesù avverte: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca”. Questa espressione che abbiamo tradotto con ‘secca’, letteralmente ‘inaridisce’, l’evangelista la prende dal Profeta Ezechiele, quando vede la situazione del popolo, come una vallata piena di ossa secche, nel capitolo 37, indicando il popolo senza Spirito. Ebbene, chi non rimane in Gesù, chi ricevendo questo amore non lo comunica agli altri, si inaridisce, perché, ripeto, si possiede soltanto quello che si dona agli altri. E poi, ecco la garanzia di Gesù, che purtroppo noi nel linguaggio popolare abbiamo un po’ ridimensionato. Tutti quanti conosciamo l’espressione “Chiedete quello che volete e vi sarà dato”, però dimentichiamo le due condizioni che Gesù pone:
– se rimanete in me, quindi se c’è questo amore da lui ricevuto che si trasforma in amore comunicato agli altri  – se le mie parole rimangono in voi, quindi rimangono come indirizzo dell’orientamento della vita, dell’esistenza un amore che si fa servizio per gli altri
A questo punto, solo a questo punto, preceduto da queste due condizioni, Gesù dice “Chiedete quello che volete e vi sarà dato”. Quindi, quando si vive in sintonia con il Signore, quando la vita dell’uomo si fonde con quella di Dio fino a diventare una sola cosa, l’unico che si chiederà sarà il dono dello Spirito, una capacità ancora più grande d’amare. Perché al resto il Padre ci pensa. Il Padre non risponde ai bisogni e alle necessità dei suoi figli, ma li precede. Questo dà tanta sicurezza.
Ed ecco il finale: “In questo è glorificato il Padre mio”. C’era l’immagine che Dio dovesse essere glorificato attraverso opere straordinarie, magnificenze gloriose, no, l’unica maniera per manifestare la gloria di Dio, la rivelazione del suo amore, è un amore che gli assomiglia, “Che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.
L’unica maniera per dar gloria a Dio è manifestare nella nostra vita un perdono, una misericordia, una condivisione che in qualche maniera gli assomiglino.
 

 

a proposito della satira di Charli Hebdo

“ridere è una cosa seria”   

  Lidia Maggi riflette sul massacro parigino di Charli Hebdo

Lidia Maggi

 

 

 

da grande credente ma al tempo stesso da persona che ha un approccio intelligentemente critico con le tradizioni e i simboli religiosi, Lidia Maggi trova nelle stessa bibbia una ‘scuola di ironia’ che ci sollecita ad evitare non solo ogni guerra di religione ma anche ogni contrapposizione religiosamente motivata
“Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio”

 

 la Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio

Nel massacro parigino di Charlie Hebdo, tra le tante vittime, è stata colpita anche la democrazia con il suo diritto alla satira, a poter deridere il potere, ogni potere, anche quello religioso. Qualcuno, in nome di un presunto Dio, ha ucciso un simbolo della libertà, giornalisti inermi, armati solo di una matita.  Ma perché l’accostamento tra satira e religione fa così paura? Perché denuncia e mette in discussione qualcosa che, nell’immaginario collettivo, è ritenuto intoccabile, ovvero il sacro.  Un proverbio recita: «scherza con i fanti, ma lascia stare i santi». Tu puoi addirittura scherzare con l’esercito, il potere costituito, ma non con il sacro, percepito come separato da ciò che è discutibile, opinabile, considerato come assoluto, sciolto da ogni possibilità di confronto.  Questa visione della fede genera atteggiamenti intolleranti verso tutti coloro che, invece, osano pensare che anche il sacro possa essere sottoposto alla critica, sia quella seria, tragica, di chi, nella disperazione, sente il cielo chiuso, come quella più irriverente, ironica, che osa prendere le distanze da un’immagine di Dio troppo granitica o obsoleta.  Il divieto di nominare Dio o farsene immagina non è un interdetto all’ironia e alla satira, o alla critica in generale; piuttosto, è un monito contro gli usi impropri del divino. Anzi, è proprio quel divieto che ci spinge a valorizzare la satira in quanto anti-idolatrica, perché capace di smontare l’immagine fissa che ci facciamo di Dio.  L’’idolo è la contraffazione di Dio. La critica ironica serve a prendere consapevolezza che il posto di Dio lo può prendere l’idolo. E l’idolo non è solo il dio degli altri, è soprattutto il proprio, come nella scena del vitello d’oro e delle altre false rappresentazioni della propria divinità. Questa riflessione sull’idolatria, che attraversa tutta la Scrittura fino alle ultime pagine (»figlioletti, guardatevi dagli idoli» I Giov. 5,21), trova nuovo vigore nel nostro contesto. Dovremmo tornare a riflettere sul senso profondo dell’idolatria, che non è questione di statue – come, qualche volta, banalizza la voce protestante; piuttosto, è la chiamata ad assumersi la fatica di fare i conti con un Dio sempre a rischio di essere sostituito. Insomma, l’immagine fissa del sacro, sottratto ad ogni critica, è messa in radicale discussione dal Dio biblico. Egli è santo, separato; e tuttavia, «Dio con noi, Dio nella storia, fino alla forma più radicale di contaminazione: l’incarnazione.  Nella Bibbia si discute con Dio, e Questi non si sottrae alla critica. Giobbe arriva fino a denunciarlo per vederlo seduto sul banco degli imputati. Anche nella la tradizione dei salmi, la preghiera del credente pio, Dio viene criticato quando non sembra agire e rimane lontano da chi lo invoca.  Non solo la critica seria, ma anche la satira, nella Bibbia, ha diritto di cittadinanza: ad iniziare da quella graffiante dei profeti, con la loro descrizione ironica e vignettistica degli idoli: «hanno occhi e non vedono..»; «l’uomo prende un pezzo di legno lo scolpisce e lo chiama dio».  Le vignette, proprio come queste descrizioni dei profeti, sono sarcastiche perché con pochi tratti devono pungere il cuore, esasperando alcuni aspetti, deformando la realtà, al fine di mettere in evidenza una verità dimenticata. Mettono una maschera proprio per smascherare il potere.  Un intero libro della Bibbia ricorre a questa tecnica e ci regala una descrizione satirica dei potenti: il libro di Ester. I personaggi sono caricature; il potere, apparentemente forte più che mai, è rappresentato come un palazzo di cartone, destinato a crollare grazie all’astuzia di una donna. Tutto è eccessivo, esagerato: i giardini, i banchetti, le leggi e i personaggi, proprio come a carnevale. Non è un caso che, nella liturgia ebraica, il libro di Ester viene letto a Purim, per fare memoria del ribaltamento delle sorti.  La Bibbia è una scuola di ironia, che ci educa a discutere con Dio. E nello stesso tempo, anche Dio è ironico con noi perché ci prospetta punti di vista differenti, mette il nostro mondo sotto-sopra, così che gli ultimi si ritrovano primi! L’ironia è un antidoto ai fondamentalismi perché prende le distanze, insegna a guardare il mondo da altre angolazioni, libera dallo sguardo fisso, idolatrico. Ridimensionando la pretesa di comprendere tutto, apre alla forma di ironia più frequentata nella Bibbia, ovvero l’autoironia. Ed è proprio questo sguardo autoironico che spinge Israele a raccontare la propria nascita non con il pianto delle doglie, ma attraverso il riso. Ride Abramo, nostro padre nella fede, davanti al Signore dell’universo, quando questi gli annuncia un figlio nella sua vecchiaia; e ride anche Sara, nostra madre, che origlia, da dietro la tenda, i discorsi tra i messaggeri divini ed il marito. Anche Dio ride: ed il figlio della promessa, Isacco, porterà questo riso divino inscritto nel suo nome. Noi tutti, figli di Abramo, discendenti di quella coppia originaria, siamo figli di una risata, allo stesso tempo umana e divina.  Insomma, per dirla con Rabelais, «ridere è una cosa seria».

13 gennaio 2015

  http://www.riforma.it/it/articolo/2015/01/13/ridere-e-una-cosa-seria

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