la saggezza umana ed evangelica di p. E. Bianchi

“sui gay la Chiesa è meglio che taccia”

p. Enzo Bianchi

 

 enzo bianchi il priore della comunità monastica interconfessionale di Bose già in passato si era espresso contro “l’ipocrisia religiosa di una chiesa complice con la xenofobia“: questa volta alla sua Chiesa suggerisce, non proprio pacatamente, di “tacere” su questioni delicatissime come l’omosessualità

intervenendo all’Assemblea pastorale diocesana di Bolzano, Enzo Bianchi ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto scalpore: come riferisce l’Adige, parlando dei divorziati risposati il religioso ha spiegato che

“se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto”

non solo:

“in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere”

durissime le parole riservate alla Chiesa sulla questione dell’omosessualità:

“Se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile – ha chiosato Bianchi – nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere”.

 

i migranti: i nostri maestri

 il magistero dei migranti

Lidia Maggi

Lidia Maggi

 la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di quanti sono stati costretti a viaggiare in cerca di un futuro. Accogliere i migranti oggi è un atto di solidarietà ma anche una necessità teologica.
Il SIGNORE disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (Genesi 12, 1)

 

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della terra che tu, o Signore, mi hai data!» (Deuteronomio 26, 5-10)
 
Di che cosa abbiamo bisogno per comprendere la Bibbia? Ho provato a porre questa semplice domanda alla mia comunità. Le risposte ricevute oscillano da ingredienti spirituali, come la fede e l’amore, a strumenti più concreti come un traduttore, qualcuno che la spieghi, ecc. Tutti elementi utili, alcuni indispensabili.
 
Oggi, tuttavia, vorrei soffermarmi su una categoria di persone che, nella chiesa, è chiamata ad aiutare i credenti a comprendere meglio la Parola. Parlo dei dottori che Paolo, nella chiesa, nomina al terzo posto, dopo gli apostoli e i profeti (I Cor. 12, 28). Ma che cosa c’entrano i dottori con il cammino, la via? Per intuire il legame che intercorre tra i dottori della chiesa e la fede come viaggio è necessaria un’altra uscita, dal momento che abbiamo trasformato la figura dei dottori in persone erudite e piene di titoli di studio. È evidente che, per comprendere la Bibbia, occorrano persone preparate, se non altro perché la Parola di Dio si consegna come testo scritto, letterario. Mi chiedo, tuttavia, se Paolo, parlando di dottori, pensasse ai nostri teologi preparati nelle università o nei seminari. Per non cadere in anacronismi interpretativi, occorre che ogni generazione si interroghi su chi siano, oggi, i profeti della chiesa e i suoi dottori.
 
Forse uno dei criteri di discernimento per identificare il senso del carisma del dottore può essere ricercato nella capacità di saper aiutare chi crede, o chi cerca di credere, a cambiare prospettiva, a modificare il proprio sguardo per provare a vedere il mondo dal punto di vista della narrazione biblica. I dottori sono coloro che ci sollecitano a comprendere che il nostro punto di vista non coincide con quello della Bibbia; e non soltanto perché viviamo una distanza cronologica e geografica con un testo composto nell’arco di differenti secoli in una regione del mondo che non abitiamo. Piuttosto, perché la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di coloro che sono costretti a lasciare la propria terra per le ragioni più diverse: carestie, persecuzioni, una chiamata, una cacciata…
 
La storia biblica non è solo la vicenda di un popolo migrante, ma è soprattutto la storia raccontata dal punto di vista dei migranti.
 
Un migrante non lascia la propria terra per turismo, per curiosità, ma per ricercare una vita vivibile. Nella saga di Giuseppe, Giacobbe dice ai suoi figli in piena carestia: «Perché state a guardarvi l’un l’altro? Ho sentito dire che c’è grano in Egitto, scendete là a comprarne, così vivremo e non moriremo» (Gen. 42, 1-2). L’immobilismo porta alla morte; mettersi in viaggio apre a possibilità di vita. Il migrante affronta il rischio del viaggio alla ricerca di una nuova possibilità, quando tutte le vie gli appaiono sbarrate. A volte è meglio affrontare il deserto, piuttosto che rimanere su una terra dove i propri figli sono condannati a morte e il lavoro è solo schiavitù.
 
Non è anche di questo che parla l’evento fondatore della storia di Israele, l’esodo? Fuggire dal genocidio, dalla schiavitù, per sottrarsi alla persecuzione. Meglio il deserto, che una terra apparentemente ricca ma segnata da un governo ingiusto.
 
La Bibbia, in quanto storia di migranti, affronta tutte le questioni che i migranti ancora oggi affrontano, quando arrivano in una nuova terra. A iniziare dalla lingua. La Bibbia è uno strano testo, composto da una miscellanea di lingue: ebraico, aramaico, greco. Noi non ci poniamo il problema della traduzione solo per rendere fruibile questo libro a chiunque voglia leggerlo. La questione è presente nel testo stesso. Come mai le parole di Gesù, che parla in aramaico, un dialetto ebraico, vengono riportate dai suoi testimoni in greco, ovvero tradotte in una lingua straniera? Al di là della risposta tecnica, mi interessa qui segnalare che, nello stesso testo biblico, esiste un passaggio da una lingua a un’altra. Tema che non affronta una cultura stanziale. Chi nasce, vive e muore nello stesso posto, non si trova sollecitato a dover ricercare una mediazione linguistica che, invece, è di vitale importanza per tutti coloro che emigrano. Il migrante deve imparare la lingua del posto, oltre ai diversi usi e costumi. Si trova di continuo a dover definire i propri confini culturali, tra desiderio di integrazione (come Israele in Egitto, ai tempi di Giuseppe), scelta del nascondimento (come la regina Ester, che non rivela la sua identità religiosa e culturale) o differenziazione (come Israele al tempo di Mosè: «Lascia andare il mio popolo!» – come nella vicenda di Daniele e dei suoi amici, alla corte di Babilonia, che rifiutano di nutrirsi con il cibo regale). Tutto il libro del Levitico, pur presentando leggi arcaiche a noi perlopiù incomprensibili, può essere percorso con questa categoria: la necessità di un popolo, in una terra abitata da altri popoli, di differenziare la propria identità – un po’ come succede al protestantesimo in Italia che, sentendosi accerchiato da un contesto culturale a maggioranza cattolico, differenzia se stesso definendo la propria fede in contrapposizione all’altro. Una medesima strategia connota il Levitico, il libro della santità, della separazione: persino questo testo lo si comprende differentemente, se lo si considera un codice di migranti, preoccupati di perdere la propria memoria culturale.
 
È dal punto di vista del migrante che è raccontata la vicenda della terra promessa, poiché quel territorio è già occupato da altra gente, non è libero, vuoto. Questo genera conflitti, tensioni, che devono essere affrontati per tentare una convivenza non sempre facile.
 
Il Dio biblico è il Dio dei migranti. Li chiama a uscire, a lasciare la propria terra (Abramo), li forza a scappare da una situazione di morte (l’esodo) e si mette in viaggio con loro (i patriarchi e le matriarche, ma anche con il popolo in esilio, a Babilonia). Il protagonista divino si sente più a proprio agio in case precarie, nelle tende dei beduini, che nelle mura del tempio. È quanto intuisce il saggio Salomone, per quanto sia proprio lui a costruire un tempio per Dio: «Ma è pro- prio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita!» (I Re 8, 27).
 
Per comprendere questo Dio e la sua Parola, narrata dalla prospettiva dei migranti, abbiamo bisogno di metterci in viaggio, di diventare a nostra volta migranti; oppure abbiamo bisogno di dottori, uomini e donne che ci aiutino a leggere la realtà dalla prospettiva degli stranieri. I dottori della chiesa sono oggi proprio i migranti che con la loro stessa esistenza preservano la memoria dello sguardo biblico. Accoglierli tra noi non è solo un atto di solidarietà, ma una necessità teologica: abbiamo bisogno del loro magistero!
 
Noi che rischiamo di farci un’idea del mettersi in cammino sui tapis roulants delle nostre chiese statiche, abbiamo bisogno di chi ha sperimentato realmente che cosa significhi essere dislocato, come i nostri padri, aramei erranti (Deut. 26, 5), come Gesù che non aveva dove posare il capo (Mt. 8, 20).
da Riforma n. 38 del 9 ottobre 2015

intervista a p. A. Maggi: “come sconfiggere la paura e la morte”

Alberto Maggi "Siamo tutti schiavi del più grande tabù"

SCONFIGGERE LA MORTE
“Siamo tutti schiavi
del più grande tabù”

la malattia, le cure, la guarigione quando sembrava non ci fosse speranza

il teologo “eretico” smonta attraverso l’esperienza personale la paura che l’uomo ha esorcizzato

p.Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona
                                                                          “chi non muore si rivede”
“Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre”.

Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
“È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa… Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte.

Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto”.

Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
“Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentrebiosindica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovaniscedi giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai”.

E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
“Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa”.

Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria?
“Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie  –  che sono sempre le più pericolose  –  mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione”.

Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
“Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo “.

Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
“La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo”.

Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
“Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà”.

Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
“Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce”.

il vangelo della domenica

 

“TU LO DICI: IO SONO RE”

commento al vangelo della trentaquattresima domenica del tempo ordinario (22 novembre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 18, 33b-37

[In quel tempo] Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Il vangelo di Giovanni ci presenta il primo interrogatorio di Pilato nei confronti d Gesù. Pilato già conosceva Gesù, aveva contribuito al suo arresto mandando le sue guardie. Leggiamo il vangelo. Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?” La domanda di Pilato sembra esprimere tutta la sua sorpresa perché gli hanno detto che questo Gesù è l’atteso messia, il re dei Giudei, colui che mediante una rivolta avrebbe dovuto buttare via tutto il sistema di potere, avrebbe dovuto cacciare via i romani, ma evidentemente la persona di Gesù non dà l’idea di un bellicoso rivoluzionario per cui Pilato esprime tutta la sua sorpresa. Ebbene Gesù non gli risponde. Gesù, l’imputato, fa lui le domande al giudice che lo deve giudicare. Infatti Gesù rispose: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?” Gesù non risponde ma invita Pilato a ragionare con la propria testa. Come già ha fatto con la guardia che lo ha schiaffeggiato – Gesù gli ha detto “Se ho fatto del male dimostrami dov’è il male, se non ho fatto del male perché questa violenza?” – così Gesù cerca di convincere Pilato a ragionare con la propria testa. Ma la domanda di Gesù provoca la reazione furibonda di Pilato che reagì dicendo: “Sono forse io Giudeo?” In questa espressione c’è tutto il disprezzo del procuratore verso questo popolo che lui doveva governare.  Ed ecco la denuncia: “La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?” Sono tutti contro Gesù. Giovanni nel su prologo l’aveva scritto: venne tra i suoi ma i suoi non lo hanno accolto. Ma non solo coloro che detengono il potere – i sommi sacerdoti si può capire perché il messaggio di Gesù toglie il potere perché il Dio di Gesù non è un Dio di potere, ma amore che si mette a servizio degli uomini – ma anche la gente perché sono dominati e questo dominio dell’istituzione religiosa dà loro sicurezza. Quindi sono tutti contro Gesù. Ed ecco la domanda: “Che cosa hai fatto?” Pilato già lo sa perché le autorità gli hanno detto: “Se non fosse un malfattore non te lo avremmo consegnato”. Ed ecco che finalmente Gesù risponde alla prima domanda (Sei il re dei Giudei?), rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo”. Gesù non sta contrapponendo il cielo alla terra, non due mondi differenti, sta dicendo che il suo regno non è di questo mondo, cioè non assomiglia ai sistemi di questo mondo. Questo non significa che il suo regno non sia in questo mondo, quindi Gesù non sta contrapponendo il cielo alla terra. E lo dice. “Se io mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di qui”. Gesù non ha servitori in quanto lui è servitore. Il suo regno è quello dal quale è esclusa ogni forma di potere, di dominio, e quindi di violenza e di sopraffazione. Quindi in regno di Gesù non di questo mondo, è in questo mondo, ma è una società alternativa. Pilato, ancora più sconcertato, gli chiede: “Dunque tu sei re?” Ebbene Gesù tronca questo argomento della regalità che non gli interessa e risponde: “Tu lo dici: io sono re”, cioè “questo è il tuo parere”. Poi Gesù tronca perché non è interessato a parlare della regalità, ma riprende a parlare di quella che è la sua missione. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”. Nel discorso con Nicodemo Gesù aveva contrapposto chi fa la verità con chi fa il male. Quindi essere nella verità, fare la verità, significa fare il bene. Se nella propria vita non si mette come valore assoluto il bene dell’uomo e non si orienta la propria vita per procurare questo bene dell’uomo, la voce del Signore non può essere compresa. Si può ascoltare ma senza comprendere. Quindi Gesù non dice: “Chi ascolta la mia voce si mette poi nella verità” ma il contrario. Per ascoltare la voce del Signore bisogna fare una scelta: orientare la propria vita al bene dell’uomo. Naturalmente tutto questo è incomprensibile per Pilato perché rappresenta il potere. Infatti Pilato, come Gesù non è interessato al discorso della regalità, lui non lo è a quello della verità. E chiude dicendo: “Che cos’è verità?”

 

il commento al vangelo della domenica

 

IL FIGLIO DELL’UOMO RADUNERA’ I SUOI ELETTI DAI QUATTRO VENTI

commento al vangel odella domenica trentatreesima del tempo ordinario (15 novembre 2015) di p. Alberto Maggi: 

p. Maggi

Mc 13, 24-32

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Il capitolo 13 del Vangelo di Marco è estremamente complesso. L’evangelista ne è consapevole al punto che al versetto 14 dice “chi legge”, cioè il lettore, “capisca”. Vediamo allora di capire quello che l’evangelista ci trasmette. In quei giorni, dopo quella tribolazione… la tribolazione è stata la distruzione del tempio e di Gerusalemme, che Gesù ha annunziato. E qui Gesù, rifacendosi ai testi dei profeti, in particolare il profeta Isaia, usa il linguaggio profetico della caduta dei regimi oppressori. E dice Gesù: “Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce”. Il sole e la luna in quella cultura erano divinità adorate dai popoli pagani. Quindi le divinità pagane perdono il loro splendore. Perché? Gesù prima aveva detto: “E’ necessario che il vangelo, la buona notizia, sia proclamata a tutti quanti”. Allora il 1 processo di liberazione che è iniziato con la caduta di Gerusalemme, comincia a dare effetti. L’annuncio della buona notizia con la luce, lo splendore del vero Dio, mette in ombra tutte le false divinità. Ecco gli effetti: “E le stelle cadranno dal cielo”. Cosa si intende per “stelle”? A quell’epoca tutti coloro che detenevano un potere, il re, l’imperatore, il faraone, si consideravano di condizione divina, per cui stavano metaforicamente nei cieli, considerati come stelle. Allora Gesù, attraverso l’evangelista, ci dice che tutti quei regimi, quei potenti, che basano il loro potere su false divinità, dal momento che c’è l’annuncio del vangelo di Gesù, queste false divinità perdono il loro splendore e queste stelle incominciano a cadere una dopo l’altra. Qui il riferimento di Gesù è all’oracolo contro Babilonia del profeta Isaia, dove il profeta contro il re di Babilonia dice: “Come mai sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora? Volevi dire ‘salirò nel cielo’ e invece sarai sprofondato negli inferi”. Quindi l’effetto positivo dell’annunzio della buona notizia di Gesù è che tutte le strutture di potere, ogni regime basato sul potere, cadrà per la liberazione dell’uomo. “E le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”. Nei cieli, secondo l’evangelista, c’è il Padre, il figlio dell’Uomo e gli angeli. Le potenze sono poteri che usurpano la condizione divina, e incominciano ad essere sconvolte. Quindi Gesù assicura: “Allora vedranno”. Gesù non dice “vedrete”, ma “vedranno”. Chi è che vedrà? I potenti che cadono dal loro trono. “Il figlio dell’Uomo venire sulle nubi”. Le nubi indicano la condizione divina. “Con grande potenza e gloria”. Nel momento in cui le potenze sono sconvolte, le stelle incominciano a cadere, si manifesta la potenza e la gloria nel Figlio dell’Uomo. E Gesù aggiunge che “Egli manderà gli angeli”, cioè quanti lo hanno aiutato a realizzare la sua opera, “e radunerà i suoi eletti”. La caduta dei persecutori sarà il trionfo dei perseguitati. “Dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.” Tutto questo per un nuovo inizio. E poi Gesù continua: “Dalla pianta di fico”… Il fico già è apparso in questo vangelo come immagine del tempio, dell’istituzione religiosa che era tutto splendore ma niente frutto, tutto foglie e niente frutto. “Imparate la parabola”. E’ una parabola particolare, potremmo tradurre con “quella parabola”. Ma qual è la parabola? E’ quella che Gesù ha pronunziato contro l’istituzione religiosa, i sommi sacerdoti, è la parabola dei vignaiuoli omicidi ai quali Dio toglierà la vigna. “Quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi”… quindi Gesù si rivolge alla sua comunità … “quando vedrete accadere queste cose, sappiate che è vicino, è alle porte”. Che cosa è vicino? Che cosa è alle porte? Il regno di Dio. Nel momento che cade Gerusalemme e cade il tempio, questo grande ostacolo per andare a predicare la buona notizia anche ai pagani; dal momento che con l’annunzio della buona notizia tutti i poteri che si basano sul dominio, sullo sfruttamento dell’uomo incominciano a cadere, ecco che si inaugura il regno di Dio.  E Gesù rassicura: “In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”. Sappiamo che la distruzione di Gerusalemme sarà nell’anno 70. La rovina di Gerusalemme permetterà l’entrata dei pagani nel regno di Dio. “Il cielo e la terra passeranno”, cioè tutto passerà, “ma le mie parole non passeranno”. Quindi la certezza assoluta che se la comunità annunzia e vive la buona notizia di Gesù, ogni sistema ingiusto, ogni sistema oppressore cadrà perché tutti i potenti, tutti i regimi hanno i piedi d’argilla e prima o poi sono destinati a cadere. E poi questo brano finisce con un’immagine di grande fiducia. “Quanto però a quel giorno”, è il giorno della morte di Gesù, “o a quell’ora”, l’ora della persecuzione e morte dei suoi discepoli, “nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Cosa ci vuol dire Gesù? Non è importante conoscere il momento, ma sapere che è nelle mani del Padre. Quindi questa pagina si chiude con un invito a fidarsi pienamente dell’azione del Padre. Quindi è una pagina pienamente positiva, certamente non una pagina che tende a mettere paura alle persone, quanto a liberarle e soprattutto è una pagina che incoraggia la piccola comunità dei credenti che si trova impotente di fronte ai grandi regimi che governano il mondo.

 

 

commento al vangelo della domenica

“QUESTA VEDOVA, COSI’ POVERA, HA GETTATO NEL TESORO PIU’ DI TUTTI GLI ALTRI”

 commento al vangelo della domenica trentaduesima del tempo ordinario (8 novembre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Mc  12, 38-44

[In quel tempo], Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete.
Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Nel tempio di Gerusalemme, dopo aver attaccato la dottrina degli scribi – gli scribi erano i teologi ufficiali, il magistero infallibile dell’istituzione religiosa giudaica – dopo aver attaccato la loro dottrina, Gesù attacca la loro condotta. E’ quanto ci scrive l’evangelista Marco nel capitolo 12 dal versetto 38 al 44.
Vediamo. Diceva loro… Gesù sta insegnando alla folla … nel suo insegnamento. Ecco è importante questa indicazione, è un insegnamento che è sempre valido per le comunità dei credenti. Quella che segue non è tanto una polemica contro un mondo giudaico dal quale la comunità dei credenti si era ormai distaccata, ma un monito – purtroppo inascoltato – perché all’interno della comunità cristiana non rinascano gli stessi perversi atteggiamenti che Gesù denuncia.
Nel suo insegnamento Gesù diceva: “Guardatevi…” Guardatevi significa state attenti, state in guardia. E’ strano, Gesù mai invita a stare in guardia dai peccatori, dai miscredenti, ma sempre dalle persone religiose. Sono queste pericolose per la fede delle persone.
E da chi mette in guardia Gesù? Dagli scribi. La loro parola era considerata come avente lo stesso valore della parola di Dio, le massime autorità religiose. Ebbene Gesù dice: “State in guardia da questi tipi, da questi individui”. E poi Gesù offre tre indicazioni per saperli riconoscere, in modo che questo resti valido per le comunità di tutti i tempi.
La prima: amano passeggiare in lunghe vesti. Sono persone che sono nulla. Hanno il vuoto dentro, ma allora mascherano questo loro nulla, questo loro vuoto con addobbi, indumenti, paramenti religiosi per coprire la nullità che sono.
Gesù aggiunge “Ricevere i saluti nelle piazze” che significa essere ossequiati, riveriti, essere riconosciuti per il loro grado religioso, “avere i primi seggi nelle sinagoghe”. Nelle sinagoghe il primo seggio era quello più lontano dal popolo, e soprattutto era in alto, una posizione dalla quale controllare soprattutto dominare la popolazione con la loro dottrina. E, quando c’è da stare con la gente si prendono le distanze, stanno lontano e in alto, quando c’è da mangiare sono ai primi posti, infatti “i primi posti nei banchetti”, dice Gesù, cioè quelli più vicini al padrone di casa, dove si viene serviti prima e nutriti meglio.
E poi ecco l’accusa, “Divorano”, cioè spogliano, “le case delle vedove”. Per vedova si indica tutti coloro che non hanno un uomo che le protegga, le persone bisognose. Anziché comunicare vita alle persone più bisognose, loro le spogliano, quindi comunicano morte.
Attenti a queste persone che, anche se apparentemente, con tutti i loro paramenti, abiti religiosi, distintivi, sembrano indicare una vicinanza al Signore, il Dio della vita, in realtà sono agenti di morte. E l’unica volta che Gesù condanna delle persone lo fa con queste autorità religiose. Gesù continua: “Essi riceveranno una condanna più severa”.
Qual è la condanna? Che Gesù toglierà la vigna che Dio aveva loro affidato, cioè toglierà il popolo dalle loro grinfie, dalla loro avidità. E poi l’evangelista ci presenta un Gesù che spiega quello che ha anticipato verbalmente. Seduto di fronte al tesoro, che è in vero Dio del tempio, il luogo dove venivano poste le offerte, il vero Dio adorato dagli scribi, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte.
I ricchi sostengono un’istituzione che non denuncia l’ingiustizia della ricchezza, ma addirittura l’appoggia. Quindi i ricchi sostengono un sistema del genere. Ma, venuta una vedova povera … per comprendere quello che segue dobbiamo sapere che, secondo il libro del Deuteronomio, nel capitolo 14, dal versetto 28, leggiamo che con i proventi del tempio bisognava mantenere le vedove e gli orfani, cioè le persone che più avevano bisogno.
Qui adesso vedremo che succede il contrario, sono stati gli scribi che, nella loro avidità, fanno sì che siano le vedove a mantenere questo tempio, questa sanguisuga che è il tesoro del tempio contrabbandato come luogo della presenza di Dio.
Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo, le monete minime, di infimo valore. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli… Gesù i suoi discepoli li deve sempre chiamare, sono lontani. Non è tanto una distanza fisica, quanto spirituale. E disse loro: “In verità … “ Se prima l’evangelista ha parlato di insegnamento, ora mette la parola “verità”, quindi sono insegnamenti che sono validi per sempre anche per la comunità cristiana.
E Gesù non fa un elogio della vedova, ma piange questa vittima dell’istituzione religiosa, dell’avarizia, della cupidigia dell’autorità religiosa, che sfrutta il popolo per i propri interessi. Certo non lo dà a vedere, sono furbi, sembra che tutto si faccia a gloria di Dio, in realtà si fa soltanto per la sua pancia.
“In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”, cioè la sua vita intera.
La donna, la vedova, è immagine del popolo sfruttato in nome di Dio. Quindi non è una lode, ma un lamento. Poi, non c’è nel brano liturgico, ma bisogna leggerlo per completarlo. Poi uno dei discepoli attira l’attenzione di Gesù sulla magnificenza del tempio e dice: “Maestro, guarda che splendide pietre, che splendide costruzioni”. E poi la sentenza di Gesù: “Un’istituzione che sfrutta i poveri per il proprio interesse, un’istituzione che, anziché comunicare vita la toglie, non ha diritto di esistere”.
Ed ecco le parole di Gesù: “Non rimarrà qui pietra su pietra che non sia distrutta”.

il commento al vangelo della domenica

 

solennità di TUTTI I SANTI – 1 novembre 2015

RALLEGRATEVI ED ESULTATE, PERCHE’ GRANDE E’ LA VOSTRA RICOMPENSA NEI CIELI

commento al vangelo di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mt 5,1-12

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

La nuova relazione d’amore tra Dio e il suo popolo ha bisogno di una nuova alleanza. E’ quanto ci presenta Matteo nel suo vangelo al capitolo 5 con le beatitudini di Gesù. L’evangelista presenta Gesù collocato su “il” monte. L’articolo determinativo indica che no né un monte qualunque, ma il monte già conosciuto. Vuole rappresentare il monte Sinai dove Mosè ricevette da Dio l’alleanza con il popolo di Israele. 1 Ebbene ora Gesù non riceve da Dio, ma lui – che è Dio e l’evangelista lo ha presentato come “il Dio con noi” – propone una nuova alleanza con il popolo. Mosè, il servo del Signore, ha imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore basata sull’obbedienza. Gesù, che non è il servo del Signore, ma il figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro padre basata sull’accoglienza e la pratica del suo amore. E poi Gesù apre bocca ed elenca le beatitudini. L’evangelista ha curato in maniera particolare questo testo, sia per il numero delle beatitudini che sono otto. Perché otto? Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè l’ottavo giorno e questo nel cristianesimo primitivo, questa cifra “otto” ha sempre indicato la vita capace di superare la morte. Il numero otto era il numero della risurrezione. Allora l’evangelista, che ha in mente il decalogo di Mosè, presenta l’alternativa delle beatitudini. Mentre l’accoglienza e la pratica del decalogo garantiva lunga vita in questa terra, l’accoglienza e la pratica delle beatitudini garantisce una vita talmente forte, talmente potente che non sarà interrotta neanche dalla morte. Ma non solo, l’evangelista addirittura calcola con quante parole, secondo lo stile letterario del tempo, comporre il suo scritto. Ebbene sono esattamente 72. Perché proprio 72? Perché secondo il libro del Genesi era il numero delle nazioni pagane conosciute. Mentre il decalogo era esclusivo per il popolo di Israele, le beatitudini sono per tutta l’umanità. Poi il decalogo si apriva con l’affermazione, la rivendicazione di Dio quale unico Signore del suo popolo, ecco perché la prima delle beatitudini non è uguale alle altre, ha il verbo al presente. E’ la scelta del Padre come unico Dio. Nel decalogo poi si proseguiva con tre comandamenti, che erano esclusivi del popolo di Israele, ed erano gli obblighi assoluti nei confronti di Dio. Nelle beatitudini non ci sono obblighi nei confronti di Dio, perché Gesù è il Dio con noi, Dio si è fatto uomo e c’è da andare con lui e come lui verso l’umanità. Ecco allora che al primo posto vengono elencate situazioni di sofferenza dell’umanità con la possibilità di soluzione e d’aiuto da parte di Dio e del suo popolo. Nel decalogo si continuava con sette comandamenti nei confronti degli uomini, ebbene nelle beatitudini non ci sono questi doveri nei confronti egli uomini, che sono già stati espressi, ma l’azione di Dio nella comunità che accoglie le beatitudini. E allora, accogliendo le beatitudini, sarà una fioritura di atteggiamenti diversi che emergeranno non come qualità di qualcuno, ma come atteggiamenti riconoscibili da parte di coloro che, mediante l’accoglienza delle beatitudini, saranno a loro volta misericordiosi come il Padre è misericordioso, saranno puri di cuore, saranno costruttori di pace. E, infine, l’ultima beatitudine, che ha il verbo al presente come la prima, l’accoglienza e la fedeltà alle beatitudini non porterà al plauso delle persone, ma porterà alla persecuzione. Ma come la scelta della prima beatitudine, quella della povertà, cioè la decisione di condividere gioiosamente e liberamente con gli altri, non comporta effetti negativi perché Dio si prende cura di queste persone, così ugualmente l’ultima beatitudine, quella della persecuzione, è attenuata dal fatto che Dio si prende cura di costoro. 2 La beatitudine iniziale si riallaccia all’ultimo dei comandamenti. L’ultimo dei comandamenti qual era? Non desiderare le cose degli altri. La prima beatitudine è “desidera che gli altri abbiano le tue stesse cose”.

Questa è la novità del regno che Gesù è venuto a proporre.

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

il commento al vangelo della domenica

“RABBUNI’ CHE IO VEDA DI NUOVO”

  commento al Vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (25 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc  10, 46-52

[In quel tempo], mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Gesù ha rimproverato i suoi discepoli usando un’espressione tratta dal profeta Geremia, dove il Signore dice: “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite”.

Stiamo trattando il vangelo di Marco e l’evangelista presenta la questione di avere orecchie e non udire con il terzo annuncio della passione. Nonostante Gesù avesse indicato chiaramente che a Gerusalemme sarebbe stato ammazzato, due discepoli, Giacomo e Giovanni, gli chiedono i posti più importanti. Quindi hanno le orecchie ma non ascoltano Gesù.
Nell’episodio che segue, siamo al capitolo 10 di Marco, dal versetto 46, viene illustrata la cecità di questi discepoli. Vediamo l’evangelista.
E giunsero a Gerico .. Gerico è la prima città conquistata da Giosuè all’ingresso della terra promessa e ora è diventata una terra di oppressione, dalla quale bisogna uscire.
Mentre partiva da Gerico … l’evangelista per indicare la partenza adopera un verbo tecnico che si adopera nel libro dell’Esodo, quindi la terra promessa si è trasformata ormai in terra di schiavitù dalla quale bisogna allontanarsi. Insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo. Ecco c’è  uno strano personaggio che viene presentato prima con il termine greco “il figlio di Timeo”, e poi con Bartimeo, che non è il nome del figlio di Timeo, ma bar-Timeo significa “il figlio di Timeo” in aramaico.
E’ strana questa doppia presentazione di un individuo il figlio di Timeo, Bartimeo. Timeo in greco significa “onore”, potremmo quindi tradurre con l’ “onorato”. Perché questo? L’evangelista vuole raffigurare attraverso questo individuo i due discepoli Giacomo e Giovanni, che non solo sono sordi, ma sono anche ciechi.
Gesù, dopo il fallimento della sua predicazione nella sinagoga di Nazareth aveva detto: “Un profeta non è disonorato se non nella sua patria”. Ebbene mentre Gesù è disonorato i suoi discepoli cercano l’onore. Allora il figlio di Timeo, Bartimeo, viene ripetuto due volte perché l’evangelista vuole confermare che sta trattando di Giacomo e Giovanni, che erano chiamati anche “i figli di Zebedeo”.
Che era cieco. Ecco la denuncia tratta dal profeta Geremia “Avete occhi e non vedete”. L’espressione sedeva lungo la strada è apparsa già al capitolo 4 al versetto 15 nella parabola del seme gettato lungo la strada, e arrivano gli uccelli, immagine del satana, del potere, che lo mangiano. Quindi incomprensione del messaggio di Gesù.
A mendicare. Sentendo che era Gesù il Nazareno … Il Nazareno significa colui che proviene dalla regione dei rivoluzionari, cominciò a gridare. Grida esattamente come il posseduto nella sinagoga: “Gesù figlio di Davide, abbi pietà di me!” Ecco il motivo della sua cecità: non vede Gesù il figlio di Dio, colui che per amore viene a dare vita al mondo, ma vede Gesù il figlio di Davide, colui che, attraverso la violenza, la morte, la distruzione, conquistò il potere, inaugurò il regno di Israele.
Ecco il motivo della cecità. I discepoli accompagnano Gesù ma non lo seguono perché hanno nella loro testa l’immagine di un messia trionfatore, appunto il figlio di Davide. Molti lo rimproveravano… sono i veri seguitori di Gesù, che vogliono liberare questi discepoli da questa mentalità, perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” E qui addirittura scompare il nome Gesù. Figlio di Davide è colui che doveva restaurare la monarchia.
Gesù si fermò. Gesù non va verso il cielo, ma deve essere il cieco ad andare verso Gesù. Gesù si fermò e dise: “Chiamatelo!” Il verbo chiamare appare per ben tre volte, il che nel linguaggio ebraico significa “completamente”. Chiamare si chiama qualcuno che è lontano, sono questi discepoli che accompagnano Gesù ma gli sono lontani, non lo seguono.
Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!” Egli, gettando via il suo mantello .. il mantello nel linguaggio simbolico indica la persona, quindi gettare via il mantello significa rompere finalmente con questa ideologia del figlio di Davide, è la sua conversione. Balzò in piedi e venne da Gesù. Gesù non è andato dal cieco, è il cieco che deve andare da Gesù e, andando da Gesù, riacquista la vista.
Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?” Per far comprendere che in questo episodio l’evangelista sta narrando di Giacomo e Giovanni, in bocca a Gesù mette le stesse parole e la stessa domanda che aveva rivolto ai due discepoli, “che cosa volete che io vi faccia”.
Questa volta “che cosa vuoi che io faccia per te”. E il cieco gli rispose… finalmente non lo chiama più figlio di Davide, ma Rabbunì, espressione che si adoperava nei confronti della divinità. “Rabbunì che io veda di nuovo!” Non era sempre stato cieco, c’è stato evidentemente un periodo nella sua vita in cui vedeva, poi ha perso la vista perché gli è stata tolta da una ideologia contraria al progetto di Dio sull’umanità.
E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Gesù non ha compiuto nessuna azione nei confronti del cieco. E’ stato il cieco che ha abbandonato la sua vecchia posizione, si è convertito, ed è andato verso Gesù. E subito vide di nuovo, quindi una volta ci vedeva, e finalmente, ecco il verbo tecnico della sequela di Gesù, lo seguiva nella strada, la strada che porterà poi alla passione a Gerusalemme.

 

 

 

 

il commento al vangelo della domenica

IL FIGLIO DELL’UOMO E’ VENUTO PER DARE LA PROPRIA VITA IN RISCATTO PER MOLTI

commento al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario (18 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc  10, 35-45

[In quel tempo], si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole  diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Il nemico di Dio secondo i vangeli non è tanto il peccato, da cui il Signore può liberare, ma il potere. Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il potere è un dominio che li sottomette. E’ quanto emerge in questo brano del vangelo, il capitolo 10 di Marco dal versetto 35 al 45. C’è stato il terzo, cioè il definitivo annunzio della morte e passione di Gesù a Gerusalemme.
Ma i discepoli sono sordi e ciechi. Animati dall’ambizione e dalla vanità non comprendono le parole di Gesù. Scrive l’evangelista, Si avvicinarono a Gesù … il fatto che gli si avvicinano significa che questi discepoli sono lontani, lo accompagnano ma non sono capaci di seguirlo.
Giacomo e Giovanni, ecco sono i due discepoli definiti “i figli del tuono”, autoritari, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro …”, Maestro significa uno da cui si apprende, ma loro non lo ascoltano perché non lo seguono. “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Dopo il secondo annunzio della passione Gesù aveva detto: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.
Ebbene qui questi discepoli vogliono farsi primi senza essere ultimi. “Che cosa volete che io faccia per voi?” Gli risposero: “Concedici di sedere, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.
Pensano che Gesù vada a Gerusalemme, conquisti il potere e vogliono i posti d’onore, i posti più importanti, uno a destra e uno a sinistra per governare insieme a lui. Quindi non hanno compreso assolutamente nulla di quello che Gesù per la terza e definitiva volta ha annunziato. Ed ecco la risposta di Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo…” il calice è immagine della sorte, della morte che Gesù affronterà. “Ed essere battezzati …” e qui diverse volte si usa il verbo battezzare che non ha naturalmente il significato sacramentale che poi prenderà, ma significa “essere immersi” quindi con questo significato si comprende meglio. “Ed essere immersi nell’immersione in cui io sono immerso”.
Quindi Gesù viene travolto dagli avvenimenti, proprio come un’immersione che lo travolge. Con tanta presunzione, gli risposero: “Lo possiamo”. Di fatto, scriverà poi l’evangelista, che tutti i discepoli al momento della prova, al momento dell’immersione del battesimo, fuggiranno.
E Gesù disse loro: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati”, quindi anche loro andranno incontro alla persecuzione e alla morte, ma “sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Chi sono coloro per cui è stato preparato? Coloro che al momento della prova saranno capaci di seguirlo. E tra questi non ci sono questi discepoli. Coloro che sono capaci di caricarsi la croce e seguire Gesù. La richiesta dei due discepoli provoca lo sdegno degli altri dieci. Scrive Marco: “Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni”. Non è che si scandalizzano, è che hanno tutti quanti la stessa aspirazione di essere i primi, i più importanti. Allora si arrabbiano con questi due discepoli, loro compagni, che li hanno preceduti.
Il fatto che l’evangelista ricordi il numero dieci allude al grande scisma che portò poi alla fine di Israele quando alla morte di Salomone il figlio Roboamo, di fronte ai capi delle tribù che gli chiedevano di essere meglio del padre, rispose con tracotanza e prepotenza e da quel momento dieci tribù abbandonarono il regno di Israele che restò soltanto con due tribù. Quindi fu lo scisma e la rovina della popolazione.
E quindi l’evangelista allude al fatto che l’ambizione, la vanità che causano la divisione nella comunità cristiana, possono portarla alla rovina. Allora Gesù li chiamò a sé … se li chiama è perché sono lontani … e disse loro: “voi sapete che coloro i quali sono considerati”… sono considerati non è detto che lo siano … “ … i governanti delle nazioni dominano su di esse”. Gesù ha una brutta immagine dei capi, sono dei tiranni. “E i loro capi le opprimono”, spadroneggiano su di loro. E per tre volte Gesù dirà: “Tra voi però non è così”. Nessuna imitazione delle strutture di potere vigente all’interno della società è possibile all’interno della comunità cristiana. Al suo interno non esistono dinamiche di potere, dove c’è chi comanda e chi obbedisce, ma dinamiche familiari dove gli uni vivono per il bene e la felicità degli altri.
Allora Gesù per tre volte lo sottolinea “Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore”, il servitore è colui che liberamente e volontariamente, per amore, si mette a servizio degli altri. E Gesù non esclude la possibilità di essere primi. Dice: “E chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”, cioè al livello più infimo della società. Perché questo? Perché Gesù è il figlio di Dio, Dio lui stesso, e Dio è amore che si mette a servizio degli uomini.
E Gesù lo conferma dicendo: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, cioè in liberazione per molti. Con Gesù Dio non chiede di essere servito ma si mette a servizio degli uomini. Quanti vogliono essere in comunione con questo Dio devono avere come distintivo il servizio liberamente esercitato per amore.

tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore

il commento di p. Agostino dall’ ‘inferno’ di una situazione di violenza istituzionale, di repressione di diritti, di disumanizzazione in nome di norme fissate per tutelare sempre noi stessi

agostino

Abbassarsi, farsi piccoli. Per noi discepoli di Gesù dovrebbe essere la “strada maestra”, non dico scontata, non lo è per nessuno, quella di accettare anche la logica della “sconfitta” per amore.      E’ impegnativo per tutti, perché sappiamo bene quanto è innato in ognuno di noi il desiderio di primeggiare, di vincere, del riconoscimento, dell’ebbrezza del successo, del potere.  Questo non solo nelle sfere alte, ma anche nei contesti normali della vita: famiglia, lavoro, scuola, società, associazionismo, volontariato, chiesa, comunità religiose. Nessuno spazio umano è immune da questa tentazione. Per noi cristiani, però la logica del Vangelo è l’antidoto perché il nostro servizio sia almeno più sano, attento..dovremmo avere gli anticorpi in grado di capire e seguire lo Spirito del “servitore”.

Due settimane fa circa, un rappresentante dei Centri Sociali di Pisa (ateo dichiarato), mi ha rispolverato una bella lezione, come un flash che mi illumina questa pagina del Vangelo di oggi. 

Eravamo insieme quei giorni dello sgombero del campo della Bigattiera, giorni intensi e turbolenti, cupi, a volte con tensioni come è facile immaginare, di forte sofferenza perché decine di famiglie Rom rischiavano di finire in strada, senza un tetto sicuro. Abbiamo toccato con mano l’arroganza di chi amministra: “ i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.”
I Rom, gli amici dei Centri Sociali, tutti eravamo più o meno consapevoli che sarebbe stato molto difficile riuscire a bloccare o rimandare lo sgombero, ma ciò non ha impedito di tentare l’impossibile, eravamo appesi tutti ad un fragile filo di speranza. Ma lo sgombero, alla fine è arrivato.
A fine giornata il commento di questo mio amico è stato: “ Stare dalla parte dei Rom significa accettare di essere perdenti.” Che sintesi perfetta dei Vangeli di questi domeniche.
Noi credenti accettiamo di stare con i perdenti?
Ho apprezzato la presenza di questi giovani dei Centri Sociali, discreta a fianco dei Rom, silenziosa e attenta. Chi cercava di intercedere o mediare con le Forze dell’Ordine, chi intratteneva i bambini con dei giochi, mentre le ruspe (targate PD) demolivano le loro povere baracche e roulotte..sì, una presenza “perdente ed inefficace” ma quanta “simpatia”. Una mamma Rom piangeva davanti la sua baracca, in attesa della sua demolizione e l’abbraccio silenzioso di una ragazza di un centro sociale, non credo solo per consolarla, mi ha commosso quell’abbraccio nella medesima sconfitta: il tuo dolore è anche il mio, siamo sconfitti insieme!
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza.” (1° lettura di Isaia).
Oggi sono tanti i gruppi ecclesiali che propongono e organizzano conferenze, convegni, dibattiti sui temi che papa Francesco affronta con la sua semplicità francescana e con coraggio: sui poveri, sui migranti, sulle periferie, sulla Chiesa in uscita, sulla Pace.. ma nessuno era presente in quei giorni di timore e di sgombero. Perché? Nessuna presenza di Chiesa, neanche di quella cosi detta “impegnata”. I Rom soli con i ragazzi dei Centri Sociali e con soli due esponenti politici locali che hanno tentato anche loro di impedire lo sgombero di queste famiglie con tantissimi bambini.
Da anni, anche con altri amici, riflettiamo su questo silenzio, sulla distanza che ancora c’è tra la Chiesa e il mondo dei Rom. Le ragioni possono essere differenti e molteplici, e in gran parte anche vere, ma ce n’è una riconducibile al Vangelo di questa domenica: temiamo di apparire perdenti! I discepoli stanno con Gesù, ma lo seguono a distanza perché hanno timore di perdere il loro onore, la Croce è una minaccia troppo vergognosa e deludente.
Gesù chiede l’abbassamento, i discepoli vogliono essere innalzati, cercano il piedistallo a fianco del Padre..noi oggi non siamo così sfacciati, ci siamo fatti un po’ più furbi: sì, stiamo con i deboli (gli scarti della società, i poveri, i migranti..), ma da forti. Accettiamo di soccorrerli, di aiutarli a condizione che imparino la nostra lezione, che cambino secondo quel copione che i “capi” ci mettono in mano e che poi pone noi sul piedistallo dei buoni e dei bravi.
Gesù invece insegna ai suoi di non aver paura di stare con i perdenti, di non preoccuparsi di perdere la faccia, ma di credere e abbracciare (anche se ci tremano a volte le ginocchia) che il suo Vangelo è veramente un annuncio di vita nuova..ma vista con gli occhi dei perdenti.

 

il sinodo secondo p. Alberto Maggi

chiesa, omosessuali e coppie di fatto

il sinodo secondo p. Alberto Maggi

 Alberto Maggi     p. Maggi

Alberto Maggi analizza i temi scottanti che si stanno discutendo all’interno del Sinodo e suggerisce un ritorno alle fondamenta della religione cattolica perché

“l’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia…”


Nel Sinodo in corso la Chiesa di papa Francesco vuole trattare importanti temi riguardanti la famiglia. L’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia. Una Chiesa dove ci sono voluti due millenni per ammettere che nel matrimonio oltre la procreazione dei figli è importante anche il mutuo amore dei coniugi (Gaudium et Spes 50), dovrebbe con tutta umiltà tacere su temi verso i quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo e che, quando li ha voluti trattare, ha causato tremendi danni. Seguendo le indicazioni di papa Francesco, di vedere la Chiesa come un ospedale da campo, si spera che i Padri sinodali seguano il cuore e il buon senso, canali preferiti dallo Spirito santo, e adoperino l’unico linguaggio universalmente riconosciuto, quello dell’amore misericordioso.

Per questo i Padri dovrebbero tornare alle sorgenti cristalline della Scrittura, troppo spesso ignorata o strumentalizzata per essere di supporto a strampalate dottrine tanto assurde quanto disumane (come quella di imporre ai divorziati risposati di vivere come fratello e sorella). La conversione della Chiesa al Vangelo di Gesù farebbe emergere che il problema, così aspramente dibattuto, della comunione da concedere ai divorziati risposati, semplicemente non esiste. La difficoltà non riguarda infatti il secondo matrimonio, ma il significato stesso dell’eucaristia. Nei vangeli appare chiaramente che l’eucaristia non è un premio concesso a quanti lo meritano, ma un dono per i bisogni delle persone: meriti non tutti li possono avere, ma tutti sono bisognosi. Gesù ha cercato di far comprendere ai duri teologi del suo tempo che la medicina e il medico sono per i malati e non per i sani, e che non occorre purificarsi per accogliere il Signore, ma è accoglierlo nella propria vita quel che purifica.

Altro tema scottante, finora sempre evitato, è quello delle unioni omosessuali. Su questo argomento era più logico e comprensibile l’atteggiamento della Chiesa pre-conciliare: gli omosessuali erano tutti peccatori e quando morivano finivano all’inferno per omnia sæcula sæculorum. Le cose si sono complicate con la morale post-conciliare: no, non sono peccatori per il fatto di essere omosessuali, ma per il manifestarlo (come dire a una pianta che può crescere, ma non può fiorire). La soluzione? Anche in questo caso la castità (gira e rigira si finisce sempre lì, sui genitali). La castità, scelta che la Chiesa riconosce essere un carisma, ovvero un dono del Signore per quanti liberamente e volontariamente la scelgono, diventa un obbligo imposto. Il rifiuto dell’omosessualità si basa sul fatto che nella Bibbia si legge che Dio maschio e femmina li creò (Gen 1,27). Nessuno mette in dubbio quest’ asserzione: gli omosessuali non sono un altro sesso, bensì maschi e femmine che orientano la propria affettività su persone dello stesso sesso. I mali della società non sono causati da chi si ama, ma da chi si detesta.

L’AUTORE

maggi Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

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