il commento al vangelo della domenica

 NESSUNO HA UN AMORE PIU’ GRANDE DI QUESTO: DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI 

commento al vangelo della domenica sesta di pasqua (10 magio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

 

 

 

 

Gv 15, 9-17

 

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Il segno distintivo di un credente, di un cristiano, è una gioia piena, traboccante, da poter essere comunicata agli altri. E Gesù, in questo brano del Vangelo, ce ne dice il perché.
Vediamo. Scrive l’evangelista: “Come il Padre ha amato me”. Dio ha amato il figlio, Gesù, comunicandogli il suo spirito, cioè la sua stessa capacità d’amore. “Anch’io ho amato voi”, lo spirito, l’energia, la capacità, la forza d’amore che Gesù ha ricevuto dal Padre, lui la comunica a quanti lo accolgono. “Rimanete nel mio amore”; l’amore Gesù lo ha manifestato nel capitolo 13 lavando i piedi ai suoi discepoli. Il servizio è l’unica garanzia di rimanere nell’amore del Signore. L’amore del Signore, è vero, è credibile, quando si trasforma in atteggiamenti di servizio nei confronti degli altri. L’amore, quindi, non rimane un sentimento, ma un atteggiamento concreto che rende più bella, più leggera la vita dell’altro.  
E qui Gesù afferma “Se osserverete i miei comandamenti”. Lui ha lasciato un unico comandamento, “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Le attuazioni pratiche, concrete di questo unico comandamento, quindi tutte le volte che questo comandamento diventerà realtà attraverso forme nuove, inedite, di servizio, di collaborazione, di condivisione, di generosità, questo per Gesù equivale ai ‘comandamenti’.
Ed ecco l’annunzio di Gesù “Vi ho detto queste cose”, cos’è che Gesù ha detto? Qui siamo al cap. 15, alla metà, nella prima metà Gesù ha paragonato il Padre al vignaiolo. Qual è l’interesse del vignaiolo? Che la vigna porti sempre più frutta abbondante. Quindi è il vignaiolo che ci pensa, che cura, protegge, elimina quegli elementi nocivi che impediscono al tralcio di portare più frutto. Allora “vi ho detto queste cose”, quali sono queste cose che Gesù ha detto? Di non preoccuparsi di nulla; l’unica preoccupazione del credente, del tralcio, è di portare più frutto, e amare sempre di più. Alla sua vita non ci deve pensare perché ci pensa – e qui il cambio è favorevole al credente – ci pensa direttamente il Padre. Quindi l’invito di Gesù è di camminare nella vita sentendo sempre alle proprie orecchie un Padre che ti sussurra: “Non ti preoccupare, fidati di me”.
Questa è la radice della gioia; “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia” – è la gioia stessa di Gesù, e Gesù è Dio, quindi una gioia divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La caratteristica del credente è la gioia, una gioia che non dipende dalle circostanze della vita, se le cose mi vanno bene o mi vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono, questa gioia è interiore e viene da questa profonda esperienza. Il Padre si occupa di me perché io ho deciso di occuparmi degli altri.
Quindi l’esperienza di sentirsi profondamente amato, questa è la fonte della gioia.
E, torna a ripetere Gesù, “Questo è il mio comandamento”. Gesù sottolinea che è il SUO comandamento, per contrapporlo a quelli di Mosè. La norma di comportamento nella comunità di Gesù è l’unico comandamento, quello dell’amore e, infatti, ripete “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”.
E aggiunge: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Qui non significa soltanto il gesto estremo, supremo, del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Quindi tutta l’esistenza dell’individuo è orientata verso il bene dell’altro.
A questo punto Gesù – ed è la prima volta nel Vangelo – dichiara che i suoi discepoli sono i suoi amici: “Voi siete miei amici”. Mosè, il servo di Dio, aveva instaurato una relazione fra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza, Gesù, che è il Figlio di Dio, propone un’alleanza non tra dei servi, ma tra dei figli, e non con un Signore, ma con un Padre. Quindi la proposta che ci fa Gesù è una relazione di Figli con il Padre basata sulla somiglianza. Bene, questa relazione porta all’amicizia con Gesù. E Gesù in maniera enfatica dice “Non vi ho mai chiamato servi” – la traduzione dice “non vi chiamo più servi”, ma in realtà Gesù MAI ha chiamato i suoi discepoli ‘servi’, il testo greco è enfatico dice “no, non vi ho mai chiamato servi!”
La relazione di Gesù con i suoi discepoli non è quella del Maestro con dei servi, ma una relazione di amicizia. E, alla conclusione di questo brano, “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perché 2
andiate e portiate frutto”. Il ‘portare frutto’ è condizionato dall’ ‘andare’. Non è un rimanere statici, rimanere fermi ad attendere che gli altri vengano da noi, ma è ‘andare’. E dove bisogna andare? Seguire Gesù. E Gesù è il santuario visibile dell’amore di Dio che si dirige verso gli esclusi da Dio. Quindi tutte quelle persone che dalla religione si sentono escluse e si sentono rifiutate, questo è il campo della missione del credente.
E’ lì che si porta molto frutto. Se c’è questo, ci assicura Gesù, tutto quello che chiederemo al Padre, nel suo nome – nel nome non significa usare la formula ‘per Cristo nostro Signore’, ma nella misura in cui ci identifichiamo con lui e che assomigliamo a lui – stiamo sicuri che il Padre ce lo concede.
Questa è la radice e la fonte della gioia.

 

il vangelo della domenica

IL BUON PASTORE DA LA PROPRIA VITA PER LE PECORE 

commento al vangelo della quarta domenica di pasqua (26 aprile 2015) di P. Alberto Maggi:

maggi

Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

L’immagine di Gesù come Buon Pastore  è indubbiamente quella più conosciuta e più amata dai cristiani, una immagine carica di tanti, tanti significati. Eppure è strano che quando Gesù si presenta come tale, come Buon Pastore, i capi giudei si arrabbiano con lui, lo ritengono un pazzo e alla fine cercheranno di lapidarlo. Siamo noi che abbiamo capito tutto di questa immagine o sono stati i giudei che hanno capito e l’hanno rifiutata?
Vediamo cosa ci dice l’evangelista Giovanni. Anzitutto Gesù si presenta rivendicando la pienezza della condizione divina. Quando nel Vangelo di Giovanni Gesù afferma “Io sono”, questo rappresenta il nome divino. Quando Mosè nel famoso episodio del roveto ardente chiese a quell’entità che si manifestava, il nome, Dio non rispose dando il nome, perché il nome delimita una realtà, ma rispose dando un’attività che lo rende riconoscibile. Rispose “Io sono colui che sono”. E la tradizione ebraica ha sempre interpretato questa espressione, questa risposta del Signore come colui che è sempre vicino al suo popolo. Al tempo di Gesù, quindi,  con l’espressione “Io sono” si indicava Dio. Allora Gesù rivendica la condizione divina.

E afferma: “Io sono” – non Il Buon Pastore – ma “il Pastore Buono”. Qual è la differenza? L’evangelista non sta parlando della bontà di Gesù, quando l’evangelista si deve riferire alla bontà di Gesù adopera il termine greco “agatos” (Agatos), da cui il nome Agata, che significa ‘bontà’.
Qui, invece Gesù, dichiara che lui è il Pastore, ed usa il termine greco “kalos”, da cui calligrafia, bella scrittura, che significa ‘il bello’, che significa ‘il vero’. Quindi Gesù non sta indicando la sua bontà, ma sta indicando qualcosa di diverso, qualcosa di più importante. Cosa significa il Pastore Vero? C’era stata una profezia nel Libro di Ezechiele, al cap. 34, dove il Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del gregge, pensavano soltanto a loro stessi. E allora, li minaccia il Signore, “verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge”. Quindi il Signore sarà l’unico vero pastore del popolo. Ebbene, dichiara Gesù, questo momento è arrivato. Ecco perché questo suscita le ire dei capi religiosi, perché si sentono spodestati da Gesù, che li chiama ladri, si sono impadroniti di ciò che non è loro, il gregge, e omicidi.
Allora, il Pastore, quello vero, quello ‘per eccellenza’ è identificato da Gesù nella sua persona. E qual è la caratteristica che lo rende riconoscibile come il Pastore Vero? Dice Gesù che “da la vita per le pecore”. Allora qui Gesù supera la profezia di Ezechiele. Mentre per il Profeta Ezechiele il pastore proteggeva, si prendeva cura del suo gregge, con Gesù il pastore arriva al punto di dare la vita per le sue pecore, quindi si supera.
Poi Gesù continua la figura del pastore a quello che non considera come un cattivo pastore, ma un mercenario. Chi è il mercenario? Il mercenario è colui che agisce per proprio tornaconto. L’evangelista, lo ricordiamo sempre, in queste pagine non entra in polemica con un mondo, quello ebraico, nel quale la comunità cristiana si è ormai irrimediabilmente separata, distaccata, ma è un monito per la comunità cristiana affinché non ripeta gli stessi errori. Quindi nella comunità cristiana, chi agisce esclusivamente per il proprio interesse, per il proprio tornaconto, per il proprio prestigio, Gesù non gli riconosce nessun titolo, nessuna carica, se non quella di essere il mercenario.
Questa espressione “io sono” viene ripetuta in questo Vangelo, in questo brano, per ben tre volte – il numero tre, secondo la simbologia ebraica, significava ciò che è completo. Quindi Gesù rivendica la pienezza della condizione divina e il suo essere Pastore. Perché Gesù può affermare di essere Pastore? Perché lui è l’Agnello. Solo chi è disposto a dare la vita per gli altri, questi può essere il Pastore del gregge. E, dichiara Gesù, che lui “conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui”. Qual è il significato di questa espressione? C‘è una comunicazione intima, crescente, traboccante d’amore tra Gesù e il suo gregge, cioè tra Gesù e i suoi discepoli, i credenti, che è simile – dice Gesù – a quella del Padre con lui.
“Così come il Padre conosce me, io conosco il Padre e do la mia vita per le pecore”. C’è una dinamica di un amore ricevuto da Dio, che si trasforma in amore comunicato agli altri. Più questa misura di amore ricevuto e comunicato è crescente, più si arriva a realizzare un’unica realtà di un Dio che non assorbe le energie degli uomini ma che comunica loro le sue, un Dio che si vuol fondere con l’uomo per dilatarne l’esistenza e farne l’unico vero santuario. Infatti, dichiarerà Gesù tra poco, “Le altre pecore che non provengono da questo recinto… “. Gesù è venuto a liberare le persone, cos’è il recinto? Il recinto è   qualcosa che ti da sicurezza, però ti toglie la libertà. Allora Gesù dichiara che lui è venuto a portare un processo di liberazione crescente per l’umanità che non riguarda soltanto le persone che sono rinchiuse nel recinto della religione, ma in tutti quei recinti che impediscono la libertà.
Allora afferma Gesù “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, – lui è venuto a liberare le pecore dal recinto dell’istituzione giudaica – “anche quelle io devo guidare”. Il verbo ‘dovere’ è un verbo tecnico adoperato dagli evangelisti che indica il compimento della volontà divina. Quindi è volontà di Dio un processi di liberazione. La religione ha un fascino perché ti da sicurezza però ti toglie la libertà. Ti da sicurezza perché quando entri nell’ambito della religione devi soltanto obbedire, devi soltanto osservare, ma questo ti mantiene in una condizione infantile, di immaturità; invece Gesù vuole portare la persona alla piena maturità, alla piena crescita.
“Ascolteranno la mia voce”, la voce del Signore non si impone mai, ma si propone. Come si fa a distinguere la voce del Signore? Mentre le autorità religiose, siccome sono le prime a non credere nel loro messaggio, lo devono imporre, Gesù, che è cosciente che il suo messaggio è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro, gli basta offrirlo, e le pecore, il gregge, i credenti, questo lo capiscono.
“E diventeranno un gregge e un pastore”. In passato, per un errore proprio di traduzione, per aver confuso il termine ‘recinto’, ‘ovile’, probabilmente ad opera di S. Girolamo, la traduzione latina era “un solo ovile e un solo pastore”. Di qui la pretesa della Chiesa per secoli, per tanti e tanti secoli, fino al Concilio Vaticano II, di essere l’unico ovile nel quale c’era la salvezza. Da qui lo slogan ‘fuori dalla Chiesa non c’è salvezza’.
Gesù non è venuto a togliere le persone e le pecore dall’ovile, Israele, per rinchiuderle in un altro recinto più sacro, più bello. No! Gesù è venuto a dare la piena libertà: Un gregge, un Pastore. Cosa vuol dire Gesù? L’unico vero santuario nel quale da ora in poi si manifesterà la grandezza e lo splendore dell’amore di Dio, sarà Gesù e la sua comunità. Mentre nell’antico santuario le persone dovevano andare e molte ne erano escluse, nel nuovo santuario, è il santuario stesso che andrà in cerca degli esclusi dalla religione.

 

il commento al vangelo della domenica

 

CRISTO PATIRA’ E RISORGERA’ DAI MORTI IL TERZO GIORNO 

commento al vangelo della terza domenica di pasqua (19 aprile 2015) di P. Alberto Maggi

maggi

 

Lc 24, 35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Se nessun evangelista ci descrive il momento della risurrezione di Gesù, tutti in modi diversi ci danno indicazioni su come le comunità di tutti i tempi possono fare l’esperienza del risuscitato. Il brano che oggi esaminiamo è al capitolo 24 di Luca, dal versetto 35.
E’ la conclusione dell’episodio conosciuto come quello dei discepoli di Emmaus. In questo brano possiamo distinguere  cinque momenti importanti che sono indicazioni preziose per le comunità dei credenti di tutti i tempi. La prima è che Gesù viene riconosciuto nel momento dello spezzare del pane. E’ un’allusione all’Eucaristia dove Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono e poi sono capaci a loro volta di farsi pane, cioè alimento di vita, spezzando la loro vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
In questa dinamica di amore ricevuto e amore comunicato si fa l’esperienza del Cristo risuscitato. Quindi la prima indicazione: Cristo si riconosce nello spezzare del pane.
La seconda è che quando Gesù si manifesta, e questa è una caratteristica di tutti gli evangelisti, si pone sempre in mezzo. Gesù non si mette né in alto, né davanti, il che avrebbe creato una gerarchia tra chi gli è più vicino. Gesù si mette in mezzo e tutti i discepoli sono attorno. C’è una uguaglianza di relazione con lui. Gesù in mezzo non attrae verso se, non assorbe le energie dei suoi, ma comunica loro le sue e li spinge per quello che è un mandato.
E quando Gesù si manifesta, non augura la pace, non dice “la pace sia con voi”, ma dona la pace, che rappresenta quello che concorre alla pienezza della felicità degli uomini. Nel brano in questione i discepoli sono sconcertati perché per loro Gesù è morto e non sanno spiegare come se lo ritrovano vivo, allora Gesù vuol far comprendere loro che non è uno spirito, ma una persona che ha la condizione divina.
La condizione divina non annulla la fisicità della persona, ma la dilata e la trasfigura. E’ in questo senso che poi San Paolo nella prima lettera ai Corinti dirà: “Si passa da un corpo animale a un corpo spirituale”. E per questo l’immagine che l’evangelista ci dà di Gesù, che prende il pesce arrostito e lo mangia.
Per comprendere quello che sta accadendo l’evangelista poi mette quest’espressione strana: Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi”. Come sarebbe “quando ero ancora con voi?” C’è in questo momento, ma adesso lo è in una maniera differente, quindi la possibilità dell’esperienza del Cristo risuscitato è per il credenti di tutti i tempi in una maniera naturalmente differente.
Poi Gesù apre la mente alle scritture. Come fa Gesù ad aprire la mente alle scritture? Lo ha fatto già con i discepoli di Emmaus interpretandole. Le scritture vanno lette con lo stesso spirito con cui sono state scritte, cioè l’amore di Dio per l’uomo. Allora per comprendere le scritture bisogna mettere come valore assoluto nella propria esistenza l’amore assoluto di Dio per l’umanità.
Questo fa comprendere la scrittura. Ecco perché l’evangelista dice: Allora aprì la loro mente per comprendere le scritture.
E infine come abbiamo detto Gesù non assorbe i discepoli per sé, non li attrae, ma comunica la sua forza e li spinge fuori. Ed ecco il mandato finale. Inviare tutti i popoli, si intendono i popoli pagani, a predicare la conversione, il cambiamento di vita. La conversione nei vangeli significa un cambio di vita radicale nel proprio comportamento, nella scala dei valori, di non vivere più per sé, per i propri bisogni, ma per il bene e i bisogni degli altri.
Questo atteggiamento di radicale rottura con il proprio passato e orientamento della propria vita al bene degli altri ottiene il perdono dei peccati. Dice Gesù: “la conversione per il perdono dei”, cioè la cancellazione de peccati,  non come è stato tradotto “la conversione e il perdono dei peccati”.
Gesù con una nota polemica aggiunge: “Cominciando da Gerusalemme”. L’evangelista adopera il termine sacrale Ierusalem, che indicava l’istituzione religiosa. Ebbene per Gesù l’istituzione religiosa, Gerusalemme, la equipara ai popoli pagani. Anch’essa ha bisogno di conversione per ottenere il perdono dei peccati

 

il commento al vangelo della domenica

 

 

“OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’ “

commento al vangelo della seconda domenica di pasqua (12 aprile 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Gv 20, 19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Le prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”. Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace.
Nel termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro subito il perché devono essere felici, infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli.
Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità. Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”.
Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo. L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità.
Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore. E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista. Cosa vuol dire Gesù? Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti.
La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il  male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte.
A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso. Come mai Tommaso era assente? I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù. Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù. Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere.
E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!”
Non stiamo negando il fatto, significa che è troppo bello. Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica. E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli.
Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”. Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”. Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno  che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare.

il commento al vangelo della domenica

 

 

DIO HA MANDATO IL FIGLIO PERCHE’ IL MONDO SI SALVI PER MEZZO DI LUI

commento al Vangelo della quarta domenica di quaresima (15 marzo 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 3,14-21

In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo:  «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Nel dialogo con il fariseo Nicodemo, capo dei Giudei, Gesù si rifà ad un episodio conosciuto della storia di Israele contenuto nel Libro dei Numeri.
Al capitolo 3, versetto 14 l’evangelista scrive: “«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto»”; i serpenti erano stati inviati da Dio per castigare il popolo secondo lo schema classico di “castigosalvezza/perdono”. In Gesù invece c’è soltanto salvezza.
“«Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo»”, Gesù si riferisce alla sua futura morte in croce e parla del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha la pienezza della condizione divina. “«Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna»” – credere nel Figlio dell’uomo significa aspirare alla pienezza umana che risplende in questo figlio dell’uomo.
Per la prima volta appare in questo vangelo un tema molto caro all’evangelista, cioè quello della vita eterna. La vita eterna non è, come insegnavano i farisei, un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una qualità di vita già nel presente. E si chiama “eterna” non tanto per la durata senza fine, ma per la qualità indistruttibile.

E questa vita eterna non si avrà in futuro, ma si ha già. Chiunque da adesione a Gesù, quindi aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù.
“«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»”, il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che offre, che arriva addirittura a offrire se stesso. “«Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»”.
La vita eterna non si ottiene, come insegnavano i farisei, osservando la legge, cioè un codice esterno all’uomo, ma dando adesione al Figlio dell’uomo. E Gesù appare qui come il dono dell’amore di Dio per l’umanità. Dio è amore che desidera manifestarsi e comunicare. E Gesù è la massima espressione di questa manifestazione e comunicazione di Dio. “«Dio infatti non ha mai mandato il Figlio nel mondo per condannare»”, anche se il verbo qui non è condannare, ma “«giudicare il mondo»”.
Di nuovo qui Gesù sta parlando con un fariseo, demolisce le attese di un messia giudice del popolo. Quindi il Figlio non è venuto per giudicare il mondo, “«ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»”. Dio è amore e in lui non c’è né giudizio né condanna, ma c’è soltanto offerta di vita.
“«Chi crede in lui non è giudicato»”, chi crede in lui non va incontro a nessun giudizio, “«ma chi non crede è già stato giudicato»”. E’ l’uomo che si giudica. E vediamo perché … “«Perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»”. E’ l’uomo che si giudica rifiutando l’amore che Dio gli offre; colui che agisce contro la vita rimane nella morte.
E infatti Gesù continua, “«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo»”, la luce è immagine della vita, “«ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagie»”. Chi opprime gli uomini non accetterà mai un messaggio che lo porterà poi a servire. Ma quello che è importante è che qui Gesù si riferisce – e sta parlando a un fariseo, all’osservante della legge, della dottrina – alle opere, non al credo o all’ortodossia.
Non è la dottrina che separa da Dio, ma la condotta. Per questo Dio non offre dottrine, ma pienezza di vita. “«Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate»”. Gesù si rifà a quella che è l’esperienza comune. Il delinquente, chi agisce male, non ama i riflettori, non ama la luce, ma si rintana nelle tenebre. Ebbene di fronte a un’offerta di pienezza di luce, chi fa il male si rintana ancora di più nelle tenebre e ne rimane intrappolato.
“«Chi invece fa la verità…»”. In contrapposizione a fare il male, Gesù parla di “fare la verità”. La verità non va creduta, diventando una dottrina, ma va fatta. Ecco perché Gesù in questo vangelo non dirà che lui ha la verità, ma che lui è la verità. Chi ha la verità, in base a questa verità, a questa dottrina, si sente in grado di giudicare, condannare e dividersi dagli altri, a differenza di chi è nella verità. Cosa significa invece “essere nella verità?”
Se è in contrapposizione con il “fare il male”, essere nella verità significa “fare il bene”, inserirsi nel dinamismo creatore di Dio che ama la sua creatura e vuole che il bene della sua creatura, il bene dell’uomo, sia il valore più importante nell’esistenza dei suoi figli. Quindi “«chi fa la verità»”, significa colui che ha messo il bene dell’uomo come valore principale della sua esistenza, “«viene verso la luce»”, più si ama e più la persona diventa luminosa perché risplende la stessa luce di Dio. “«Perché appaia chiaramente che le sue opere sono fatte in Dio»”.
Le sue opere sono fatte in Dio perché Dio è colui che fa il bene dell’uomo. Quindi invita a fare la verità, a inserirsi nel suo stesso dinamismo creatore che mette il bene dell’uomo come valore assoluto. Chi ha la verità si divide dagli altri; chi è nella verità si unisce e comunica vita a tutti quanti.

 

il commento al vangelo della domenica

 LA LEBBRA SCOMPARVE DA LUI ED EGLI FU PURIFICATO

commento al vangelo della sesta domenica del tempo ordinario (15 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi: 

maggi

Mc 1,40-45

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

La buona notizia che Gesù comunica all’umanità è che Dio non emargina alcuna persona. E’ la religione che divide le persone tra puri e impuri, meritevoli e no, ma non Dio. Come dirà Pietro negli Atti degli Apostoli, “Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun individuo”. E’ questo il tema che ci presenta l’evangelista Marco nel capitolo primo con l’episodio del lebbroso. “Venne da lui un lebbroso”, il personaggio è anonimo. E quando nei vangeli un personaggi è anonimo significa che è un personaggio rappresentativo, cioè un individuo nel quale chiunque vive una situazione simile ci si può identificare. La lebbra a quel tempo era considerata un castigo da Dio per determinati peccati e non si guariva dalla lebbra. In tutto l’Antico Testamento si narrano soltanto due guarigioni dalla lebbra, una di Maria, la sorella di Mosè, ad opera di Dio stesso, e l’altra di Eliseo verso la mano di un pagano. Quindi soltanto due guarigioni. La lebbra è considerata un castigo di Dio per determinati peccati, per cui il lebbroso non destava compassione, doveva vivere lontano dai villaggi, emarginati. Era in pratica un cadavere vivente e soprattutto non può né avvicinare, né essere avvicinato. Ebbene qui il lebbroso invece trasgredisce la legge. Va verso Gesù e lo supplica in ginocchio. Lo supplica in ginocchio perché non sa quale potrà essere la reazione di Gesù. “gli diceva: «Se vuoi puoi purificarmi!»” Non chiede di essere guarito, perché si sapeva che dalla lebbra non si poteva guarire. Lui chiede di essere purificato. In tutto il brano mai apparirà il verbo “curare o guarire”, ma sempre per tre volte, il che indica la completezza, il verbo “purificare”, cioè lui vuole almeno il contatto con Dio. Ha perso tutto, la famiglia, gli affetti, gli amici, e ha perso anche Dio, si sente veramente un fallito, un abbandonato. Allora chiede almeno il contatto con Dio, perché la religione lo ha posto in una situazione disperata. E’ impuro, l’unico che può togliergli l’impurità è Dio, ma siccome lui è impuro, non può rivolgersi a Dio. Quindi la disperazione più totale. La reazione di Gesù verso quest’uomo peccatore – secondo la cultura dell’epoca che continua a peccare trasgredendo la legge – è di compassione. Il termine “compassione” indica un sentimento divino con il quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha. “Tese la mano”. Ecco qui crea un po’ allarme questa espressione perché l’evangelista la prende dal libro dell’Esodo, dall’elenco delle dieci piaghe, dove stendere la mano è sempre un’azione di Dio o di Mosè contro i nemici del suo popolo, per castigarli. Allora non sapendo come va a finire l’episodio il lettore, l’ascoltatore si chiede: Cosa fa, lo castiga? Perché è un peccatore che continua a trasgredire la legge. E poi lo tocca. Non era necessario toccare un ammalato, un lebbroso. Quante volte Gesù ha guarito soltanto con la potenza della sua parola. Qui perché lo tocca? Lo tocca perché era proibito. E cosa succede? “Gli disse: «Lo voglio»”. La volontà di Dio è l’eliminazione di ogni emarginazione attuata in nome suo, cancellando così definitivamente per sempre la categoria degli impuri. Non esistono persone impure per il Signore. “«Lo voglio, sii purificato!»”. E Gesù, toccandolo, trasgredisce anche lui la legge e da quel momento, ritualmente, giuridicamente, lui diventa impuro. “E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”. Per la terza volta appare il verbo “purificare”. Che meriti aveva il lebbroso per essere purificato? Nessuno, anzi ha continuato a trasgredire la legge. L’evangelista sta presentando la novità di Gesù: che l’amore di Dio non è attratto dai meriti delle persone – questo lebbroso non ha alcun merito – ma dai loro bisogni. E soprattutto la grande novità: non è vero, come insegna la religione, che l’uomo deve purificarsi per avvicinarsi e accogliere il Signore, ma è vero il contrario, accogliere il Signore è ciò che purifica l’uomo. Questa è la buona notizia portata da Gesù. Ma qui sembra che Gesù improvvisamente cambi umore .”E”, non è “ammonendolo”, ma “rimproverandolo severamente, lo cacciò via”. Perché? Casomai Gesù lo avrebbe dovuto rimproverare prima, quando quest’uomo peccatore ha trasgredito la legge e gli si è avvicinato. Perché adesso lo rimprovera? E soprattutto da dov’è che lo caccia? Lo rimprovera per aver creduto che Dio lo avrebbe escluso dal suo amore. E lo caccia via dal luogo simbolico, dalla sinagoga, dall’istituzione religiosa, che invece insegnava quest’immagine terribile di un Dio che minacciava, castigava e allontanava le persone da lui. Ecco perché Gesù lo rimprovera. Come hai potuto credere che tu fossi abbandonato da Dio, lontano da Dio? E poi gli dice: “«Guarda di non dire niente a nessuno»”, perché prima deve prendere coscienza di quello che gli è accaduto, “«Va invece a mostrarti al sacerdote»”. Perché “«Mostrati al sacerdote E offri per la tua purificazione quello che Mosè»”, non Dio, “« ha prescritto»”? La lebbra è un termine generico col quale si indicavano altre malattie della pelle o del cuoio capelluto. E da queste si poteva guarire. Allora per poter rientrare nel villaggio, nella famiglia, occorreva farsi esaminare dai sacerdoti che certificavano che la persona era sana. E naturalmente questa visita non era gratuita, ma si dovevano pagare ben tre agnelli, o uno se la persona era povera. Cioè Gesù lo invita a paragonare due modi di Dio, il Dio dei sacerdoti, un Dio esoso, un Dio che abbandona, un Dio che emargina, e il Padre di Gesù il cui amore viene dato gratuitamente. E infatti Gesù dice “«come testimonianza»”, non “per loro”, ma il testo dice “«contro di loro»”. L’evangelista si rifà al libo del Deuteronomio, cap. 31, vers. 26, in cui Mosè dice: “«Prendete questo libro della legge, vi rimanga come testimone contro di te»”, come trasgressione della legge, della volontà di Dio. Ebbene il lebbroso ha capito e non va più dai sacerdoti. E infatti “Quello uscì”, abbandona quest’istituzione che lo aveva reso impuro, “e si mise a predicare”. L’evangelista adopera per quest’individuo lo stesso verbo adoperato per l’insegnamento di Gesù. “E a divulgare”, non “il fatto”, come è tradotto qui. E’ il termine greco “logos” che significa parola, il messaggio. Cioè quello che annunzia non è tanto il fatto che gli è accaduto, ma va ad annunziare la novità: Dio non emargina, Dio non esclude, Dio non lascia che le persone stiano lontane da lui, ma il suo amore è rivolto a tutti quanti. Questo è il messaggio che l’ex lebbroso va a testimoniare. “Tanto che”, e qui l’evangelista non pone il soggetto Gesù, perché identifica Gesù e il lebbroso come se fossero la stessa persona. Il messaggio che il lebbroso sta divulgando è che Dio non è come i sacerdoti gli hanno fatto credere. Non discrimina, non emargina gli uomini, ma a tutti offre il suo amore. “Tanto che non poteva più entrare pubblicamente in una città”. Naturalmente l’evangelista si riferisce a Gesù. Gesù, toccando il lebbroso, è diventato anche lui impuro e quindi non può entrare pubblicamente in una città, perché dovrebbe prima sottoporsi anche lui ai riti di purificazione. “Ma rimaneva fuori”, esattamente come un lebbroso, “in luoghi deserti”, i luoghi dove dovevano stare le persone impure. Ma, come venne, il lebbroso all’inizio di questo brano, ecco che “venivano a lui da ogni parte”. Tutte le persone che si sono sentite emarginate, tutte le persone che si sono sentite rifiutate, tutte le persone che si sono sentite disprezzate, ecco accorrono a Gesù. E’ un Dio che ha purificato la persona, l’ha resa pienamente in comunione con lui. E’ questa la buona notizia che la gente aspettava, specialmente i più lontani, i più abbandonati, i più emarginati e disprezzati dalla religione.

ne ebbe compassione e lo toccò

una riflessione in proposito da parte di p. Agostino Rota Martir :

p. agostino

 

Domenica scorsa, terminata la Messa, una signora mi chiede se posso confessarla. Accetto e ci accomodiamo su una panca della Chiesa, ormai deserta e silenziosa.  Confessa i suoi peccati, poi iniziamo a riflettere sul vangelo di questa domenica e da subito mi accorgo che alcuni passaggi della mia predica, l’avevano lasciata un pochino dubbiosa e perplessa.

La signora sa che vivo con i Rom: “ma come è possibile avere compassione dei rom, dei clandestini quando questi se ne approfittano, sfruttano i loro stessi bambini..rubano, fanno razzie nelle nostre case? Ormai ci dobbiamo difendere da costoro! Ma come farlo da cristiani?”  

Il vangelo di questa domenica è il racconto del lebbroso che incontra Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi!”, è la sua sola richiesta. Non domanda per sè la guarigione dalla lebbra, cosa del tutto comprensibile, chiede di essere purificato, condizione essenziale per riprendere il rapporto con Dio, interrotto a causa del contagio della lebbra, anzi castigato da Dio stesso. Era un impuro, e proprio per questo “messo fuori” dalla città, al margine, uno scarto della stessa società, condannato a gridare questa sua condizione lungo la strada, a non toccare anima viva e pura. Regole imposte dai puri, dai sani per difendersi e tutelarsi. Ieri come oggi. Quante regole, quante ordinanze emanate per salvaguardare i buoni e distinguersi dai cattivi e creano altre esclusioni, le fomentano, invece di combatterle.

I migranti oggi sono visti spesso come portatori di malattie, raccolti in veri centri di detenzione, quante le associazioni incaricate a controllare gli “scarti”, anche per tenerli a debita distanza di sicurezza..sì, è vero toccano le loro vite, ma senza compassione.

Quanti accampamenti di Rom fuori le nostre città, visti con diffidenza e sospetto e esclusi da ogni possibile compassione, anzi, guai a mostrare compassione verso di loro.  Mentre Dio non scarta proprio nessuno, neanche il lebbroso che in nome di una obbedienza “sacra”, scandalosamente è messo fuori dalla comunità dai sacerdoti stessi: in nome di una falsa fedeltà a Dio.

Ne ebbe compassione, tese la mano e lo toccò..”

È questa la Buona Notizia che Gesù racconta e rivela..grazie anche alla disobbedienza di questo lebbroso che contagia lo stesso Gesù a fare un’altro gesto, decisamente disobbediente: muoversi a compassione e toccarlo con la mano, gesto proibito e scandaloso. A volte Dio può rivelare la sua Volontà più attraverso un gesto di trasgressione, che ad una fedeltà fredda, meschina e distante. Un’obbedienza priva di compassione non apre cammini nuovi, a differenza della compassione (patire-con) che arriva a superare barriere e steccati di ogni genere. Sappiamo essere “compassionevoli disobbedienti”?  Mi affascina questo Dio capace di trasgressioni feconde..si ripete spesso quando ci confessiamo: Dio ha compassione di ognuno di noi, non si schifa delle nostre lebbre, ma continua a stendere la sua mano e ci tocca..è un Dio che per amore trasgredisce la legge dei “buoni e puri”, ancora oggi pronti a rinchiudere il suo Vangelo negli steccati del buon senso e della sicurezza. Costoro sarebbero capaci anche di emanare ordinanze per obbligare Dio a non mischiarsi troppo e a tenere le dovute distanze con chi disturba la tranquillità, non si integra a modino alle regole..

”Tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti..”  Pericolo, non toccare! 

il commento al vangelo della domenica

GUARI’ MOLTI CHE ERANO AFFETTI DA VARIE MALATTIE 

commento al Vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (8 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi:

maggi

Mc 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Per comprendere il brano di questa domenica occorre inserirlo nel suo contesto che è il giorno del sabato, giorno nel quale sono proibiti ben 1.521 azioni. Questo numero nasce dai 39 lavori che furono necessari per la costruzione del tempio di Gerusalemme, dei quali ognuno è suddiviso in altrettanti 39 attività, per un totale di 1.521 azioni. E tra queste c’è la proibizione di far visita o curare gli ammalati.
Sentiamo Marco. “E subito, usciti dalla sinagoga”, nella sinagoga c’è stato l’incidente, Gesù è stato contestato dalla persona con  lo spirito impuro, “andarono nella casa di Simone e Andrea”, che a quanto pare non sono stati al culto in sinagoga, “in compagnia di Giacomo e Giovanni” che invece evidentemente erano con Gesù in sinagoga.
Quindi abbiamo due coppie di fratelli, una più osservante, Giacomo e Giovanni, e l’altra a quanto pare meno. Infatti hanno dei nomi di origine greca, Simone e Andrea. “La suocera di Simone era a letto con la febbre”. E’ una donna, e le donne sono considerate una nullità, e per di più è ammalata per cui è in una condizione di impurità.
Una donna in quelle condizioni va evitata. E invece, “subito”, immediatamente all’uscita della sinagoga, “gli parlarono di lei”. E’ l’effetto della buona notizia che Gesù  ha proclamato nella sinagoga, una notizia che non divide gli uomini tra puri e impuri, tra emarginati e non, ma a tutti comunica il suo amore.  
“Egli si avvicinò e la fece alzare”, quindi Gesù cerca di curarla, “prendendola per la mano”. E’ proibito, perché toccare una persona impura significa assumere la sua impurità. Ebbene Gesù ignora la regola del sabato. Tutte le volte in cui Gesù si è trovato in conflitto tra l’osservanza della legge di Dio e il bene dell’uomo, non ha avuto esitazioni, ha scelto sempre il bene dell’uomo.
Facendo il bene dell’uomo si è sicuri anche di fare il bene di Dio, spesso per il bene di Dio, per l’onore di Dio, si fa male all’uomo. Quindi Gesù prende per la mano, trasgredisce la legge, “la febbre la lasciò ed ella li serviva”.
Il verbo adoperato dall’evangelista è lo stesso da cui deriva la parola che tutti conosciamo “diacono”. Chi è il diacono? E’ colui che liberamente serve per amore. Ebbene quest’espressione era già stata usata per gli angeli che, dopo le tentazioni, servivano Gesù nel deserto. Quindi Marco equipara il ruolo delle donne a quello degli angeli, sono gli esseri più vicini a Dio. Quindi la donna, considerata l’individuo più lontano da Dio, in realtà secondo l’evangelista è la più vicina a Dio.
Mentre in casa la necessità di una persona è stata più importante del sabato, in città il sabato è più importante della necessità delle persone. Infatti, “venuta la sera”, espressione che in Marco è sempre negativa, “dopo il tramonto del sole”, quindi attendono che sia passato il giorno del sabato nel quale è proibito visitare e curare gli ammalati, “gli portarono tutti i malati”. L’evangelista adopera l’espressione “stavano  male”, ed è un’allusione al profeta Ezechiele, al capitolo 34,4, dove il Signore denuncia i pastori e dice “non avete curato quelle pecore che stavano male”.
Quindi non si tratta tanto di infermi, ma quanto di popolo oppresso dai suoi pastori. “E gli indemoniati”. Indemoniato è colui che è posseduto da uno spirito impuro e che manifesta abitualmente il suo comportamento ed è conosciuto per questo. “Tutta la città era riunita”, letteralmente congregata, la radice del verbo è la stessa da cui deriva la radice “sinagoga”, “davanti alla porta”. E’ un momento di grande successo per Gesù.
“Guarì  molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Abbiamo già visto altre volte che liberare, scacciare i demoni significa liberare da ideologie religiose nazionaliste che rendono refrattari o ostili all’annunzio della buona notizia di Gesù. “Ma on permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”.
Cioè indicano Gesù come il messia atteso dalla tradizione, esattamente come aveva fatto la persona posseduta da uno spirito impuro dentro la sinagoga. Ebbene Gesù di fronte a tutta una città che lo sta seguendo, che è pronta a seguirlo, Gesù rifiuta la tentazione del potere, del successo. “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio”, quindi quando mancava la luce, “e uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
E’ la prima delle tre volte nelle quali l’evangelista presenta Gesù in preghiera. E tutte e tre le volte è sempre per una situazione di pericolo o difficoltà per i propri discepoli. Qui prega perché, come vedremo, i discepoli sono esaltati da questo successo di Gesù, poi prega dopo la condivisione dei pani quando c’è la tentazione di vedere in Gesù il leader che può risolvere i problemi della società; e infine  prega al Getzemani poco prima della sua cattura. Prega appunto per i discepoli che non saranno capaci di affrontare questo dramma, questo momento.
“Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce”. L’evangelista adopera la stessa espressione che nel libro dell’Esodo si trova per indicare il faraone che si mette sulle tracce del popolo ebraico per impedirne l’esodo, la liberazione.
“Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano»”. Questo verbo “cercare” in Marco è sempre negativo. Ebbene Gesù non resta a Cafarnao, ma invita a seguirlo. Non c’è la tentazione del potere. “E disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là»”. Gesù comincia a predicare, non più a insegnare. Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa poggiandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento.
Gesù, dopo il fiasco della sinagoga, non insegna, ma predica. Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato. “«Per questo infatti sono venuto!»” Qui la traduzione “venuto” non è esatta; sembra che Gesù sia venuto al mondo per questo. No, il verbo adoperato dall’evangelista è “uscire”, cioè, “per questo sono uscito, per questo ho lasciato Cafarnao perché non mi limito a Cafarnao, ma devo andare ad annunciare per tutta l’umanità.
“E andò per tutta la Galilea, predicando”, ecco Gesù già non insegna più, ma predica, “nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demoni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto. Era l’istituzione religiosa che indemoniava le persone presentando loro un’immagine di Dio completamente deviata da quella che sarà la forma con la quale Gesù presenterà suo Padre.

 

 una chiesa in uscita

il commento di p. Agostino Rota Martir dal suo luogo di condivisione della vita con un gruppo di rom

 

p. agostino

Il Vangelo di questa domenica racconta una delle tante giornate di Gesù, che inizia uscendo dalla sinagoga e termina nel dire,  che Gesù “predica nelle loro sinagoghe”. 

Dalla sinagoga di Cafarnao alle sinagoghe della Galilea. Ma in mezzo ci sta la vita con le sue esigenze, contrasti, gli incontri con amici, i conoscenti, i malati che desiderano o pretendono di guarire, è un Gesù che vive la città..che si lascia avvolgere dalle case, dalle sue strade, piazze, dall’ascolto dei suoi abitanti..ma anche capace di isolarsi per pregare in un luogo deserto. 

Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!” 

Sono gli inizi della vita pubblica di Gesù, da un lato Gesù è preso dal desiderio di raggiungere e toccare più villaggi possibili, non manca certo l’entusiasmo, e dall’altro il Vangelo racconta lo stile di annuncio che sarà tipico di Gesù: uscire per incontrare la gente, là dove vive, lavora e soffre. Predica la Buona Notizia, ma si lascia anche annunciare dalla vita che incontra lungo la strada.  Gesù non si lascia ingabbiare dalla sinagoga, ma è proprio fuori da essa che bisogna stare, andare, incontrare i poveri, guarire le loro ferite, ascoltare con il cuore i lamenti, raccogliere desideri nascosti di più vita..altrimenti si corre il rischio di tradire la Parola stessa o di farne un totem sacro di sole regole e prescrizioni. 

Il Vangelo di questa domenica è lo “schizzo” di una Chiesa in uscita, capace di uscire dalle sacrestie per raggiungere le periferie, per ascoltarle dal di dentro, per assumere il loro odore, non basta certo andarci con la bomboletta spray per spruzzare sulla gente e sui poveri in genere un po’ di “deodorante del nostro insegnamento”,  per coprire il loro odore che ci da fastidio e sentirci dei bravi cristiani impegnati.. Uscire anche per interrogare la nostra fede, per raccogliere la presenza di Dio nascosta fuori la Chiesa, fra gli scarti della società, capaci forse di evangelizzare anche  le nostre stesse comunità cristiane. 

La Parola ha sempre e ovunque bisogno di incarnarsi in situazioni concrete, per mostrare la sua bellezza e poter guarire le nostre ferite aperte con il suo balsamo. 

“..si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.”  Anche la Parola per sapersi incarnare ha bisogno di silenzio, di preghiera, di deserto in ognuno di noi..per non rischiare di sentirci noi i “padroni della Parola” o gli amministratori di successi sulla pelle degli esclusi.  La preghiera è parte dell’incarnazione, è essenziale per una Chiesa in uscita e non può farne a meno, perché quando la  preghiera si nutre di volti, di situazioni, di conoscenze e condivisioni, è in grado di alimentare e far pulsare il cuore di Dio..è anche capace di rendere la Chiesa umile, povera e gioiosa di stare a fianco dei poveri, fedele alla sua missione di essere Chiesa discepola di Gesù, sempre in uscita, itinerante, ovunque: “perché io predichi anche là.”   Non rintanata per odorare di incensi la propria bellezza, ma disposta a sporcarsi i piedi e di “puzzare di pecora”, pur di annunciare il Vangelo della Gioia. 

 

il commento al vangelo della domenica

 

 

 

commento al vangelo della terza domenica del tempo ordinario (25 gennaio 2015):

Mc 1,14-20

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

CONVERTITEVI E CREDETE AL VANGELO 

il commento di p. Maggi:

maggi

L’evangelista Marco denuncia la stupidità del potere. Ogniqualvolta il potente crede di soffocare una voce di denuncia il Signore ne suscita una ancora più forte. E’ quello che ci scrive Marco nel suo vangelo, al capitolo 1, dal versetto 14.
“Dopo che Giovanni fu arrestato”, è il primo conflitto tra il potere e un inviato di Dio. Ma ogni volta Dio suscita sempre una voce ancora più forte. “Dopo che Giovanni fu arrestato”, letteralmente ‘consegnato’, “Gesù andò nella Galilea”. Gesù incomincia nella regione lontana dall’istituzione religiosa giudaica, una regione a contatto con i pagani dove la mentalità poteva essere un poco più aperta.
“Proclamando il vangelo di Dio”, cioè la buona notizia di Dio. E qual è la buona notizia di Dio? Che Dio è diverso da come i sacerdoti l’avevano presentato. E’ un Dio completamente diverso. Non è un Dio che chiede, ma un Dio che dà. Non è un Dio che castiga, ma un Dio che perdona, non un Dio buono, ma esclusivamente buono.
Questo è il contenuto della buona notizia del vangelo di Dio che Gesù proclamerà. Dio è amore e il suo amore viene offerto in maniera incondizionata ad ogni persona. Questa è la buona notizia che Gesù proclama. “E diceva: «Il tempo è compiuto»”. Per esprimere il tempo l’evangelista adopera un termine che significa l’occasione perduta, l’occasione propizia, da prendere al volo perché poi rischia di non ripresentarsi. “«E il regno di Dio è vicino»”.
Per Regno di Dio si intende la signoria di Dio. Nella nuova relazione con Dio che Gesù propone, quella con il Padre, non c’è più una legge, un codice esterno all’uomo che l’individuo deve osservare, ma c’è l’accoglienza e la pratica di un amore simile al suo. Il Dio di Gesù non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro interiormente la sua stessa forza, il suo stesso Spirito che li rende capaci di amare generosamente come da lui si sentono amati.
Il regno di Dio è vicino, ma per far sì che questo diventi realtà, c’è bisogno di una decisione da parte dell’uomo, la conversione. L’evangelista non adopera il verbo convertire che indica un ritorno alla religione, a Dio, ma indica un cambio di mentalità che incide profondamente nel comportamento, una rinuncia all’ingiustizia e l’orientamento della propria esistenza al bene degli altri.
Questa è la conversione alla quale Gesù chiama, alla quale Gesù invita, perché il regno di Dio diventi realtà. Per regno di Dio in questo vangelo si intende una società alternativa, una società dove anziché il salire ci sia lo scendere, dove anziché comandare ci sia il servire e soprattutto dove anziché l’accumulo dei beni ci sia la condivisione. Allora per far questo ci vuole una conversione, un cambiamento di rotta.
E Gesù invita a credere in questa buona notizia. E qual è la buona notizia? Che Dio governa gli uomini e che è possibile una società alternativa. Ma Gesù per fare questo ha bisogno della collaborazione degli uomini. Ecco perché “passando lungo il mare di Galilea …”. Qui l’evangelista parla di mare di Galilea, in realtà è un lago. Perché l’evangelista adopera il termine “mare”? Perché il mare era il confine con la terra pagana e soprattutto il mare è quello che gli ebrei hanno dovuto varcare per entrare nella terra promessa.
Quindi l’evangelista amplia l’orizzonte del messaggio di Gesù, che non è rivolto soltanto alla Galilea, ma è rivolto a tutto il mondo pagano. “… Vide Simone e Andrea”; sono due nomi di origine greca, quindi una comunità mentalmente più aperta. “Mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro di me»”, questo sarà l’invito che Gesù continuamente farà risuonare nel vangelo ieri e ancora oggi: andare dietro di lui, perché lui sa come realizzare questa società alternativa, il regno di Dio.
“«Vi farò diventare pescatori di uomini»”. Il riferimento dell’evangelista è al capitolo 47 di Ezechiele dove vengono presentate coppie di fratelli che ricevono la terra promessa. Quindi il regno di Dio è una realtà che adesso già sta emergendo attraverso la chiamata dei fratelli. Ma perché Gesà li chiama a diventare pescatori di uomini? Gesù non li invita ad essere pastori, non li invita ad essere guide, non li invita ad essere maestri, ma pescatori.
Qual è il significato? Pescare un pesce significa tirar fuori un animale dal suo habitat naturale per dargli la morte. E si fa per il proprio interesse, si pesca per il proprio beneficio. Pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, ciò che rischia di dar loro la morte; quindi è un ambiente ostile all’uomo, un ambiente nel quale l’uomo può perire, e non si fa per il proprio interesse, ma per l’interesse degli altri.
Questa è la conversione. La conversione alla quale Gesù richiama e invita è: mentre fino ad ora hai vissuto per il tuo interesse, adesso vivi per l’interesse degli altri; mentre fino ad ora hai pescato per te, adesso pesca per gli altri, per comunicare vita agli altri. Allora Gesù li invita a collaborare alla sua azione nel proporre e praticare concretamente uno stile diverso per rendere possibile una società alternativa, quella che viene chiamata regno di Dio, e la prima azione che si fa è quella di togliere gli uomini da ciò che può dar loro la morte. Se ciò che da la vita è la rinuncia al proprio interesse, quello che da la morte è vivere esclusivamente centrati sul proprio interesse, sulla convenienza.
E saranno proprio coloro che sono centrati sulla propria convenienza, sul loro interesse, gli acerrimi nemici di Gesù.
“Subito lasciarono le reti e lo seguirono”, quindi immediatamente questi personaggi, questi primi discepoli, accolgono l’invito di Gesù, ma Gesù continua. E questa volta lo rivolge a due fratelli che hanno nomi ebraici; sono Giacomo e Giovanni, quindi più attaccati alla tradizione e saranno quelli che nel vangelo poi mostreranno delle difficoltà nel seguire Gesù. Ma anche questi al momento lasciano il padre Zebedeo “sulla barca con i garzoni e andarono dietro di lui”.
Quindi l’intento di Gesù è quello di chiamare persone che con lui collaborino facendosi portatori di vita a quanti vivono in un habitat di morte.

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Andarono dietro a lui.”

 

il commento di p. Agostino Rota Martir:

p. agostino

Maestro. Dove abiti?”. Era la domanda dei discepoli di Giovanni Battista, rivolta a Gesù nel Vangelo di domenica scorsa. Domanda semplice, spontanea e del tutto lecita, ma la risposta non stava tanto in un indirizzo anagrafico, ma era in un cammino continuo: da Nazareth a Cafarnao, da lì verso i villaggi della Galilea per annunciare il Vangelo del Regno ormai vicino a tutti, non più asserragliato dentro il tempio santo di Gerusalemme, o nella dimora-scuola stabile di un rabbi, ma ovunque, anche lungo le rive del mare di Galilea, e da lì nelle dimore della gente, nel cuore dilatato dei peccatori e dei poveri.

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio.”

Non fu un semplice trasloco il suo..ma di certo era la conseguenza di un cambio di situazione, nel senso che le cose stavano mettendosi un po’ male a causa della morte del Battista, eppure Gesù non si nasconde, anzi la morte del cugino è la molla che lo spinge a percorrere la Galilea delle Genti: incoscienza, gusto di sfida o altro?

Stattene un po’ buono, lascia che le acque si calmino un pochino..” In genere è il saggio consiglio che spesso offriamo agli amici, quando la situazione si fa un po’ “movimentata”. Gesù, invece se ne va in giro a trovarsi i suoi primi discepoli, come preso dal desiderio di far conoscere al più presto le strade del Regno di Dio.

La situazione è preoccupante, ma non sono un impedimento per le prime chiamate, che avvengono proprio in questo contesto, perché la notizia dell’uccisione del Battista correva sulla bocca di tutti. Anzi: “Venite dietro a me.”

Gesù non aspetta un momento più tranquillo, che passi la bufera per coinvolgere Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni nella sua sequela..penso ai contesti di tante proposte vocazionali, in genere fatte in ambienti asettici, in spazi artificiosi, avvolti da un silenzio suggestivo e volutamente in disparte dalla realtà e dalle sue preoccupazioni, viste più come un disturbo, che un’occasione. Mentre Gesù si mescola nella vita della gente che incontra: Vi farò diventare pescatori di uomini.” E’ proprio nel “mare della vita” che Gesù rivolge la chiamata ad essere pescatori di uomini, non li conduce in “un’oasi spirituale artificiale”. Lo sfondo delle prime chiamate è proprio l’arresto del profeta Giovanni Battista e la sua uccisione.

Mons. Romero, vescovo del Salvador di fronte all’uccisione del suo amico p.Rutilio Grande, ad opera dell’esercito, cambia radicalmente il suo modo di leggere ed annunciare il Vangelo, ponendosi dalla parte dei poveri e oppressi, questo lo porterà a sua volta, ad essere ucciso dagli stessi sull’altare nel 1984, proprio mentre celebra la Memoria di Gesù: Crocifisso e Risorto.

Gesù non chiede l’autorizzazione ad Erode (spazi, favori..) per iniziare la sua missione di annuncio del Vangelo di Dio, si mette in cammino e chiede ai suoi discepoli di fare altrettanto.

Andarono dietro a lui..” Questo cammino continua, è presente ancora oggi, anche grazie a tanti profeti che camminano lungo le strade del mondo, sparpagliando nei solchi della storia semi di Vangelo, semi di pace, di Giustizia e di Beatitudine..incuranti degli Erode di oggi.

il vangelo della domenica

VIDERO DOVE DIMORAVA E RESTARONO CON LUI 

commento al vangelo della II domenica del tempo ordinario (18 gennaio 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Gv 1,35-42

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Nel libro dell’Esodo, nel capitolo 12, si descrive la Pasqua, la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana. In questo capitolo Dio comanda, attraverso Mosè, a ogni famiglia israelita, di prendere un agnello ucciderlo e mangiarlo. Perché? La carne dell’agnello avrebbe trasmesso l’energia per iniziare questo cammino di liberazione verso la terra della libertà e il sangue li avrebbe preservati dal passaggio dell’angelo sterminatore che avrebbe seminato la morte.
Ebbene l’evangelista Giovanni tiene molto presenti queste linee teologiche per presentare la figura di Gesù. Leggiamo.
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli, e, fissando lo sguardo … Il verbo “fissare”  nel vangelo di Giovanni appare soltanto due volte e unicamente in questo episodio. Fissare significa svelare la realtà più profonda di un individuo. Qui Giovanni Battista fissa, cioè svela la realtà più profonda di Gesù, e poi alla fine del brano sarà Gesù che fisserà Simone, svelandone la realtà più profonda.

Fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: “Ecco l’agnello di Dio”, ecco l’agnello che Dio ha mandato al suo popolo. La carne di Gesù darà la capacità, la forza e l’energia per iniziare questo cammino di pienezza verso la liberazione. E il sangue non libererà dalla morte fisica, ma libererà dalla morte per sempre. Il sangue dell’agnello trasmetterà all’uomo la stessa vita divina. Per questo gli conferirà una vita che è chiamata “eterna” non tanto per la durata (per sempre), quanto per la qualità indistruttibile.
Ebbene, i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, lo seguirono. Quindi inizia questo processo di liberazione. Gesù è indicato come l’agnello e ci sono già i primi discepoli che lasciano Giovanni Battista e seguono Gesù perché dentro di sé sentono questo bisogno di pienezza di vita, di liberazione.
Infatti Gesù, che va incontro ai desideri degli uomini, vedendo che questi lo seguono, si voltò, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gesù non chiede “Chi cercate”, ma “che cosa cercate”. Se cercano pienezza di vita, se cercano la risposta al proprio desiderio di vita, di felicità, possono andare, ma se cercano onori, potere e ricchezze inevitabilmente rimarranno delusi dalla figura di Gesù.
Gli risposero: “Rabbì” – che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?”  Ebbene Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Il luogo dove Gesù dimora non può conoscersi per una informazione, ma per una esperienza, perché Gesù dimora nella pienezza della sfera, dell’amore divino. Gesù in questo vangelo è stato indicato come “il verbo, la parola di Dio che ha messo la tenda in noi, dimora in noi”, quindi andare verso Gesù significa entrare nella dimensione dell’amore di Dio.
Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui. E’ l’inizio di una tappa di fusione tra Gesù e i suoi discepoli. Ora i discepoli vanno a dimorare con Gesù, ma poi sarà Gesù più avanti, nel capitolo 14-23 che chiederà ai discepoli di dimorare in loro. Gesù dirà: “A chi mi ama, io e il padre mio verremo in lui e prenderemo dimora in lui”. Quindi c’è una fusione tra i discepoli e Gesù per diventare – quello che sarà il tema conduttore di questo vangelo – una unica realtà che esprima la manifestazione di Dio.
L’evangelista sottolinea che erano circa le quattro del pomeriggio, ogni indicazione che troviamo nei vangeli non è superflua, ma ha un profondo significato. Il giorno sta per tramontare e sta per iniziare il nuovo giorno. Con i primi discepoli che seguono Gesù inizia una nuova realtà.
L’evangelista ci sottolinea che uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea. Andrea comparirà ancora due volte in questo vangelo, insieme a Filippo, nell’episodio della condivisione dei pani e quando dei greci chiederanno di vedere Gesù. Fratello di Simon Pietro. Egli incontro per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia” – che si traduce Cristo.
Stranamente da parte di Simone non c’è nessuna reazione, nessuna risposta e nessun entusiasmo, ma deve essere il fratello che lo conduce a Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, quindi Gesù svela la realtà più profonda di questo Simone, Gesù disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni”. Ponendo l’articolo determinativo, “il” figlio significa che è figlio unico. Ma qui abbiamo visto che Simone ha un fratello, Andrea, per cui Giovanni non può essere il nome del padre di Simone e di Andrea.

Cosa vuol dire allora “il figlio di Giovanni”? E chi è questo Giovanni? E’ Giovanni Battista. Anche Simone era discepolo di Giovanni Battista, anzi era il discepolo ideale, per questo Gesù lo chiama “il figlio”. Era il discepolo modello di Giovanni Battista.
E Gesù, fissandolo, quindi svela la realtà più profonda, dice:  “Sarai chiamato Cefa”, che significa Pietro”. Pietro indica la durezza, la cocciutaggine, al testardaggine. Per ora questo soprannome legato a Simone rimane misterioso, ma andrà svelandosi lungo tutto il vangelo perché vedrà sempre questo discepolo essere contrario, essere in opposizione a quello che Gesù farà.

 

 

il commento al vangelo della domenica

 

 

TU SEI IL FIGLIO MIO, L’AMATO: IN TE HO POSTO IL MIO COMPIACIMENTO

 commento al Vangelo della domenica del Battesimo del Signore (11 gennaio 2015) di Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 1,7-11 

In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». 
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».  

Tutti gli evangelisti sono concordi nell’indicare l’attività di Gesù, come quella di colui che battezza nello Spirito Santo. E questo è possibile perché in Gesù risiede la pienezza dello Spirito Santo, cioè la forza, la capacità e la potenza d’amore di Dio. Questa accoglienza dello Spirito da parte di Gesù viene indicata dagli evangelisti nell’episodio del battesimo. Leggiamo come ce la narra l’evangelista Marco. 
 “«Ed ecco, in quei giorni…»” – questa espressione ”in quei giorni”, che appare per la prima volta in questo Vangelo, indica il compimento delle promesse di Dio– “«Gesù»” – il nome è lo stesso di Giosuè,in ebraico,colui che fece entrare il popolo nella terra promessa – ma poi le credenziali di questo Gesù sono veramente pessime perché, ci scrive l’evangelista,che “«venne da Nàzaret di Galilea …»”. La Galilea è la regione disprezzata,la regione dei facinorosi,dei rivoluzionari – al tempo di Gesù dire “galileo” significava dire “testa calda”,”fanatico”– ebbene,Gesù viene proprio dalla Galilea. Ma si credeva che il Messia sarebbe dovuto venire dalla Giudea,dalla regione santa,e non dalla Galilea.  
E per giunta viene proprio da Nazaret che era un borgo selvaggio,dalla brutta reputazione,che era un po’ il covo dove si rifugiavano gli zeloti, i rivoluzionari, contro di Roma. Non bisogna dimenticare che era ancora vivo il ricordo di Giuda il Galileo,che proveniva appunto dalla Galilea: si era proclamato Messia ed aveva iniziato una rivolta contro Roma, finita poi in un bagno di sangue. 
“«E fu battezzato nel Giordano da Giovanni »”, Giovanni aveva annunziato un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Perché Gesù va a farsi battezzare? Il battesimo è un simbolo di morte: ci si immerge e si muore al proprio passato. 
Anche per Gesù il battesimo sarà un simbolo di morte,ma non di un passato ingiusto, di peccato – che lui non ha da farsi perdonare – ma di accettazione di morte nel proprio futuro: una donazione del suo amore agli uomini, che può arrivare al punto di accogliere la morte. Infatti Gesù quando parlerà della sua morte,ne parlerà come di un battesimo: ”c’è un battesimo che io devo accogliere” .        1 
E vediamo come ci descrive l’evangelista questo battesimo di Gesù,inserendo nella scena del battesimo gli stessi termini che poi collocherà al momento della morte, per indicare che battesimo e morte di Gesù sono una sola cosa.   
“«E subito salendo dall’acqua …»” – scendere nell’acqua è un’immersione nella morte,ma la morte non trattiene Gesù – Gesù immediatamente sale dall’acqua.  “«…vide squarciarsi…»”– è importante questo verbo squarciarsi -“«…i cieli…»”:  si credeva che Dio era talmente arrabbiato con l’umanità che aveva come sigillato i cieli, non c’era più comunicazione tra Dio ed il suo popolo – basta pensare al desiderio di Isaia nel suo libro, quando scrive “ ah,se tu squarciassi i cieli e discendessi !”.  
Quindi, c’era questa attesa che Dio squarciasse i cieli: ma i cieli erano chiusi, erano sigillati. Ebbene, nel momento in cui Gesù s’impegna a manifestare l’amore di Dio senza limiti, c’è una risposta da parte di Dio di un amore senza limiti. Ed i cieli non si aprono: qualcosa che si apre poi si può richiudere. I cieli si squarciano, si lacerano e quindi non possono più essere ricomposti : con Gesù la comunicazione di Dio con l’umanità sarà, da questo momento, continua,crescente ed ininterrotta.  
Ebbene, questo verbo “squarciare” lo ritroviamo poi al momento della morte di Gesù, quando “il velo del Tempio si squarciò”, il velo nascondeva la stanza segreta dove si credeva ci fosse la presenza di Dio: nel momento in cui Gesù muore in croce,il velo si squarcia e rivela chi è Dio.  Chi è Dio? E’ l’uomo che per amore ha donato la sua stessa vita.   
“« E lo Spirito …»” – l’articolo determinativo,“lo”,indica la totalità – «… lo Spirito …»”  – e Gesù,l’attività di Gesù sarà battezzare nello Spirito Santo,ma su Gesù non scende lo Spirito Santo,ma “lo Spirito” – perché “Santo” non indica soltanto la qualità di questo Spirito ma l’attività di consacrare,di separare l’uomo dal male – e Gesù non ha bisogno di essere separato dal male. 
 “« E lo Spirito …»” – quindi la totalità dell’amore di Dio – “« .. discendere verso di lui …»”  : nel momento in cui Gesù sale dall’acqua, ecco un movimento che dal cielo, scende lo Spirito su Gesù. 
Questo termine – “Spirito” – lo ritroviamo anch’esso poi nella morte di Gesù, quando Gesù “spirò”, che nel greco ha la stessa radice di “Spirito”: Gesù sulla croce,lo Spirito che ha ricevuto al momento del battesimo, lo comunica a quanti lo accolgono, e con lui e come lui vorranno dedicare la propria vita per il bene degli uomini. 
Questo Spirito discende verso di lui “«… come una colomba … »”. Perché questa immagine della colomba? Era proverbiale l’amore della colomba per il proprio nido: alla colomba anche se gli si cambia il nido, lei torna sempre al suo nido originario. 
Quindi, Gesù è il nido,è la dimora dello Spirito. In più l’immagine che c’è nel libro della Genesi, che lo Spirito del Signore si librava – al momento della creazione – sulle acque, veniva interpretata dai rabbini come il volo di una colomba sulla sua nidiata. Quindi, questo riferimento alla creazione fa vedere che in Gesù si realizza il compimento del progetto di Dio sull’umanità, il progetto della creazione.        
 
“« E venne una voce dal cielo …»” – mentre Gesù vide squarciarsi i cieli, quindi fu  una sua esperienza – qui la voce venne dal cielo, quindi è una dimostrazione per tutti. Ebbene, lo stesso termine “voce” – in greco “ fonè ” – lo ritroviamo al momento della morte di Gesù, quando – è strano che Gesù agonizzante, ormai morente – scrive l’evangelista – ”diede un grande grido“ : il termine “grido” e “voce”,in greco è lo stesso.  
E’ un grido di vittoria perché l’amore è più forte della morte,l’amore è più forte del peccato: quando Pietro ha tradito Gesù, il gallo ha cantato ed il verbo nella lingua greca è lo stesso,è il  “grido” . Ebbene,l’amore di Gesù è più forte del peccato del proprio discepolo: quindi è il  “grido”  di vittoria. 
E qui la voce dal cielo – l’evangelista ci riporta una citazione del Salmo 2,il versetto 7 –  “«Tu sei Figlio mio»”. Qui non indica tanto chi è Gesù,ma chi è Dio: se Gesù è intenzionato a dedicare tutta la propria esistenza per comunicare vita agli uomini – figlio è colui che assomiglia al padre nel suo comportamento – significa che questo è il lavoro di Dio.  Il lavoro di Dio è comunicare vita agli uomini perché l’abbiano in abbondanza.      
“«Tu sei il Figlio mio»”- e questa espressione “il Figlio di Dio, Figlio mio” – la ritroviamo anch’essa al momento della morte di Gesù: l’unico che ha capito Gesù, non sono stati né i suoi familiari,né i discepoli,tantomeno i sacerdoti ed i farisei, ma un pagano,uno straniero,il centurione,il boia presente alla crocifissione.       Scrive l’evangelista che “vedendolo spirare in quel modo … “- in quel modo ricco d’amore – “… il centurione esclamò: « Veramente quest’uomo era Figlio di Dio! »”. Quindi, abbiamo visto come i termini del momento del battesimo, l’evangelista poi li ripropone al momento della morte di Gesù, per indicare che, per Gesù, il battesimo è l’accettazione di morte nel futuro: per essere fedele all’amore di Dio, per liberare gli uomini, Gesù andrà incontro alla morte. 
Poi si conclude questo brano con l’espressione “«… l’amato …»” . L’amato significa il figlio erede,colui che eredita tutto del Padre: non si può dividere Gesù da Dio,Dio e Gesù sono la stessa cosa.  In Gesù,Dio manifesta quello che è : Amore senza fine per tutta l’umanità. 
 “«… : in te ho posto il mio compiacimento».” : il compiacimento del Padre è stata la comunicazione di pienezza di vita – lo Spirito – che poi Gesù comunicherà a quanti lo accoglieranno.              

 

 

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