il commento al vangelo della domenica

TUTTI QUELLI CHE TROVERETE CHIAMATELI ALLE NOZZE 

Commento al Vangelo della domenica ventottesima del tempo ordinario (12 ottobre) di p. Alberto Maggip. Maggi

Mt 22,1-14

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La parabola dei vignaioli assassini ha scatenato l’ira dei sacerdoti e dei farisei che, scrive l’evangelista, capirono che parlava di loro. Nessun segno di pentimento, né di conversione, ma cercano di catturarlo per eliminarlo. Ebbene di fronte a questa minaccia Gesù, non solo non indietreggia, ma rincara la dose con al terza e ultima parabola con la quale Gesù polemizza con le autorità giudaiche. Queste tre parabole sviluppano progressivamente il tema di fondo, la denuncia contro le massime autorità religiose che si mostrano refrattarie e ostili al disegno di Dio. In questa parabola Gesù dice il perché, qual è il motivo di questa ostilità: la convenienze, l’interesse.

Sentiamo allora il vangelo di Matteo, cap. 22 versetti 1-14. Gesù riprese a parlare loro, ai sommi sacerdoti, agli anziani e anche ai farisei, con parabole. “Il regno dei cieli”, è importante che Gesù parli di un regno dei cieli, non di un regno nei cieli, non sta parlando dell’aldilà ma della nuova società alternativa che Dio vuole inaugurare su questa terra. “E’ simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”. Ancora una volta tornano un padre e un figlio e questa volta Gesù paragona il regno dei cieli, cioè il regno di Dio, questa nuova alternativa che lui è venuto a proporre, con la festa più bella e gioiosa che c’è nella vita degli individui, una festa di nozze. “Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”. Ebbene il re non si scoraggia, manda altri servi e ora comprendiamo il motivo di questo rifiuto. E’ strano che si rifiuti di partecipare a una festa bella e gioiosa. “Dite agli invitati: ‘Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!’” Cerca di attirarli con l’aspetto più attraente della festa, cioè una grande mangiata. In tempi di grande fame, in tempi di grande miseria, si aspettavano le nozze per abbuffarsi. Ma Gesù dice: “Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. Rifiutano la proposta de regno per il proprio interesse. Gesù smaschera l’atteggiamento dei capi dell’istituzione religiosa che tutto quello che fanno è per la propria convenienza. Partecipare a un pranzo di nozze non è produttivo, non conviene, e, a una proposta di vita, rispondono con una di morte. “Altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”. E’ la sorte dei profeti inviati dal Signore. Quindi a una proposta di pienezza di vita, come le nozze, rispondono con una di pienezza di morte. “Allora il re si indignò: mandò le sue truppe”, e qui Gesù usa il linguaggio dei profeti, un linguaggio colorito e sta annunziando quella che sarà la sorte di Gerusalemme, che uccide i profeti, che ha seminato violenza e sarà travolta dalla violenza. “Fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. E’ la sorte che capiterà a Gerusalemme. Ma ecco la parte positiva. “Poi disse ai suoi servi: ‘La festa di era pronta, ma gli invitati non ne erano degni; ora andate …’” e qui è importante la traduzione, trovo scritto “i crocicchi delle strade”, ma non si tratta di crocicchi. Il termine greco indica il punto finale di un territorio, là dove le strade romane terminavano e iniziavano i sentieri di campagna. Era il punto finale del territorio, ma l’inizio di altri territori. Allora Gesù in questa parabola mette in bocca al re queste parole, di andare alle periferie, di questo si tratta. Le periferie è dove vivono gli esclusi, gli emarginati. E’ un’indicazione che l’evangelista da ai missionari per sapere dove orientare la loro predicazione. Andare nelle periferie, dato che ci sono le persone emarginate, i lontani, i rifiutati. “’E tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’”, tutti, non c’è più un popolo eletto, ma c’è una chiamata universale. “Usciti per le strade i servi radunarono tutti quelli che trovarono”, è interessante che Gesù parli prima di cattivi e poi di buoni, non c’è un giudizio, l’amore di Dio è offerto a tutti. L’amore di Dio non è concesso come un premio per i meriti delle persone, ma come un regalo per i loro bisogni. “Cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale”. La veste nel Nuovo Testamento e nel libro dell’Apocalisse, indica le opere buone delle persone, e il re rimprovera questa persona che non ha l’abito, di cui vedremo ora il significato. “Gli disse: ‘Amico, come mai sei entrato qui senza abito nuziale?’ Quello ammutolì”. Qual è il significato? Non basta entrare nella sala del banchetto. L’invito è aperto a tutti, ma una volta entrati occorre cambiare. Gesù ha messo la conversione come condizione per appartenere al regno di Dio. A una società basata sui valori dell’avere, del salire, del comandare, Gesù offre una possibilità alternativa di una società diversa dove ci sia la condivisione, lo scendere e il servire. Questo è l’abito, quindi non basta entrare, ma bisogna cambiare. “Allora il re ordinò ai servi: ‘Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”’. Adoperando le immagini tipiche e il linguaggio colorito dei profeti della scrittura, Gesù parla della frustrazione per la perdita di un’occasione unica nella propria vita. La conclusione: “Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Per molti si intende tutti. L’amore di Dio è rivolto a tutti, ma purtroppo ci sono poche persone che l’accolgono in pienezza.

p. Maggi e don Luciano commentano il vangelo della domenica

maggi

 

“PENTITOSI ANDO’ “

I PUBBLICANI E LE PROSTITUTE VI PASSANO AVANTI NEL REGNO DI DIO  

 commento al Vangelo della domenica ventiseiesima del tempo ordinario (28 settembre) di p. Alberto Maggi

Mt 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

I capi religiosi sono furibondi contro Gesù perché Gesù ha dichiarato che il tempio è un covo di ladri dando implicitamente a loro dei “banditi”. Allora si scagliano contro Gesù e chiedono con quale autorità Gesù faccia questo. E Gesù non risponde.
Gesù dice: “Prima ditemi voi con che autorità esercitava Giovanni il Battista. Veniva il suo insegnamento dal cielo”, cioè da Dio, “o dagli uomini?”.
E le autorità non rispondono. Non rispondono perché tutto quel che determina il comportamento delle autorità religiose è in base al loro unico Dio, quello che regola la loro esistenza, la convenienza. Tutto quello che fanno è per la loro convenienza.
Ed è in base alla loro convenienza che ragionano. Se diciamo “del cielo”, allora diranno “E perché non gli avete creduto?” Quindi confessano di non aver creduto all’inviato da Dio. Se diciamo “dalla terra”, la gente pensa che Giovanni è un profeta e quindi noi ci rimettiamo. Quindi non rispondono.
Allora è ad essi che Gesù rivolge questa parabola di Matteo, cap. 21,28-32.

Quindi quello che Gesù dice è rivolto alle massime autorità religiose. “«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli, si rivolse al primo e disse: ‘Figlio… ‘» “
Il termine greco adoperato dall’evangelista è pieno di tenerezza. Potremmo tradurlo meglio con “Figliolino mio”. E’ lo stesso verbo da cui nasce la parola “partorire”, e quindi è un verbo di grande tenerezza materna. “«’Oggi vai a lavorare nella vigna’»”, la vigna si sa è immagine del popolo di Israele. “«Egli rispose: ‘Non ne ho voglia’, ma poi si pentì e vi andò»”.
Quindi c’è un primo figlio che risponde di no all’invito del Signore, ma poi si pente. “«Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: ‘Sì signore’»”. Mai fidarsi di quelli che dicono Si Signore! Questo secondo non ha un rapporto con il padre, non ha detto “Sì padre”, dice “Si signore”. Lui è un signore al quale obbedire.
“«Ma non vi andò»”. Nelle parole di Gesù c’è l’eco della denuncia ripresa dallo stesso Gesù del profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. “Si, Signore”, ma non hanno nessuna intenzione di collaborare all’azione di questo signore al quale si rivolgono con tanto ossequio. E Gesù aveva detto: “Non chi mi dice Signore Signore …” Quindi queste persone si sa già che sono escluse dalla realtà di Dio.
E Gesù allora chiede alle autorità religiose, “«Quale dei due ha compiuto la volontà del padre?»” Ecco che appare il termine “Padre”. Sarebbe stato meglio che anche questa volta fossero stati zitti, che non avessero risposto. Invece rispondono. “«Risposero: ‘il primo’»”.
“E Gesù disse loro: «In verità…»” Quindi è un’affermazione solenne, importante, “«Io vi dico …»” E Gesù contrappone ai sommi sacerdoti anziani, i primi della società, gli intimi di Dio, pubblicani e prostitute, gli ultimi della società, gli esclusi da Dio.
“«Pubblicani e prostitute vi passano avanti»”. La costruzione del verbo greco , tradotto con “passare avanti”, non indica precedenza, cioè vi passano avanti e poi voi venite, ma indica esclusione, cioè vi hanno preso il posto.
 Quelli che voi pensate siano responsabili del ritardo del regno di Dio, loro ci sono già e voi siete rimasti fuori. E Gesù conclude: “«Giovanni»”, ecco che ritorna l’argomento del Battista, “«infatti venne a voi sulla via della giustizia e non gli avete creduto»”.
Mai le autorità religiose crederanno ad un inviato da Dio. Mai! Sono completamente refrattarie agli annunci divini. Sono completamente sordi alla parola del Signore. “«I pubblicani e le prostitute»”, cioè le categorie considerate da Dio, quelle per le quali si credeva fosse ritardato il regno, “invece gli hanno creduto”.
“«Voi al contrario avete visto queste cose ma poi non vi siete nemmeno pentiti»”. Ecco tre volte nel vangelo di Matteo appare il verbo “pentire”. Qui nella parabola del figlio che si pente, nel caso di Giuda il traditore che si pente, ma le autorità no. Le autorità non si pentiranno mai. Si è pentito Giuda, ma le autorità non si pentiranno mai., perché quello che determina il loro comportamento è la convenienza, l’unico Dio nel quale essi credono.
Non hanno altra divinità alla quale rispondere. L’evangelista ci fa comprendere che le autorità religiose sono completamente refrattarie alla buona notizia di Gesù perché dovrebbero perdere il loro potere, i loro privilegi e il loro prestigio. E la buona notizia di Gesù è un invito ad essere espressione dell’amore che si fa servizio per gli uomini.

IL MIRACOLO DEL PENTIMENTO   

il commento di don Luciano:
  La Parola di Dio è sempre molto incisiva e molto efficace.  Un uomo aveva due figli’. Si potrebbe tradurre così: un uomo aveva due stili di vita, due anime, due cuori: un cuore che dice sì; uno che dice no, che dice e poi si contraddice. Sì, siamo tutti così, contradditori e incerti. Siamo una contraddizione vivente, che S. Paolo stigmatizza in questo modo: ‘Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio’ (Rm 7,19). Uno che dice di sì e uno che lo contraddice. Due figli, due figure contrastanti, che ci assomigliano moltissimo. Abbiamo tutti due anime, davanti a Dio e davanti agli uomini, quella dell’apparire (fingere), e quella dell’essere veri (anche se nessuno vede e sa); quando mettiamo la maschera e quando la togliamo.  Gesù sa molto bene come siamo fatti, non si illude! Nessuno dei due figli può vantare un’obbedienza perfetta.  Non esiste un terzo figlio ideale che, senza contraddizioni, dice e fa (Gesù a parte!). La nostra vita non ha un percorso lineare. Non esistono cristiani perfettamente coerenti nelle parole e con i fatti. E questo perché il nostro rapporto con Dio non è vissuto sempre in piena libertà, in quanto non è sempre un rapporto d’amore. Infatti, se noi, come questi due figli della parabola, riuscissimo a scoprire che Dio non è un padrone, ma un ‘padre vero’, con cui vivere un rapporto di amore, allora sì che troveremmo la libertà, saremmo felici e obbediremmo anche volentieri a un padre così.  E’ proprio vero: Dio non ha bisogno di schiavi che lavorino nella sua vigna, ma di figli… La differenza decisiva tra i due figli della parabola sta tutta qui: uno diventa figlio (il primo), è coinvolto nel fare la volontà del padre; l’altro (il secondo) rimane un servo, esecutore di ordini. Ma la parola più importante del Vangelo di oggi è: ‘si pentì’ e vi andò’. Ha riflettuto, si è messo in discussione e ha cambiato vita.  ‘Pentirsi’: mutare avviso, ri-credersi, ripensarci. Ma il primo figlio ha cambiato soprattutto il modo di vedere il padre. E così diventa veramente ‘figlio’. Quanto mi riempie il cuore di gioia la figura del primo figlio che si pente, ci ripensa, si ricrede e finalmente diventa ‘figlio’ nel vero senso della parola. Mi fa pensare che per Dio ‘non è mai troppo tardi’!  Si possono sempre riscattare tante pagine sbagliate della nostra storia. Finché siamo su questa terra, per noi è sempre possibile dare una sterzata, ‘raddrizzare la nostra vita’. Dio, soprattutto con il suo perdono, mi permette sempre di ricominciare e mai da zero.  ‘La nostra vita si rinnova in una serie di inizi che non finiscono mai’ (S. Gregorio di Nissa).  Guai se nel cammino di fede ci scoraggiamo e diciamo: ‘Sono fatto così, e non posso farci proprio nulla!’ oppure: ‘Lascio perdere tutto, perché, se continuo così, sono un ipocrita!’.  Dio non chiude mai il conto con noi: ogni giorno ci chiama alla conversione, basta che lo ascoltiamo e lo vogliamo! Un prete così ha risposto a chi gli confidava con tristezza la sua lontananza da Dio: ‘Ma io non riesco a credere in Dio’, gli veniva detto in un colloquio. E lui osservava: ‘Ciò che importa è che Dio creda in te!’. Dio crede in
noi sempre, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi nel dire il ‘sì’ che lui attende.       Spesso nella nostra vita di cristiani c’è un’incoerenza cronica tra ciò che professiamo in chiesa e la nostra vita di fuori, in casa, per strada, al lavoro. Più volte nel Vangelo di Matteo Gesù dice che non bastano le parole, ma ciò che conta veramente è ‘fare’ la volontà di Dio. Paolo VI ha affermato in maniera molto forte che la rottura tra fede e vita è senza dubbio il dramma vero della nostra epoca. Il messaggio di Gesù è molto attuale.  La fede non può essere solo sentimento, devozione, emozione, slancio di un momento, che non entra mai nelle pieghe della vita. Quante volte in noi la fede rimane esclamazione sentimentale, fatta di parole dolci. Una fede che ci fa sentire buoni, devoti, lasciando intatte tutte le nostre povertà e ingiustizie che commettiamo ogni giorno.  Oppure: quante volte la nostra fede rimane esclusivamente liturgica, fatta di belle cerimonie, di momenti belli vissuti insieme, ma poi, usciti dalla chiesa, tutto finito! La fede è assumersi un impegno di vita e portarlo fino in fondo. Quante volte ci accorgiamo di essere più capaci di un grande sforzo che di una lunga perseveranza e di un lungo tirocinio evangelico. Sui principi siamo sempre tutti d’accordo e nelle azioni risultiamo sempre tutti peccatori: ciò che diversifica è l’atteggiamento che assumiamo quando siamo smascherati nella nostra doppiezza o superficialità. Perché invece non vedere queste situazioni, oggettivamente umilianti, come la modalità caparbia del Signore di rompere la nostra corazza che ci impedisce di accogliere profondamente la correzione? Che sia la Scrittura, che sia una vicenda in cui siamo coinvolti, che sia la parola franca di un fratello: possono essere tutti strumenti mediante i quali la nostra esistenza riacquista libertà e vigore, strappandoci alla cecità del nostro orgoglio e della nostra autosufficienza.       Com’è possibile allora che i nostri ‘sì’ rimangano ‘sì’ e non diventino ‘no’? I nostri ‘sì’ rimarranno ‘sì’ solo se la nostra amicizia con Gesù sarà sempre più forte e costante. Perché in lui c’è stato solo il ‘sì’. Lui è l’ Amen  di Dio, il testimone fedele. Nell’Amen di Cristo sulla croce i nostri ‘sì’ rimangono ‘sì’.      E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. I pubblicani e le prostitute sono migliori di voi, sacerdoti e anziani del popolo, perché, nonostante i loro peccati, sono capaci di amare. Voi, invece, vi chiudete nella vostra presunta irresponsabilità, nel vostro perbenismo, legalismo e siete incapaci di amare e quindi di mettervi in discussione.  Il Signore non ha paura dei nostri peccati, della nostra debolezza. Il problema non è non sbagliare mai, il che è impossibile. Il problema è conservare in fondo al cuore, nonostante tutto, un angolino dove io possa essere ancora vero, dove possa commuovermi di fronte all’amore che mi insegue e cambiare. La Chiesa non ha mai avuto paura di proporre come modelli di vita cristiana dei grandi peccatori, che hanno talmente amato da pentirsi e diventare santi: S. Agostino, S. Camillo de Lellis, S. Margherita da Cortona… E’ più grande un uomo che sbaglia, ma conserva la capacità di pentirsi e quindi di amare, di commuoversi, di un uomo che, magari sbaglia di meno, ma è freddo, prigioniero delle sue regole e incapace di amare.
Le tue parole, Gesù, suonano come un insulto  per i devoti e gli osservanti di ieri e di oggi, per tutti quelli che ritengono di aver diritto ad un premio, ad un posto di riguardo nel Regno che tu annunci.
Prostitute e pubblicani non sono certamente stinchi di santi, eppure avvertono la necessità di pentirsi, di cambiar vita. Diversamente da noi che, molto spesso, ci siamo costruiti un sistema di vita impermeabile al tuo Vangelo, alla tua richiesta di mutare
direzione, atteggiamenti, stile di vita.
Ti abbiamo sulle labbra, ma il nostro cuore è lontano da te. Discutiamo di problemi teologici e pastorali, ma diamo per scontato che le nostre scelte siano le migliori, che le nostre idee siano quelle giuste, che non ci sia dunque nulla da togliere, da aggiustare, da trasformare nella nostra esistenza.
Signore,  fa’ che non siamo mai troppo sicuri di noi stessi, fa’ che sappiamo metterci in discussione, fa’ che ci convertiamo ogni giorno

il commento al vangelo domenicale di p. Maggi e di p. Agostino

SEI INVIDIOSO PERCHE’ IO SONO BUONO?

Commento al Vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario (21 settembre) di p. Alberto Maggi

maggi

Mt 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece “sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), offrendo a tutti il suo amore. Un Dio del genere sembra ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15). In essa viene presentato un proprietario terriero che assolda dei braccianti per la sua vigna. L’importanza del lavoro fa sì che sia il padrone stesso a uscire da casa all’alba, per andare alla piazza del paese, e ingaggiare operai (Mt 20,1). La paga era un denaro il giorno, ed è questa che il padrone assicura ai lavoratori. La gran disponibilità di mano d’opera faceva sì che con una sola chiamata di operai si potesse soddisfare il fabbisogno dell’intera giornata.
Invece, a sorpresa, verso le nove del mattino, il padrone esce di nuovo, in cerca di altri operai. Non lo fa per la necessità della vigna, i primi chiamati sono più che sufficienti, ma li assolda perché essi sono ancora disoccupati, e senza lavoro, in quella società, significa non mangiare. È al loro bisogno che il padrone pensa. E a questi promette di dare un compenso in base al lavoro fatto (“quello che è giusto”, Mt 20,4).
A metà giornata, l’uomo torna di nuovo in piazza, e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Ormai di operai nella vigna ce ne sono abbastanza, ma il padrone è più preoccupato dal fatto che ci siano persone senza lavoro che del suo interesse. Ed è ormai quasi il tramonto, verso le cinque del pomeriggio, quando il padrone si reca in cerca di altre persone che nessuno ha chiamato a lavorare. Manca soltanto un’ora al termine della giornata lavorativa, ormai nessuno li prenderà più. Non hanno lavorato, quindi non mangeranno. Se nessuno ha pensato a loro, se ne occupa il padrone della vigna, che chiama anche questi a lavorare, senza parlare però di alcun compenso: non lavoreranno neanche un’ora, e potranno essere ripagati con un tozzo di pane.
La piazza del paese è deserta. Nessun bracciante è in attesa del lavoro: sono tutti alla vigna, che sovrabbonda di operai. Quelli che hanno iniziato il lavoro all’alba, sono stati ben felici di veder arrivare durante tutto il giorno altre braccia per aiutarli nel lavoro; con il loro apporto la giornata non è stata pesante. La loro felicità si trasforma in entusiasmo quando vedono che il fattore comincia a pagare gli ultimi, quelli che hanno lavorato un’ora scarsa, e dare loro un denaro: non è una paga, ma un regalo. Se quelli che hanno lavorato un’ora ricevono quanto era stato pattuito con i primi lavoratori per una giornata intera, a quelli che hanno sopportato il peso della giornata e la calura certamente verrà dato almeno tre volte tanto.
Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro, come era stato pattuito, sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto. Il signore della vigna non è stato ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Non toglie nulla a quelli che hanno lavorato dall’alba, ma vuole dare lo stesso salario anche agli ultimi. Difendendo il suo comportamento, il padrone della vigna si definisce buono (“Sei invidioso perché io sono buono?”, Mt 20,15). Nell’atteggiamento del proprietario della vigna, Gesù raffigura quello del Padre.
Dio non è un padrone severo, ma un signore generoso che non retribuisce gli uomini secondo i loro meriti, ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un premio, ma come un regalo. Quel che motiva il suo agire è la necessità dell’uomo, la sua felicità. E se a qualcuno questo comportamento può sembrare ingiusto, e non gli sta bene, è perché il suo è un “occhio maligno” (Mt 20,15), quello dell’avaro, dell’invidioso (Dt 15,9), di colui che fa tutto per la sua convenienza. Questi non potrà mai capire l’agire di un Dio che non “cerca il proprio interesse” (1 Cor 13,5), ma quello dell’uomo.

p. agostino

Dio germoglia dalla strada.

il commento di p. Agostino dalla sua convivenza coi rom di Coltano

Sembra proprio, alla luce di questa parabola dedicata al Regno dei cieli, che questi non sempre si concilia con il “merito”, parola chiave oggi in tanti nostri contesti sociali.

Oggi quasi tutto si misura in base al merito, al rendimento. Qualche anno fa circolava con disinvoltura quella bruttissima espressione: meritocrazia.

Vedo il rischio che la meritocrazia comprometta e annulli un’altra parola, quella della gratuità, della bontà, tipica dell’essere umano e del cuore di Dio. E questo può succedere anche in contesti religiosi, soprattutto quando ci si confronta con gli ultimi, che in nome di una carità efficiente e moderna (in sinergia, come si usa ripetere spesso)), si fa prevalere quasi sempre il merito, il risultato.

 

“Ti aiuto quando te lo meriti!

Se cambi (come voglio io), meriti la mia comprensione.

Se smetti di accattonare.

Se mandi i bambini a scuola.

Se ti cerchi un lavoro.

Se stai a quello che ti dico, potrai avere (meritare) qualcosa in cambio.

Se hai il Permesso di Soggiorno in regola puoi dormire qui.

Se.. se.. se..”

 

Più contabili e ragionieri che accompagnatori.

Noi spesso guardiamo gli ultimi dall’alto dei nostri meriti, delle nostre conquiste: dall’alto in basso. Il padrone della vigna, invece calcola partendo proprio dagli ultimi arrivati, dalle loro necessità. Non un Dio ragioniere, contabile. Noi riusciamo a farlo? Come traduciamo questo sguardo di bontà, questo atteggiamento anche nei nostri cammini pastorali?

Dio sembra guardare il mondo proprio attraverso gli occhi degli ultimi arrivati nella sua vigna. Anche oggi, questo provoca diverse reazioni dei “buoni-bravi”:

 

“ Ma come? Questi migranti appena arrivati, quanto ci costano! Lo stato gli dà 35 € al giorno e sono i nostri soldi, e noi che affrontiamo la crisi, lo stato non ci da niente!”

“Quanto sono furbi e insistenti..devono imparare a rispettare le regole!”

“La precedenza a noi, che abbiamo lavorato e faticato, poi quel che rimane a loro, che non hanno fatto niente.”

 

Amico, io non ti faccio torto..oppure sei invidioso perché io sono buono?”

 

Che ci piaccia o no, anche gli ultimi hanno una loro specifica “missione”: quella di scuotere e disturbare le nostre certezze granitiche, come il nostro sentirci “buoni” a distanza di sicurezza dagli ultimi e di credere di avere Dio sempre e solo dalla nostra parte.. Attraverso gli ultimi arrivati forse, lo stesso Dio ci sussurra, che ancora oggi Lui entra nella nostra storia sui loro passi:: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri. Le vostre vie non sono le mie vie.” (Is. 55, 8)

E’ un Dio che manifesta e rivela la sua bontà partendo dagli ultimi, che (ci) guarda dal basso, dal fondo, mai sazio di uscire lungo le strade del mondo, capace di raggirare le nostre regole e continua ancora oggi a far germogliare il suo “magistero” dalla strada, proprio grazie a loro: gli ultimi arrivati!

 

Ebbene, quale Dio annunciamo nelle nostre assemblee, nei nostri convegni pastorali?

Il Dio visto con gli occhi dei “primi” o attraverso gli occhi degli “Ultimi”?

 

 

 

 

 

 

il vangelo della domenica commentato da p.Maggi

p. Maggi

CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO 

Commento al Vangelo della ESALTAZIONE DELLA CROCE  (14 settembre 2014, domenica ventiquattresima del tempo ordinario) di p. Alberto Maggi

Gv 3,13-17

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.»

Nel dialogo con il fariseo Nicodemo, capo dei Giudei, Gesù si rifà ad un episodio conosciuto della storia di Israele contenuto nel Libro dei Numeri.
Al capitolo 3, versetto 14 l’evangelista scrive: “«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto»”; i serpenti erano stati inviati da Dio per castigare il popolo secondo lo schema classico di “castigo-salvezza/perdono”. In Gesù invece c’è soltanto salvezza.
“«Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo»”, Gesù si riferisce alla sua futura morte in croce e parla del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha la pienezza della condizione divina.
“«Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna»” – credere nel Figlio dell’uomo significa aspirare alla pienezza umana che risplende in questo figlio dell’uomo.
Per la prima volta appare in questo vangelo un tema molto caro all’evangelista, cioè quello della vita eterna. La vita eterna non è, come insegnavano i farisei, un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una qualità di vita già nel presente. E si chiama “eterna” non tanto per la durata senza fine, ma per la qualità indistruttibile.
E questa vita eterna non si avrà in futuro, ma si ha già. Chiunque da adesione a Gesù, quindi aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù.
“«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»”, il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che offre, che arriva addirittura a offrire se stesso. “«Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»”.
La vita eterna non si ottiene, come insegnavano i farisei, osservando la legge, cioè un codice esterno all’uomo, ma dando adesione al Figlio dell’uomo. E Gesù appare qui come il dono dell’amore di Dio per l’umanità. Dio è amore che desidera manifestarsi e comunicare. E Gesù è la massima espressione di questa manifestazione e comunicazione di Dio. “«Dio infatti non ha mai mandato il Figlio nel mondo per condannare»”, anche se il verbo qui non è condannare, ma “«giudicare il mondo»”.
Di nuovo qui Gesù sta parlando con un fariseo, demolisce le attese di un messia giudice del popolo. Quindi il Figlio non è venuto per giudicare il mondo, “«ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»”. Dio è amore e in lui non c’è né giudizio né condanna, ma c’è soltanto offerta di vita.

p. Maggi e p. Agostino commentano il vangelo domenicale

TU SEI PIETRO, E A TE DARO’ LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI  

Commento al Vangelo della domenica ventunesima del tempo ordinario (24 agosto 2014) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

 

 

Mt 16,13-20

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Per tenere lontani i  suoi discepoli dal lievito dei farisei, cioè dalla dottrina dei farisei e dei sadducei, Gesù li porta lontano dall’istituzione religiosa giudaica e li conduce all’estremo nord del paese. E quanto scrive Matteo, nel capitolo 16, versetti 13-20.
“Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo”, Cesarea di Filippo è all’estremo nord del paese, è la città costruita da uno dei figli di Erode il Grande, Filippo, e, per distinguerla dall’altra Cesarea marittima, è stata chiamata Cesarèa di Filippo.
All’epoca di Gesù la città era in costruzione. Questo è un dettaglio da tener presente, nei pressi della città si trovava una delle tre sorgenti del fiume Giordano, che era anche ritenuta l’ingresso del regno dei morti. Quindi sono elementi che occorre tener presente per la comprensione di quello che l’evangelista ci narra.
Ebbene Gesù conduce i suoi discepoli così lontano dalla Giudea e anche dalla Galilea per porre loro una domanda. “Domandò ai suoi discepoli: «La gente»”, letteralmente “gli uomini”, “«chi dice che sia il Figlio dell’uomo?»” L’evangelista contrappone gli uomini al Figlio dell’uomo, l’uomo che ha la condizione divina, quindi l’uomo che ha lo spirito e quelli che non ce l’hanno.
Gesù vuole rendersi conto di quale sia stato l’effetto della predicazione dei discepoli che lui ha inviato ad annunziare la novità del regno. La risposta è deludente. “Risposero: «Alcuni dicono Giovani il Battista»”, perché si credeva che i martiri sarebbero subito risuscitati, “«altri Elìa»”. Elia, secondo la tradizione, non era morto, ma era stato rapito in cielo e sarebbe tornato all’arrivo del futuro messia.
“«Altri Geremia»”, sempre secondo la tradizione era scampato a un tentativo di lapidazione, “«o qualcuno dei profeti». Si aspettava uno dei profeti annunziato da Mosè, comunque tutti personaggi che riguardano l’antico. Nessuno, né i discepoli né la gente alla quale essi si sono rivolti, ha compreso la novità portata da Gesù.
Allora Gesù dice: “«Ma voi»”, quindi si rivolge a tutto il gruppo, “«Chi dite che io sia?»” Gesù si è rivolto a tutto il gruppo dei discepoli, ma è soltanto uno che prende l’iniziativa. “Rispose  Simon Pietro”, Simone è il nome, Pietro è un soprannome negativo che indica la sua testardaggine, e quando l’evangelista lo presenta con questo soprannome, significa che c’è qualcosa di contrario all’annunzio di Gesù.
“Rispose  Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»”. Finalmente c’è uno dei discepoli che ha capito che Gesù non è il figlio di Davide, colui che con la violenza impone il regno, ma è il figlio del Dio (letteralmente) vivificante, cioè comunica vita. “E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone»”. Perché beato? Pietro è il puro di cuore e quindi può vedere Dio.
Gli dice “beato”, però lo chiama “«figlio di Giona»”. “Figlio”, nella cultura ebraica non indica soltanto chi è nato da qualcuno, ma chi gli assomiglia nel comportamento. E Gesù lo chiama “figlio di Giona”. Giona è l’unico tra i profeti dell’Antico Testamento che ha fatto esattamente il contrario di quello che il Signore gli aveva comandato. Infatti il Signore gli aveva detto: “Giona, vai a Ninive a predicare la conversione altrimenti io la distruggo” e Giona fece il contrario.
Anziché andare verso est, si imbarcò sulla nave e puntò ad ovest. Poi finalmente Giona si convertì. Quindi in questo figlio di Giona Gesù fa il ritratto di Pietro: farà sempre il contrario di quello che Gesù gli chiederà di fare, ma poi alla fine si convertirà.
“«Perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.»” Ecco Pietro è il beato perché è il puro di cuore che può vedere Dio. “E io dico a te: «Tu sei Pietro»”, il termine greco adoperato dall’evangelista è Petros, che indica un mattone, un sasso, che può essere raccolto e usato per una costruzione. “«E su questa pietra»”. Pietra no è il femminile di Pietro. L’evangelista adopera il termine greco Petra che indica la roccia che è buona per le costruzioni. E’ lo stesso termine che Gesù, nel capitolo 7, ha scelto per la casa costruita sulla roccia.
Quindi Gesù dice a Simone: “Tu sei un mattone. Su questa roccia”, e la roccia è Gesù, “«Edificherò la mia chiesa»”. Il termine greco ecclesia non ha nulla di sacrale, ma è un termine profano che indica l’adunanza, l’assemblea di quelli che sono convocati. Quindi Gesù non viene a costruire una nuova  sinagoga, ma una nuova realtà che non ha connotazioni religiose, e per questo adopera questo termine laico. “«E le potenze»”, letteralmente “le porte”; le porte di una città indicavano la sua forza, la potenza. “«Degli inferi»”, cioè del regno dei morti. Ricordo che la scena si svolge vicino a una delle grotte che si pensava essere l’ingresso nel regno dei morti,  “«Non prevarranno contro di essa».
Quando una comunità è costruita su Gesù, il figlio del Dio vivente, quindi si comunica vita, le forze negative, le forze della morte, non avranno alcun potere.
“«A te darò le chiavi del regno dei cieli»”. Concedere le chiavi a qualcuno significava ritenerlo responsabile della sicurezza di quelli che stavano dentro. Abbiamo detto altre volte che il regno dei cieli nel vangelo di Matteo non significa un regno nei cieli, ma è il regno di Dio. Quindi Gesù non dà a Pietro le chiavi per l’accesso all’aldilà, non lo incarica di aprire o chiudere, ma lo ritiene responsabile di quelli che sono all’interno di questo regno, che è l’alternativa che Gesù è venuto a proporre.
“«Tutto ciò che legherai sulla terra»”, qui l’evangelista adopera un linguaggio rabbinico, che significa dichiarare autentica o meno una dottrina, “«sarà legato nei cieli»”, cioè in Dio, “«E tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»”. Quello che Gesù ora dice a Pietro poi più tardi, al capitolo 18, lo dirà a tutti i discepoli.
Le ultime parole che Gesù adopererà in questo vangelo rappresentano l’invio dei discepoli ad andare ad insegnare “tutto ciò che vi ho comandato”. Quindi nell’insegnamento di Gesù, questo messaggio che comunica vita, c’è l’approvazione divina, da parte dei cieli. Però, ecco la sorpresa, “Ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”.
Quando Gesù ordina significa che c’è resistenza. Nella risposta di Pietro c’era stata una parte positiva in quanto ha riconosciuto Gesù come il figlio del Dio che comunica vita, il Dio vivente, ma la parte negativa qual è? La gente ha detto che tu sei il Cristo, cioè il messia atteso dalla tradizione. Allora Gesù dice: “questo non lo dovete dire a nessuno”, perché lui non è il messia atteso dalla tradizione.
Gesù è Cristo, è il messia, ma in una forma completamente diversa, non adopererà il potere, ma l’amore; non il comando, ma il servizio. E questo provocherà adesso lo scontro proprio con Simone. Quello che era stato definito “pietra” da costruzione, diventerà una pietra di scandalo.

il commento di p. Agostino:

p. agostino

 

 

 Camminare .. domandando.

La gente, chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?”

Ma era così necessario chiedere a loro, per sentire l’opinione che la gente aveva di Gesù’?

Che bisogno c’era, d’altronde Gesù’ già durante il suo Battesimo al Giordano, sentì bene quella voce che veniva dall’alto, aveva parlato chiaro e forte. Come avvenne anche sul monte della Trasfigurazione. Non c’era alcun dubbio: ” Tu sei il mio Figlio prediletto, ascoltatelo!”. Sono gli altri che lo devono star a sentire, non viceversa!

Perché Gesù’ sente il bisogno di sapere, cosa dice e pensa la gente di Lui?

Non certo per il gusto dei sondaggi, tipico di chi aspira al potere e fa di tutto per tenerselo stretto.

In fin dei conti e’ il Figlio di Dio, che bisogno ha di domandare conferma, di interrogare i suoi discepoli..non e’ forse una perdita di tempo e di credibilità: vatti poi a fidare dei commenti della gente! Tutto sommato a questa precisa domanda di Gesù, le risposte questa volta, non erano state del tutto negative: Elia, Geremia, Giovanni o uno dei profeti: tutte figure di rilievo. Altre volte invece, i commenti erano stati di tutt’altro genere!

 

Non e’ forse più urgente e importante affrettarsi ad annunciare il Regno, guarendo dentro i peccatori, curando i malati, amare i poveri..che fermarsi ad ascoltare quello che dice la gente?

 

“Sai cosa pensano di te, quelli del..?”

Varie volte i Rom del campo mi raccontano le voci, raccolte su di me da diverse persone: gage’, reom. In genere ci rimango un po’ male (ora un po’ meno), perché non sempre sono impressioni positive, a volte sono anche simpatiche, ma riconosco che c’e’ anche del vero. Credo sia utile lasciarmi “pensare” anche dagli altri, anche perché il loro punto di vista può aiutarmi/ci a mettere a fuoco aspetti dati per scontati, addirittura trascurati. Certo a volte e’ faticoso e anche doloroso, quando scopri di non essere stato capito proprio dall’amico, con il quale hai condiviso confidenze e fiducia.

Non e’ certo simpatico sentirsi ” spogliare”.

 

In questo brano Gesù’ sente il bisogno di confermare la sua identità, non attraverso il “colpo di illuminazione dall’alto”, ma in un modo del tutto umano, dal basso, attraverso la relazione con le persone e la gente che incontra lungo il suo cammino.

Anche il loro “punto di vista” interroga e aiuta Gesù a camminare e a scoprire la sua identità di uomo e di inviato dal Padre per manifestare la sua Misericordia. L’identità di Gesù, come la nostra è un cammino, non è un dato acquisito una volta per sempre, ma da cercare e costruire giorno per giorno, attraverso la fedeltà all’Amore e la compagnia degli uomini che Dio ci ha affidato: bravi e meno bravi, affidabili e no.

“Gesù cammina domandando” (Lidia Maggi).

E’ come un “lasciarsi fare dagli altri”, cosa non sempre facile, almeno per noi, più portati a dover essere sempre noi a voler fare per gli altri, soprattutto se questi, sono soggetti deboli e marginali.

Eppure Gesù domanda anche a ognuno di loro e a noi: “Ma voi, chi dite che io sia?”

 

 

23 Agosto 2014 – Campo Rom di Coltano (PI)

il commento al vangelo della domenica di p. Maggi e p. Agostino

croce

 

 

 

 

 

 

Mt 15,21-28

In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

DONNA, GRANDE E’ LA TUA FEDE!

 commento al vangelo della domenica ventesima del tempo ordinario (17 agosto) di p. Alberto Maggi :

maggi

Gesù intende annunciare l’amore universale del Padre. Universale non soltanto per l’estensione (ovunque), ma per la qualità di questo amore (per tutti), ma incontra tanta resistenza. Ne incontra nel suo popolo, la incontra tra i discepoli e la incontra tra gli stessi pagani che si erano abituati all’idea della supremazia di Israele. Allora Gesù, già nel capitolo 8 del vangelo di Matteo, annunzia che nel banchetto del regno il pane che è stato rifiutato dai giudei, diverrà il cibo per i pagani. E Gesù dice: “Verranno da oriente e da occidente”, cioè da tutte le popolazioni pagane, “e prenderanno il vostro posto”. Poi Gesù nel capitolo 15 di Matteo affronta la questione importante del puro e dell’impuro. La affronta dal punto di vista alimentare, ma era la base che distingueva la gente pura dai pagani, che erano impuri. E Gesù, dopo aver contraddetto il libro del Levitico che si basa proprio su questa distinzione, deve fuggire all’estero perché ha detto che non è quello che entra nella bocca che ti rende impuro, ma quello che esce. Dopo questo Gesù deve fuggire all’estero. Qui l’evangelista ci presenta l’incontro con la donna Cananèa. Leggiamo Matteo capitolo 15, dal versetto 21. “Partito di là”, quindi dopo essere fuggito dalla terra di Israele ed entrato in terra pagana, “Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco una donna Cananèa”. I Cananèi erano i Fenici ed erano uno dei popoli che nel libro del Deuteronomio (cap 7), devono essere votati allo sterminio, e“tu le voterai allo sterminio”. Quindi è una popolazione pagana, è una popolazione disprezzata e va sottomessa da Israele. “Che veniva da quella regione si mise a gridare: «Pietà di me»”. E’ il kyrie eleison che poi entrò nella liturgia della chiesa. Ebbene l’espressione “Signore pietà” nei vangeli è un’invocazione riservata a quelli che non conoscono Gesù. Quelli che non conoscono Gesù, che non sanno chi è, gli si rivolgono con “Signore pietà”. Quando si conosce Gesù, quando si conosce il Padre, non si dice più “Signore pietà” o “Signore misericordia”, perché si è già sperimentata nella sua pienezza. E lo chiama «Signore, figlio di Davide»”, come i ciechi che abbiamo visto in  precedenza in questo vangelo e che poi dopo ritorneranno – i due ciechi che si rivolgono a Gesù chiamandolo figlio di Davide. Ma Gesù non è il figlio di Davide! Figlio di Davide significa il messia, il messia guerriero che con la violenza inaugurerà il regno di Israele e sottometterà i popoli pagani. Il motivo della richiesta della donna è che «Mia figlia è molto tormentata da un demonio. Ma egli non le rivolse neppure una parola»”. Come mai Gesù non risponde all’invocazione di questa donna? Perché lei si è rivolta al figlio di Davide e Gesù non è il figlio di Davide, Gesù è il figlio di Dio. Ecco perché non risponde. Teniamo presente che tutto questo brano non è tanto una cronaca, quanto una catechesi per la comunità cristiana che ancora fa resistenza nell’andare verso i pagani. “Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono”, qui la traduzione della CEI riporta “esaudiscila”, ma è invece letteralmente “mandala via”. E’ lo stesso verbo che è stato usato quando, nella condivisione dei pani, i discepoli dicono a Gesù “manda via la folla”. Quindi «Mandala via, perché ci viene dietro gridando!»Quindi i discepoli non tollerano questa vicinanza da parte dei pagani che chiedono soccorso al Signore. “Ma egli rispose …” A chi risponde? Risponde ai discepoli che condividono la  stessa mentalità. «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele»”. Questo è il messia, figlio di Davide, che è venuto per la casa di Israele ad inaugurare il regno e sottomettere i pagani. “Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!»  già un progresso. Mentre prima s’è rivolta a Gesù invocandolo come figlio di Davide, adesso lo riconosce come Signore, ma chiede ancora di essere aiutata, quindi deve fare ancora un gradino in più per comprendere la pienezza dell’amore di Dio. “Ed egli rispose”, risponde sempre come figlio di Davide, «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini»”. I cagnolini non sono i cuccioli, ma i cani domestici che stavano in casa. Ebbene Gesù, secondo questa indicazione, distingue tra coloro che hanno diritto, i figli di Israele, e i cani, termine alquanto dispregiativo – il cane era un animale impuro – che indicava i pagani. Gesù, attraverso queste risposte, sta preparando i discepoli a quello che i discepoli non vorranno, a condividere il pane anche con i pagani. Gesù ha condiviso il pane con il popolo d’Israele e ora vuole portare i discepoli a condividere il pane con i pagani, ma loro non ci pensano, appunto perché i pagani sono considerati come i cani, esseri inferiori e impuri. Quindi nella crescita della fede della donna, l’evangelista vuole educare la crescita della fede dei discepoli, ma sappiamo che sarà più facile per Gesù convincere una persona pagana che i propri discepoli. E la risposta della donna è «E’ vero Signore – disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni»”. La donna comprende che la compassione e l’amore vanno al di là delle divisioni razziali, etniche e religiose che ci possono essere. «Donna, grande e la tua fede!»Gesù non elogia gli israeliti, gli ebrei, per la loro fede, ma sempre i pagani. Ha elogiato il centurione e adesso elogia una donna pagana. «Avvenga per te come desideri.» E da quell’istante sua figlia fu guarita”. Gesù non ha compiuto alcuna azione, Gesù non ha cacciato il demonio. La fede della donna è ciò che caccia il demonio, figura del pregiudizio religioso che discrimina le persone. Quindi, in questo brano l’evangelista vuole educare la comunità cristiana ad aprirsi ai pagani e far comprendere che i pagani non vanno dominati secondo la tradizione del messia figlio di Davide, ma vanno serviti secondo la novità del messia figlio di Dio.

una bella preghiera che, a commento di questo brano evangelico, p. Agostino eleva alla stessa donna cananea, per mezzo della quale Gesù è sollecitato ad una ‘conversione’ lasciandosi ‘evangelizzare’ da lei alla comprensione di un Dio presente ovunque, al di là di ogni steccato:

 

p. agostinoGrazie, donna Cananea, briciola di Dio

 

Hai spinto l’ebreo Gesù’ ad andare oltre gli steccati religiosi che ancora lo imprigionavano, che imponevano di diffidare degli stranieri, visti come pagani e a sentire la Fede nel Dio Liberatore come un monopolio di Israele.

Di fatto tu sei stata come una porta aperta, attraverso la quale Gesù’ si e’ sentito evangelizzato anche da una “pagana cananea”, scoprendo con gioia e meraviglia che Dio e’ veramente all’opera ovunque. Cosa hai sentito dentro di te quando lo hai visto avvicinarsi e passarti vicino? Senz’altro la preoccupazione per tua figlia malata era forte, doveva certo soffocarti dentro, chissà quanti tentativi, quante persone, dottori, santoni di ogni genere hai consultato..inutilmente.

 

E’ anche Grazie a te, che la luce del Vangelo oggi può brillare ovunque, anzi e’ viva e nascosta in ogni popolo e attende ancora di essere scoperta e mostrata a tutti.

 

Può essere nella “zingara” che chiede l’elemosina e supplica di essere aiutata, spesso ci da fastidio, non ci molla e ci segue supplicando un aiuto.. e’ lo stesso fastidio che hai dato tu a Gesù’, al punto che con poche parole stizzite ti ha invitato a stare al tuo posto, alla larga da Lui, a debita distanza.

Sapessi quante volte lo facciamo anche noi, ancora oggi. Non ci e’ facile scoprire ed accogliere il Vangelo che i lontani e gli stessi migranti portano nelle loro vite, sta a poca distanza da noi, eppure quasi sempre, notiamo e ci fermiamo solo al fastidio che ci procurano e non riusciamo ad andare oltre.

 

In fondo, anche noi crediamo di essere gli unici depositari di Dio, convinti che nel nostro zaino c’e’ già tutto di Dio, basta solo consegnarlo ai “pagani”, invece a volte dovremmo imparare ad andare da loro con lo zaino vuoto, perché possano loro: i poveri, i migranti, gli accattoni, i rom.. riempircelo delle ricchezze che Dio ha messo anche nelle loro mani e nelle loro vite.

Per noi e’ facile sentirci più portatori di Dio, che “scambiatori” di doni e di cammini aperti.

 

Tu hai come “sturato” la mente e il cuore di Gesù’, così che si aprisse un buco attraverso il quale, anche i pagani e gli stranieri potessero passare, superando così quei pregiudizi di Israele verso il tuo popolo, visto con disprezzo, perché pagano e straniero.

 

Per questo ti siamo riconoscenti, se anche oggi tu aiutassi pure noi ad allargare i nostri orizzonti, spesso ancora limitati e ristretti ai nostri campanili. Stimolaci a non temere di abbracciare quel Dio senza confini, come aiutasti quel giorno a farlo comprendere a quel Gesù’, che osò passare dalle tue parti, nella zona di Tiro e di Sidone..

Oggi sei tu che “sbarchi” (migranti, profughi) dalle nostre parti, ebbene noi ti supplichiamo, aiutaci a guarire i nostri cuori freddi e spesso senza vigore, a non temere di sedere insieme alla stessa tavola, per mangiare con gioia il pane della fiducia e scambiarci i reciproci doni.

Anche le briciole hanno lo stesso sapore del pane sulla tavola del Regno. Forse anche Gesù’ deve aver intuito che Dio suo Padre e di tutti (pagani compresi), piace sparpagliarsi così nel cuore della umanità, incurante dei nostri confini e dei nostri steccati religiosi.

E questo grazie anche a te, per la tua “grande fede”, tu semplice briciola di Dio, ma capace di far lievitare il cuore di Gesù, il Figlio di Dio.

 

15 Agosto 2014

 

Campo Rom di Coltano (PI)

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi e da p. Agostino

COMANDAMI DI VENIRE VERSO DI TE SULLE ACQUE

cp. Maggiommento al vangelo della diciannovesima domenica del tempo ordinario (10 agosto) di p. Alberto Maggi

Mt 14,22-33

[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il messaggio di Gesù è un messaggio universale. Lui non è venuto a restaurare il regno di Israele, ma a inaugurare il regno di Dio. Il regno di Dio significa che il suo amore è universale, non soltanto per estensione, ma per la qualità, è per tutti. E quindi Gesù vuole comunicare questo amore anche ai pagani, ma trova la resistenza dei discepoli. E’ quanto ci scrive Matteo nel capitolo 14, versetti 22-33. “Subito dopo”, sarebbe subito dopo la prima condivisione dei pani, “costrinse …”, Gesù deve costringere i discepoli a fare qualcosa che quindi loro non vogliono fare, “… a salire sulla barca”, la barca è immagine della comunità cristiana, “e a  precederlo sull’altra riva”. Ecco perché deve costringerli. L’altra riva, la riva orientale del lago di Tiberiade, è terra pagana e i discepoli non ne vogliono sapere di andare verso i pagani, e soprattutto non vogliono che l’episodio della condivisione dei pani, in cui Gesù aveva anticipato il suo farsi pane, alimento di vita per il suo popolo, fosse esteso anche ai pagani. “Congedata la folla salì sul monte”, il monte non né indicato e rappresenta il monte delle beatitudini, dove Gesù ha annunziato il suo messaggio, “in disparte”. In disparte è un termine tecnico adoperato dall’evangelista che indica sempre resistenza, ostilità da parte dei discepoli. “A pregare”. Gesù, nel vangelo di Matteo, prega unicamente due volte: qui e al Getsemani e sempre in momenti di crisi per il proprio gruppo. “Venuta la sera”, l’indicazione era già stata data e quindi è superflua, ma l’evangelista vuole richiamare l’effetto della cena del Signore, “egli se ne stava lassù da solo”. Come Gesù sarà solo nel Getsemani, sarà solo anche qui, i discepoli lo accompagnano ma non lo seguono. “La barca intanto distava gi molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario”. Cos’è questo vento? Il termine “vento” nel brano apparirà per ben tre volte, quindi significa la totalità. Il vento era contrario, quindi rappresenta la resistenza dei discepoli che non ne vogliono sapere di andare verso i pagani. Loro pensano alla supremazia di Israele, al dominio di Israele sopra i popoli pagani, e non pensano di andare a servire i popoli pagani. Ecco il vento contrario. “Sul finire della notte” … Dio è colui che soccorre allo spuntare dell’alba … “egli andò verso di loro camminando sul mare”. L’indicazione è preziosa perché nel libro di Giobbe si dice che Dio è l’unico, il solo che cammina sul mare. Il mare indicava il caos, quello che era impossibile all’uomo sottomettere, l’unico che poteva camminare sul mare era Dio. Quindi l’evangelista vuol dire che Gesù mostra la sua condizione divina. “Ma, vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «E’ un fantasma!» e gridarono dalla paura”. Perché questo? Perché per i discepoli, che non hanno ancora capito chi è Gesù, è impossibile per un uomo avere la condizione divina. Loro pensano che Gesù sia un inviato da Dio, un profeta, ma che Gesù sia Dio, ancora non l’hanno compreso. Quindi pensano che sia uno spirito perché è impossibile per l’uomo avere la condizione divina. Dio era talmente distante dagli uomini che immaginare che si potesse manifestare in una creatura umana per loro era inconcepibile. “Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, Io Sono»”, io sono è il nome di Dio, è il nome con il quale Dio ha risposto a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente e nel libro del Deuteronomio il Signore dice “Vedrete che Io Sono e nessun altro Dio è accanto a me”. Quindi Gesù conferma la sua condizione divina, “Io sono”. «Coraggio, Io Sono, non abbiate paura»”. “Pietro”, cioè Simone presentato con il suo soprannome negativo che significa che sta facendo qualcosa di contrario a Gesù, “gli rispose: «Signore, se sei tu…»”, esattamente come il diavolo nel deserto “Se tu sei il figlio di Dio”. Pietro inizia la sua attività di tentatore di Gesù, di satana, sarà l’unico discepolo che meriterà da Gesù l’epiteto “satana”, “Satana, torna a metterti dietro di me!” E Pietro lo sfida, lo tenta, “Se sei tu”, esattamente come il diavolo nel deserto, «Comandami di venire a te sulle acque»”. Vuole avere la condizione divina, ma pensa che questo avvenga con un’imposizione dall’alto. Gesù lo invita, Pietro comincia a camminare sulle acque, “Ma, vedendo che il vento era forte  …”, il vento forte è quello che Gesù nella parabola della casa costruita sulla roccia indica come avversità normali che piombano sulla vita del credente, ma se la casa è fondata sulla roccia, questa rimane salda. Se invece è costruita sulla sabbia crolla. Ebbene, Pietro ha costruito la sua casa sulla sabbia. Vedendo quindi le difficoltà, “si impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!»Gesù aveva chiamato Simone ad essere pescatore di uomini ed è l’unico che deve essere pescato. Infatti “Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede perché hai dubitato?»Pietro è l’unico che merita per due volte questo rimprovero “uomo di poca fede”. Quindi colui che era stato chiamato ad essere pescatore di uomini ha dovuto essere pescato da Gesù. “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”, quando nella comunità c’è la presenza di Gesù ed è lui a guidare, a dirigere la comunità, le ostilità cessano. “Quelli che erano sulla barca, quindi non Pietro, si prostrarono”, riconoscendo in lui la condizione divina, dicendo: «Davvero tu sei figlio di Dio!»Manca l’articolo determinativo. Non è il figlio di Dio, quello atteso dalla tradizione, il messia violento, giustiziere, ma è figlio di Dio, una modalità di Dio di manifestarsi completamente nuova che sarà finalmente conosciuta dai discepoli qui e anche dai soldati al momento della risurrezione di Gesù.

il commento di p. Agostino Rota Martir:

p. agostino

Coraggio, IO SONO, non abbiate paura!

 

Subito dopo il segno (miracolo) della condivisione dei pani, ecco che Gesù costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e attenderlo all’altra riva (terra pagana!).

Perché Gesù li deve costringere? Perché non esortarli, incoraggiarli..immagino la paura o la resistenza dei dodici ad entrare in terra pagana, d’altronde la Legge parlava chiaro al riguardo: nessun contatto con stranieri e pagani, pena l’impurità e tutto ciò che ne conseguiva.

Costringere qualcuno a fare qualcosa, non è cosa di tutti i giorni, lo puoi fare con dei bambini capricciosi, ma con adulti ci vogliono serie motivazioni.

Insomma, mi urta con l’immagine di un Gesù tollerante, paziente, benevolo soprattutto con i peccatori, i poveri. Mi entusiasma il Gesù che appena qualche ora prima aveva sentito compassione di fronte alla folla che lo seguiva..ora all’improvviso c’è questo cambio di passo: lo stesso Gesù che pocanzi nutriva compassione, ora senza tanti giri di parole “costringe” i discepoli a salire in barca ed affrontare il mare.

  • Costringe perché voleva stare solo a pregare?
  • Costringe perché temeva qualcosa, qualcuno? Giovanni il Battista era appena stato ucciso da Erode.
  • Costringe perché vuole che i suoi discepoli entrino in contatto quanto prima, anche con il mondo pagano..perché il Regno di Dio riguarda anche loro?Il pensiero però mi si ferma sulle migliaia di persone (milioni) costrette anche loro dagli eventi ad andare via, ai profughi di oggi, costretti a lasciare le loro case, i villaggi della loro vita, per mancanza di lavoro, costretti a fuggire per una guerra in corso, perché perseguitati per la loro appartenenza religiosa, penso soprattutto ai cristiani di Mosul e di tanti villaggi Iracheni, a scappare di notte..costretti ad andare verso “un’altra riva del mare”, a dover attraversare confini, mari insidiosi come la tempesta del Vangelo di oggi. “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” E’ un Dio dentro i sogni dei migranti, che si affidano proprio a Lui (non agli scafisti) al momento di imbarcarsi su poveri barconi per attraversare le acque del Mediterraneo. Coraggio, “Io sono” dentro di voi, dentro i vostri timori, dentro i vostri cuori, “Io sono” dentro i vostri piedi pronti a camminare sull’altra riva, “Io sono” il vostro desiderio di Vita. 9 Agosto 2014  
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  • Coltano – campo Rom –
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  • E’ un Dio che è dentro anche le nostre tempeste: si fa profugo con chi fugge, si fa disoccupato con chi ha perso il lavoro, si fa malato con chi è colpito da malattia, si fa mano tesa con chi si sente fallito, disperato e sente ormai la sua vita affondare sempre più.
  • Le tempeste fanno parte della vita, sono diverse e in genere imprevedibili, a volte spazzano come fuscelli le nostre certezze, convinzioni, ci obbligano a rivedere e cambiare le nostre direzioni..Sì è vero sono dure, difficili, anche pericolose ma necessarie.
  • Rimango con il mio interrogativo, anche perché il Vangelo di questa domenica tace e va subito oltre.

 

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi e p. Agostino

TUTTI MANGIARONO E FURONO SAZIATI 

 

 


 

Mt 14,13-21

In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

commento al Vangelo della domenica diciottesima del tempo ordinario (3 agosto) di p. Alberto Maggi

maggi

L’episodio della condivisione dei pani e dei pesci è talmente importante che tutti e quattro gli evangelisti lo riportano. Lo riportano perché in questo episodio non vedono soltanto un segno compiuto dal Signore, ma in esso raffigurano e anticipano la cena eucaristica. Quindi tutto il brano è un anticipo – ed è una comprensione – del significato profondo della cena eucaristica di Gesù.
Per questo l’evangelista mette delle indicazioni nel testo per far comprendere che – attenzione! – non sta narrando un semplice fatto di cronaca,  ma sta trasmettendo una verità teologica. Ecco perché in questo episodio che troviamo al capitolo 14 di Matteo, versetti 13-21, intanto l’evangelista indica lo stesso momento dell’ultima cena.
Dice che sul far della sera si avvicinano i discepoli, c’è la folla che ha seguito Gesù e ha iniziato il nuovo esodo, la nuova liberazione, e i discepoli, che non sono solidali con la gente e non capiscono, chiedono a Gesù di licenziare la folla perché vada a comprarsi da mangiare. Non hanno accolto ancora lo spirito delle beatitudini, della condivisione.

E Gesù replica, e qui c’è l’indicazione profonda del significato dell’eucaristia, “«Non occorre che vadano»”, e a quelli che hanno usato il verbo comprare Gesù replica con il verbo dare. Non c’è da comprare, ma c’è da condividere. Ma la particolare forma verbale adoperata dall’evangelista nell’esprimere questa frase ha un significato particolare.
Gesù dice: “«Voi stessi date loro da mangiare»”, letteralmente “date a loro voi da mangiare”. E’ il significato dell’eucaristia. Nell’eucaristia Gesù si fa pane, alimento di vita, perché quanti poi lo accolgono siano capaci a loro volta di farsi pane, alimento di vita per gli altri. Non basta dare il pane alla gente, ma occorre farsi pane per la gente. Ecco perché l’evangelista usa quest’espressione: “Date loro voi da mangiare”.
Questo è il significato dell’eucaristia. Nell’eucaristia non si dà soltanto del pane, ma ci si fa pane per gli altri. I discepoli replicano che quello che hanno è insufficiente, infatti dicono che non hanno che “«Cinque pani e due pesci»”. Raggiungono il numero sette che, nella simbologia ebraica, significa tutto quello che hanno. Quando si trattiene per sé quello che si ha sembra insufficiente; quando si condivide invece si crea l’abbondanza.
Infatti Gesù chiede di portarglieli, e ora ci sono le indicazioni del significato dell’eucaristia. Per prima cosa Gesù ordina, comanda, alla folla di sdraiarsi. Perché Gesù deve comandare? Comanda perché c’è resistenza. E perché chiede a questa folla di sdraiarsi? Non possono mangiare come meglio credono, seduti, in piedi?
Nei pranzi festivi, nei pranzi solenni, si mangiava ad uso romano sdraiati su dei lettucci. Ma chi poteva mangiare in questa maniera? Soltanto chi aveva dei servi che potevano servirlo. Ecco allora la preziosa indicazione che ci dà l’evangelista: l’eucaristia serve per far sentire le persone “signori”. Per cui i discepoli, che sono persone libere, si mettono a servizio degli altri, quelli che sono considerati servi dalla società, gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi, per far riscoprire loro la piena dignità, quella di signore.
E perché Gesù deve ordinare? Perché c’è resistenza. Le persone amano essere sottomesse, ma non amano la libertà. E l’evangelista qui ci presenta gli stessi gesti che Gesù compirà nell’ultima cena. “Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo”, significa comunicazione divina, “recitò la benedizione”, benedire significa che quello che si ha non è più possesso proprio, ma è dono ricevuto, e come tale condiviso per  moltiplicare gli effetti della creazione.
“Spezzò i pani e li diede ai discepoli”, gli stessi gesti che Gesù compirà nell’ultima cena quando prende i pani, benedice, li spezza, li dà ai discepoli, “e i discepoli alla folla”. I discepoli non sono i proprietari di questo pane, non sono amministratori, ma sono io servitori.  Il loro compito è prendere questo pane, che raffigura l’eucaristia, e distribuirlo alla folla, senza mettere condizioni e senza mettere limiti.
Soprattutto risalta l’assenza di un comando di Gesù. Perché Gesù non comanda alla folla di purificarsi? Prima di mangiare c’era un rito ben conosciuto, obbligatorio, che non era un semplice rituale igienico, non bastava essersi lavati le mani; bisognava purificarsi le mani seguendo determinati riti e determinate preghiere. Ebbene Gesù ogniqualvolta si trova a pranzo o a cena – e i pranzi e le cene nei vangeli anticipano sempre l’eucaristia – mai chiede o impone di lavarsi le mani.
Qual è il significato? Non è vero che gli uomini devono purificarsi per partecipare al banchetto del Signore, ma al contrario è partecipare al banchetto del Signore quello che li purifica. Questa è la grande novità portata da Gesù. L’uomo non dev’essere degno per partecipare al banchetto, ma è la partecipazione al banchetto che lo rende signore. Per questo Gesù si fa pane e chiede ai discepoli di essere donato, distribuito alla folla senza mettere condizioni.
Mangiano a sazietà, e avanzano dodici ceste. Il numero dodici è il numero delle tribù di Israele, e l’evangelista indica che attraverso la condivisione – e non l’accaparramento – si risolve la fame per tutto il popolo. Ed ecco infine un dettaglio prezioso. “Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini”.  L’evangelista riporta qui la stessa cifra di persone che erano i componenti, secondo gli Atti degli Apostoli, al capitolo 4, versetto 4, della primitiva comunità cristiana.
Ma perché proprio cinquemila? I multipli di cinquanta nella Bibbia indicano l’azione dello Spirito. I profeti, guidati dallo Spirito, andavano a gruppi di cinquanta. Pentecostè non significa altro che cinquantesimo, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, ed è il giorno nel quale nella comunità cristiana scende lo spirito. Non  più una legge esterna da osservare, ma lo Spirito, una forza interiore da accogliere. Quindi i multipli di cinquanta indicano l’azione dello spirito.
Allora l’evangelista, attraverso questa cifra, vuol far comprendere che, con il pane, è stato comunicato lo spirito che era alla base del dono. E, infine, il dettaglio “senza contare le donne e i bambini”. Perché questo dettaglio? Perché nel culto sinagogale la celebrazione poteva iniziare soltanto quando erano presenti dieci maschi adulti; la sinagoga poteva essere piena di donne e bambini, ma finché non c’erano dieci maschi adulti non si poteva iniziare il culto.
Allora dando questa indicazione “senza contare le donne e i bambini”, che è una maniera di contare i partecipanti alla sinagoga,  l’evangelista vuol far comprendere che con Gesù, in questo episodio della condivisione dei pani, è nato il nuovo culto. Il nuovo culto non si esercita più in una sinagoga, ma ovunque esista la pratica delle beatitudini, la condivisione generosa. Il nuovo culto non parte più dagli uomini rivolta a Dio, ma parte da Dio ed è rivolto agli uomini, perché il Gesù di Matteo è il Dio con noi, che chiede di essere accolto perché con lui e come lui l’umanità vada ad essere alimento di vita, di forza, verso ogni uomo che ne ha bisogno.

il commento di p. Agostino Rota Martir:

p. agostino

“Voi stessi date loro da mangiare”

“Voi stessi siete il pane da distribuire per essere mangiato”

Il Vangelo di questa domenica è uno di quelli che mi sorprende, non tanto per il “miracolo” descritto, ma per la sua ordinarietà. Mi piace leggerlo attraverso questa lente, penso possa aiutare a capirlo meglio per evitare di restare catturati solo dall’evento della moltiplicazione.

Innanzitutto mi piace questo Gesù che sente la necessità di mettersi un po’ in disparte, solo a pensare (il vangelo di Matteo non dice che si ritira a pregare, come fanno ad esempio altri vangeli): aveva appena saputo della morte di Giovanni Battista. Deve essere stato un duro colpo anche per lui.

Caspita, anche Gesù sembra accusare il colpo! Che farà ora, le acque si stanno agitando: continuare quello che aveva intravisto al momento del Battesimo al Giordano? Oppure nascondersi fino a quando le acque si sarebbero calmate un pochino? E’ un momento delicato e problematico. Chissà quante volte anche a noi sarà capitato in certi momenti di sentire la necessità di trovare un posto tranquillo in disparte, lontano dai problemi che ci assillano, ci turbano, con la voglia di riflettere e di calma anche per pensare di fare il punto della nostra situazione..magari anche per pregare. Stare un po’ soli.

Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città..sceso dalla barca, sentì compassione per loro e guarì tanti malati.”

Certo, ognuno di noi non ha questa fiumana di gente che ci segue..non è questa la questione più importante. E’ un Gesù che si lascia disturbare proprio nel momento più riservato, lascia il suo spazio tranquillo per entrare in quello della gente, imprevedibile, esigente e spesse volte confuso e nello stesso tempo riesce ad “avere compassione”.

Penso a me, quante volte mi sento disturbato da chi mi cerca per motivi diversissimi e in nome del mio “spazio sacro” la fatica a “scendere dal piedistallo” e a nutrire vera compassione, non un fastidio camuffato da buona educazione. E’ facile la compassione quando siamo a distanza di sicurezza dal povero, dal malato, profugo, mendicante..dall’inquilino che abita al piano di sopra. Facile la compassione dal mio “piedistallo”, ma lontana dal cuore della gente, da lassù non arrivano i sussurri, i pianti e gli odori delle persone, comprese le loro pretese e furbizie. Penso alle folle che seguivano Gesù, senz’altro un mondo variegato di attese e di astuzie.

Per amore di quella folla Gesù abbandona l’idea di ritirarsi, senza recriminare, lascia la preghiera perché il rapporto con la folla è più importante. I discepoli, invece, sembrano infastiditi da quella folla e alla fine vorrebbero congedarla.” (don Luciano Cantini)

“Il luogo è deserto ed è ormai tardi, congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”.

Oggi c’è una forte crisi economica, abbiamo già tanti problemi, c’è disoccupazione, chiudono tante fabbriche per mancanza di lavoro, non riusciamo ad arrivare a fine mese, la spesa sociale è diventata un peso insopportabile per le comunità..e la litania non finisce qui. Basta migranti, ne arrivano troppi, non ce la possiamo fare da soli, basta buonismo che finisce con il desertificare le nostre ormai poche risorse e privare i nostri poveri e i nostri pensionati di risorse utili. Rimandiamoli a casa, ai loro villaggi di origine è lì che dobbiamo aiutarli a rimanere a guadagnarsi il pane.

“Voi stessi siete il pane da distribuire per essere mangiato”. Non è forse anche questa la risposta di Gesù alla richiesta dei suoi discepoli? Diventare noi pane spezzato che si offre: saper dare senza aspettarsi niente, senza ricatto, senza calcolo, senza pretesa di cambiare l’altro..

Non è certo facile pensare e comportarsi così, sopratutto quando ormai la “compassione” sembra essere agli sgoccioli in questa nostra società, considerata inutile e insignificante.. di certo continuerà a stare dentro le nostre Chiesa fin quando le parole di Isaia riecheggeranno: “ Voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate: venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte.” (Is.55,1)

 

3 Agosto 2014

 

p. Maggi e Pagola commentano il vangelo

 

VENDE TUTTI I SUOI AVERI E COMPRA QUEL CAMPO


Mt 13,44-52

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 commento al Vangelo della domenica diciassettesima (27 luglio)
del tempo ordinario di p. Maggi: maggi

Gesù non parla mai di sacrifici per il regno, bensì di gioia. La parola “sacrifici” nel vangelo di Matteo appare solo due volte ed è per negarli. Gesù, rifacendosi all’espressione del profeta Osea, ribadisce che il Signore non chiede sacrifici rivolti a lui, ma misericordia, cioè lo stesso atteggiamento d’amore rivolto verso gli uomini. Se Gesù mai parla e richiede dei sacrifici per il regno, invece continuamente parla di gioia. Il termine “gioia” nel vangelo di Matteo appare sei volte. E qui lo ritroviamo alla fine delle sette parabole che riguardano il regno, al capitolo 13 di Matteo, versetti 44-52. Scrive l’evangelista: «Il regno dei cieli»”, ricordo che regno dei cieli è un’espressione tipica di Matteo che significa il regno di Dio, quindi non un regno nell’aldilà, ma il regno di qua, un’alternativa alla società che Gesù presenta. Ebbene Gesù presenta questa alternativa come «Simile a un tesoro»”, il termine tesoro apre e chiude il brano liturgico di oggi, «nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia»”, letteralmente “per la gioia”. E’ la motivazione. L’aver trovato nel messaggio di Gesù, nell’alternativa di società, la risposta al desiderio della propria pienezza di vita. “«Vende tutti i tuoi averi e compra quel campo»”. Quindi non è frutto di chissà quali sforzi o rinunce, ma è per la gioia. Non consiste nel lasciare qualcosa, ma nel trovare tutto. E qui non si parla di una ricompensa esterna, ma di una pienezza interiore. Quindi l’immagine del regno che Gesù presenta è quella di aver trovato nell’alternativa di società e nel suo messaggio, la risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni uomo si porta dentro. Questo è fonte di gioia. Il rischio c’è, e l’abbiamo visto nei vangeli, ed è quello di lasciare senza trovare, allora si cerca di recuperare quello che si è perduto. Come quando Pietro dice: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che cosa ne avremo?” Ma chi lascia e trova questo tesoro, perché lo trova questo tesoro, ha una gioia incontenibile, una  gioia che è la caratteristica del credente. Ugualmente la seconda parabola. «Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose»”, il mercante è uno che se ne intende di affari, «trovata una perla di grande valore …»”, ne capisce l’importanza e tutto il resto perde valore. Anche Paolo nelle sue lettere, in quella ai Filippesi scrive “Quello che per me era un guadagno l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura”. Quindi Gesù invita a vedere nel suo messaggio la pienezza di vita alla quale ogni uomo aspira. E quando si trova questa pienezza di vita tutto il resto perde valore. La terza parabola è differente e parla del risultato di questa scelta. «Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie  ogni genere …»”, l’evangelista non scrive “di pesci”, è un’aggiunta del traduttore. Perché non scrive “di pesci” anche se di questi si tratta? Perché si rifà alla missione dei discepoli ad essere pescatori di uomini. Gesù li chiama a pescare gli uomini. Pescare un pesce significa tirare fuori dal suo habitat naturale nell’acqua dove hanno la vita per dargli la morte; pescare un uomo significa invece tirarlo fuori da ciò che può dargli la morte per dargli la vita. «Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via …»”, ecco qui l’evangelista non adopera il termine “cattivi”, che può indicare un giudizio, con un significato morale. L’evangelista adopera il termine “marcio”. I pescatori non danno un giudizio morale sui pesci, i buoni e i cattivi, ma si trovano quelli che sono pieni di vita, e quelli che invece sono già morti in stato di avanzata putrefazione. E’ la stessa espressione che Gesù ha usato per l’albero, un albero marcio che non può che produrre frutti cattivi. Quindi non è un giudizio quello di Gesù, ma una constatazione. Tra chi ha pienezza di vita e chi è invece nella putrefazione della morte. L’accoglienza del messaggio di Gesù conduce l’uomo ad una pienezza di vita tale che è quella definitiva; il rifiuto di questo messaggio, vivere soltanto per sé, porta alla morte definitiva, alla putrefazione della propria esistenza. E l’evangelista continua: «Così sarà alla fine dei tempi. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi»”, ma letteralmente il termine è maligni, quelli che si comportano come il loro padre, il maligno, il diavolo,  «dai buoni»”, letteralmente i giusti, «e li getteranno nella fornace ardente»”. Il termine fornace ardente l’evangelista lo prende dal libro di Daniele, capitolo 3, versetto 6, in cui rappresentava la pena per chi non adorava la statua di Nabucodonosor. Quella che era la pena per chi non adorava il potere diventa invece la fine per chi ha adorato il potere. Chi orienta la propria vita per il bene degli altri, si realizza. Chi ha pensato soltanto a sé, chi ha pensato al proprio potere in realtà si distrugge. Vediamo il finale. Scrive l’evangelista: «Dove sarà pianto e stridore di denti»”. E’ un’immagine biblica che indica la constatazione del fallimento della propria esistenza. Gesù già dirà “a che serve guadagnare il mondo intero e poi smarrire se stessi”! E Gesù chiede ai suoi discepoli: «Avete compreso tutte queste cose?» Gli risposero: «Sì». Ecco la conclusione nella quale l’evangelista probabilmente mette la sua firma. Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba»”, lo scriba è il grande teologo, colui che quando parlava era Dio stesso che parlava, era colui che aveva la più grande importanza, il più grande prestigio nel mondo di Israele. «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo»”. Gesù è abbastanza ironico. Lo scriba, colui che insegna, di fronte alla novità portata da Gesù, deve tornare scolaro, deve farsi discepolo. «Discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro»” – ecco il brano è iniziato col tesoro e termina col tesoro – “«cose nuove e cose antiche»”. E’ importante questa dinamica, prima le cose nuove. Il messaggio di Gesù ha la precedenza su quello di Mosè. E quello di Mosè si accoglie soltanto nella misura in cui è conforme al suo insegnamento.

LA DECISIONE PIÙ IMPORTANTE

il commento di p. Pagola:

 

Il vangelo raccoglie due brevi parabole di Gesù con uno stesso messaggio.
In entrambi i racconti, il protagonista scopre un tesoro enormemente prezioso o una perla di valore incalcolabile. Ed i due reagiscono allo stesso modo: vendono decisamente con gioia quello che hanno, e si impadroniscono del tesoro o la perla.

Secondo Gesù, così reagiscono quelli che scoprono il regno di Dio.
All’opinione, Gesù teme che la gente lo segue per interessi diversi, senza scoprire la cosa più attraente ed importante: quel progetto appassionante del Padre che consiste in condurre su una strada più giusta l’umanità verso un mondo, fraterno e felice, avviandolo così verso la sua salvezza definitiva in Dio.

Che cosa possiamo dire oggi dopo venti secoli di cristianesimo? Perché tanti cristiani buoni vivono rinchiusi nella loro pratica religiosa con la sensazione di non avere scoperto in lui nessun “tesoro”?. Dove sta la radice ultima di quella fetta di entusiasmo e di gioia in non pochi ambiti della nostra Chiesa, incapace di attrarre verso quel nucleo del Vangelo tanti uomini e donne che si vanno allontanando da essa, senza rinunciare però per questo motivo a Dio e a Gesù?

Dopo il Concilio, Paolo VI fece questa precisa affermazione: ” Solo il regno di Dio è assoluto. Tutto il resto è relativo”. Alcuni anni più tardi, Giovanni Paolo II lo riaffermò dicendo: “La Chiesa non vedrà mai la sua fine, perché è orientata verso il regno di Dio del quale è germe, segno e strumento”.

Papa Francesco ci va ripetendo: “Il progetto di Gesù è instaurare il regno di Dio.” Se questa è la fede della Chiesa, perché ci sono cristiani che neanche hanno sentito parlare di quel progetto che Gesù chiamava “regno di Dio?” Perché non sanno che la passione che incoraggiò tutta la vita di Gesù, fu la ragione di essere e l’obiettivo di tutta la sua attuazione, annunciare e promuovere quel progetto umanizzatore del Padre: cercare il regno di Dio e la sua giustizia!

La Chiesa non può rinnovarsi dalla sua radice se non scopre il “tesoro” del regno di Dio. Non è la stessa cosa richiamare i cristiani a collaborare con Dio nel suo grande progetto di fare un mondo più umano più tosto che vivere distratti in pratiche e abitudini che ci fanno dimenticare il vero nucleo del Vangelo.

Papa Francesco sta dicendoci che il regno di Dio ci “reclama”. Questo grido ci arriva dal cuore stesso di quel Vangelo. Dobbiamo ascoltarlo. Sicuramente, la decisione più importante che dobbiamo prendere oggi nella Chiesa e nelle nostre comunità cristiane è quella di recuperare il progetto del regno di Dio con gioia ed entusiasmo.

Cerca di scoprire il tesoro nascosto del regno di Dio.

José Antonio Pagola

il vangelo commentato da p. Maggi

maggi

“LASCIATE CHE L’UNA E L’ALTRO CRESCANO INSIEME FINO ALLA MIETITURA”

Commento al Vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (20 giugno) di p. Alberto Maggi

Mt 13,24-43

In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo». Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».

Gesù propone ai suoi discepoli tre parabole che riguardano le tre grandi tentazioni della comunità:

– la tentazione di essere una comunità di eletti

– la tentazione della grandezza

– la tentazione dello scoraggiamento

Per queste parabole Gesù prende tre elementi della natura, il grano, la senape e il lievito, che richiedono un processo di crescita paziente; ogni accelerazione può essere nefasta. Queste parabole servono per far comprendere cosa sia il regno dei cieli. Questa espressione tipica di Matteo non indica il regno nei cieli, ma il regno di Dio, cioè l’alternativa di società che Gesù è venuto a proporre. La prima parabola parla di un uomo che ha seminato del buon seme, ma di notte il nemico gli semina la zizzania. La zizzania è una pianta i cui grani sono tossici e hanno un effetto narcotico. Ebbene i servi si meravigliano che nel campo del signore ci sia la zizzania e mettono in dubbio la bontà della sua semina e gli chiedono: “«Non hai seminato del buon seme?»” E il padrone risponde: “«Un nemico ha fatto questo!»” Ed ecco pronto lo zelo dei servi: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?»La loro azione rischia di essere più pericolosa della zizzania. Lo zelo dei servi è più pericoloso del danno che può fare la zizzania. E l’uomo risponde: «No, perché non succeda che raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano»”. Poi verrà il momento della maturazione e là sarà palese quello che è grano, che offre la vita, e quello che è zizzania, che invece è tossica e produce la morte. Nella seconda parabola Gesù prende le distanze dall’immagine grandiosa del regno che era stata descritta dal profeta Ezechiele nel capitolo 17 del suo libro. Il profeta immaginava un altissimo monte e sopra a questo altissimo monte un cedro. Il cedro è la pianta più bella, l’albero più bello, chiamato “il re degli alberi”, quindi qualcosa che anche da lontano attira l’attenzione. Ebbene Gesù prende le distanze da tutto questo, “il regno è come un chicco di senape “, che è l’elemento più piccolo, quasi microscopico, “che viene gettato nel campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto”. Attenzione a questo particolare. Non è una pianta che cresce nell’alto di un monte, ma nell’orto di casa. L’arbusto della senape – perché nemmeno si può parlare di albero – anche nel momento del suo massimo sviluppo raggiunge 2 metri e mezzo, tre al massimo. E’ una pianta comune che non attira l’attenzione. Il regno di Dio, anche nel momento del suo massimo

sviluppo, non attirerà l’attenzione degli uomini per la sua grandiosità, per la sua magnificenza. Ma, essendo questi semi piccolissimi, il vento li porta ovunque ed è una pianta infestante. Infine la terza parabola che riguarda il regno, dice: «Il regno è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina finché non fu tutta lievitata»”. Perché l’evangelista adopera questa unità di misura? Tre misure di farina sono circa 40 Kg. e questa unità si ritrova in tre episodi dell’Antico Testamento che riguardano la realizzazione di quello che veniva ritenuto impossibile. E’ quello che offrono Abramo e Sara quando viene loro annunziato che avranno un figlio nonostante la loro tarda età. E’ la stessa di Gedeone che si sente abbandonato da Dio e crede che le promesse di liberazione del Signore ormai non si possano realizzare, ed è quella di Anna, la madre del profeta Samuele che era sterile e invece avrà un figlio. Quindi si tratta di situazioni in cui quello che sembrava impossibile diventa realtà. Allora Gesù assicura che la forza del suo messaggio è tale che sarà capace di fermentare il mondo intero. Tre parabole, l’unica nella quale i discepoli chiedono spiegazioni è quella della zizzania, ma non perché non l’abbiano capita; è proprio perché l’hanno capita che non sono d’accordo. Loro sono animati da sentimenti di superiorità, di ambizione, di rivalità tra di loro, e quindi non sono d’accordo su questo fatto di non essere una comunità di giusti, una comunità di eletti. Si avvicinano a Gesù e, in maniera imperativa, gli dicono: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo»”. Quindi il tono è di chi non è d’accordo. E Gesù la spiega. «Colui che semina il buon seme è il Figlio

dell’uomo»”, Figlio dell’uomo indica Gesù nella sua condizione divina, «Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno.»Figli del Regno sono coloro che hanno accolto le condizioni perché il regno diventi realtà. E la condizione perché il regno diventi realtà è la conversione, la sostituzione di falsi valori che reggono la società, per accogliere i nuovi proposti da Gesù, cioè la condivisione, il servizio, e l’amore universale. «La zizzania sono i figli del Maligno»”, con il termine “figlio” si indica colui che assomiglia al padre, e questo nemico Gesù lo individua nel diavolo, che è il potere, il dominio, l’apparenza. «La mietitura è la fine di quest’epoca»”, non la fine del mondo, “«e i mietitori sono gli angeli»”, cioè gli inviati del Signore. E Gesù aggiunge, spiegando: «Come dunque si raccoglie la zizzania»”, quello che è tossico «e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine di questo tempo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali»”. L’espressione scandalo ricorre nello scontro tra Gesù e Pietro, quando Gesù gli dirà: “Allontanati da me che sei causa di scandalo”. Lo scandalo è dovuto all’idea di un messia trionfante, di un messia di successo, che non sarà quello che si manifesterà in Gesù. Quindi qui si riferisce a tutti quelli che vogliono il trionfo, «E tutti quelli che commettono iniquità»”. L’espressione è apparsa per quei discepoli che sono costruttori del nulla, aveva detto Gesù, perché annunziano il messaggio, ma non come espressione della loro vita, bensì come uso del nome del Signore. Convertono gli altri, ma non hanno convertito se stessi. Questi Gesù li considera come coloro che commettono iniquità, cioè coloro che costruiscono il nulla. E qui Gesù prende in prestito l’immagine del profeta Daniele e dice: «Li getteranno nella  ardente»”, che significa la distruzione completa, simbolo di morte, «Dove sarà pianto e stridore di denti»”. Questa è un’immagine che indica la disperazione per il  fallimento. Nella nostra lingua italiana possiamo usare l’espressione “strapparsi i capelli”, ha lo stesso significato, segno di disperazione e di fallimento. Allora, sempre usando espressioni del libro di Daniele, «I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro»”. Chi sceglie la vita ha la vita. E’ questo il significato di questa parabola: chi produce la vita entra nella pienezza di vita; chi è morto e ha prodotto morte sprofonda nella pienezza della morte.

 

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