la filosofa Marzano non la pensa come il filosofo Cacciari e neanche come il filosofo Fusaro

ma io dico sì all’utero in prestito

è un tabù come l’aborto anni fa

intervista a Michela Marzano a cura di Gianluca Roselli
in “il Fatto Quotidiano”

Marzano

le persone dovrebbero pensare prima di parlare e giudicare. Ci vuole calma, serenità e rispetto. Siccome sono questioni etiche, tutti pensano di poter dire la loro. Molti vedono la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri”

Michela Marzano, filosofa, scrittrice e deputata del Pd, difende Nichi Vendola e la sua scelta di ricorrere alla maternità surrogata

“Alt! Primo errore, è sbagliato chiamarla così…”

Qual è la definizione giusta?

La dicitura corretta è “gestazione per altri”. Questo bambino ha avuto la sfortuna di nascere proprio adesso, dopo l’approvazione delle unioni civili. E chi critica Vendola probabilmente preferirebbe che non fosse mai nato. Il punto fondamentale è che non c’è coincidenza tra il mettere al mondo un bambino e la maternità. Far nascere una creatura non significa essere madre. In questo caso si tratta di una donna che ha portato avanti una gravidanza per conto di altri. Altrimenti come dovremmo chiamare le donne che abbandonano i neonati?

Chiariamo meglio il punto.

La maternità è un ruolo, è la responsabilità che si assume nell’essere madre, che è colei che raccoglie la vita ed evita che essa scivoli nel vuoto del non senso. Per questo motivo in francese esistono due parole: geniteur, ovvero la madre biologica, la genitrice di un bambino; e parent, la madre vera e propria, colei che vuole e cresce un figlio. Sono due cose diverse. I bimbi hanno diritto ad avere padre e madre indipendentemente da chi esercita tali ruoli. Molti, anche a sinistra, hanno parlato di sfruttamento del corpo della donna. Questo è un falso problema. Lo sfruttamento c’è se la questione non è regolamentata, ma se avviene all’interno di un quadro legislativo preciso questo rischio viene meno. Vanno sempre valutate le condizioni all’interno delle quali un fatto accade. La gestazione per altri può anche essere un atto di grande generosità. Si è tirato in ballo la differenza di classe. I ricchi possono comprarsi tutto, anche i figli. Gli altri no. Diventa un discorso economico proprio perché nel nostro Paese non si può fare. E allora si è costretti ad andare all’estero e a spendere molti soldi. La stessa cosa si diceva quando l’aborto era illegale: solo le donne ricche possono abortire in sicurezza, mentre le altre rischiano la vita. Una volta diventato legale, la condizione si è parificata. Se in Italia l’utero in affitto fosse legale, la questione non si porrebbe.

Quindi dovrebbe potersi fare anche in Italia?

Sì, ma andiamo piano, perché qui non siamo riusciti nemmeno a portare a casa una legge sulle unioni civili decente. Io sono favorevole al matrimonio gay, ma avevo accettato il compromesso del ddl Cirinnà. Al compromesso del compromesso, però, non ci sto più. La norma è stata svuotata: di fronte a un piccolo passo giuridico in avanti, ne è stato fatto uno enorme indietro sul piano culturale. Togliendo l’obbligo di fedeltà si è sancito l’amore omosessuale come amore di serie B, promiscuo e volatile, quasi non degno. Poi è stata tolta anche la stepchild adoption e il risultato finale è pietoso. 

Il Pd sostiene che la stepchild verrà ripresa all’interno di una legge più generale sulle adozioni…

Io due settimane fa ho presentato una proposta di legge proprio sulle adozioni, ma penso che non se ne farà niente. Se non c’erano i voti sull’articolo 5 adesso, mi devono spiegare perché dovrebbero esserci tra sei mesi o un anno. Il Pd sostiene che bisogna fare un passo alla volta… A me sembrano solo scuse. I voti in Parlamento c’erano, il Movimento Cinque Stelle non si sarebbe sottratto a una responsabilità così grande. Io annuncerò il mio addio al partito in aula, alla Camera,  al momento del voto finale sulle unioni civili e passerò al gruppo misto. Poi, a fine legislatura, tornerò all’università. Con il mio gesto voglio trasmettere ai giovani il principio che non tradire e non tradirsi è possibile. Anche qui il problema è culturale e riguarda l’intero Paese: non c’è mai solo la strada che gli altri ci propinano, una scelta diversa è sempre possibile. Il mondo gay, però, sulle unioni civili si è diviso. Molti si sono espressi a favore dicendo: meglio questa riforma di niente… Aspettano questa legge da trent’anni, capisco il loro atteggiamento. Ma per abitudine si finisce per accettare qualunque cosa. È anche a questo che mi riferisco quando dico che in Italia ci vuole un profondo cambiamento culturale.

un libro sul gender per dire che il gender non è il diavolo

‘Papà, Mamma e Gender’

un nuovo libro di Michela Marzano

per riconoscere le differenze

cop (1)

Ho avuto il piacere di presentare l’ultimo libro di Michela Marzano, intitolato Papà, Mamma e Gender (Utet, 2015) al Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, sabato scorso a Roma. L’opera nasce da una considerazione – la profonda spaccatura tra due visioni della società, tra spiriti relativisti e fronte antigay – e dall’analisi di una paura: quella della deviazione della nostra prole a partire dalla loro educazione. Michela Marzano, insegnante universitaria a Parigi, deputata del Pd e donna eterosessuale e cattolica, parte da una considerazione complessiva: quanto c’è di vero dietro la campagna montata sul cosiddetto “gender”?

Per affrontare l’argomento, Marzano denuncia in primo luogo le contraddizioni insite nel discorso messo in campo dal fronte contrario, che si configura sempre più come realtà omofoba. La prima, tra tutte: se siamo d’accordo sulla fine delle discriminazioni, dobbiamo porre le diverse sessualità sullo stesso piano. Ne consegue che cade di per sé l’obiezione sul fatto che si vuole sdoganare l’omosessualità: «Lottare contro le discriminazioni» si legge nel libro «significa innanzi tutto smetterla di pensare che esista un orientamento sessuale “buono” e un orientamento sessuale “cattivo”». Le sessualità non normative, in altri termini, non vanno “sdoganate”: più semplicemente, vanno riconosciute.
Punta poi l’attenzione sul linguaggio utilizzato per la narrazione del fenomeno. Molto spesso si sente utilizzare dai leader del fronte opposto e dai loro sostenitori, parole come “gaystapo” soprattutto quando si affronta il delicato argomento sulle discriminazioni a scuola. Non solo, in quel termine, c’è un insulto verso le persone Lgbt – quel nomignolo richiama al nazismo e migliaia di gay e lesbiche vennero sterminati nei lager – ma si confonde volutamente la lotta all’omofobia nelle nostre aule per una sorta di violenza contro insegnanti e allievi. E così non è.

Svela, infine, Marzano il corto circuito logico su cui si basano stereotipi e pregiudizi e oppone l’argomentazione (e quindi il ragionamento) allo schema precostituito. Perché pensare è faticoso, ci suggerisce, ma è l’unica cosa che va fatta per sconfiggere certi fanatismi.

Per portare avanti questo triplice filone, si affrontano – in un testo dalla lettura scorrevole, limpida e pur densa di stimoli intellettuali – le tematiche della pluralità delle famiglie, del rispetto della diversità, della violenza insita negli stereotipi di genere: quelle gabbie mentali, per fare due soli esempi, che ci suggeriscono in modo acritico che una ragazza non potrà mai fare il camionista (perché è cosa da uomini) e che per un ragazzo è sconveniente prendere lezioni di danza, se vuole mantenere integra la sua mascolinità. Stereotipi che poi inducono il “maschio” a considerare la donna non soggetto dotato di autonomia esistenziale, ma soggetto destinato al possesso. Il suo. E ciò va evitato, in una società che vuole essere pienamente egualitaria.

Affronta, ancora, la differenza tra “identità” e “uguaglianza”. Volere un’educazione di genere, basata sul rispetto tra ragazzi e ragazze e sull’accoglienza delle diversità, anche sessuali, non significa voler abbattere l’identità di cui siamo portatori e portatrici, ma è prendere posizione rispetto a valori imprescindibili. Uomo e donna sono sì biologicamente diversi (hanno, cioè, caratteristiche distinte), ma nell’accesso ai diritti sono uguali. Lo dice anche la Costituzione. Le associazioni quali Manif pour tous, Provita, ecc, sembrano invece far confusione tra questi due elementi. Se per ignoranza o volutamente, è poi da capire.

Eppure, di fronte a questi elementi di verità – verità fatta dall’osservazione del reale e non da certezze precostituite – Marzano non è mai assoluta, perentoria. Si fa molte domande, nel suo libro. E le restituisce a noi. Non fornisce soluzioni facili, ma si interroga e ci interroga di fronte a temi cruciali per la società contemporanea. Fino ad arrivare, nel cuore del libro, a una narrazione più privata, intima: come se volesse dischiudere la propria umanità rispetto ad un tema che, per come viene trattato, tende a disumanizzare le differenze e chi ne è testimone. E questo, credo, è il suo punto di forza. Si mette in gioco, Michela Marzano, e lo fa senza paura. E si mette a nudo, con il pudore di chi sa perché ha vissuto. Il resto va valutato secondo le emozioni e i saperi che riuscirete a trovare leggendo Papà, Mamma e Gender

il ‘gender’, un fantasma che crea terrore

la crociata del gender, il fantasma che agita i cattolici

per una lettura meno agitata, impaurita, terrorizzata, più serena e riflessiva della cosiddetta ‘teoria del gender’ che non esiste affatto se non come riflessione e formazione ed educazione al rispetto delle varie identità e orientamento sessuale

mentre in questi giorni si celebrava la giornata del migrante che sta vivendo una tragedia da gridare vendetta al cospetto di Dio il settore più ottuso e reazionario del mondo cattolico sbraitava contro un fantasma inesistente

saggiamente invece mons. D. Mogavero così si esprime: “Nessuno nega l’importanza del matrimonio, della famiglia, i problemi che le teorie del gender possono creare, ma è anche vero che chi ha idee diverse va guardato non come un qualcuno da combattere, come se noi fossimo i puri e loro i peccatori. Se in passato la Chiesa è stata giudicata omofoba, deve porsi delle domande”

di Michela Marzano
in “la Repubblica” del 22 giugno 2015

Marzano

 

 

 

 

“Giù le mani dai nostri figli”, “Uomo e donna siamo nati”, “Stop gender nelle scuole”, “Il gender è lo sterco del demonio”. Alcuni degli slogan presenti negli striscioni e nei cartelli che hanno riempito sabato Piazza San Giovanni per il Family day mostrano quanta paura ci sia oggi nella società quando si tocca il tema dell’identità di genere e dell’omosessualità. Il “gender” sul banco degli accusati, prima ancora della legge Cirinnà sulle unioni civili. Un “gender” qualificato come “progetto folle” e come “colonizzazione ideologica” non solo da tanti cattolici, ma anche dall’Imam di Centocelle, anche lui presente in Piazza San Giovanni, e dal Rabbino capo di Roma. Un “gender” accusato di inquinare i cervelli dei bambini e di distruggere l’umanità. Un “gender” responsabile della distruzione della famiglia e del caos generale. Ma che cos’è mai questo “gender”? Quale sarebbe il diabolico progetto dei suoi ideologi? Procediamo con ordine e facciamo un piccolo passo indietro. Anche solo per capire quando e come è stato per la prima volta utilizzato il termine “genere” — visto che “gender” altro non è che il vocabolo inglese utilizzato ogniqualvolta si parli di identità e di orientamento sessuale. Ebbene, dopo che per secoli ci si è riferiti alle differenze esistenti tra gli uomini e le donne solo attraverso il termine “sesso”, negli anni Cinquanta, prima negli Usa con i lavori di John Money del 1955, poi anche in Europa a partire dagli studi di Claude Lévi-Strauss e di Michel Foucault, si è cominciato a capire che sarebbe stato meglio distinguere il “sesso” dal “genere”, anche semplicemente perché il sesso rinvia direttamente alle caratteristiche genetico-biologiche, mentre il genere designa il complesso di regole, implicite o esplicite, sottese ai rapporti tra uomini e donne. Chi non ricorda la famosa frase di Simone de Beauvoir quando, ne “Il secondo sesso” (1949), spiegava che non si nasce donna, ma lo si diventa? Frase ormai celebre, ma il cui significato, forse, non è più così chiaro. Visto che l’intellettuale francese non aveva alcuna intenzione di dire alle donne che potessero o meno scegliere di essere donne. Lo scopo di Simone de Beauvoir era solo quello di spiegare alle donne che avevano il diritto di ripensare il proprio ruolo all’interno della società uscendo da quegli stereotipi che, per secoli, le avevano rese prigioniere della subordinazione all’uomo. Ripensare i ruoli di genere, quindi, non per cancellare le differenze, ma per promuovere l’uguaglianza. Idee semplici e di buon senso al fine di uscire dall’impasse del naturalismo ontologico in base al quale le donne dovevano “per natura” accontentarsi di procreare e di occuparsi della vita domestica, lasciando gli uomini liberi di gestire la “cosa pubblica”. Che cosa è successo da allora? Di teorie e di studi sul gender, negli ultimi anni, ne sono nati molti. C’è chi si è concentrato sugli stereotipi della femminilità e della mascolinità, cercando di mostrare che è da bambini che si introiettano modelli e comportamenti; e che, se si continua a suggerire il fatto che i maschietti sono più adatti all’esercizio del potere e all’uso della razionalità mentre le femminucce sono più adatte ai mestieri della cura, di fatto non si riuscirà mai a uscire dagli stereotipi (si pensi alle ricerche di Nicole-Claude Mathieu, di Françoise Collin e di Luce Irigaray). C’è chi si è concentrato sul bullismo e sui comportamenti violenti nei confronti di tutte coloro e di tutti coloro che non coincidono esattamente con l’immagine che ci fa dell’essere una ragazza o una donna o dell’essere un ragazzo o un uomo — si pensi alle numerose ricerche pubblicate su The American Behavioral Scientist Journal. C’è chi come Judith Butler o Jonathan Katz, ma la lista completa sarebbe lunga, ha cercato di spiegare e di mostrare che l’orientamento sessuale non è una conseguenza inevitabile della propria identità di genere, e che essere gay non significa non essere pienamente uomini così come essere lesbiche non significa non essere pienamente donne. C’è infine chi ha cercato anche di lottare contro le discriminazioni legate alle incertezze identitarie, che portano alcune persone a voler cambiare sesso, non perché sia un capriccio o un gioco, ma perché accade che ci si possa sentire prigionieri di un “corpo sbagliato” (si vedano tra gli altri gli studi di Patrick Califia). Si capisce quindi bene come non esista una, e una sola, “ideologia gender” ma un insieme eterogeneo di
posizioni. Alcune più radicali, altre meno. Alcune talvolta eccessive, come certe posizioni queer di Teresa de Lauretis. Quasi tutte, però, volte a prendere in considerazione e sul serio la complessità del reale. Il fatto che, nella realtà, esistano tanti modi di essere e di sentirsi uomini e donne. Che ci sono donne che amano altre donne senza che per questo essere meno femminili e uomini che amano altri uomini senza per questo essere meno maschili. Che ci sono donne eterosessuali con tratti di mascolinità e uomini eterosessuali con tratti di femminilità. Senza alcuna volontà di sconvolgere l’ordine naturale delle cose e creare il caos. Anche perché l’identità e l’orientamento sessuale non sono frutto del capriccio o del peccato. Non si insegnano e non si scelgono. Sono. Esattamente come il fatto di essere bianchi, neri o gialli. Contrariamente ai fantasmi di chi se la prende con l’insegnamento del “gender”, – in nome di un controllo sulla morale l’educazione all’affettività e alla tolleranza nei confronti delle tante differenze non ha come scopo quello di spingere i maschietti a diventare femmine o viceversa. Esattamente come non si insegna a un eterosessuale a diventare omosessuale o a un omosessuale a diventare eterosessuale. Lo scopo è solamente quello di favorire il rispetto di chiunque, indipendentemente dalla propria identità e dal proprio orientamento sessuale, perché non è vero che un gay o una lesbica siano dei mostri e non è vero che se una bambina gioca con i soldatini o un bambino con le bambole siano “sbagliati”. “Giù le mani dai nostri figli”, allora! Ma giù le mani anche da quel ragazzo che si vestiva di rosa e amava lo smalto e che si è suicidato, perché i compagni lo chiamavano “frocio”. Giù le mani da quei bimbi che sentono nascere in sé sentimenti che alcuni giudicano “contro natura” e che pensano di essere sbagliati. La paura di chi è diverso ha radici antiche. Ed è facile suscitarla quando, invece di capire che non c’è niente di mostruoso nell’essere omosessuali , si invoca la fine dell’ordine e si spaccia la tolleranza e la carità per “sperimentazioni sessuali” sui più piccoli. “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?”, recitava il Vangelo di ieri. Dopo aver invocato lo “sterco del demonio”, forse si potrebbe ripartire da qui.

linea dura sulla prostituzione?

lacrima

Sulla prostituzione non serve la linea dura

 faccio mia questa riflessione di Michela Marzano perché lo condivido quasi tutto, meno cioè quando afferma: “considero altrettanto assurdo partire dal presupposto che la scelta di prostituirsi non possa mai essere considerata come una scelta. In nome di quale principio si può dire a una donna, che afferma di prostituirsi volontariamente, che la sua non è affatto una scelta? Chi ha il diritto di sapere meglio di chi è direttamente implicato in un’azione o in una condotta quale sia o meno il suo bene?” 
è chiaro che si tratta di una scelta, e di scelta volontaria, ma è scelta per il vero proprio bene? ed è scelta operata nelle migliori condizioni oggettive per il proprio bene?

La settimana scorsa l’Assemblea nazionale francese ha approvato una nuova legge sulla prostituzione. Seguendo l’esempio svedese, d’ora in poi anche in Francia i clienti saranno passibili di una multa di 1500 euro. Vince così, nonostante le polemiche, la linea dura di Madame Vallaud-Belkacem, il ministro francese delle Pari Opportunità, e di alcune associazioni femministe che si battono per mettere definitivamente fine alla prostituzione. Ma siamo certi che la prostituzione sarà così debellata? E la tratta degli esseri umani organizzata e alimentata dalla criminalità organizzata? E la differenza tra chi si prostituisce “per scelta” e chi invece è costretto a farlo subendo violenze e minacce?

Intendiamoci bene. Trovo assurda la posizione di chi, per giustificare la prostituzione, afferma che prostituirsi è “il mestiere più antico del mondo” o di chi, come i “343 bastardi”, osano affermare che il corpo delle donne appartiene a chi paga. Sono la prima ad insistere sulla necessità di combattere a oltranza lo sfruttamento della prostituzione cercando i mezzi giuridici più adeguati per punire chi costringe le donne (ma talvolta anche gli uomini) a vendersi, utilizzando ricatti, violenza o sotterfugi. Non ho mai pensato di banalizzare la prostituzione, come fanno i “libertari”, facendo l’elogio dell’autonomia individuale e dell’autodeterminazione, anche semplicemente perché mettere tra parentesi le condizioni reali all’interno delle quali si da il proprio consenso non può che aggravare l’oppressione dei più deboli e aumentare il potere dei più forti. 
Come spiegano alcune ex-prostitute, che pure ammettono di non essere mai state costrette a prostituirsi, sarebbe un errore considerare la prostituzione come un’attività anodina: molte di loro hanno dovuto inventarsi strategie di difesa per preservare una parte della propria vita affettiva e per concludere, ogni volta, il più rapidamente possibile con il cliente. Ecco perché fare del consenso il solo criterio capace di separare il legittimo e l’illegittimo può talvolta portare a giustificare atteggiamenti di dominazione, che approfittano delle fragilità degli esseri umani più esposti.

Ciò detto, considero altrettanto assurdo partire dal presupposto che la scelta di prostituirsi non possa mai essere considerata come una scelta. In nome di quale principio si può dire a una donna, che afferma di prostituirsi volontariamente, che la sua non è affatto una scelta? Chi ha il diritto di sapere meglio di chi è direttamente implicato in un’azione o in una condotta quale sia o meno il suo bene? Certo, si invoca sempre il principio di dignità per giustificare questo tipo di posizioni. Ma quando si giudica una persona in nome della dignità umana, non si rischia poi di violare proprio quella famosa dignità che si pretende di difendere?
Anche io sogno un mondo in cui nessuno, per guadagnarsi da vivere, sia portato a prostituirsi, ossia a vendersi al miglior offerente, indipendentemente dal fatto che ciò che si vende sia il corpo, il sesso, l’intelligenza o l’anima. Ma come sempre accade, un mondo di questo genere non lo si impone a colpi di leggi punitive; lo si costruisce pian piano creando delle condizioni effettive di non-sfuttamento dei più bisognosi. Tanto più che le multe ai clienti, per tornare alla legge francese appena approvata, rischiano solo di peggiorare le condizioni di esercizio della prostituzione da parte di chi si prostituisce. Come sempre, saranno le prostitute a pagare il prezzo di una decisione che soddisfa la buona coscienza di chi sembra sempre pronto a sapere che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Indipendentemente dal punto di vista di chi è direttamente implicato.

anche oggi il suo femminicidio

 

 

credere di far bene

ancora donne uccise, ancora cadaveri, ancora femminicidi, ancora donne che l’Italia non riesce a difendere dall’ ‘more violento e cieco’ dei maschi

sembra che ogni giorno ci riservi la sua pena e la sua tragicità

così Michela Marzano nel bell’articolo odierno su ‘La Repubblica’:

 

 

NON BASTA UN DECRETO

(MICHELA MARZANO).

 

Cristina, Erika e le altre quelle vittime innocenti che l’Italia non sa proteggere.
La strage.

IL CORPO di Lucia Bellucci è stato trovato chiuso nell’auto dell’ex fidanzato. L’ennesimo cadavere. L’ennesimo femminicidio.

UN’ENNESIMA tragedia che — come si dice sempre dopo — forse si poteva evitare. Dopo, sì. Se Lucia avesse denunciato l’ex compagno. Se la sua denuncia per stalking fosse stata ascoltata davvero. Se, soprattutto, le vittime fossero realmente protette. Ma le loro storie, così diverse, hanno spesso una solitudine in comune. Cristina Biagi, uccisa a Massa dall’ex marito il 28 luglio scorso, aveva sporto denuncia per stalking. Esattamente come Erika Ciurlo, assassinata a Taurisano il 29 luglio. L’aveva fatto anche Tiziana Rizzi, accoltellata in provincia di Pavia l’8 luglio e Marta Forlan, uccisa con diversi colpi di arma da fuoco in provincia di Cuneo. Sono donne e ragazze che, anche dopo aver denunciato i propri mariti, compagni, amanti ed ex, continuano a morire non solo a causa della gelosia, della smania di possesso e della violenza insopportabile degli uomini, ma anche per colpa della mentalità e dell’inefficienza di un paese che non riesce ancora a trovare un modo per ascoltarle, aiutarle e proteggerle. Ormai è quasi ogni due giorni che, in Italia, si registra un femminicidio: sono 78 dall’inizio dell’anno. Nonostante le denunce. Nonostante la legge contro lo stalking in vigore dal 2009 e tutte le altre misure recentemente adottate.
Certo, l’8 agosto, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto che riguarda proprio la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Certo, questo nuovo decreto, che la Presidente della Camera ha annunciato di voler incardinare in Aula tra il 19 e il 20 agosto, prevede querele irrevocabili nei confronti degli uomini violenti, arresti obbligatori per maltrattamento e stalking, molteplici aggravanti nei confronti dei coniugi e compagni, processi più rapidi verso i presunti colpevoli. Ma si può anche solo immaginare che la repressione possa permettere di risolvere questa piaga contemporanea? Non è solo con un decreto che si possono proteggere veramente le vittime della violenza maschile e prevenire tragedie come quelle cui si sta assistendo impotenti da ormai troppo tempo.
Il dramma delle violenze contro le donne è sintomatico di una società che ha ormai perso tutta una serie di parametri di riferimento. Non è solo una questione di ignoranza e di non-rispetto delle regole della civiltà. È anche e soprattutto un problema di immaturità e di narcisismo. Sono troppi coloro che, insicuri e forse bisognosi di affetto, considerano come un proprio diritto impossessarsi dell’altro e di trasformarlo in un oggetto. Sono troppi coloro che, respinti e allontanati, vivono il rigetto con rancore e risentimento, come se il semplice “no” di una donna li svuotasse di senso. Ecco perché non si tratta di un problema solo legato al tradizionalismo maschilista del passato, ma anche alla fragilità identitaria dell’uomo contemporaneo. Al giorno d’oggi, gli uomini violenti appartengono a qualunque classe sociale e ceto, e alcuni sono anche celebri professionisti. Non conta né il rango sociale, né la situazione economica. Conta la loro incapacità di sopportare la perdita, come se il semplice fatto di perdere la propria donna significasse una perdita d’identità. Il dramma della violenza non lo si può solo combattere con il rigore delle leggi — anche se le denunce per stalking dovrebbero implicare una reale protezione delle vittime, impedendo per esempio il contatto con gli uomini che le hanno minacciate. Non ci si può solo limitare ad annunciare pene più severe, perché nonostante il carattere dissuasivo delle pene non è mai la legge che ha potuto impedire l’esistenza di crimini e delitti. Per contrastare le violenze contro le donne, c’è bisogno di ripensare anche le relazioni umane.
La violenza non la si può eliminare del tutto. Ma la si può e la si deve contenere. E per farlo, la chiave è e sarà sempre l’educazione. Per far capire a tutti e tutte, fin da piccoli, che il proprio valore è intrinseco e non strumentale; che ogni persona, a differenza delle cose che hanno un prezzo, non ha mai un prezzo ma una dignità; che la dignità non dipende da quello che gli altri pensano di noi, da quello che gli altri ci dicono o meno, da quello che gli altri ci fanno. Non si può combattere la violenza se non si educano le donne alla consapevolezza del proprio valore e della propria libertà. Esattamente come non si può combattere la violenza se non si educano gli uomini alla consapevolezza del valore e della libertà altrui.

Da La Repubblica del 13/08/2013.

anche i colpevoli conservano il diritto al rispetto

 

 

 

belle margherite

capita sempre più spesso a  persone (in genere di scarsa reputazione) entrare in una caserma per essere interrogate ed uscirne malconce o addirittura morte

il giorno dopo si legge sul giornale che due o tre forze dell’ordine sono state collocate altrove (solo quando la cosa ha fatto scalpore) e tutto finisce lì

purtroppo uno stato di diritto non può sottovalutare questo perché in uno stato di diritto le forze dell’ordine hanno il dovere di garantire la sicurezza di tutti i cittadini

M. Marzano dedica una bella riflessione sui diritti anche dei colpevoli:

I diritti dei colpevoli

 

di Michela Marzano

Che in uno Stato di diritto le forze dell’ordine abbiano il dovere di garantire la sicurezza di tutti i cittadini e il vivere insieme collettivo è fuori discussione. Soprattutto in un periodo di crisi non solo economica ma anche sociale e morale come la nostra, un’epoca in cui i crimini e i delitti contro le persone non cessano di aumentare e la cronaca è scandita quasi quotidianamente da fatti di sangue. È possibile però che queste stesse forze dell’ordine non siano poi in grado di garantire anche l’incolumità dei presunti colpevoli? Come si spiegano gli incidenti che si sono verificati in questi ultimi anni durante l’arresto o l’incarcerazione di alcuni detenuti? È possibile che, in nome del diritto alla sicurezza dei cittadini, alcune persone perdano automaticamente i propri diritti? «Al di là di quello che ha commesso un soggetto, la vita è sacra», ha affermato ieri il Procuratore di Sanremo, Roberto Cavallone, commentando i risultati dell’autopsia del giovane tunisino morto in giugno a Santo Stefano al Mare, poco dopo essere stato fermato e portato in una caserma dei carabinieri. Era stato bloccato mentre spacciava in una piazza di Riva Ligure e, dopo aver tentato di fuggire, aveva resistito all’arresto. Il che spiegherebbe la colluttazione violenta con i carabinieri e il fatto che l’uomo sia stato poi schiacciato a terra. Spiegherebbe, ma non giustificherebbe: perché si trattava di un essere umano. Colpevole, molto probabilmente; clandestino, quasi sicuramente: ma non per questo privato di ogni diritto. Talvolta sembra installarsi, anche in un paese come l’Italia che fa della difesa dei diritti umani una delle proprie bandiere, una sorta di “doppia morale”: da un lato, ci sarebbero tutti coloro che meritano rispetto e protezione; dall’altro lato chi, infrangendo la legge, diventerebbe automaticamente meno degno di rispetto. Una “doppia morale” che finisce poi con il contraddire le premesse stesse che fondano il vivere-insieme collettivo. Come si può difendere uno Stato di diritto quando i princìpi stessi del diritto vengono cancellati? Come si può anche solo immaginare di essere garanti della civiltà quando si calpestano i diritti di chi, non rispettando le regole deve certo assumersi la responsabilità dei propri gesti, ma non per questo può poi essere trattato senza precauzione? Parlando delle difficoltà che incontrano i medici quando si trovano di fronte ad un paziente, il filosofo francese Georges Canguilhem spiegava che il solo modo per prendersi cura di un malato è “curare tremando”. Quando si ha a che fare con la vita umana, infatti, le certezze vengono meno, e si può solo cercare di compiere il “male minore”. Mutatis mutandis, si potrebbe dire che anche le forze dell’ordine dovrebbero imparare a garantire la sicurezza e l’incolumità dei cittadini “tremando”. Senza quindi mai dimenticarsi che, dietro ad ogni crimine ed ogni delitto, c’è sempre un essere umano. Deve essere estremamente complicato far rispettare la legge e proteggere la sicurezza dei cittadini. Talvolta deve essere drammatico farlo, sapendo che può succedere qualunque cosa non appena si abbassa la guardia. Ma si dovrebbe farlo sempre sapendo che la giustizia, per definizione, non è vendicativa e che la protezione degli uni, non implica mai il non-rispetto degli altri. Come ha spiegato più volte Albert Camus parlando della barbarie della tortura, non si può voler difendere la civiltà quando ci si comporta in modo incivile. Si rischia di fare esattamente come coloro da cui ci si vorrebbe difendere.

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