ancora sul burkini …

da Micromega:

Il burkini, la libertà delle donne e il ritorno del sacroburkini3

 di Cinzia Sciuto

Rivendicare il diritto a non dover esibire il proprio corpo non ha nulla a che vedere con l’accettazione dell’obbligo di coprirlo. Il velo rappresenta il ritorno del sacro anche in contesti dai quali lo avevamo faticosamente allontanato. Ma proibire non è la scelta migliore. Servono interventi legislativi contro chi discrimina, non contro chi è discriminato.

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RIVERA Il burkini, proiezione feticistica di un passato coloniale che non passa 

MARZANO Il no al burkini in nome dell’eguaglianza

MANTELLO Il burkini e la sharia in Occidente

POLONY Il velo sulle parole

FLORES D’ARCAIS Perché è giusto vietare il burkini

verso nuovi paradigmi nella comprensione della sessualità

Omosessualità e Sinodo 2015

psicoanalisi e teologia in dialogo verso nuovi paradigmi

Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini [1] autori del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi ( Cittadella, Assisi 2014) fanno questa belle puntualizzazione su Micromega:

1. Una stagione culturale nuova

La stagione culturale aperta dal Sinodo Straordinario dell’ottobre 2014 non può che condurci a esplorare nuovamente la realtà dell’omosessualità, sulla quale pesano ancora fraintendimenti e posizioni contrapposte. La Relatio post disceptationem ha dato slancio a questo momento di ascolto e di parresia, laddove si spinge a considerare che «il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner [omosessuali]» (n. 52). Aperture che, come sappiamo, sono state poi ridimensionate nella Relatio Synodi. Tuttavia, ciò che è emerso nel dibattito sinodale – i numeri nelle votazioni finali lasciano a intendere la pluralità delle posizioni emerse nella discussione tra i vescovi – ha continuato a dare i suoi frutti. In questa fase inter-sinodale, infatti, teologi, vescovi, sacerdoti[2] e Conferenze Episcopali[3] si sono espressi con più libertà, mostrando come le posizioni interne alla Chiesa siano molto variegate. Con prese di posizione anche piuttosto dure, da parte di esponenti di rilievo della cultura cattolica: posizioni che – inutile nasconderlo – lasciano un po’ di amaro in bocca per il loro stile.

Indagini demoscopiche, del resto, confermano che la situazione è la stessa anche tra i fedeli[4]. Non da ultima, anche la società civile ha mandato alla Chiesa dei segnali piuttosto forti, dato che il numero di Stati in cui il riconoscimento delle relazioni d’amore omosessuali è ufficiale si sta progressivamente allargando (ricordiamo le recenti approvazioni in Slovenia ed Estonia). La vittoria del sì nel referendum della “cattolica” Irlanda ha solo certificato quel che era chiaro da tempo: si è creata una distanza notevole tra la maggioranza dei cattolici e le indicazioni (ufficiali) della Chiesa in materia di morale sessuale.

Questa «rivoluzione sociale», ha affermato l’arcivescovo Martin, chiede anche alla Chiesa e alle sue istituzioni culturali di «fare i conti con la realtà»[5]. Per farlo, però, sono necessari dei paradigmi nuovi: bisogna cercare di capire quali sono le convinzioni profonde delle nuove generazioni, che le muovono a dissentire così profondamente dalla dottrina ufficiale. La richiesta del riconoscimento di un ‘amore forte’, del totale dono di sé per un’altra persona, non sembra avere a che fare con l’individualismo, e sembra poter essere un fattore di coesione sociale, di promozione umana, di sana libertà, anche se non contribuisce a generare biologicamente un figlio. La distanza culturale tra la Chiesa e i suoi fedeli (non solo i più giovani), forse, sta proprio qui. Senza dimenticare, come già ci hanno suggerito molti saggi di storia[6], che nelle fasi storiche di tolleranza – non di relativismo – le ragioni filosofiche e teologiche di chi si oppone al riconoscimento dell’amore omosessuale perdono di efficacia, perché esse traggono buona parte della loro forza dall’intolleranza generalizzata e dai pregiudizi consolidati.

La Chiesa quindi, sostenuta dalla novità «metodologica» introdotta da papa Francesco, è spinta a interrogarsi in modo nuovo, sforzandosi di comprendere le ragioni di chi vede nell’amore omosessuale una forma lecita di affettività, realizzante, umana, promuovente anche l’amore eterosessuale nella sua forma cristiana. In accordo, non in contrapposizione; a sostegno, non come pericolosa minaccia. In questo cammino di ascolto, di fondamentale importanza è la disponibilità a lasciarsi provocare da una realtà evidente per molti: tra persone dello stesso sesso vi può essere un’autentica relazione d’amore. È proprio il considerare «amore» l’esperienza affettiva delle persone omosessuali, infatti, il cuore del problema in teologia, la prospettiva con cui può essere affrontato, e allo stesso tempo la chiave di volta di una possibile soluzione alle varie impasse, quelle teoretiche e quelle pastorali.

Perché, dunque, un cattolico dovrebbe spingersi a chiamarlo amore? Può farlo, sia dal punto di vista scientifico, sia da quello etico-teologico?

2. Indicazioni dalla psicoanalisi

La psicoanalisi è la scienza che, più di ogni altra, può contribuire a rispondere a questi interrogativi. Un’analisi scientifica priva di pregiudizi metodologici, epistemici e sociali mostra che l’amore omosessuale può essere una forma di relazione affettiva sana e umanizzante. L’amore omosessuale non è immaturo, né narcisistico (l’omosessuale non ritira gli investimenti libidici dagli oggetti, bensì ama l’altro nella sua interezza); le persone omosessuali non sono più promiscue o psicologicamente instabili delle persone eterosessuali. Vi possono essere delle difficoltà contingenti – dovute a fattori ambientali e sociali[7] – che tuttavia non sono determinate dall’omosessualità stessa della persona.

La formazione dell’orientamento omosessuale – inteso come fenomeno psichico e insieme di desideri e affetti – è molto precoce e determinata da elementi soggettivi primitivi a cui non abbiamo accesso immediato. Ciò significa, innanzitutto, che dell’omosessualità non si possa individuare una vera e propria causa, e tantomeno una colpa (dei genitori, della famiglia, dell’ambiente). Vi è un tale complesso intreccio di elementi – dalla possibile predisposizione genetica, a tutti i fattori ambientali, psicologici e relazionali che ne determinano l’espressione – da escludere la possibilità di risalire a una concatenazione causale univoca, né come teoria generale, né nell’applicazione al singolo caso. Tutte le presunte ‘teorie eziologiche’ (genetiche, ormonali, anatomiche, psicologiche) hanno infatti mostrato, nel tempo, la loro insufficienza[8].

L’orientamento omosessuale, e il mondo degli affetti e dell’erotismo che ne deriva, implica un’uscita dall’Edipo, non presenta particolari disturbi di personalità o forme perverse di vivere la propria sessualità[9]. Al netto di ciò, la plausibilità terapeutica e teorica delle ‘teorie riparative’ risulta del tutto compromessa, com’è stato ampiamente dimostrato[10].

La sofferenza che le persone omosessuali sono spesso costrette a vivere, quindi, non è necessariamente legata a particolari disturbi psichici o di personalità, a traumi, ad abusi; non nasce da famiglie conflittuali o da disturbi fisici di varia natura. Queste persone soffrono perché sono sole, chiuse, timorose di vivere pienamente e liberamente le relazioni sociali. Tale ritiro non è determinato da una loro ‘difettosa’ struttura psichica, ma è determinato dal forte pregiudizio sociale, che queste persone fanno proprio (è il fenomeno dello stigma – o pregiudizio – sociale interiorizzato) e nelle quali s’identificano, autodenigrandosi. Tale processo di interiorizzazione e, quindi, di identificazione avviene perché, durante lo sviluppo dell’identità di genere, tutti noi abbiamo bisogno di modelli sociali di riferimento. Nella fase adolescenziale, quando iniziamo a comprendere chi siamo, qual è il nostro orientamento sessuale, abbiamo bisogno di modelli stabili e precisi. Per tutti noi, quindi, è essenziale avere delle linee guida che la società ci può e ci deve dare. Perciò, piuttosto del nulla, assorbiamo modelli negativi, se sono gli unici punti di riferimento. Molte ragazze e ragazzi omosessuali che iniziano a vivere questo vero e proprio sconquasso, conducono una lotta interiore in completa solitudine[11]. Nella ricerca di modelli in cui identificarsi, trovano soltanto pregiudizi: valutazioni degradanti, parcellizzanti la loro persona, spesso legate solo al sesso e non all’interezza dell’individuo.

Piuttosto del vuoto identitario, interiorizzano questi modelli negativi. Spesso, il ragazzo o la ragazza omosessuale entra, quindi, in un circolo vizioso, dando credito ai pregiudizi sociali, iniziando ad avere comportamenti svalorizzanti. Ecco perché la rimozione del pregiudizio – che oggi è identificata, a torto o a ragione, con la locuzione «lotta all’omofobia» – è urgentissima e necessaria. Quando le persone sono accolte nella loro interezza, arrivano a vivere in maggiore armonia con se stessi, iniziando ad amarsi e a valorizzare l’interezza della loro persona. Lo sviluppo di un’immagine di sé positiva prelude all’affermazione positiva di sé. È una questione di autostima, non di orgoglio. Quando l’omosessuale riconosce il proprio valore, intraprende la strada del ‘venir fuori’, e le relazioni affettive fanno parte di questa affermazione, poiché l’identità omosessuale si completa in esse, in quanto promuoventi un’immagine di sé positiva. Da questo punto di vista, è incomprensibile la richiesta fatta agli omosessuali di vivere la propria affettività nel nascondimento o nell’astinenza perpetua: per una persona omosessuale ciò corrisponde a un’incarcerazione, alla negazione di ciò che di più bello può avere nella vita.

Le\i giovani omosessuali hanno poi bisogno di un modello positivo: dobbiamo parlare loro di amore, di fedeltà, di progetto di coppia, di dono, da realizzare a partire da ciò che sono, e rivolti a colui o colei che sentono essere il compimento del loro desiderio affettivo.

Un discorso sobrio, sereno e scientifico sull’omosessualità, infine, implica una presa di distanza dai contrapposti estremismi circa il gender. Premesso che una «teoria del gender» (al singolare) non esiste[12], è sempre più urgente sottolineare come gli assunti principali delle teorie sul genere – anche delle più moderate, che potrebbero ottenere positiva accoglienza nella Chiesa[13] – riguardino i ruoli di genere (e, solo in rari casi, l’identità di genere[14]) e non l’orientamento sessuale. Le persone omosessuali vivono in armonia la loro identità di genere, perché il loro sesso psichico coincide con il sesso biologico: l’omosessuale femmina, per capirci, si sente pienamente femmina, non desidera avere un corpo maschile. Dal momento che l’essere omosessuali non genera e non è d’impedimento alle capacità di giudizio, sociali, lavorative (adattamento e funzionamento), possiamo desumere che la persona omosessuale esce positivamente dall’Edipo. L’Edipo non “riesce” solo quando “produce” eterosessuali, ma quando “produce” persone capaci di positive relazioni sociali, affettive, intellettuali. Se l’Edipo è riuscito, dunque, si è risolta positivamente anche la relazione della persona omosessuale con l’altro sesso: le persone omosessuali non sono né misogine, né misandrogine. Anzi, proprio le profondissime relazioni di amicizia delle persone omosessuali con le persone di sesso opposto mostrano come l’accettazione della differenza sessuale avvenga in loro in un modo diverso, ma che non la nega affatto: al contrario, queste amicizie attestano come vi possa essere una relazione uomo-donna straordinaria – complice, di rispetto assoluto – anche laddove manchi l’attrazione sessuale.

Riconoscere il valore dell’amore omosessuale, dunque, non ha nulla a che vedere con la negazione della differenza sessuale, né con l’imposizione di una rivoluzione circa i ruoli di genere. Educare al rispetto di questo amore – parlarne, anche con i giovani, nelle sedi istituzionali e religiose – è un atto dovuto. Se poi vi fossero delle degenerazioni, è giusto segnalarle, ma senza generare dannose caccie alle streghe, complottismi[15], o demonizzare qualsiasi forma di educazione al rispetto della diversità. Iniziare a rimuovere alcuni stereotipi è indispensabile – siano essi riguardanti gli omosessuali o gli eterosessuali (troppo spesso schiacciati da alcuni stereotipi di genere) – e creare una cultura del rispetto e dell’accoglienza è fondamentale, e non può essere sacrificato sull’altare delle contrapposizioni ideologiche.

3. Prospettive teologiche

La teologia e le istituzioni religiose, dal canto loro, possono cooperare a questo processo di umanizzazione delle relazioni e di rimozione delle sofferenze. Purché abbiano la lucidità di andare al cuore pulsante della propria dottrina, sapendo trasmettere ciò che vi è di essenziale. La Chiesa afferma che perché una relazione affettiva si possa chiamare ‘amore’ sono necessarie la reciprocità, la passione, il rispetto, la magnanimità, la fedeltà, la donazione altruistica, la solidarietà, nonché il sacrificio.

Le caratteristiche elencate sono riscontrabili anche in una coppia omosessuale. I sacerdoti e i teologi spesso non ne sono consapevoli, perché è raro che giungano a contatto con coppie omosessuali che vivono il «per sempre» in senso cristiano. Eppure esistono. Certo, è precisamente compito di queste coppie di testimoniare alla Chiesa la loro esistenza, dare prova che esiste questo luogo teologico in cui si manifesta la grazia dell’amore di Dio. Ma è anche compito della Chiesa di cercarle, avere uno sguardo attento, che non allontani queste realtà cercandovi per forza qualcosa di perverso. E sarebbe dovere dei sacerdoti educare la coppia a vivere quelle caratteristiche, esattamente come le insegnerebbero alle coppie eterosessuali, che spesso giungono a implementarle solo al termine di un lungo percorso di maturazione umana e di fede.

Negli atti sessuali compiuti da una coppia omosessuale sono però assenti la finalità procreativa e la complementarietà (entrambe in senso biologico-riproduttivo), ed è ciò a costituire per la Chiesa il punto ermeneutico più critico. Dalla mancanza di queste caratteristiche fondamentali dell’oggettività della sessualità, nasce la parola ‘disordine’, o meglio la locuzione ‘oggettivo disordine morale’[16] con cui il magistero ordinario della Chiesa indica sinteticamente gli atti sessuali delle persone che vivono una relazione d’amore omosessuale.

La domanda che la Chiesa si è posta, in vista del Sinodo, è se tali categorie si possano aggiornare senza negarle o snaturarle, per implementare una pastorale più efficace e coerente. Non vi è, crediamo, una risposta univoca a questo interrogativo. Tuttavia, alcune proposte teologiche[17] sembrano mostrare che un’analisi più approfondita può portare a elaborare significati di ‘fecondità’ e ‘complementarietà’ più ampi e complessi, più inclusivi. Ampiezza che non è una forma di annacquamento o capovolgimento. Nelle stesse affermazioni della Chiesa è riscontrabile questa pluralità di significati, soprattutto quando si applicano alle situazioni umane in cui non vi è procreazione biologica (lo stato celibatario o verginale, o quello delle coppie sterili). Certo, l’allargamento del campo semantico di questi termini implica un complesso lavoro di ermeneutica della Scrittura, della Tradizione e della dottrina della legge morale naturale[18], che passa anche per l’indagine antropologica.

Tuttavia, proprio quest’ultima può riuscire a scorgere che riconoscere come leciti gli atti compiuti nel contesto di un amore omosessuale non significa mettere in discussione l’antropologia cristiana circa la differenziazione sessuale, ma solo prendere in considerazione il fatto che il riconoscimento dell’alterità sessuale – e di ogni alterità – non passa solo per la dinamica di attrazione sessuale. Il simbolismo sessuale coniugale eterosessuale presente nel testo biblico è sicuramente paradigmatico, ma non esclude che vi possano essere altre forme di relazione sessuale buone. La Bibbia conosce varie forme di alterità, e definisce l’uomo come l’essere capace di relazione e comunione tra alterità (nucleo antropologico fondamentale); tra queste vi è anche l’alterità sessuale, il riconoscimento della quale è essenziale per la persona, ma che non si attua solo nel desiderio carnale. Da questo punto di vista, il riconoscimento della liceità dell’amore omosessuale è il frutto maturo dell’antropologica personalista cattolica (prima che s’infilasse nelle strettoie argomentative dell’unità-duale[19]).

Se così fosse, riconoscendo le differenze e le somiglianze tra amore omosessuale e amore eterosessuale, è possibile – rimanendo nelle categorie già fissate e senza rinnegare del tutto una Tradizione – interpretare il termine ‘disordine’ in un’accezione positiva. Il disordine potrebbe essere, in alcuni casi, un ordine diverso, un ordine (il bene possibile) che nella nostra contemporaneità abbiamo iniziato a scoprire, e del quale dobbiamo cogliere gli aspetti postivi, facendoli prevalere e risplendere. Nell’amore omosessuale – e negli atti sessuali che ne derivano – si possono esprimere e realizzare alcuni beni fondamentali della persona, che lo rendono ordinabile a Dio secondo l’ordine naturale che gli è proprio. La necessità della presenza del fine unitivo in un atto sessuale, allora, è ciò che a pieno titolo rientra nelle norme universali della legge morale naturale, rispettandone le caratteristiche formali. E questa è precisamente la razionalità (oggettività) dell’amore che deve guidare il nostro agire.

Certo, proponendo di valorizzare anche gli atti sessuali in cui la procreatività biologica è preclusa[20] – negando cioè che vi sia sempre un’inscindibilità dei sensi unitivo e procreativo – ci si spinge a riconsiderare alcuni assunti della dottrina oggi in vigore[21]. Ha quindi ragione mons. Robinson quando sostiene che «Non c’è possibilità di cambiamento per l’insegnamento della Chiesa Cattolica riguardo agli atti omosessuali, a meno che e non prima che ci sia un cambiamento nel suo insegnamento riguardo gli atti eterosessuali»[22]. Il che corrisponde a chiedersi se nell’antropologia metafisica (biblica e tomistica) cattolica vi sia spazio per riconsiderare le finalità proprie dell’atto sessuale[23]. Personalmente riteniamo che vi sia, ma il discorso ci porterebbe lontano, fino a considerare i confini di un possibile ripensamento del magistero ordinario[24]. Non è un segreto, del resto, che lo ‘scisma sommerso’ tra dottrina e comportamento dei fedeli – quella distanza culturale di cui parlavamo all’inizio – trova alcune sue radici proprio in certe formulazioni dell’Humanae Vitae. Riconoscerlo apertamente – fosse anche per ribadire con più convinzione ciò che in quell’enciclica è stato affermato – è una forma positiva di autoconsapevolezza per la Chiesa, che su di essa potrà formulare le proprie strategie pastorali future.

Un cammino non facile, che può suscitare spaesamento e rifiuti, ma che la realtà c’impone di prendere almeno in considerazione. Dal nostro umile punto di vista, crediamo fortemente che gli spazi per l’aggiornamento ci siano, e si siano già formati proprio a partire da alcune problematiche legate alle coppie eterosessuali e la vita consacrata. Un’ipotesi è quella d’ampliare il campo semantico del termine ‘procreativo’, fino a includere alcune forme di fecondità spirituale che promanano direttamente dal significato unitivo. La vita di coppia è già feconda nel suo darsi, perché il dono di sé per l’altro – che si manifesta anche nel concreto degli atti sessuali – crea qualcosa di nuovo, fa entrare le persone in una nuova vita, genera valore aggiunto: il noi emerge dall’io-tu come qualcosa di nuovo e stupendo. In questo ampliamento non vi è alcun cedimento all’edonismo o all’individualismo, giacché si propongono anche alla coppia omosessuale gli stessi alti ed esigenti appelli alla castità coniugale. È un aggiornamento possibile che, tuttavia, è stato sovraccaricato d’importanza simbolica (circa la morale e le posizioni di egemonia culturale e sociale), rendendolo di fatto quasi impraticabile. E ciò a discapito della vita delle persone.

Ecco allora che aprirsi al mondo, in questo contesto, non significa acquisirne automaticamente le istanze. Sappiamo che il cristianesimo – sia nei testi del Vangelo, sia nella Tradizione – spinge sempre a superare le logiche del mondo, verso un orizzonte di senso più ampio, dove l’umano sfiora il divino. Aprirsi con fiducia – nello stile di papa Francesco e nel modello di sinodalità sognato nel Vaticano II e concretizzatosi nella discussione franca e libera di questo Sinodo – significa accettare di porsi in ascolto, senza demonizzare ciò che proviene ‘dal mondo’, ma sapendone riconoscere le dinamiche positive, portarle a compimento, depurarle da ciò che vi è di inumano, senza rinunciare al cuore della propria tradizione, ma allo stesso tempo senza porsi anacronisticamente fuori dalla realtà.

Questo è il compito della dottrina che si traduce in pastorale: proporre anche alle persone omosessuali che vivono una relazione d’amore con persone dello stesso sesso i caratteri fondamentali della spiritualità cristiana sulla sessualità. Ci sono delle intuizioni basilari – nella morale sessuale cattolica – che fanno parte di una saggezza laica e cristiana che costituisce l’oggettività della sessualità, e che pertanto non possono essere negate, seppur mediate dalla consapevolezza della gradualità d’ogni percorso di maturazione morale. Ad esempio l’idea che l’atto sessuale debba essere espressione del livello relazionale del rapporto e frutto di uno sguardo casto (nucleo dell’idea di castità coniugale).

Proporre queste indicazioni significa inserirsi in un percorso storico ormai avviato e irreversibile – quello del riconoscimento dell’integralità umana delle persone omosessuali e del loro amore di coppia – sapendolo governare, invece di opporvisi tenacemente; significa far primeggiare il bene che si esprime in questo percorso, senza doversi scusare tra qualche anno per non averlo saputo riconoscere.

Certo, resta aperta la questione di quale sia il modo migliore – sia a livello sacramentale sia a livello giuridico – per attuare concretamente questo riconoscimento[25]. E qui entra in gioco la creatività umana, che però non può usare paraventi linguistici che possono solo, alla lunga, risultare ipocriti.

In questo Sinodo forse la Chiesa non potrà procedere a un aggiornamento dottrinale sostanziale. Tuttavia, ha di fronte a sé molte opzioni per compiere qualche passo in avanti. Potrebbe, ad esempio, invitare i teologi, i vescovi e i laici a intraprendere un libero cammino di approfondimento di alcuni termini, della Tradizione e dell’esegesi; consentendo di sperimentare nuove ipotesi pastorali alle singole Conferenze Episcopali, le quali si trovano a confronto con sensibilità sociali, spirituali e culturali molto diverse, nelle differenti aeree del pianeta in cui si trovano a operare.

NOTE

[1] Autori del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella, Assisi 2014.

[2] L’Association of U.S. Catholic priests ha inviato al Sinodo i risultati della consultazione di oltre 500 sacerdoti americani, attraverso una lettera che chiede forti innovazioni su tutti i temi affrontati dal Sinodo (cf. Adista Notizie 16 (2015), file originale in inglese scaricabile qui: http://www.uscatholicpriests.org/). Si sono pronunciati per delle aperture, anche se con sfumature differenti, il vescovo Johan Bonny, mons. Domenico Mogavero (intervista su Vatican Insider del 14\10\2014), il vescovo Juan Vicente Cordoba, il cardinale Reinhard Marx, il vescovo Bruno Forte (intervista su Vatican Insider del 13\10\2014), il vescovo Raul Vera, mons. Geoffrey Robinson, mons. Luigi Bettazzi.

[3] Hanno fatto scalpore le posizioni d’avanguardia dei fedeli svizzeri, sintetizzate nel documento «Rapporto della Chiesa cattolica in Svizzera sugli interrogativi sollevati nei Lineamenta in preparazione al Sinodo ordinario dei Vescovi 2015 a Roma» inviato dalla loro Conferenza Episcopale (si può trovare qui: http://www.ivescovi.ch/documenti /comunicati/dibattiti-presinodali- in-svizzera), e quelle dei fedeli tedeschi: «La maggioranza si aspetta dalla Chiesa una valutazione più differenziata basata sulla teologia morale, che tenga conto delle esperienze pastorali e delle conoscenze scientifiche. Quasi tutti i cattolici accettano rapporti omosessuali se i partner vivono valori come amore, fedeltà, responsabilità reciproca e affidabilità» (La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, risposta della Conferenza Episcopale Tedesca, tradotta in http://www.viandanti.org).

[4] Secondo il Public Religion Research Institute (PRRI), circa il 60% dei cattolici americani approverebbero il matrimonio gay (Attitudes on Same-sex Marriage by Religious Affiliation and Denominational Family, consultabile in http://publicreligion.org/2015/04/). Anche i dati, certamente più modesti, dai noi raccolti nelle parrocchie del vicentino circa l’accettazione positiva della realtà omosessuale, sembrano indicare un risultato analogo (cf. D. Migliorini, I fedeli cattolici e l’omosessualità: un’indagine in parrocchia, in http://vaticaninsider.lastampa.it/, 9/02/2015).

[5] «Nozze gay, l’arcivescovo di Dublino: “La Chiesa faccia i conti con la realtà”», articolo in ‘www.repubblica.it’ del 24/05/2015. L’interpretazione del dato e della direzione che deve prendere questa necessaria ‘riflessione’ è stata diversa all’interno della Chiesa, come testimoniano le differenti affermazioni del card. Parolin e del card. Kasper (entrambe in Corriere della Sera del 27/05/2015, p. 6).

[6] Ricordiamo l’insuperata opera di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, Leonardo, Milano 1989; a cui si possono aggiungere, per una prima ricognizione: E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, BUR, Milano 2010; M. P. Faggioni, L’atteggiamento e la prassi della Chiesa in epoca medievale e moderna sull’omosessualità, in Gregorianum 91 (2010) 3; L. Crompton, Homosexuality and civilization, Harvard University Press 2006; recentissima l’uscita di G. Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra, Il Saggiatore, 2015.

[7] Per un’introduzione ad alcune questioni sociologiche, tra cui la genesi e il significato del termine omofobia: L. Trappolin, Per una sociologia dell’omosessualità, Carocci, Roma 2009; C. Bertone, Le omosessualità, Carocci, Roma 2001; G. Herdt, Omosessualità, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 6, Roma 1996; A. Sullivan, Praticamente normali, Mondadori, Milano 1996; M. Graglia, Omofobia. Strumenti di analisi e di intervento, Carocci, Roma 2012; S. Argentieri, A qualcuno piace uguale, Einaudi, Torino 2010.

[8] M. L. Di Pietro, Il processo di sessualizzazione della persona. Il dato biologico, in Aa.Vv., Amare nella differenza, Cantagalli-Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 133-143.

[9] American Psychological Association, Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation (2009), in www.apa.org.

[10] Oltre al documento dell’Apa, ricordiamo il dettagliato volume P. Rigliano – J. Ciliberto – F. Ferrari, Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità, Cortina, Milano 2012; M. Graglia, Psicoterapia e omosessualità, Carocci, Roma 2009; V. Lingiardi – N. Nardelli, Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche gay bisessuali, Cortina, Milano 2014.

[11] M. Palomba, Essere e vivere la diversità, Kappa, Roma 1999.

[12] Solo all’interno del femminismo si possono riscontrare posizioni essenzialiste, decostruzioniste (tra cui le teorie queer), della differenza sessuale, e postmoderniste (o teoria delle differenze locali). Cf. E. Ruspini, Identità di genere, Carocci, Roma 2009, pp. 57-61.

[13] G. Piana, Sesso o gender. Davvero alternativi?, in Rocca 8 (2015), pp. 30-32; Aa.Vv., Identità di genere. Pensare la differenza tra scienze, filosofia e teologia, EDB, Bologna 2015; C. Simonelli, Teologia, differenza e gender: un dibattito aperto, in Studia Patavina 62 (2015), pp. 73-88; Per una panoramica sui gender studies rimandiamo a B. Gelli, Psicologia delle differenze di genere, Franco Angeli, 2014; R.W. Connell, Questioni di genere, Il Mulino, 2011; S. Zanardo, Gender e differenza sessuale. Un dibattito in corso, in Aggiornamenti Sociali 5 (2014).

[14] Sono i casi in cui si manifesta una disforia di genere, cioè i casi di transessualità. Secondo la teoria più accreditata, sono casi in cui la persona – per un’alterazione ormonale nelle prime fasi di vita – si trova con un corpo non corrispondente al sesso biologico del cervello. Non hanno, evidentemente, nulla a che vedere con l’omosessualità. Inoltre, non vi sono evidenze scientifiche che mostrano come un’eventuale maggiore flessibilità nei ruoli di genere possa generare più casi di omosessualità o di transessualismo.

[15] «La sociologia individua il ‘complottismo’ come il tentativo, per definizione minoritario, di conservare in diversi campi del sapere umano – ma principalmente la storia e la scienza – elementi della rejected knowledge (conoscenza scartata), cioè le ipotesi che la comunità accademica nella sua vasta maggioranza, dopo averle esaminate, ha respinto come spiegazioni false o inadeguate della realtà. Il complottista s’immagina che il rigetto della teoria cui è affezionato non sia avvenuto perché, seguendo i suoi normali e consueti modi di funzionamento, la comunità accademica è riuscita a ‘falsificarla’, nel senso di provarla come falsa, ma perché la maggioranza degli accademici – nonché dei media che riportano le loro conclusioni, e delle istituzioni politiche, professionali e religiose che ne tengono conto – partecipa a un vasto complotto dietro cui si celano ‘sette’ misteriose ma potentissime» (M. Introvigne, Nuove mitologie religiose, in Treccani, online su treccani.it).

[16] V. Tombolato, Omosessualità. Un oggettivo disordine morale?, Alberto Brigo, Rovigo 2008.

[17] Ricordiamo i più significativi, dall’apripista J. McNeil, La chiesa e l’omosessualità, Mondadori, Milano 1979, a: M. Vidal, Omosessualità, scienza e coscienza, Cittadella, Assisi 1983; X. Thevenot, Omosessualità maschile e morale cristiana, Leumann-Elledici, Torino 1991; J. Gafo, Omosessualità, un dibattito aperto, Cittadella, Assisi 2000; E. Chiavacci, Omosessualità. Cercare ancora, in Vivens Homo 11 (2000) pp. 423-457; J. Gramick – R. Nugent, Anime gay. Gli omosessuali e la chiesa cattolica, Ed. Riuniti, Roma 2003; J. Alison, Fede oltre il risentimento. Coscienza cattolica e coscienza gay: risorse per il dibattito, Transeuropa, Massa 2007; G. Piana, Omosessualità. Una proposta etica, Cittadella, Assisi 2010; P. Rigliano, Gesù e le persone omosessuali, La Meridiana, Molfetta 2014; P. Gamberini, Coppie omosessuali. Vivere, sentire e pensare da credenti, in Il Regno-attualità 2 (2015) pp. 129-136. Sul fronte pastorale, ricordiamo il numero 30 (1996) della rivista Presbyteri (contributi di L. Lorenzetti e L. Rossi). Rimandiamo anche alla raccolta di saggi in Concilium 1\2008 (Le omosessualità) e in CredereOggi 116\2000 (Persone omosessuali).

[18] Una legge imprescindibile, che tuttavia non può essere banalizzata. Rimandiamo al nostro testo, B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella, Assisi 2014, pp. 223-255.

[19] Riscontrabili, ad esempio in A. Scola, Il mistero nuziale. Uomo-donna, Marcianum Press, Venezia 2014.

[20] Come avviene nelle coppie sterili, oppure accettando l’atto sessuale nei periodi infecondi. Tali atti, infatti, pur mantenendo la ‘forma generativa’ hanno un’intrinseca intenzionalità contraccettiva.

[21] Quelli, com’è noto, codificati nell’Humanae Vitae.

[22] Omosessualità: occorre una nuova morale sessuale, intervento di Geoffrey James Robinson, vescovo emerito della diocesi cattolica di Sidney, tenuto alla conferenza Le strade dell’amore, riportato da L’Indice del Sinodo (http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/02/omosessualita-occorre-una-nuova-morale.html).

[23] In qualche modo, si tratta finalmente d’integrare nella riflessione antropologica la nozione di orientamento sessuale (sconosciuta alla tradizione cattolica più antica); è quest’ultima, infatti, a spingere a riconsiderare l’insegnamento sugli atti sessuali – come sostenuto da Robinson – poiché implica di ripensare la forma stessa (l’ordine) impressa da Dio negli atti sessuali derivanti da orientamenti diversi.

[24] Forse, per affrontare con più serenità le scelte dottrinali impegnative, sarebbe utile riscoprire alcune riflessioni – profonde e non poco provocatorie – di K. Rahner, raccolte nei Nuovi saggi, Paoline 1975, pp. 60-63, 362-379 e 405-422 (Discussioni attorno al magistero ecclesiastico).

[25] Se si debba trattare di un’equiparazione tout court al matrimonio oppure no. Per onestà nel procedere argomentativo, sarebbe importante, nei dibattiti su questa questione, cercare di tenere separate problematiche diverse, che necessitano di categorie differenti, come ad esempio la questione delle adozioni o dell’utero in affitto. Riconoscere la bontà dell’amore omosessuale non implica necessariamente queste ultime; sebbene siano frequentemente associate (soprattutto a livello giuridico), sarebbe opportuno distinguerle.

(2 ottobre 2015)

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