il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante

papa Francesco:

«Nei migranti assetati e provati incontriamo il Signore»


di Mimmo Muolo 

 il testo per la Giornata del Mondiale del Migrante e del Rifugiato del prossimo 29 settembre

«Anche la Chiesa è migrante verso il Regno. Preghiamo per chi deve lasciare la sua terra»

Il Papa con un gruppo di migranti, durante un'udienza generale

il papa con un gruppo di migranti, durante un’udienza generale 

Vedere nei migranti Cristo stesso e farsi buoni samaritani nei loro confronti. È questo l’invito che il Papa ripete nel Messaggio per la 110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 29 settembre 2024, sul tema: “Dio cammina con il suo popolo”. «L’incontro con il migrante, come con ogni fratello e sorella che è nel bisogno – scrive infatti Francesco -, «è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito».

Il Pontefice ricorda anche che ogni cristiano può essere considerato un migrante, perché in viaggio verso la Patria celeste. E facendo riferimento al Sinodo di ottobre prossimo ricorda. «L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo “migrante” verso il Regno dei cieli. Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore«. Il parallelo tra l’Esodo e i viaggi odierni dei migranti è infatti uno dei punti forti del Messaggio. «Le due immagini – quella dell’esodo biblico e quella dei migranti – presentano diverse analogie – spiega Francesco -. Come il popolo d’Israele al tempo di Mosè, i migranti spesso fuggono da situazioni di oppressione e sopruso, di insicurezza e discriminazione, di mancanza di prospettive di sviluppo. Come gli ebrei nel deserto, i migranti trovano molti ostacoli nel loro cammino: sono provati dalla sete e dalla fame; sono sfiniti dalle fatiche e dalle malattie; sono tentati dalla disperazione». 

Ma il Papa ricorda anche che «Dio precede e accompagna il cammino del suo popolo e di tutti i suoi figli di ogni tempo e luogo. La presenza di Dio in mezzo al popolo è una certezza della storia della salvezza». Dio dunque cammina con i migranti. E molti di loro «fanno esperienza del Dio compagno di viaggio, guida e ancora di salvezza. A Lui si affidano prima di partire e a Lui ricorrono nelle situazioni di bisogno. In Lui cercano consolazione nei momenti di sconforto. Grazie a Lui, ci sono buoni samaritani lungo la via. A Lui, nella preghiera, confidano le loro speranze. Quante bibbie, vangeli, libri di preghiere e rosari – nota ancora il Papa accompagnano i migranti nei loro viaggi attraverso i deserti, i fiumi e i mari e i confini di ogni continente».

Ma non solo Dio è compagno di viaggio. Egli si identifica con loro. «Dio non solo cammina con il suo popolo, ma anche nel suo popolo, nel senso che si identifica con gli uomini e le donne in cammino attraverso la storia – in particolare con gli ultimi, i poveri, gli emarginati –, come prolungando il mistero dell’Incarnazione». In questo senso «ogni incontro, lungo il cammino – prosegue il Messaggio -, rappresenta un’occasione per incontrare il Signore; ed è un’occasione carica di salvezza, perché nella sorella o nel fratello bisognoso del nostro aiuto è presente Gesù. In questo senso, i poveri ci salvano, perché ci permettono di incontrare il volto del Signore». Di qui l’invito del Pontefice a unirsi «in preghiera per tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la loro terra in cerca di condizioni di vita degne. Sentiamoci in cammino insieme a loro, facciamo “sinodo” insieme, e affidiamoli tutti, come pure la prossima Assemblea sinodale, all’intercessione della Beata Vergine Maria, segno di sicura speranza e di consolazione nel cammino del Popolo fedele di Dio».

Il testo si conclude poi con una preghiera scritta dal Papa che qui riportiamo integralmente:

Dio, Padre onnipotente,
noi siamo la tua Chiesa pellegrina
in cammino verso il Regno dei Cieli.
Abitiamo ognuno nella sua patria,
ma come fossimo stranieri.
Ogni regione straniera è la nostra patria,
eppure ogni patria per noi è terra straniera.
Viviamo sulla terra,
ma abbiamo la nostra cittadinanza in cielo.
Non permettere che diventiamo padroni
di quella porzione del mondo
che ci hai donato come dimora temporanea.
Aiutaci a non smettere mai di camminare,
assieme ai nostri fratelli e sorelle migranti,
verso la dimora eterna che tu ci hai preparato.
Apri i nostri occhi e il nostro cuore
affinché ogni incontro con chi è nel bisogno,
diventi un incontro con Gesù, tuo Figlio e nostro Signore.
Amen.

salvare vite in mare non è reato …

la nave delle Ong

giustizia per chi soccorre i migranti: salvare vite non è reato

di Diego Motta

Una sentenza non può cambiare il corso della storia, ma può aiutare a riscriverla. Un fatto di sette anni fa, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con relativo sequestro di una nave impegnata nei soccorsi, si è trasformato ieri, dopo la decisione dei giudici di Trapani, in un clamoroso proscioglimento di massa: tutti assolti, il fatto non sussiste. Perché salvare vite non è un reato.

Non è vero, però, che nel frattempo non sia successo nulla. Il caso della Iuventa, dal nome dell’imbarcazione della Ong tedesca rimasta ferma dal 2017 a oggi nel porto di Napoli, svela molto in realtà di quello che siamo diventati in questi anni: eravamo un popolo di santi, navigatori e poeti, ora di quell’anima profonda cosa è rimasto?

Basta andare a rileggersi le copertine dei principali giornali dell’epoca per ritrovare i titoli sui “taxi del mare” e sull’alleanza “tra Ong e scafisti”. Questo giornale, voce abbastanza isolata nel panorama di allora, parlò invece di “reato umanitario”. Iniziava una stagione nuova, con nuove parole d’ordine: basta con la solidarietà a buon mercato, via all’offensiva mediatica contro il Terzo settore e la società civile impegnata. All’eccesso di buonismo, che c’era, così come c’erano storture che andavano combattute (più in terra che in mare, basti pensare al caso “Mafia capitale”) si sostituiva silenziosamente il sentimento del cinismo, pronto a speculare sulle paure crescenti dell’opinione pubblica. In un contesto del genere, non potevano mancare, in perfetto stile italico, le “manine” degli 007, i veleni dei servizi e più in generale quella robusta dose di complottismo richiesta dallo spirito del tempo, emersa a tal punto nell’inchiesta da portare la Procura stessa a chiedere due mesi fa di archiviare il caso.

Cosa ha portato tutto questo? A un incattivimento complessivo del Paese, alla stigmatizzazione del povero in quanto tale, al ribaltamento dei ruoli con la criminalizzazione della solidarietà. Non c’è alcun assolto, in questo caso. Non è un dettaglio che quella fase, apertasi in Italia con il giro di vite anti-organizzazioni non governative voluto dal governo di Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, abbia raggiunto l’apice due anni dopo con la guida di Matteo Salvini al Viminale (e Giuseppe Conte premier) e continui ancora oggi, con provvedimenti di sequestro per le navi “colpevoli” di aver prestato soccorsi ripetuti (o non concordati) in mare, con viaggi della speranza che durano settimane avendo per destinazione i porti del nord Italia, con accordi fragilissimi stretti con i Paesi di frontiera. La disumanità, spiace dirlo, sembra essere divenuta la regola e non l’eccezione, mentre assistiamo a un governo dell’immigrazione affidato più a militari e forze dell’ordine che a sindaci e volontari.

C’è come la sensazione che qualcosa si sia rotto, in questo periodo, e che il tempo della ricucitura e del rammendo, davvero cruciale, non sia ancora arrivato: troppo profonda è la frattura che si è creata nel Paese, troppo pochi sono coloro che si stanno impegnando per far prevalere legalità, sicurezza e integrazione. Certamente, la sentenza Iuventa può essere un’occasione per ripensare a un sistema più a misura d’uomo, quando si parla di migranti. Questo non vuol dire non essere rigorosi con chi tenta di entrare illegalmente nel nostro Paese, né abbassare la guardia (ci mancherebbe) nei confronti degli spregiudicati trafficanti di uomini.

Basterebbe ripartire dall’osservazione del fenomeno, riconoscendo che avere più occhi in mare per salvare vite – negli ultimi dieci anni più di sei persone al giorno sono morte o disperse nel Mediterraneo – fa gioco anche alle autorità pubbliche preposte al controllo, mentre le intese con i discussi guardacoste nordafricani non stanno dando risultati. Lasciare in panchina la solidarietà per altro tempo, adesso, sarebbe un controsenso.

uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto, gli accordi cinici europei

“sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”

parla padre Camillo Ripamonti

il presidente Centro Astalli

«Diritti umani garantiti? Nulla di più falso. L’Europa non chiede alcuna garanzia, in questi memorandum si parla di intervenire sulle cause dei fenomeni ma in realtà interessa solo bloccare le persone.»

“Sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”, parla padre Camillo Ripamonti

Il suo è un j’accuse possente: “Tutti hanno giustamente e prontamente denunciato l’azione della Russia di sottrarsi all’accordo sul grano come mossa “cinica, crudele e disumana”, che avrà come conseguenza il rischio di affamare l’Africa e di far alzare notevolmente i prezzi dei cereali. Eppure la stessa lucidità di giudizio non sembra aver caratterizzato l’UE e l’Italia in occasione della firma del memorandum con la Tunisia, che nella parte che riguarda i migranti di fatto consegna migliaia di uomini, donne e bambini a uno Stato terzo, senza nessuna garanzia sui diritti umani, anzi pur avendo evidenza del loro mancato rispetto all’interno del Paese.  Una storia che ormai si ripete: dal memorandum con la Libia all’accordo con la Turchia, hanno avuto come effetto cinico, crudele e disumano di bloccare, rendere più pericolosi e spesso tragici i viaggi di decine di migliaia di persone. Non è vera la giustificazione data per la realizzazione di tali accordi, cioè l’azione dissuasiva e regolatoria dei flussi migratori. È vero invece che quello che vediamo con chiarezza nel comportamento di altri Stati dovrebbe definire anche tali accordi per quello che in realtà sono: interessati, cinici e spesso disumani”. A sostenerlo è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Padre Ripamonti le immagini dei civili, donne, uomini, bambini, morti di stenti nel deserto tra la Tunisia e la Libia chiamano in causa le responsabilità dei governi e dell’Europa. L’Unità ne ha fatto una mission editoriale.
È meritorio non chiudere gli occhi o relegare ai margini dell’informazione tragedie umanitarie di questa portata e ricorrenza. Di fronte a queste immagini c’è solo sdegno che riguarda anche i governi europei. Non vedo altri termini più idonei nel valutare scelte come quella compiuta dall’Unione Europea di dar vita a un memorandum come quello con la Tunisia, addirittura preso a modello da replicare in altri possibili accordi in Africa. Accordi che non vengono minimamente vincolati al rispetto dei diritti umani. Queste immagini strazianti dimostrano tragicamente che i diritti umani vengono calpestati, negati, e che la centralità della persona non è garantita, anche se a parole si dice che questi diritti sono garantiti. Nulla di più falso. Per tornare a quelle immagini agghiaccianti: si tratta di persone di origine sub-sahariana espulse dalle autorità tunisine. Abbandonati senza acqua, cibo o riparo a temperature che superano i 50 gradi, hanno camminato per chilometri prima di soccombere per lo stremo. Ennesima tragedia dovuta all’accordo di esternalizzazione firmato dall’Unione Europea con la Tunisia. Si susseguono le immagini di uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto. Prima una mamma abbracciata alla figlia di sei anni, poi un padre stretto al figlio. Salvare vite umane è un imperativo inderogabile degli Stati. Le politiche di chiusura dei confini non possono essere considerate politiche di gestione dei flussi migratori perché in questi anni sono state strumenti di morte per troppi esseri umani. Sdegno, dolore e anche un’amara consapevolezza…  

Quale, padre Ripamonti?
Abbiamo già visto in passato che certe immagini colpiscono al momento ma non rimangono indelebili nella nostra memoria e non ci spingono a un cambio di orizzonte e di prospettiva. Anzi, l’Unione Europea facendo i propri interessi cerca di bloccare le persone in Paesi terzi che non rispettano i diritti umani.

L’Europa-fortezza, l’Europa che esclude. L’Europa mossa da un’ossessione che si fa politica: esternalizzare le frontiere.
La conferenza che c’è stata domenica scorsa a Roma ha messo in evidenza che la questione migratoria è questione molto più complessa. Però poi alla fine quello che risulta essere immediato e necessario, una sorta di imperativo categorico, è bloccare le persone. Al di là di prese di posizione in cui si afferma che i processi sono lunghi, che s’investirà anche sulle cause dei fenomeni, alla fine ci si concentra sull’esternalizzazione dei confini che poi è quello che interessa davvero. Non fare arrivare le persone in Europa. Resta questo il vero obiettivo dell’Unione Europea. Si dice: non farle arrivare in modo illegale affidandole ai trafficanti, ma in realtà quello che s’intende è non farle arrivare comunque, cercando in qualche modo di regolamentare invece i flussi legati al lavoro. Bloccare alcune persone e farne arrivare delle altre, selezionandole.

Decine di rapporti Onu e delle più importanti associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani, centinaia di testimonianze di sopravvissuti, non hanno smosso il ministro dell’Interno Piantedosi dalla sua convinzione, ribadita in una recentissima intervista, che la Tunisia rispetta i diritti umani.
Alla prova dei fatti abbiamo visto che queste persone muoiono perché respinte ai confini desertici tra Tunisia e Libia. Queste immagini agghiaccianti contraddicono questa assunzione a parole del rispetto dei diritti umani. Ma sapevamo già prima di queste immagini che la Tunisia aveva respinto centinaia se non migliaia di migranti verso la Libia, nel deserto, lasciandoli in balia di se stessi. Lo stesso era successo con la Libia. Si firmano accordi, li si reiterano nel tempo, senza esigere immediatamente garanzie sui diritti, e nei mesi e anni successivi si ha evidenza continua di questo mancato rispetto dei diritti umani. Questo è accaduto con la Libia, questo sta accadendo ora con la Tunisia. Il perseverare è diabolico, verrebbe da dire. Così come è già successo con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie, l’UE, per cercare di contenere gli arrivi sulle coste italiane e d’Europa, finanzia un regime che ha cancellato le garanzie democratiche al proprio interno. E lo fa senza porre alcuna concreta condizionalità sul rispetto dei diritti umani fondamentali, come dimostrano i recenti fatti che hanno visto accadere nel Paese una vera e propria caccia allo straniero nei confronti dei migranti sub-sahariani, e deportare illegalmente ai confini con la Libia e con l’Algeria centinaia di persone in transito verso l’Europa, causando la morte di molte di loro, incluse donne e bambini, e violando quel diritto internazionale che lo stesso Memorandum richiama.

Resta al fondo l’idea, la visione dei migranti come minaccia e non come ricchezza per le nostre società.
Per tanto tempo i migranti sono stati strumentalizzati a fini politici per ottenere dei vantaggi elettorali. In questo momento siamo in una situazione in cui emerge la necessità concreta a livello europeo della presenza di migranti che vadano a rinfoltire le fila per il lavoro. Però non si vuole contraddire quello che si è detto fino a ieri sui migranti. Quindi si crea questo cortocircuito in cui i migranti sarebbero utili a noi però non quelli che arrivano in modo irregolare. Ma sotto sotto si nasconde questa visione del migrante non nella sua dignità, come persona, si può farlo arrivare solo se è simile a noi, se ci può essere utile. Questo uso strumentale delle persone è del tutto inaccettabile.

Che fare allora?
Bisogna assolutamente uscire da questa prospettiva e considerare i migranti come persone, come risorse per le nostre società, non soltanto in una accezione utilitaristica, per il lavoro che potrebbero svolgere, ma per la ricchezza della loro appartenenza culturale, appartenenza religiosa, che può arricchire le nostre società. Dobbiamo cambiare la prospettiva. Non prendere quelli che vogliamo, come vogliamo, quasi fossimo in una sorta di grande supermercato umano planetario, ma pensare a un futuro condiviso, nel quale queste persone si siedono al tavolo con noi nelle nostre società e immaginano con noi il futuro.

In un suo bel libro, lei ha messo un accento allarmato sulla “globalizzazione dell’indifferenza”.
Dieci anni fa, in occasione del suo primo viaggio a Lampedusa, papa Francesco usò questa espressione, la “globalizzazione dell’indifferenza”. A distanza di dieci anni, non possiamo che raccogliere i frutti, purtroppo tristi, amari, dolorosi, di questa indifferenza. Siamo ancora a piangere delle persone morte nel deserto, respinte brutalmente, perché non si vuole riconoscerle come esseri umani. Se questa non è “globalizzazione dell’indifferenza”, allora ditemi di cosa si tratta.

Si insiste sul concetto di sicurezza, quasi sempre in termini “securitari”, e quasi mai sui concetti di legalità e inclusione. Perché, padre Ripamonti?
Credo perché nel corso degli anni abbiamo vincolato il discorso migratorio a un discorso politico funzionale al consenso elettorale. Bisognava identificare un nemico, fomentare nelle persone la paura e l’odio verso questo nemico, il migrante. Un bersaglio di comodo per quella politica che sull’odio e la paura cercava voti. Io identifico chi è il nemico. E il nemico è il migrante, magari islamico e alimento la paura verso questa persona. E così costruisco retoricamente il mio discorso politico per finalità elettorali intorno a questo nemico. Uscire da questo discorso diventa sempre più difficile. Sono più di venti-trent’anni che si alimenta questa narrazione distorta, tanto da essere entrata nell’immaginario collettivo. Bisognerebbe smontare dal punto di vista culturale questa costruzione e riprendere il discorso da una visione del migrante come una persona che viene da un altro luogo e porta delle novità rispetto al contesto nel quale andrà a collocarsi, e questa novità può essere di giovamento anche per le nostre società. La diversità va intesa come ricchezza, come fondamento dell’inclusione. L’umanitarismo è la nostra àncora di salvezza.

la ‘parresia’ del vescovo di Palermo

LA VERGOGNA DI RIBALTARE LA COLPA SULLE VITTIME

LE PAROLE  DEL VESCOVO DI PALERMO
sulla gravissima responsabilità di chi non soccorre i naufraghi lasciandoli morire in mare

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I 63 morti di Cutro, fratelli e sorelle sfiniti dalla sofferenza della fuga da una patria martoriata e ingoiati dalle onde del nostro mare in un ultimo, disperato combattimento, hanno tentato fino all’ultima bracciata, fino all’ultimo respiro di sfiorare con le dita la speranza che fin qui avevano inseguito: toccare terra in un luogo capace di salvarli e di accoglierli. La speranza di una terra diversa da quella che tragicamente avevano dovuto abbandonare perché incapace di assicurare il diritto alla vita e alla sicurezza dell’umanità in quanto tale.
Non hanno riconosciuto, i nostri fratelli pakistani, afghani, iraniani, siriani, nell’orizzonte freddo della costa, avara di aiuti e incapace di cura per l’unicità preziosa delle loro vite, non hanno riconosciuto questa diversità della nostra terra rispetto a quella che li ha scacciati, perseguitati, minacciati, costretti all’esilio.
Ci avrebbero chiesto, se fossero riusciti ad approdare – ce lo chiedono gli occhi sgomenti, atterriti dei sopravvissuti – su cosa fondiamo oggi noi europei, noi occidentali, la promessa che abbiamo fatto quando abbiamo scritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Ci avrebbero chiesto – e ora tocca a noi, da cittadini, da cristiani, chiedercelo e chiederlo a nome di ognuno di loro ai Governi italiano ed europeo – se abbiamo compreso che quella promessa l’abbiamo fatta innanzitutto a coloro che ancor oggi scappano dai luoghi in cui questi diritti sono sconosciuti, violati, e se ci siamo resi conto che lasciandoli morire li abbiamo violati noi stessi, per primi.
Non è solo dinanzi a quello che è accaduto in Calabria che ci sentiamo di dover fare questa affermazione, ma anche e soprattutto dinanzi alla negazione delle responsabilità, alla gravità della loro elusione, alla mancanza di consapevolezza politica ed umana da parte delle istituzioni nazionali ed internazionali impegnate solo a stringere accordi con paesi come la Libia per trattenere e sospingere i migranti in veri e propri campi di concentramento.
Non c’è spazio oggi per i qualunquismi: è tempo per tutti noi di rifuggire con chiarezza da ogni narrazione tesa a colpevolizzare l’anello più debole della società. La responsabilità è nostra: quel che è avvenuto a Cutro non è stato un incidente, bensì la naturale conseguenza delle politiche italiane ed europee di questi anni, la naturale conseguenza del modo in cui noi cittadini, noi cristiani, malgrado il continuo appello di Papa Francesco, non abbiamo levato la nostra voce, non abbiamo fatto quel che era necessario fare girandoci dall’altra parte o rimanendo tiepidi e timorosi.
Il culmine simbolico di tutto ciò è stata la dichiarazione resa dal ministro Piantedosi, un uomo delle istituzioni che ha prestato il proprio giuramento sulla Costituzione italiana – la stessa Costituzione che prima di ogni altra cosa riconosce e garantisce quei diritti inviolabili dell’uomo –, il quale ha ribaltato la colpa sulle vittime. Come mi sono già trovato a dire, durante la Preghiera per la pace del 4 novembre 2022, rischiamo tutti di ammalarci “di una forma particolare di Alzheimer, un Alzheimer che fa dimenticare i volti dei bambini, la bellezza delle donne, il vigore degli uomini, la tenerezza saggia degli anziani. Fa dimenticare la fragranza di una mensa condivisa”.
Come cristiani, memori della parola del Vangelo del Messia che si è fatto povero e ha sposato la causa dei poveri, insieme alle donne e agli uomini di buona volontà e alle numerose associazioni umanitarie impegnate nel Mediterraneo e sulle rotte di terra, crediamo che sia necessario rispondere ai tanti interrogativi ancora aperti sul naufragio di Cutro e che venga dissipato ogni equivoco sulla gravissima responsabilità di chi non soccorre i naufraghi lasciandoli morire in mare. Si aprano una volta per tutte i tanto attesi corridoi umanitari, si agisca sul diritto di asilo, si lavori sull’integrazione. Facciamo insieme di questa nostra terra un giardino fecondo di vita, in cui celebrare e sperimentare la convivialità delle differenze.
+ Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

un papa poco ‘prudente’!

l’esclusione criminale

di  Tonio Dell’Olio

Quando si parla in pubblico bisogna pesare bene le parole. Quando si parla al mondo ancora di più. Quando si rappresenta un’autorità morale che è guida per i credenti e riferimento per tante persone nel mondo, è necessario misurare gli accenti, gli aggettivi e le virgole. Ieri il Papa ha detto:

“L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale non aprire le porte a chi ha bisogno!”

 Certo, la prudenza e la diplomazia avrebbero suggerito toni meno perentori e netti. Forse un giudizio più sfumato sarebbe stato più gradito. Ma poi ci si rende conto che il Vangelo di Gesù non è stato redatto né dalle curie né dalle cancellerie dei governi del suo tempo. E allora un papa non può e non deve prendere le distanze né dal merito né dalla forma del Vangelo che è chiamato ad annunciare. E così ieri Papa Francesco ha dato del criminale, peccatore e schifoso a ogni politico di ogni governo del mondo che in questi anni ha contribuito a varare politiche di respingimento e rifiuto di uomini, donne e bambini che chiedevano pane e dignità. Un tono profetico che pesa bene le parole, misura gli accenti, gli aggettivi e le virgole. D’altra parte le ragioni dei governi le diffondono abbondantemente gli uffici stampa ma chi fa sentire le ragioni dei poveri?

migranti come risorsa per le nostre comunità

papa Francesco:

migranti, potenziale enorme

ecco perché sono una vera risorsa


di Paolo Lambruschi
«Lavoro e sacrificio degli stranieri arricchiscono le nostre comunità»
e una ricerca della Fondazione Moressa conferma l’impatto positivo per l’Italia: 28 miliardi di entrate contro 26 di uscite

Papa Francesco: migranti, potenziale enorme. Ecco perché sono una vera risorsa

«I migranti non basta accoglierli: vanno anche accompagnati, promossi e integrati». Con questa frase, a braccio, papa Francesco si è rivolto ai partecipanti alla Conferenza internazionale sui rifugiati e i migranti promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia Università Gregoriana, in collaborazione con Refugee & Migrant Education Network, la Fondazione Being the Blessing. Il Pontefice ha ribadito che le diversità che portano i migranti, nelle società in cui sono accolti, sono «una ricchezza» e il loro contributo ha «un potenziale enorme».

«Il loro lavoro, la loro capacità di sacrificio, la loro giovinezza e il loro entusiasmo arricchiscono le comunità che li accolgono. Ma questo contributo potrebbe essere assai più grande se valorizzato e sostenuto attraverso programmi mirati», ha aggiunto il Papa, che ha poi chiesto di «riflettere sulle cause dei flussi migratori e sulle forme di violenza che spingono a partire verso altri Paesi. Mi riferisco naturalmente ai conflitti che devastano tante regioni del mondo. Ma vorrei anche sottolineare un altro tipo di violenza, che è l’abuso della nostra casa comune – ha detto il Papa –. Il pianeta è indebolito dall’eccessivo sfruttamento delle sue risorse e logorato da decenni di inquinamento».

Quanto al ruolo di chi accoglie, per Francesco «tutte le istituzioni educative sono chiamate ad essere luoghi di accoglienza, protezione, promozione e integrazione per tutti, senza escludere nessuno».

Nonostante il Covid e gli scostamenti di bilancio per le esauste casse dello stato gli immigrati restano una risorsa. Se si ignora la prevalente narrazione mediatica emergenziale concentrata sui barconi e agli sbarchi dal Nord-Africa e la popolazione dei centri di accoglienza in Italia (80 mila presenze a fine 2020) e la si sposta invece sulla realtà dei 5,2 milioni di immigrati regolarmente residenti nel Belpaese la musica cambia. Secondo uno studio sull’impatto fiscale dell’immigrazione in Italia curata dalla Fondazione Moressa – che il 18 ottobre presenterà il rapporto 2022 sull’economia dell’immigrazione – alla voce uscite si registrano 26,8 miliardi di euro contro 28,2 di entrate. Una conferma di quello che affermava tra le polemiche l’Ocse un anno fa: «I migranti contribuiscono in tasse più di quanto ricevono in prestazioni assistenziali, salute e istruzione».

Il metodo di calcolo della “Moressa” si è basato sui “costi medi”, stimando l’incidenza degli stranieri per ciascuna voce della spesa pubblica in base all’utenza presente in quel determinato servizio nel 2020, anno pandemico.

Sfatiamo per l’ennesima volta stereotipi duri a morire. Data la giovane età media della popolazione straniera residente in Italia, li si trova soprattutto nei reparti maternità e nei pronto soccorso ospedalieri. Per fortuna. Una conferma empirica che l’impatto calcolato sulla sanità pubblica dai ricercatori della Fondazione Moressa è solo 6,1 miliardi di spesa per i pazienti immigrati contro i 130 complessivi.

Alla voce scuola, mantenendo il metodo basato sull’incidenza degli utenti, viene considerato un decimo della spesa totale a favore degli alunni nati all’estero e privi di cittadinanza, in tutto 6 miliardi. I curatori delle ricerca sottolineano un aspetto scomodo e non descritto dai numeri, ma che rende ancor più preziosa la risorsa dei minori stranieri per la scuola. Nell’inverno demografico italiano «la maggiore presenza straniera garantisce la sostenibilità del sistema, che altrimenti vedrebbe chiudere molte scuole e ridurre l’organico».

La voce “servizi sociali, servizi locali e casa” raggiunge complessivamente 1,3 miliardi di euro. L’edilizia pubblica vede il 12,5% a livello nazionale di inquilini immigrati nonostante l’alto livello di bisogno per la mancanza di turnover. Insomma, gli italiani restano sempre primi. Ovviamente la ricerca non può considerare le occupazioni abusive degli alloggi gestiti dai racket etnici afferenti alla mafie italiche. E la situazione dei grandi quartieri popolari metropolitani della capitale come di Milano fa media con altre realtà dove gli stranieri non sono numerosi. Una voce di spesa che invece diminuisce è quella per “immigrazione e accoglienza”, legata al progressivo decongestionamento dei centri di accoglienza.

Infine la spesa previdenziale, altra antica polemica. Secondo un report pubblicato dall’Inps nel luglio 2022, la spesa pensionistica riferita ai cittadini non comunitari ammonta a 1,2 miliardi (0,4% del totale). A questa vanno aggiunte disoccupazione, malattia, maternità, assegni nucleo familiare, pari a 6,2 miliardi. In tutto fanno 8,45 miliardi, il 2,6% del totale.

Ma i migranti non sono solo beneficiari, anzi. Sono soprattutto 4,17 milioni di contribuenti che hanno dichiarato 57,5 miliardi di euro di redditi e versato 8,2 miliardi di Irpef nel 2020. La comunità più rappresentata rimane quella romena con oltre 560 mila contribuenti, seguita da Albania (157 mila) e Cina (147 mila).

Sono consumatori che pagano l’Iva, anche se tra i contribuenti nati all’estero, quasi la metà (48,7%) ha dichiarato un reddito annuo inferiore a 10 mila euro. E sono cittadini che versano per rinnovi di permessi di soggiorno e acquisizioni di cittadinanza quasi 800 milioni. I regolari, comparando entrate e uscite del bilancio pubblico, sono una voce in attivo per 1,4 miliardi. Perché gli immigrati continuino ad essere una risorsa portando benefici economici, ammonisce lo studio, devono però proseguire i processi di integrazione. Un cambio di narrazione dei media aiuterebbe gli italiani ad esserne più consapevoli.

lo scandalo delle migrazioni denunciato da papa Francesco, l’unico che abbia il coraggio di farlo

 «la migrazione di oggi uno scandalo sociale dell’umanità»


La catechesi dedicata a “San Giuseppe come migrante perseguitato e uomo coraggioso”. “Vediamo in Gesù ognuno dei migranti di oggi”. Le parole della preghiera per “coloro che fuggono”
Papa Francesco all'udienza generale in Aula Paolo VI

“Giuseppe è l’opposto di Erode: prima di tutto è ‘un uomo giusto’; inoltre si dimostra coraggioso nell’eseguire l’ordine dell’Angelo”. Lo ha detto papa Francesco nella catechesi dell’udienza generale di stamani. Riprendendo il ciclo di catechesi su San Giuseppe, ha incentrato la sua riflessione sul tema: “San Giuseppe, migrante perseguitato e coraggioso”. IL TESTO

“Erode e Giuseppe sono due personaggi opposti, che rispecchiano le due facce dell’umanità di sempre – ha osservato il Pontefice -. È un luogo comune sbagliato considerare il coraggio come virtù esclusiva dell’eroe. In realtà, il vivere quotidiano di ogni persona richiede coraggio per affrontare le difficoltà di ogni giorno”.

Guardando alla storia, il Papa ha poi ribadito che “in tutti i tempi e in tutte le culture troviamo uomini e donne coraggiosi, che per essere coerenti con il proprio credo hanno superato ogni genere di difficoltà, sopportando ingiustizie, condanne e persino la morte”.

“Il coraggio è sinonimo di fortezza, che insieme alla giustizia, alla prudenza e alla temperanza fa parte del gruppo delle virtù umane, dette ‘cardinali’”.

E, ancora, la lezione che “ci lascia oggi Giuseppe”, cioè che “la vita ci riserva sempre delle avversità, e davanti ad esse possiamo anche sentirci minacciati, impauriti, ma non è tirando fuori il peggio di noi, come fa Erode, che possiamo superare certi momenti, bensì comportandoci come Giuseppe che reagisce alla paura con il coraggio di affidarsi alla Provvidenza di Dio”.

“Erode e Giuseppe sono due personaggi opposti, che rispecchiano le due facce dell’umanità di sempre. È un luogo comune sbagliato considerare il coraggio come virtù esclusiva dell’eroe. In realtà, il vivere quotidiano di ogni persona richiede coraggio. Il nostro vivere, il tuo, il mio, di tutti noi: non si può vivere senza coraggio, coraggio per affrontare le difficoltà di ogni giorno. In tutti i tempi e in tutte le culture troviamo uomini e donne coraggiosi, che per essere coerenti con il proprio credo hanno superato ogni genere di difficoltà, sopportando ingiustizie, condanne e persino la morte”.

Papa Francesco conclude la sua catechesi invitando tutti a pregare per i migranti di oggi, per i perseguitati e quanti sono vittime di circostanze avverse.

“Pensiamo a tutti i perseguitati, – ha aggiunto a braccio – a quanti sono vittima di circostanze avverse, siano politiche, storiche o personali. Pensiamo a tanta gente vittima delle guerre che vuole fuggire dalla sua patria e non può; pensiamo ai migranti che incominciano quella strada per essere liberi e tanti finiscono sulla strada o nel mare; pensiamo a Gesù nelle braccia di Giuseppe e Maria, fuggendo, e vediamo in lui ognuno dei migranti di oggi. È una realtà, questa della migrazione di oggi, davanti alla quale non possiamo chiudere gli occhi. È uno scandalo sociale dell’umanità”.

Infine il Papa recita una nuova preghiera a san Giuseppe per chiedere la sua protezione su “coloro che fuggono a causa della guerra, dell’odio, della fame”, perché li sostenga e perché possano trovare accoglienza e solidarietà:

San Giuseppe,

tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire

tu che sei stato costretto a fuggire

per salvare la vita alle persone più care,

proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra,

dell’odio, della fame.

Sostienili nelle loro difficoltà,

rafforzali nella speranza e fa’ che incontrino accoglienza e solidarietà.

Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen.

il fallimento sui migranti è il fallimento dell’Europa

il fallimento europeo sui migranti

dal gioco dell’oca a quello del calamaro: in Bosnia tra i respinti d’Europa, senza dignità e diritti

YANNIS KOLESIDIS/EPA

C’è da chiedersi se il regista di Squid Game si sia fatto un giro sulla rotta balcanica prima di scrivere una delle serie di maggiore successo nella storia di Netflix. Perché il “GAME” della rotta balcanica, così battezzato dai migranti, perché dalla Bosnia alla Croazia si torna sempre alla casella di partenza, ormai assomiglia più che al gioco dell’oca al gioco del calamaro, quello in cui sei disposto a tutto, anche a morire pur di ottenere in palio una vita decente.

E invece di 1-2-3 Stella o del gioco delle biglie qui si partecipa a un gioco ancora più adrenalitico, quello che termina direttamente nel Cimitero dei Senza Nome di Merzarje. Solo che i rifugiati, i migranti, i viaggiatori senza diritti che sono accampati alla meno peggio tra le foreste della Bosnia, in un limbo umidiccio e nebbioso, non se la sono scelti loro di essere gli emarginati del mondo, gli invisibili da confinare lontano dalla vita “normale”.

Andare in Bosnia a visitare i campi profughi, come ho fatto con alcuni colleghi del Parlamento europeo (Pietro Bartolo, Alessandra Moretti, Pierfrancesco Majorino) è il minimo sindacale che uno che fa il nostro mestiere deve fare. Il problema è che si torna indietro con la prova provata del fallimento dell’Ue sulla politica migratoria. Di quel modello di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori, che forse è l’unico possibile di fronte a 12 paesi europei che hanno la sfacciataggine di chiedere soldi per costruire muri, ma che continua a essere quello più sbagliato di sempre.

Dalla Siria, dal Pakistan, dall’Afghanistan i viaggiatori senza diritti con mezzi di fortuna e molto con i piedi (spellati e incancreniti) arrivano in Bosnia con la speranza di attraversare la frontiera con la Croazia per entrare finalmente nell’Unione europea e nei paesi desiderati, Italia, Francia, Spagna. Ma il “gioco” della vita è balordo e non perdona: alla frontiera con la Croazia la polizia continua a perpetrare violenze, così raccontano, a picchiare e derubare i migranti che arrivano e a “pushbeccarli” (pushback), cioè a rispedirli al mittente. Pochissimi i vincitori del GAME, quelli che arrivano a Trieste, e ottengono il premio; poter forse raggiungere la meta 

Ibrahim, un insegnate pakistano di inglese, mi dice che ha provato ad attraversare la frontiera 26 volte, e che ci riproverà. Racconta di essere stato picchiato e soprattutto denudato e poi in mutande rimandato indietro. Ha una moglie e un padre in Grecia, la figlia e la madre in Turchia, e chiede che a Lipa almeno le docce abbiano l’acqua calda, altrimenti chi se la fa tutti i giorni la doccia con l’acqua gelata? Mi fermo con alcuni di loro e colpisce la dignità con cui ti rivelano l’unica loro colpa: la sfiga di essere nati in un posto di serie B, rispetto a quelli della Premiere League.

La situazione di Lipa, il campo noto per le immagini di bambini coi piedi nudi sulla neve dello scorso gennaio, è migliorata, va detto. Organizzazioni come OIM e UNHCR stanno costruendo anche con finanziamenti europei un nuovo insediamento con spazi comuni adeguati e riscaldati e container per la notte piccoli ma certamente preferibili rispetto alle tende montate alla meno peggio. L’impegno di associazioni come IPSIA, Croce Rossa, Caritas, SOS è insostituibile e sono loro i nostri referenti per visitare e capire.

Ma l’impressione rimane quella del confino, del confinamento dei migranti lontano dal resto del mondo, sospesi nel tempo e nello spazio. E rimangono molte ambiguità sulla gestione dei 90 milioni trasferiti dal 2018 dall’Ue alla Bosnia, in un paese in cui i livelli di corruzione sono giganteschi. Ci proviamo con tutta la nostra insistenza e antipatia a chiedere al sindaco di Bihàc e al Governatore del Cantone di Una Sana. La risposta è sempre troppo vaga.

Nei centri per minori la situazione è migliore rispetto a Lipa. I bambini e i ragazzi vanno a scuola e le famiglie stanno insieme (anche se, stacci tu in tre famiglie in una stanza). Una bimba, Halima, di tre anni, mi segue ovunque, ha capito che faccio alcuni scatti e appena riesce si mette davanti a me in posa per farsi ritrarre, come una attrice consumata. Velocissima, spunta fuori da tutte le parti e si fa fotografare decine di volte. Con la spensieratezza di una bimba di 3 anni che forse non ha visto altro che quelle stanze e quel refettorio, e non ha sentito che quell’odore.

Provo a scacciare l’immagine dei miei figli, per evitare un contrasto insopportabile e tiro dritto prendendo una marea di appunti. E provo a scacciarla ancora quando incontriamo la famiglia Adday, siriana, separata per un puro incidente del destino in Grecia e infilata in un’odissea che neanche ad ascoltarla ci credi. Madre a Berlino e un ricongiungimento che sembra impossibile. Quel papà e quei tre ragazzi che giganteggiano in dignità e vengono a scusarsi per averci fatto piangere. Ma come?

Tenere insieme le contraddizioni di un’Europa che si è finalmente svegliata dopo la pandemia e che ha sterzato con NextGenEu verso una solidarietà concreta, ma che si porta dietro queste ombre e gli eterni egoismi di governi incapaci di guardare oltre la frontiera del consenso immediato non è semplice. La rotta balcanica e il GAME sono lì a ricordarci che il puzzle ancora non torna, che i tasselli non si compongono l’uno con l’altro. Anzi.

rischiamo di abituarci all’orrore

le foto choc

 i piccoli migranti morti

ma non possiamo abituarci all’orrore


l’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo
I piccoli migranti morti, ma non possiamo abituarci all'orrore
di Daniele Mencarelli

Nel settembre del 2015 il mondo gridò di orrore. Una fotografia stravolse l’opinione pubblica, fermò di colpo tutte le questioni interne ai singoli Stati, sembrò quasi cancellare qualsiasi forma di ordinaria amministrazione.

La fotografia era quella del piccolo Alan Kurdi, ritrovato senza vita su una spiaggia dell’Egeo. La sua famiglia, in fuga dalla Siria, tentò come altre migliaia di profughi di raggiungere l’occidente attraverso le tratte clandestine, nel loro caso dalla Turchia verso la Grecia. Partirono da Bodrum, ma il loro viaggio durò poco, pochissimo, il gommone sul quale viaggiavano si capovolse per il mare grosso e il peso eccessivo. Della famiglia Kurdi sopravvisse solo il padre, mentre la madre e i due figli, Ghalib e Alan, affogarono.
La fotografia di Alan con il volto nella sabbia, bagnato dalle onde del mediterraneo, con la sua magliettina rossa, i pantaloncini blu, ci rimase negli occhi per settimane. Una civiltà che permette una simile sciagura non è più una civiltà. Questo dissero, dicemmo, tutti. Talmente forte lo sdegno collettivo, e sincero, che in molti pensarono che quel sacrificio potesse aprire un nuovo capitolo della Storia. Una nuova era. Dove i bambini, tutti, ma proprio tutti, avessero stessi diritti e possibilità.

 

Il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi

il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi – Open Arms / Ansa

 

Poi l’umanità riprese la corsa, dimenticò quegli attimi di commozione, come succede sempre, in preda alla sua smania frenetica.
Qualche giorno fa, Oscar Camps, il fondatore della Open Arms, l’organizzazione non governativa che si occupa di aiuto ai migranti, ha diffuso delle fotografie scattate in Libia. Si vedono i corpi di tre bambini. Altre foto ritraggono adulti. Tre bambini, di cui uno neonato. Vittime di un naufragio, uno dei tanti.

Dalla foto di Alan Kurdi a queste sono trascorsi poco meno di sei anni. Un dato salta agli occhi, evidente per quanto preoccupante. Il piccolo siriano, la sua immagine straziante, divenne icona di una crisi che riguardava tutti, perché tutti hanno una coscienza e da che mondo è mondo i bambini si proteggono.

Perché tutto questo non è successo per quelli ritrovati in Libia? Perché quei tre corpi bambini non hanno prodotto nulla? Se ne è parlato per mezza giornata, poi basta. Qualsiasi spiegazione è a dir poco terribile. La prima cosa che viene in mente è questa: nel giro di poco meno di sei anni l’opinione pubblica, tutti noi, ha vissuto una specie di assuefazione-regressione all’orrore, al punto da rendere digeribile una foto che ritrae tre bambini morti su una spiaggia. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere questa, forse ancora più disumana della prima. Le foto diffuse da Camps sono state scattate a Zuwara, in Libia, e si sa, la nostra coscienza ha oggi un confine geografico, e quel confine è proprio il Paese nordafricano, tutto ciò che accade da lì in poi e affare di altri, ed è sempre lecito. E poi, a guardare bene, quei tre bambini erano dalla pelle scura. Ma delle spiegazioni possibili interessa il giusto. Anzi niente.

L’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo. È la storia. La nostra storia. Quella che fa di ogni sciagura del passato, dai lager ai roghi, qualcosa che deve ancora avvenire.

delusione e indignazione per le scelte di Draghi sull’immigrazione

lettera aperta

a Lampedusa conosciamo le vere storie di migranti


Forum Lampedusa Solidale 
Invito al premier Draghi per un nuovo sguardo sui diritti umani negati
A Lampedusa conosciamo le vere storie di migranti

 

la sua recente dichiarazione a proposito della garanzia dei salvataggi «in acque territoriali italiane» è – oltre che discutibile – totalmente illogica e contraria a quanto stabilito dalla normativa internazionale in tema di soccorso e salvataggio, oltre che in netto contrasto con la Costituzione e con il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo

Caro presidente Mario Draghi,

da mesi tutte le parti politiche, i media e i tecnici ribadiscono le altissime aspettative intorno al suo operato e quello dell’esecutivo che lei guida. A fronte di tanto apprezzamento dobbiamo però confidarle la nostra delusione e, non lo nascondiamo, a tratti anche la nostra indignazione per alcune scelte, non solo lessicali, riguardo al tema immigrazione. Le chiediamo la pazienza di leggerci e speriamo in una sua risposta. Noi viviamo a Lampedusa e sicuramente nessuno di noi vanta un curriculum paragonabile al suo né a quello dei suoi collaboratori. Tuttavia abbiamo esperienza, perché da anni siamo testimoni di ciò che avviene sulla frontiera.

Comprendiamo che nessuno può sapere tutto e sicuramente sul tema lei deve essersi affidato a collaboratori e consulenti che, è nostra opinione, la stanno esponendo a una interpretazione dei fatti che, sempre a nostro avviso, proprio per la considerazione di cui lei gode, non si addice alla sua riconosciuta statura morale, ancor prima che intellettuale. La prima cosa che vivere su quest’isola ci ha insegnato è che chi tenta di arrivare in Europa non è ‘UN’ pericolo ma è ‘IN’ pericolo. Ma quanto costa gestire la frontiera nell’ottica esclusivamente securitaria e di esternalizzazione?

La sua recente dichiarazione a proposito della garanzia dei salvataggi «in acque territoriali italiane» è – oltre che discutibile – totalmente illogica e contraria a quanto stabilito dalla normativa internazionale in tema di soccorso e salvataggio, oltre che in netto contrasto con la Costituzione e con il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Noi in questi anni abbiamo imparato a conoscere i nomi di uomini, donne bambini affogati nel Mediterraneo. Abbiamo partecipato alle sepolture di chi sulla propria tomba non ha neanche un nome.

Lei, presidente, conosce alcune di queste storie?

Ha mai ascoltato, come noi, i loro terrificanti racconti? Ecco perché ringraziare la sedicente ‘Guardia costiera libica’ per la cattura dei naufraghi in mare, secondo noi e secondo quanto riportato ancora in questi giorni nei report delle Nazioni Unite e della Procura presso il Tribunale internazionale dell’Aja, vuol dire ringraziare dei carnefici. Anche per questa ragione riteniamo che lei debba domandarsi se stringere accordi con i governi della Libia o della Tunisia, pagando miliardi di euro per delegare ad altri il lavoro sporco dei respingimenti, oltre che essere una strategia che non funziona, non fa altro che alimentare i crimini e legittimare i criminali.

Lo sa che bloccare le navi delle Ong nei porti non ha alcun effetto deterrente sulle partenze, ma aumenta il numero dei morti e sottrae testimoni alle tragedie del Mediterraneo? È a conoscenza del fatto che le 130 persone affogate il 23 aprile scorso sono rimaste per oltre 48 ore in vana attesa che qualcuno prestasse loro soccorso, nella piena consapevolezza delle autorità europee, compresa l’Italia? La Procura dell’Aja ha definito quella tragedia come «un crimine». Quei naufraghi si trovavano in acque internazionali; se dovesse accadere ancora l’Italia continuerà a disinteressarsi ai salvataggi pur avendo i mezzi per poter intervenire? Diverse chiese e comunità di fede hanno espresso preoccupazione per i diritti delle persone e anche papa Francesco, proprio riguardo a quella strage, ha chiesto di pregare «per coloro che possono aiutare ma preferiscono guardare da un’altra parte». Ma quale sarà il giudizio storico di tali condotte? Noi sappiamo che l’unica soluzione possibile per porre immediatamente fine a tutto ciò è aprire immediatamente canali legali e sicuri di ingresso in Europa; ripristinare un meccanismo certo di soccorso e sbarco in un luogo sicuro, come richiesto dalle Nazioni Unite, e tornare a presidiare il Mediterraneo, anche nell’interesse dei nostri tanti pescatori. Le chiediamo perciò di voler rispondere a queste nostre domande, e la invitiamo a venire a Lampedusa, dove potrebbe ascoltarci e ascoltare le storie che ci impediscono di restare in silenzio.

Forum Lampedusa Solidale

Il Forum Lampedusa Solidale nasce nel 2015 dall’incontro di associazioni, movimenti ecclesiali, organizzazioni di volontariato, parrocchiani, donne e uomini della società civile che condividono sia il desiderio di riappropriarsi dei luoghi, fisici e sociali, dell’accoglienza, sia la volontà di attivare percorsi di partecipazione per la cura dell’intera comunità isolana. L’attività svolta dal Forum non si limita, infatti, alla mera distribuzione di beni ai migranti che sull’isola approdano, ma punta a creare una rete di competenze e di servizi per chiunque sull’isola viva o si trovi a passare per qualsiasi motivo, formulando proposte e realizzando pratiche in grado di dare risposte concrete alle necessità e alla dignità degli stranieri e della comunità che li ospita.

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