il nostro inno è violento, va cambiato

“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”
di Tomaso Montanari
Una nazione etnica, per via di sangue: modellata sulla famiglia di consanguinei. E su una famiglia rigidamente patriarcale: nella quale contano, e dunque vengono menzionati, solo i maschi: delle sorelle, nessuna traccia. E contano solo i maschi perché il nesso essenziale è quello tra nazione, sangue e guerra: “Dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”. La storia al servizio del presente, in una lettura figurale e mitica che innalza la xenofobia a caratteristica essenziale della nazione italiana: Scipione che batte Cartagine è immagine della eterna lotta degli italiani contro gli stranieri (gli africani, nella fattispecie). Accanto alla nazione maschia e guerriera, ecco Dio: che combatte con lei (Dio con noi!), e assicura la vittoria all’Impero con cui l’Italia si identifica (“Dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò”). Personificata in una donna, la Vittoria appare dunque ridotta in schiavitù: e cioè rasata, secondo un uso antico che intreccia all’umiliazione dello schiavo l’umiliazione della donna in quanto tale.

L’immaginario è militarista, la ricerca del martirio martellante: è un inno di morte, e alla morte (“Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”). La patria è il fine, la vita dei suoi figli è il mezzo. La persona umana non conta nulla: conta solo il destino della nazione. Una nazione tipicamente vittimista e lamentosa (“Noi siamo da secoli calpesti, derisi”), che cerca se stessa in una rilettura a tesi, finalistica e provvidenzialistica, della storia (“Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano, ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano. I bimbi d’Italia si chiaman Balilla, il suon d’ogni squilla i Vespri suonò»), e nella guerra contro i popoli oppressori (“Già l’Aquila ‘’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, il sangue polacco, bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò”)

Il testo del Canto degli italiani di Goffredo Mameli si iscrive perfettamente nella retorica risorgimentale cui appartiene (è del 1847). Ma che effetto fa, ascoltarlo oggi, quasi duecento anni dopo, in un’Italia, in un’Europa, in un mondo clamorosamente diversi? L’inno fu adottato, come provvisorio, nel 1946, per iniziativa del ministro della Guerra, e per molto tempo nessuno sentì il bisogno di tornare su quella non-decisione: anche le sporadiche proposte di sostituzione (per esempio con il Va’ pensiero verdiano) caddero nel vuoto, più per mancanza di interesse che per una reale convinzione. L’inno – questo inno così opposto ai valori della Costituzione repubblicana – diventa ufficialmente tale solo nel 2017, con una apposita legge proposta dal Pd, e approvata presidente del Consiglio Gentiloni, presidente della Repubblica Mattarella.

A farlo tornare in auge, per reazione, era stato il separatismo leghista, che una sinistra come al solito lungimirante pensò bene di combattere resuscitando la retorica patriottica risorgimentale, senza capire quali ben più pericolosi fantasmi si andassero così a legittimare. Come scriveva già nel 2011 lo storico Alberto Mario Banti (in Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza): “Il neo-patriottismo … non ha fatto altro che riproporre – con minime variazioni – il blocco discorsivo proprio del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo. … Dal punto di vista contingente ha creato strane situazioni. Così, per esempio, osservare leader del centro-sinistra italiano, come Romano Prodi o Giovanna Melandri, che in diretta Tv festeggiano la Nazionale italiana di calcio vittoriosa nei Mondiali del 2006, cantando con entusiasmo ciampiano un inno che esalta il nazionalismo sacrificale, come Fratelli d’Italia, sarà risultato un po’ desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the Wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica. Viceversa, sembra che Ignazio La Russa si trovi perfettamente a suo agio nel celebrare l’esercito italiano, l’Anniversario della vittoria, o i sacrifici che i soldati italiani all’estero compiono, a prezzo a volte della loro vita: e son convinto che una buona parte del suo elettorato non trova niente di strano nelle sue iniziative. … Le parole-simbolo, i sistemi discorsivi, i rituali che strutturano l’identità nazionale si distanziano con difficoltà dagli archivi memoriali ai quali appartengono; e quindi conservano latente l’intera complessità del discorso-matrice che li ha foggiati”.

Arrivati al 2023, con un’Italia governata da un partito di matrice fascista che si chiama, guarda un po’, Fratelli d’Italia, e con La Russa seconda carica dello Stato che rivendica i suoi busti del duce, il Festival di Sanremo si apre con Gianni Morandi che canta l’inno nazionale-nazionalista. Ma che sorpresa.




il canto di ‘bella ciao’ dopo la messa sarà non molto liturgico ma sicuramente evangelico

due reazioni ‘laiche’ ma diversissime al canto di ‘bella ciao’ di don Biancalani nella sua chiesa parrocchiale

il freddo perbenismo ‘religioso’ di Massimo Gramellini e il più efficace ed evangelico vigore profetico di Tomaso Montanari

Bella Ciaone

di Massimo Gramellini

in “Corriere della Sera” del 26 novembre 2019

Dopo avere detto «la Messa è finita, andate in pace», don Massimo Biancalani è rimasto in guerra davanti all’altare e ha cominciato a cantare «Bella Ciao», iscrivendo Gesù Cristo al movimento delle sardine. Senza dubbio il parroco antileghista avrà prima interpellato il superiore celeste, ma è probabile che ci sia stato qualche problema di comunicazione: chi scacciò dal tempio i mercanti difficilmente vi accoglierebbe certi cantanti. Non è questione di testo, ma di contesto. Provate a immaginare una piazza del Venticinque Aprile che intona il «Gloria in excelsis Deo». Pensereste di essere precipitati in una teocrazia. Allo stesso modo una canzone partigiana che risuona sotto le volte di una chiesa assomiglia, più ancora che a una profanazione, a un’appropriazione indebita. Come se un parroco ultrà montasse sul pulpito del Duomo per dirigere cori da stadio. Come se un politico baciasse madonne e rosari durante un comizio (questo forse qualcuno lo ha fatto). Si sente parlare di punizioni imminenti da parte del vescovo, quando magari basterebbe suggerire al prete-sardina l’ascolto quotidiano di una sonata di Bach. Rilassa i nervi e schiarisce le idee. «Bella Ciao» è assurta nel tempo a inno planetario contro l’oppressione. Se don Biancalani smania dalla voglia di cantarla in un luogo di culto, potrebbe trasferire la sua ugola nella cattedrale di Hong Kong. Intonare «Bella Ciao» dentro una chiesa ha senso solo nelle nazioni in cui è vietato, o pericoloso, farlo altrove.

Per “Bella ciao”. La Chiesa è casa sua

di Tomaso Montanari

in “il Fatto Quotidiano” del 27 novembre 2019

Non so quale idea Gramellini abbia del Vangelo. Io l’ho sempre letto come una promessa di resurrezione da ogni oppressione: a partire da quella della morte. Esso contiene il più antico canto rivoluzionario – il Magnificat di Maria –, dove il Signore viene esaltato per aver “abbattuto i potenti dai troni” e per aver “esaltato gli umili”, per aver “rimandato i ricchi a mani vuote” e aver “saziato gli affamati”. È un programma ancora sovversivo: quando Giovanni Paolo II visitò l’Argentina del regime militare, quei versetti furono censurati dall’esecuzione collettiva del Magnificat. La Madonna, oggi violentata dalla retorica dei nuovi fascisti, era allora stata censurata in nome del dio mercato. Anche Bella ciao è un canto degli oppressi, che dalle mondine passa ai partigiani e oggi è un canto globale: dalla fiction della Casa de Papel alla dura realtà di Kobane, dove la si canta in curdo. In chiesa, Bella ciao è a casa sua: anche se il ricco, il cardinale o il Corriere della Sera aggrottano le ciglia. Anzi, a maggior ragione.