il migrante costruito come nemico da cui difenderci

la costruzione del nemico migrante

di Filippo Miraglia
in “il manifesto” del 26 giugno 2024

Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto
del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse
la prima grande manifestazione contro il razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento
antirazzista per i diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di discriminazione.
A distanza di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e, nonostante il
numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia del 1989 a più di 5 milioni oggi),
abbiamo visto diminuire la visibilità e il protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un
aumento della politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali.
La scarsa presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme all’uso
aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva disumanizzazione delle persone,
permettendo a politici e giornalisti spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza
alcuna vergogna. Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti,
rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non vale nulla.
Le affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla responsabilità del
lavoratore morto «per mancanza di attenzione», cancellano le circostanze che ne hanno determinato
la morte, nonché l’elemento essenziale di quella che è una nuova forma di schiavitù, con condizioni
note a tutti come il lavoro nero, lo sfruttamento e il ricatto legato al permesso di soggiorno.
Questo ricorda chiaramente quanto disse il ministro Piantedosi all’indomani della strage di Cutro:
««L’unica cosa che va detta e affermata è che i migranti non devono partire». E subito dopo: «La
disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei
propri figli».
Insomma, la colpa è delle vittime che scelgono di morire perché sono irresponsabili, mettendo a
rischio le loro vite e quelle dei figli. Se lo dice un ministro della Repubblica, perché non dovrebbe
dirlo un datore di lavoro che non si vergogna di un atto crudele e criminale?
Le parole allucinanti di Piantedosi all’epoca di quella strage furono seguite da una scelta coerente di
tutto il governo, che si riunì subito dopo, proprio nel luogo della strage, per approvare una legge
contro l’immigrazione legale e a sostegno dei trafficanti, senza peraltro stringere la mano e portare
il cordoglio dell’Italia ai superstiti e ai familiari delle vittime. Un governo che ha impostato tutta la
sua azione in questo ambito proprio sulla costruzione del nemico, da dare in pasto all’opinione
pubblica con profluvio di leggi e accordi in sfregio della Costituzione e del diritto internazionale.
Una forma esplicita di razzismo di stato che va contrastata con forza, mettendo in campo
un’alternativa dal basso, dai territori.
Oggi, come nel 1989, un fatto tragico legato allo sfruttamento lavorativo, non un incidente ma un
vero omicidio, può rappresentare l’elemento che fa scattare la reazione dell’Italia antirazzista. Un
movimento che non è minoranza in Italia, ma che prende raramente la parola, come di rado la
prendono le persone di origine straniera sulle questioni che le riguardano direttamente.
È necessario che il prossimo autunno, proprio in prossimità di quella data che ha visto l’avvio di
una mobilitazione importante per la lotta contro il razzismo nel nostro Paese, si faccia tutto il
possibile per portare in piazza quella parte d’Italia che non vuole arrendersi alla disumanizzazione
delle persone, all’attacco alla civiltà giuridica italiana ed europea e all’avanzata delle destre
xenofobe in tutta l’Ue, per gli interessi dei partiti che sul razzismo hanno costruito la loro fortuna, il
loro business e non certo nell’interesse del Paese.
Una mobilitazione che va preparata con assemblee territoriali, in tutti i luoghi nei quali le persone,
soprattutto migranti e rifugiati, si incontrano per discutere e organizzare la partecipazione, ridando
finalmente la parola ai protagonisti.
C’è il tempo per farlo, per far crescere dai territori una grande mobilitazione. Per ribaltare l’idea che
il razzismo paga elettoralmente, che parlare di diritti e uguaglianza è impopolare e affermare con
forza che ciò che serve per rimotivare le persone a partecipare è un’idea giusta e praticabile di
società accogliente e aperta. Se non ora, quando?

imparare a saper dire a chiunque ‘altro’ “tu non sei mio nemico” attraverso l’ospitalità

praticare l’ospitalità per dire all’altro «non sei mio nemico»

intervista a Michel Agier

a cura di Giampaolo Cherchi
in “il manifesto” del 13 settembre 2019

«Nel linguaggio etnologico la persona è l’informatore privilegiato, quell’individuo che rende comprensibile l’intero gruppo sociale»

A esserne sicuro è Michel Agier, directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove conduce ricerche in ambito etnografico sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, occupandosi anche di antropologia urbana. Quest’anno sarà per la prima volta ospite al FestivalFilosofia, dove domani terrà a Carpi una lectio magistralis sul divenire stranieri. Argomento che ben si attaglia al tema scelto per la nuova edizione del festival: Persona: questione delicata, da maneggiare con cura.

«Si tratta di un vecchio paradigma etnografico – continua Agier – che è andato incontro a diverse critiche e che oggi è stato portato fuori dalle sue cornici tradizionali, reso in qualche modo più funzionale a una società globalizzata e frammentata».

In che senso funzionale? Sia in un contesto come i legami di parentela che in quello moderno dello Stato, il concetto di persona si riferisce a una relazione fra la parte e il tutto. Una relazione fatta di vincoli e di libertà, di diritti e doveri. Ma nella definizione di questo concetto ne intervengono inevitabilmente altri, come quello di identità, che può tuttavia riferirsi non solo al lignaggio (genitori, antenati, discendenti) ma anche alla cittadinanza, ovvero alla precisa modalità di appartenenza istituzionale di un individuo alla società.

E che differenze ci sono fra la persona e il cittadino?

La domanda è mal posta. La cittadinanza non ha completamente soppresso la persona, proprio perché è sempre legata alla nozione di identità. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere in che modo una persona immersa in una rete sociale (alla quale è legata da rapporti di parentela o alla quale ritiene per varie ragioni di appartenere) riesce a emanciparsi e diventa il soggetto di un discorso pubblico e di un agire politico? Questa è la domanda che mi pongo nel mio lavoro. E la risposta non si trova nella figura dell’individuo isolato ma piuttosto nei meccanismi di formazione di nuove comunità politiche, che danno senso alla nozione di persona, oggi in un modo più libero ed effimero rispetto al passato, più «liquido» come direbbe Bauman.

Nel suo lavoro fa spesso riferimento alla nozione di «campo» (si pensi al volume «Un monde de camps», ma anche al libro (tradotto da Ombre Corte)

«La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo). Cosa intende e qual è il suo coinvolgimento teorico e politico con il concetto di «campo»? A un certo punto le mie ricerche mi hanno imposto di dover dare un senso alla nozione di campo: in Africa o in Medioriente, per esempio, il «campo» non si riferisce affatto ai campi di sterminio o alla Shoah, come avviene invece in Europa, dove la dimensione tanatopolitica domina la riflessione (pensiamo ad Agamben). Certo, esiste una dimensione oscura in qualsiasi forma di campo, anche nei campi umanitari: una forma di «morte sociale» che anticipa e prepara alla morte fisica, come diceva Hannah Arendt. È qualcosa che ha a che fare con la scomparsa del quadro sociale ordinario delle persone e con la loro separazione in uno spazio la cui stessa esistenza, sociale e politica, è negata. Ma detto questo, il campo rimane anche uno spazio di vita: ogni agglomerato umano ricrea forme di vita, sociali, familiari, culturali, politiche. Il campo non è uno spazio isolato da tutto questo, anzi il contrario. Esso acquisisce assai presto una relativa autonomia che lo rende persino una città in via di realizzazione. Si è spesso visto nei campi di Africa, Kenya, Uganda, ecc. Così come nei campi palestinesi, che esistono da 70 anni. Lo abbiamo visto anche a Calais di recente, con il campo chiamato «giungla», che aveva raggiunto diecimila abitanti, e con all’interno ristoranti, scuole, chiese e moschee, e con una certa autonomia politica. Credo sia proprio questa trasformazione del campo in un luogo reso vivibile per i suoi abitanti che ha portato il governo francese a distruggerlo.

Un altro aspetto fondamentale del suo lavoro di ricerca è orientato verso una antropologia delle migrazioni, specialmente per quanto riguarda le logiche dello sviluppo urbano. Nel suo «Anthropologie de la ville» (purtroppo non tradotto in italiano) sottolinea l’attualità dell’idea lefebvriana del «diritto alla città» soffermandosi però sulle situazioni di transito e di passaggio, in modo particolare sulla condizione dei rifugiati e sulle dinamiche che portano alla produzione di figure quali l’escluso, o più genericamente lo straniero. Come si diventa stranieri?

Il legame tra mobilità umana e città è sostanziale, perché la storia della città è sempre legata a quelle di migrazione, a insediamenti di gruppi provenienti da altri luoghi, più o meno vicini o lontani, che si sono stabiliti in un preciso posto disegnando dei confini. Ecco perché in quelli che definiamo «margini» urbani è possibile osservare dal vivo la genesi della città. Questo è ciò che chiamo antropologia della città: una genesi sociale, culturale, politica ed economica della città che può essere osservata direttamente. E ciò avviene anche nel campo, nella baraccopoli, come nelle favelas o negli slums: si tratta di mostrare la ricorrenza di questa dinamica di arrivo, occupazione e insediamento dell’habitat, e dell’assetto urbano che viene ad assumere. Il tutto «in tempo reale». I rifugiati che vivono nelle nostre città sono l’esempio di come spesso il diventare «straniero» comporti la perdita dello status giuridico di «persona».

Come si pone la questione dei diritti?

Un tema decisivo per la definizione dei rapporti tra lo straniero e lo stato di accoglienza, che misura la distanza dalla cittadinanza. Gli stranieri non sono uguali da questo punto di vista. Per esempio, in Francia, uno straniero europeo avrà il diritto di voto alle elezioni comunali, mentre questo non è il caso di un non europeo, anche se vive in Francia da anni. Oppure, a seconda del paese, il diritto al lavoro può essere concesso più o meno rapidamente o per niente ai richiedenti asilo. Tutti possiamo stare su un asse verticale di diritti e secondo i contesti vediamo che il cursore è più o meno alto o basso, in alto c’è l’ideale del cittadino del mondo, ovunque a casa, libero e dotato di tutti i diritti umani, praticamente non più straniero. E alla base di questo asse di diritti, al contrario troviamo lo straniero assoluto, senza alcun riconoscimento e senza un nome. Siamo tutti nello stesso mondo, collegati l’uno all’altro. Quel che oggi caratterizza le relazioni tra i paesi è la domanda di uguaglianza, nell’ottica di un cosmopolitismo sempre più necessario. La risposta può trovarsi solo nel riconoscimento di una pari condizione cosmopolita per tutti. E in che modo ritiene possa essere realizzabile, politicamente, una simile condizione? Esiste un diritto globale alla mobilità, che è ineludibile. Si tratta di attuarlo su un piano legale e politico. E credo che un modello valido sia il principio dell’ospitalità. Immanuel Kant diceva che l’ospitalità consiste semplicemente nel dire all’altro «non sei mio nemico». E i modelli per una sua applicazione concreta mi pare non manchino: lo stesso ospedale, in quanto luogo destinato al prossimo, costituisce un esempio storico concreto; e se non dovesse bastare si può guardare a fenomeni contemporanei, come Riace. Si tratta di dare una cornice giuridico-politica. Il dicembre scorso a Marrakech si è tenuta una conferenza intergovernativa organizzata dalle Nazioni Unite, per discutere sull’adozione di un patto globale sulla migrazione, e si è avuta l’impressione che si trattasse solo dell’ennesimo incontro fra stati per parlare della migrazione su scala globale. Tutto questo però è bastato per far reagire i partiti di estrema destra, soprattutto in Europa. La soluzione realistica in ogni caso è quella di procedere con determinazione in questa direzione. In Francia il Consiglio costituzionale ha fatto appello al concetto di «fraternità» nella Costituzione per invalidare una decisione del tribunale che penalizzava i gesti di solidarietà e accoglienza dei migranti in una situazione irregolare. Allo stesso modo la parola «ospitalità» può aiutare ad aprire le porte: ad affrontare i fenomeni e i problemi senza per forza adottare le logiche della destra.

per Boff il grande nemico della terra è l’uomo

la Terra è entrata nello scacchiere speciale:

l’essere umano Satana per la Terra

Leonardo Boff 

Il giorno due agosto 2017 è avvenuto un fatto preoccupante per l’umanità e per ciascuno di noi individualmente. E’ stato il giorno cosiddetto: “ Sovraccarico della Terra “ (Overshoot Day). Cioè: è stato il giorno in cui abbiamo consumato tutti i beni e servizi naturali, alla base della vita. Prima stavamo in quello verde e adesso siamo entrati nel rosso, ossia nello scacchiere speciale. Quello che consumeremo d’ora in poi sarà violentemente strappato alla Terra per venire incontro alle indispensabili richieste umane e, quel che è peggio, mantenere il folle livello di consumo dei paesi ricchi.

Questo fatto viene chiamato comunemente “ Orma ecologica della Terra”. Con questa si misura la quantità di terra fertile e di mare necessari a creare i mezzi di vita indispensabili come acqua , granaglie, carni, pesci, vegetali, energia rinnovabile e altro ancora. Disponiamo di 12 miliardi di ettari di terra fertile (foreste, pascoli, coltivi) ma in verità avremmo bisogno di 20 miliardi di terra fertile.

Come coprire questo deficit di 8 miliardi? Spremendo sempre più la Terra…ma fino a quando? Stiamo lentamente rivalutando la Madre Terra. Non sappiamo quando succederà il suo collasso: Ma a continuare con il livello di consumo e lo spreco dei paesi opulenti arriverà con conseguenze nefaste per tutti.

Quando parliamo di ettari di terra non pensiamo soltanto ai suoli, ma a tutto cio che permette di produrre come per esempio legni per mobili, tessuti di cotone, coloranti, principi attivi naturali per la medicina, minerali e altri.

Ogni persona avrebbe bisogno in media per la sua sopravivenza di 1,7 ettari di terra. Quasi metà dell’umanità ( 4,3 % ) sta sotto di questo come i paesi in cui imperversa la fame: l’Eritrea con un’orma ecologica di 0,4 ettari, Bangladesch con 0,7 il Brasile al di sopra della media mondiale con 2,9, 54 % della popolazione mondiale sta molto al di sopra delle loro necessità come gli USA con 8,2 ettari, Canadà con 8,2, Lussemburgo con 15,8, Italia con 4,6 e India con 1,2.

Questo sovraccarico ecologico è un prestito che prende alle generazioni future per il nostro uso e consumo attuale. E quando arriverà il loro turno in che condizioni potranno soddisfare le loro necessità di alimentazione, acqua, fibre, granaglie, carni, e legname? Potranno ereditare un pianeta impoverito.

Temiamo che i nostri discendenti guardando indietro finiscano per maledirci: “voi non avete pensato ai vostri figli e nipoti e pronipoti; non avete saputo risparmiare e sviluppare un consumo sobrio e frugale perché sulla Terra restasse qualcosa di buono per noi, ma non sarà solo per noi, ma anche per tutti gli esseri viventi che hanno bisogno di quello che noi stessi abbiamo bisogno?“ Questo mi ricorda le parole del capo indiano Seattle: “se tutti gli animali scomparissero, l’essere umano morirebbe di solitudine di spirito, perché tutto quello che succede agli animali subito succederà agli esseri umani perché tutto sta inter-relazionato.

Quello che vige in questo mondo è una perversa ingiustizia sociale crudele e spietata. 15% di coloro che vivono nelle regioni opulente del nord del pianeta, dispone del 75% dei beni e servizi naturali e il 40% della terra fertile. Alcuni milioni come cani famelici devono aspettare le briciole che cadono dalle loro tavole imbandite.
In verità il sovraccarico “della Terra“ risulta dal tipo di economia dilapidatrice delle “ primizie della natura” come dicono gli andini, deforestando, inquinando acqua e suoli, impoverendo gli ecosistemi e erodendo la bio diversità. Questi effetti sono considerati “esternalità” che non toccano il lucro e nemmeno entrano nella contabilità impresariale. Ma toccano la vita presente e futura.

L’ eco-economista Ladislau Dowbor della PUC-SP nel suo libro “Democrazia economica” (Vozes 2008) con chiare parole riassume il problema in discussione “pare abbastanza assurdo, ma l’essenziale per la teoria economica con cui lavoriamo non considera la perdita di valore del capitale pianeta. In pratica, in economia domestica, sarebbe come se sopravivessimo vendendo i mobili e l’argenteria della casa e trovassimo che con questi soldi la vita è bella e che pertanto noi staremmo amministrando bene la nostra casa. Attenzione: tutti questi beni possono essere riposti, la Terra no. Stiamo distruggendo il suolo, l’acqua, la vita dei nostri mari,la copertura vegetale, le riserve di petrolio, la difesa dell’ozono il clima stesso, ma quello che abbiamo contabilizzato è soltanto il tasso di crescita“ (P. 123).
Questa è la logica in vigore dell’economia attuale, economia neoliberale di mercato, irrazionale e suicida.

Radicalizzando io direi: l’essere umano sta rivelandosi il satana della terra e non il suo angelo custode.

traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato

il nemico come costruzione ideologica

  come si crea il nemico in casa

di Guido VialeViale

Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione

 E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli. Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi, vieppiù pesanti, di manifestarsi.

Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le  angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli. Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima di essa, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo. Ma una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi, nel villaggio globale dei media, le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.

profughi

Alla luce di queste considerazioni, l’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa che ci facciamo di noi e degli altri come persone.

Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi li ha costretti a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano lungo la loro strada.

Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il Governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia. Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il Governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. Ma poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?

Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta. Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.

stiamo regredendo alla primitiva ‘cultura del nemico’

lo psichiatra Vittorino Andreoli

“livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”

 

Migrazioni e razzismo. Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Livello di civiltà disastroso, regrediti alla cultura del nemico”
Nonostante il refrain contro i migranti sia sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”, nelle società occidentali il razzismo sta uscendo allo scoperto e rischia di essere legittimato come una opinione.

Nonostante il refrain contro i migranti sia sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”, nelle società occidentali il razzismo sta uscendo allo scoperto e rischia di essere legittimato come una opinione. Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli siamo in “una cornice di civiltà disastrosa”, l’Italia e l’Occidente stanno “regredendo alle pulsioni istintive”, al dominio della “cultura del nemico”: “La superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso”.

Dall’America all’Europa all’Italia sembra uscire allo scoperto, fomentato da politici e media irresponsabili e amplificato dai pareri espressi sui social media, un clima aperto di razzismo e xenofobia, come se l’espressione di odio razziale nei confronti dei migranti o delle minoranze, anche con linguaggi e gesti violenti, non sia più un tabù ma una legittima opinione. L’episodio di Fermo, con l’uccisione del nigeriano le cui dinamiche chiarirà la magistratura, ha avuto uno strascico di posizioni opposte sui social. Molti difendono apertamente l’aggressore, come se la violenza, verbale e poi fisica, dell’insulto razziale sia legittima. Mentre il refrain contro i migranti è sempre lo stesso: “Premesso che non sono razzista…”. Cosa ci sta succedendo? Lo abbiamo chiesto allo psichiatra Vittorino Andreoli, ma la premessa che anticipa tutta la riflessione è semplice e sconfortante: “Questa società non mi piace”.

Cosa sta succedendo alle nostre società occidentali?

Sono stati consumati, se non distrutti, alcuni principi, che erano alla base della nostra civiltà, che nasce in Grecia, a cui si aggiunge il cristianesimo. Non c’è più rispetto per l’altro, la morte è diventata banale, tanto che uccidere è una modalità per risolvere un problema. Non c’è più il senso del mistero e del limite dell’uomo. L’episodio di Fermo va inserito in una cornice di civiltà disastrosa. Non esiste più l’applicazione dei principi morali della società e c’è un affastellarsi di leggi, come se le leggi possano sostituire i principi. Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso. Questa è una regressione antropologica perché si va alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici. Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.

Qualcuno dice: “non è razzismo, è superficialità”. Io ribatto: no è razzismo.

E’ considerare l’altro inferiore perché ha quelle caratteristiche, per cui bisogna combatterlo. Se uno è diverso da te è un nemico e va combattuto. Si arriva alla legge del taglione. Si torna a fare la guerra perché il diverso è un nemico che porta via soldi, posti di lavoro, eccetera. Così come c’è una gerarchia dei potenti c’è anche una gerarchia di razze. Perché sono presi di mira solo alcuni.

Il razzismo e i pregiudizi sono però universalmente presenti nel cuore dell’uomo, a prescindere dalle nazioni. I fatti di questi giorni negli Usa ne sono un esempio.

E’ sicuramente un istinto presente nella nostra biologia, nella nostra natura, ossia la lotta per la sopravvivenza di cui parlava Darwin, la lotta per la difesa del territorio. Ma tipico dell’uomo non è solo la biologia ma la cultura. E la cultura dovrebbe essere quella condizione in cui rispettiamo gli altri e riusciamo a frenare un istinto. Il problema è: come mai la cultura che caratterizza l’uomo e consiste nel controllo delle pulsioni non c’è più? Tutta una cultura che si era costruita fino a epigoni che erano quelli dell’amore, della fratellanza, è completamente recitata ma non vissuta.

Questo è un Paese, ma anche tutto l’Occidente, che sta regredendo alla pulsionalità, all’uomo pulsionale. Ciò che mi spaventa e mi addolora è che per raggiungere una cultura ci vuole tanto tempo e la si può perdere in una generazione.

Gli episodi che osserviamo sono silenziosamente sostenuti da tante persone. Non dicono niente ma li approvano. Bisogna impedire che ci sia chi soffia sul fuoco. Nessuno parla del valore della conoscenza utile nell’avvicinare altre storie, altre culture. Tutto viene mostrato come negativo: gli immigrati fanno perdere posti di lavoro, c’è violenza e criminalità. Il problema è che all’origine c’è sempre una esclusione. E’ terribile, stiamo diventando un popolo incivile.

Nei dibattiti pubblici, soprattutto sui social, c’è sempre un “noi” contro “loro”: i migranti, più deboli, diventano il capro espiatorio di tutti i mali.

Certo, questo è il principio darwiniano. L’evoluzione si lega alla lotta per l’esistenza: “mors tua, vita mea”. Bisogna eliminare il nemico, deve vincere la mia tribù che deve prendere il tuo territorio. E’ una regressione spaventosa. Poi c’è la crisi che ha sottolineato la paura, le incertezze. E la paura genera sempre violenza. Ci rendiamo conto che, in un Paese che non legge, un giornale ha regalato il Mein Kampf di Hitler? Perché non hanno regalato “La pace perpetua” di Kant?

Marketing, ricerca di consenso e voti, incoscienza: quali sono, secondo lei, le vere ragioni dietro a scelte così pericolose? Come fare per arginarle?

Non è follia, è stupidità. Bisogna prendere una posizione molto decisa: non è più possibile fare finta. Questa è una società falsa, che recita. Andiamo incontro a situazioni che saranno di nuovo drammatiche.Ci vuole più coraggio anche nella Chiesa. Il Papa lo ha avuto nel suo schierarsi dalla parte dei migranti, ma ci sono quelli che non sono d’accordo. Bisogna cominciare a dire che questa nazione deve cercare di far emergere uomini e donne saggi, intelligenti. Stiamo scegliendo i peggiori. C’è una ignoranza spaventosa.  Bisogna poter parlare, spiegare, capirsi. Occorrono persone credibili per parlare ai giovani, ma la via è sempre quella della cultura. Fare promozione, educazione, dimostrare quanta positività c’è in chi viene odiato, per stimolare al rispetto nei loro confronti.

Con i giovani è più facile perché sono come pagine bianche di un libro da scrivere. Ma con adulti già formati come si fa? E’ una battaglia già persa in partenza?

No, perché l’espressione esplicita dei pregiudizi nasce dal sentirsi sostenuti. Se nascondono ancora il loro pensiero sono recuperabili. Il problema emerge quando ci si sente in tanti a pensarlo. Bisogna far scoprire cosa c’è nell’altro, cosa significa una società diversa.

Purtroppo oggi sui social non si nasconde più il proprio pensiero: lo schermo del computer protegge dal confronto diretto, le affermazioni diventano più violente e l’espressione dei pregiudizi, anche in maniera razionale, serve solo a rafforzare l’ego…

E’ vero. Questo è più grave, perché se uno stava zitto e si esprimeva a casa, agiva male solo in famiglia. Adesso diventa un’azione diffusa, trasformandosi in vera e propria propaganda.

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