l’eredità spirituale lasciataci da p. Orternsio da Spinetoli

 

Oltre l'“inutile fardello” di dogmi e di miti. Lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

oltre l’“inutile fardello” di dogmi e di miti

lo straordinario insegnamento di Ortensio da Spinetoli

da: Adista Documenti n° 28 del 29/07/2017

Un’occasione da non perdere per rivisitare l’appassionata ricerca del frate cappuccino e biblista di fama internazionale Ortensio da Spinetoli, scomparso il 31 marzo 2015: è questo che offre il suo scritto, pubblicato postumo, dal titolo L’inutile fardello. L’insegnamento di uno straordinario teologo controcorrente (Chiarelettere, Milano, 217, pp. 85, euro 10), «una sorta di manifesto per il rinnovamento esegetico e teologico della Chiesa» in cui, come scrive nella Prefazione Alberto Maggi, biblista dell’Ordine dei Servi di Maria, «è racchiuso tutto il ricco pensiero di padre Ortensio».

Un pensiero che, «come un bisturi doloroso ma vitale, costringe a ripensare importanti concetti teologici che sono ancora un tabù» per la maggioranza dei credenti, dal peccato originale all’eucarestia, dalla verginità di Maria alla «mistica del patire». E per il quale Ortensio ha pagato un prezzo molto alto – l’isolamento, il processo da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (alla maniera «in uso nell’Unione Sovietica, cioè senza alcuna possibilità né di conoscere le accuse né tantomeno di difendersi»), l’allontanamento dall’insegnamento -, ma senza mai abbandonarsi a «recriminazioni rancorose», nella consapevolezza, sottolinea Maggi, «di dover tenere in conto la beatitudine della persecuzione». E, d’altro canto, senza neppure mai arrendersi, ma riprendendo anzi con rinnovata energia «le sue spietate lucide analisi della realtà di una Chiesa alla deriva», una Chiesa che egli voleva «più vicina al modello indicato da Gesù Cristo».

Se Ortensio, studioso «coltissimo e meticoloso» – come lo descrive nell’Introduzione Franco Cortinovis, diventato, in seguito a un folgorante incontro nel 2005, suo discepolo, amico e stretto collaboratore nella stesura dei testi, fino a ricevere da lui l’incarico testamentario di “erede letterario” – ha dedicato gran parte della sua vita e della sua ricerca allo studio del Gesù storico, completamente oscurato dal Cristo della fede, questo libro postumo offre con forza, nuovamente, l’immagine di un Cristo divino perché profondamente umano, «demitizzando idee radicatissime» come quelle relative alla dottrina del peccato originale, sconosciuta ai profeti e «di cui Gesù stesso – scrive Ortensio – non ha fatto parola»,  o all’interpretazione sacrificale della morte di croce, che rende Gesù «la “vittima” di espiazione dei peccati dell’umanità che Dio non ha mai chiesto né aspetta», o alla trasformazione della Chiesa in un’istituzione gerarchico-monarchica, in un totale stravolgimento della proposta del suo fondatore.

Un testo inedito, quello appena pubblicato, che, come spiega Cortinovis, nasce dallo sviluppo di una lettera personale scritta nel 2014, un anno prima della sua morte, a un giovane confratello che aveva espresso interesse per i temi a lui cari e a cui Ortensio, abituato al trattamento tutt’altro che positivo che gli era spesso riservato da vari appartenenti al suo ordine, aveva fatto dono di una delle sue opere, l’Itinerario spirituale di Cristo. Accompagnando il dono con una lettera, Ortensio aveva voluto così offrire al suo confratello un’introduzione e una chiave di lettura per aiutarlo a entrare nel tema del libro, ma fornendo in tal modo, sottolinea Cortinovis, «una potente sintesi del suo pensiero», una «testimonianza troppo preziosa per non condividerla con i suoi lettori, presenti e futuri».

E se, come prevede Maggi, anche questo libro, come tutti quelli di padre Ortensio, «susciterà scandalo, scalpore, sarà fonte di polemiche e censure», aggiungendosi «ai tanti testi vivamente sconsigliati da chi ha paura di tutto quel che è nuovo e che può turbare le sicurezze che l’immutabile dottrina della chiesa offre», ci pensa Ortensio stesso a rassicurare il suo giovane confratello: «Le mie indicazioni – scrive – possono apparire troppo innovative, ma rispetto al progresso che ha fatto, sta facendo in questi ultimi anni e farà presto la scienza biblico-teologica, i competenti e gli informati non possono che definirle “conservatrici” (v. Hans Küng, Eugen Drewermann, Matthew Fox, John Dominic Crossan, John Shelby Spong, Roger Lenaers, José Arregui, da noi Augusto Cavadi, Vito Mancuso, Felice Scalia, per far solo qualche nome; tutta gente che purtroppo la gerarchia ignora quando non condanna ma che ormai fanno scuola dentro e fuori l’istituzione)». E agginge: «L’esortazione che facevo agli alunni al termine di “certe” lezioni e che ho continuato a ripetere al pubblico dopo le mie conferenze, è sempre stata la stessa: “Non si pensi che siano queste le ultime o le definitive risposte. Le più giuste, senz’altro migliori, sono quelle che devono venire. Sappiamo cercare e aspettare fiduciosi”». Perché, conclude, non ci sono dubbi sul fatto che «il relativismo, la precarietà, la provvisorietà non indicano indifferentismo religioso, nichilismo o ateismo, ma costituiscono l’unico atteggiamento spirituale e culturale legittimo in un mondo diventato pluridimensionale e multietnico, in cui la verità si è fatta più lontana perché la realtà si è fatta più vicina e si rivela agli scienziati, ai filosofi e quindi anche (e perché no?) ai teologi, più complessa e mobile (evolutiva) di quanto si fosse mai pensato fino a ora».

Di seguito ampi stralci del capitolo sull’eucarestia. 

 

in memoria di Ortensio da Spinetoli

 

 

 

 

 ricordando il grande Ortensio da Spinetoli,  biblista e teologo, oggi deceduto,  che ha sempre saputo interpretare autenticamente e profeticamente i “segni dei tempi”

IN CRISTO C’È UNA NOVITÀ PER OGNI UOMO

 

Premessa
 
Il titolo potrebbe essere ridato anche in altri termini: “La proposta di Gesù di Nazareth”. Chi egli è veramente stato per gli uomini della sua generazione e ciò che può ancora essere per quelli della nostra.
 
Dopo venti secoli di cristianesimo c’è motivo di fare appello a Gesù Cristo. Quale soluzione può offrire pertanto ai problemi dell’uomo di oggi un profeta di duemila anni fa?
 
Perché la predicazione, l’educazione cristiana non ha dato e non dà i benefici desiderati? Il catechismo, la scuola di religione, i corsi speciali sembrano non avere una grande incidenza nella formazione dell’alunno, del giovane, dell’adulto. Rimangono o sembrano rimanere due cose distinte. Quello che si sente in chiesa o nelle ore di catechesi, di istruzione cristiana, se per caso riesce a interessare l’ascoltatore, rimane spesso una pura notizia, un dato se si vuole usare questo termine, culturale, meno o affatto un programma pratico, un messaggio, un’esperienza, una testimonianza che può essere ripresa e fatta propria nella vita.
 
Perché questo distacco, questa dissociazione? Eppure la testimonianza di Gesù è sempre la provocazione più sconvolgente che la storia possa registrare e il vangelo non è un libro devozionale ma rivoluzionario. Se lo si prende sul serio non si può rimanere a dormire nelle chiese o nei conventi, ma si diventa perturbatori dell’ordine ingiustamente costituito. S. Francesco è stato definito un vangelo vivente non perché ne ha dato una sapiente interpretazione, ma una personale, coraggiosa attuazione avviando una convivenza di eguali e di fratelli (fratres) tra e con gli ultimi della società (minores). Anche Gandhi è sulla linea di Cristo perché ha dato come lui la vita per il bene di molti.
 
1. Cominciare dalla storia
 
Se pertanto l’annunzio di Cristo non trova le reazioni e adesioni dovute in chi l’ascolta può darsi che provenga innanzitutto dalla presentazione inadeguata, impropria o infelice che ne viene fatta. Ancora continuano i titoli trionfalistici della primitiva apologetica cristiana. Davanti ai giudei che rifiutavano il carpentiere nazaretano su cui si era posata la chiamata profetica e davanti ai gentili, greci e romani, che non sapevano conciliare la rivendicazione di un presunto messo divino con la morte di croce, la più infamante che si potesse avere, i primi cristiani hanno sentito il bisogno di “riabilitare” la sua figura facendo leva sui titoli più prestigiosi che la tradizione biblica aveva coniato per il futuro, atteso liberatore: “messia”, “figlio di David”, “re”, “Signore”, “figlio di Dio”. E sono rimasti più nascosti, quando non sono stati dimenticati del tutto, i dati, gli aspetti più umani della persona di Gesù. Egli nell’istituzione e nella predicazione cristiana appare soprattutto o solo un essere superiore, calato dal cielo. L’uomo Gesù non è cancellato ma è presentato e concepito come una persona al di sopra della statura dei comuni esseri mortali.
 
È uno della famiglia umana, ma non è uno di noi. Non ha i nostri limiti, le debolezze, la fallibilità della comune creatura. Egli è santo e impeccabile per nascita. C’è passato accanto per osservarci da vicino, conoscerci meglio, avere pietà di noi ma non si è affatto impelagato nello stesso mare di melma che cerca di affogare tutti.
 
Questo Gesù esoterico, extraterrestre che non è della nostra condizione creaturale, che nasce in una stalla ma non è un mandriano, è povero ma stringe in pugno tutti i regni della terra non è un personaggio, meno ancora un profeta convincente.
 
Se si vuole ancora continuare a presentare Gesù quale testimonianza di vita per l’uomo d’oggi bisogna rinnovare la catechesi cristiana, l’approccio dell’uomo con lui. Invece di cominciare dall’alto, dai grandi appellativi, bisogna cominciare dal basso, dalla sua reale condizione umana, in una parola da ciò che l’avvicina e non da ciò che lo allontana dall’uomo. Non dalle sue perfezioni, ma dalle sue eventuali imperfezioni; dai suoi limiti che però è riuscito a superare con l’aiuto del Padre e insieme o più ancora con la sua buona volontà e con il suo coraggio.
 
Gesù non ha accettato il modello socioreligioso nel quale si è trovato a vivere. Ha dubitato della sua validità, per questo l’ha contestato proponendone uno proprio del tutto opposto. Non è stata un’impresa facile sia la progettazione, sia l’attuazione di un nuovo disegno ma non si è arreso davanti alle difficoltà incontrate.
 
Bisogna arrivare a capire se Gesù è un uomo, un profeta che si è costruito lentamente e faticosamente contro le resistenze personali e contestuali che tutti incontrano o è un essere privilegiato che ha vissuto sì un’esperienza umana ma con la forze e la chiaroveggenza di un Dio. Finché non rispondiamo a questi interrogativi la testimonianza di Cristo rimane inattiva.
 
Gesù non ha risolto i problemi di nessuno; ha solo suggerito come riuscire a venirne fuori; ma se egli parte da condizioni diverse, avvantaggiato rispetto alla moltitudine dei fratelli, la sua proposta (“Imparate da me che sono povero e umile”: Mt 11, 29) sono irrisorie.
 
Gesù ha una novità per ogni uomo perché a tutti può dire, ci si può riuscire a bere il calice della vita, a portare avanti la propria missione nonostante le renitenze, le contrarietà, i contrasti che si debbono superare con le personali inclinazioni, aspirazioni, tendenze e più ancora con le opposizioni degli altri a cominciare dai propri familiari, concittadini, connazionali. Egli si è trovato a essere uno contro tutti, ma non si è lasciato intimidire.
 
Questo Gesù sconosciuto o dimenticato, innanzitutto uomo tra gli uomini, dovrebbe riprendere il suo posto nella vita degli individui e della società se si vuole che la storia di ciascuno e di tutti possa cambiare.
 
2. Le scelte di Cristo.
 
La notizia importante che Luca segnala al termine del suo “racconto” della nascita, infanzia e prima esistenza di Gesù è che egli era sottomesso ai suoi genitori (2, 51). Era il dodicesimo anno di età, in cui il giovane ebreo diventava suddito della legge, ma da allora in poi doveva anche incominciare a fare da solo. Scegliere un lavoro, una professione, una linea di comportamento. L’evangelista nota che non si rivelano in lui attitudini eccezionali, ma molta assennatezza. “Cresceva in sapienza e grazia”, è detto (Lc 2, 51).
 
Fino alla maturità è un operaio, un falegname che nulla lascia distinguere dagli altri. La prima volta che prende la parola nella sinagoga di Nazareth i suoi concittadini rimangono sorpresi e dicono: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria e fratello di Giacomo, Joses e Simone e non sono tra noi le sue sorelle?” (Mc 6, 3). Se ciò è vero Gesù usciva da un grande anonimato, ma d’ora in poi la sua vita entra in un cammino arduo, scomodo, pericoloso come quello di Francesco d’Assisi dopo la conversione che da “re delle feste”, ammirato ed amato, sarà per i benpensanti, compreso il padre, un folle. Anche Gesù è ricercato dai familiari perché si era sparsa la voce che fosse fuori di sé (Mc 3, 21).
 
Gesù crede alla voce dello Spirito che lo chiama ad annunziare il regno ossia una convivenza nuova di amici, di eguali, di fratelli, in cui tutti dovevano avere un posto alla pari degli altri, ebrei e pagani, giusti e peccatori. Dove il grano poteva restare nello stesso campo con la zizzania e i pesci cattivi nella stessa rete con i pesci buoni (Mt 13, 29, 47).
 
Una comunità in cui al primo posto c’è l’uomo e prima di tutto chi è bisognoso, dimenticato, abbandonato: i poveri, i piccoli, gli umili, gli oppressi, gli ammalati, le donne. Gesù è un profeta coraggioso e più ancora coerente. Non fa bei discorsi, non lancia grandi messaggi, ma compie scelte insolite, onerose. Il suo impegno non è cambiare gli indirizzi nelle scuole ma modificare i comportamenti degli uomini; insegnare a rinnovarsi, a cambiare.
 
La scelta dei poveri, non della povertà, è reale. “Pur potendo essere ricco si è fatto per voi povero”, dirà Paolo ai Corinti (2 Cor 8, 9). Pur potendo essere un signore ha preferito essere un servo (Fil 2, 6-7). Si tratta di scelte concrete non per aumentare il numero degli indigenti, ma per infondere ad essi coraggio ed aiutarli ad uscire dal loro stato.
 
L’uguaglianza tra gli uomini (grandi e piccoli), tra i popoli non è un vago ideale, ma una prassi. Egli non solo riesce a dialogare con quanti incontra nel suo cammino, connazionali e stranieri, ma accorda a chiunque ha bisogno i suoi favori: all’arcisinagogo, un ebreo, all’ufficiale regio, un pagano, a Zaccheo, un publicano.
 
La voce lo spinge ad andare contro corrente, a cambiare il concetto di prossimo che non è più il proprio vicino o parente o concittadino ma ogni uomo che ha esigenze di conforto e di aiuto (Lc 10, 36). È la scelta più onerosa e più contrastante con la propria formazione ed inclinazione; un’opera improba che se avesse dovuto dare ascolto alle sue “istintività” o al suo amor patrio non avrebbe mai compiuto, ma lascia prevalere la voce dello Spirito, rinunciando a se stesso e alle proprie ispirazioni.
 
Il racconto delle tentazioni si spiega in questa luce. Sentendosi portatore di un messaggio divino gli viene spontaneo atteggiarsi a grande taumaturgo (“Dì che queste pietre diventino pani”; “buttati giù dal pinnacolo del tempio che gli angeli ti raccoglieranno”) o a plenipotenziario divino investito di una potestà senza confini per avvallare le sue affermazioni (Mt 4, 1-11).
 
Un profeta senza bacchette magiche, senza un pulpito ben elevato o un trono non sembra destinato ad avere un grande successo. È la tentazione che riaffiora in ogni ipotetico inviato o rappresentante di Dio, ma Gesù ha ritenute tali aspirazioni come insinuazioni sataniche più che voci divine perché spingono all’egemonia sugli altri, all’oppressione più che all’aiuto dei propri simili.
 
Gesù è allergico al potere sacro (gerarchia)ma anche a qualsiasi forma di dominio. “I principi delle nazioni le signoreggiano; i grandi usano potestà sopra di essi, ma tra voi (ossia nella nuova comunità che egli sogna) non sarà così; anzi chiunque vuole essere il primo sia l’ultimo” (cfr. Mc 10, 42-45; Mt 20, 25-27; Lc 22, 25-26). E Giovanni che non riporta il testo lo sostituisce con il quadro della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15).
 
Gesù non ha ipotizzato una nuova società (v. “La repubblica” di Platone o “La città del sole” di Tommaso Campanella) ma l’ha avviata perché ha compiuto scelte concrete in tal senso, ha assunto atteggiamenti paritari con tutti, dando prova di una capacità di accoglienza e di perdono sovrumani. “Non grida nelle piazze, non spegne il lucignolo fumigante, non spezza la canna incrinata”, annota Matteo per ricordare il suo abituale approccio con gli uomini. Non opprime i suoi simili, ma neanche patteggia con il potere. “Dite a quella volpe”, fa ripetere a Erode (Lc 13, 32) ed entra nel tempio rovesciando i banchi dei commercianti e dei cambiavalute, provocando l’immediata reazione delle autorità competenti (Mc 11, 18).
 
L’uomo deve essere liberato dal terrore di Dio ma anche da quello del proprio simile. Il Sabato infatti è per l’uomo e non l’uomo per il Sabato (Mc 2, 27) e i potenti debbono essere tirati giù dai loro troni; i ricchi rimandati a mani vuote e innalzati gli umili (Lc 1, 51-52). È un impegno, un’iniziativa che minaccia di capovolgere il quadro socio-politico-religioso della Palestina. I minacciati, in pratica le autorità religiose, appena se ne accorgono, cercano di fermarlo e non potendolo contrastare con la comune dialettica ricorrono alla violenza.
 
È il cimento finale che il profeta deve affrontare con se stesso. Potrebbe scendere a un compromesso: una protesta in meno o una mezza intesa con gli oppositori. Ma non tradisce la sua coscienza, né la voce dello Spirito perciò pur tra titubanze (“Padre se è possibile passi da me questo calice, “la carne è debole”!) e amarezze e delusioni (“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”) rimane sulla breccia fino alla fine, con la fede ma non con la certezza automatica della vittoria.
 
La morte di croce è la testimonianza di un grande dolore, ma soprattutto di un grande amore all’uomo e a Dio. È la proposta, la provocazione sempre attuale che egli lasciava a quanti avrebbero creduto in lui.
 
La “memoria” che egli simbolicamente consegna ai suoi la vigilia della sua morte raccoglieva in dei segni lo “spezzamento” della sua vita e il versamento del suo sangue fino all’ultima goccia che egli aveva fatto per le moltitudini. “Fate questo” cioè spezzatevi anche voi e versate qualche goccia della vostra linfa per attuare questa convivenza di amici per cui egli dava la vita.
 
Conclusione
 
I cristiani non sono coloro che parlano come Cristo o parlano bene di Cristo, ma che sul suo esempio fanno qualcosa per agevolare la comprensione e la coesistenza tra gli uomini. E non si può stabilire in partenza ovvero in teoria chi lo è di più o di meno. I cristiani anonimi possono essere di più di quelli annotati nei registri battesimali.
 
Gesù per il credente assume proporzioni più ampie di quelle segnalate in questa ricostruzione, solo che il suo di più (la “filiazione divina” e la sua attuale condizione di gloria) non è oggetto di ricerca storica ma proposta e adesione di fede. Tuttavia non si può non ricordare che anche la relazione filiale con Dio è conosciuta e vissuta nella profondità e nell’intimità della sua coscienza umana.
 
  Ortensio da Spinetoli
 

perché non chiudere l’ex Sant’Ufficio?

 

riconciliarsi con i ‘repressi’ del postconcilio
chiudere il Sant’Uffizio

p. Ortensio da Spinetoli scrive al papa

Ortensio da Spinetoli

«Perché non pensare a un raduno dei “dispersi d’Israele”, cioè di quanti nella Chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche”

così il  biblista p. Ortensio da Spinetoli scrive al papa dopo lunghi anni nei quali ha sperimentato sulla propria pelle la ‘persecuzione’ a motivo dell’insegnamento e della pubblicazione dei suoi studi biblici (qui sotto la presentazione che della lettera Adista ne fa):

 

La lettera l’aveva scritta circa due anni fa. Ma non avendo ad oggi ricevuto alcuna risposta, ha pensato di renderla pubblica, per il tramite della nostra testata, con l’obiettivo di rilanciarne i contenuti presso l’opinione pubblica laica e cattolica, oggi in particolare sintonia con il clima di dialogo e pluralismo che sembra caratterizzare l’attuale fase ecclesiale. Lui è Ortensio Da Spinetoli, classe 1925, prete cappuccino dal 1949, uno dei “grandi vecchi” della teologia conciliare e progressista. Esperto del Nuovo e Vecchio Testamento, ha dedicato gran parte della sua vita allo studio della Parola di Dio attraverso la mediazione della parola umana e all’approfondimento del Gesù storico. Non senza subire conseguenze per la sua ricerca libera ed il suo contributo innovativo all’esegesi delle Scritture: inquisito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (1974), non viene condannato ma viene comunque sollevato dall’insegnamento e limitato nei suoi interventi pubblici. Inizia così un quarantennio di silenziosa emarginazione da parte della Chiesa ufficiale, caratterizzato comunque da una intensa e feconda attività di ricerca (tra i suoi libri, vanno almeno segnalati Luca. Il Vangelo dei poveri, Assisi, Cittadella, 1982; Chiesa delle origini Chiesa del futuro, Roma, Borla 1986; La prepotenza delle religioni, Roma, Datanews, 1994; Gesù di Nazaret, Molfetta, La Meridiana, 2005; Bibbia parola di uomo, Molfetta, La Meridiana, 2009; Io credo, La Meridiana 2012).

La sua lettera, padre Ortensio l’aveva scritta a papa Francesco, poco dopo la sua elezione, chiedendo a lui quello che anche su Adista abbiamo recentemente – ma con voce assai meno autorevole – invocato: un gesto, un incontro, se non addirittura un atto di riconciliazione o una richiesta di perdono nei confronti di tutti quei preti, teologi, religiosi, laici, donne e uomini di fede che hanno a tutti i livelli subìto il clima autoritario e repressivo seguito agli anni del fermento post conciliare, specie sotto i pontificati di Wojtyla e Ratzinger (v. Adista Notizie n. 4/15).

«Caro papa Francesco – inizia così la missiva del religioso – è la seconda volta che mi indirizzo così in alto. Al tempo di Paolo VI fui esortato ad inviare una missiva “sul suo sacro tavolo” nella speranza di sottrarmi a un immotivato “atteggiamento persecutorio” da parte dei vescovi della regione, di due dicasteri vaticani e dell’Osservatore romano». Scrivo, chiarisce, perché intendo farle pervenire una proposta «in sintonia con il rinnovamento ecclesiale che sembra voler mettere in atto. Eccola»: «Perché non pensare a un raduno dei “dispersi d’Israele”, cioè di quanti nella Chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche? Quante Lampeduse, non diciamo gulag, si possono riscontrare nella storia della Chiesa! Papa Benedetto, poco dopo la sua elezione, ha invitato nella sua villa estiva Hans Küng, ma quanti altri che pur ne avrebbero avuto diritto ne ha lasciati fuori? Non per un’assoluzione o promozione, ma per quel tanto di dignità e di rispetto loro dovuto e sempre negato».

Del resto, prosegue p. Ortensio, «la Chiesa è la patria di tutti, anche dei diversamente pensanti e perfino dei dissenzienti come avviene in qualsiasi società civile dove coesistono orientamenti contrapposti, persino ostili tra di loro senza che per questo vada a catafascio. La fede, che è comunione con Dio, è la stessa in tutti i credenti, mentre il modo di intenderla, che è teologia, non può essere che molteplice, a seconda dei luoghi, dei tempi, delle culture di coloro che l’accolgono; ancora più diversificati sono i modi di esternarla ossia di celebrarla (religione). Forse non si sa con certezza quello che Gesù “ha fatto e detto” (At 1,1) ma, vista la sua indole “mite ed umile” (Mt 11,29), la sua predicazione propositiva e non impositiva, il suo stile parenetico e non dommatico, i suoi temi preferiti quali l’accoglienza, la carità, l’amore, il perdono, nessuno può mai pensare che possa aver negato il suo riferimento, peggio abbia messo al bando chicchessia o abbia suggerito ai suoi di fare altrettanto con chi non era d’accordo con il suo e il loro insegnamento. Anzi, sembra che abbia fatto il contrario. “Lasciatelo stare” aveva risposto a chi gli aveva riferito di aver messo a tacere uno che si avvaleva del suo nome senza essere del suo gruppo (cfr. Lc 9,50). L’esclusivismo ha preso avvio con protagonisti della Chiesa nascente, a cominciare da Paolo che da buon giudeo imprigiona i discepoli di Gesù Nazareno (At 8,3) e da convertito fa espellere dalla comunità di Corinto un povero peccatore (1Cr 5,3). È lo stesso atteggiamento che si ritrova nella comunità di Matteo, in cui la presenza degli erranti per un certo tempo è tollerata ma poi segue l’espulsione (18,17). Ormai nell’unica Chiesa di Cristo si è instaurato un regime di preclusioni ed esclusioni che coinvolge presbiteri (Giovanni, Gaio, Demetrio) e pastori (Diotrefe, Timoteo, Tito e gli anonimi di Ap 2-3) (cfr. Lettere pastorali e cattoliche) e si allargherà irrigidendosi sempre più nel tempo fino ai nostri giorni».

«Il pluralismo di qualsiasi forma – prosegue p. Ortensio – non è una iattura bensì una ricchezza perché fa ridondare su tutti i carismi, le donazioni accordate a ciascuno. Quante energie sono andate perdute perché i supermen di turno hanno impedito ad altri di esprimersi. Papa Giovanni, veramente saggio oltre che santo, ripeteva che la Chiesa è un giardino tanto più bello quanto più ricco di molteplicità e varietà di fiori. È un campo in cui si ritrova ogni genere di piante, persino quelle che i profani dicono tossiche perché non ne conoscono le proprietà. Persino “i triboli e le spine” che stanno a ingombrare il terreno hanno la loro funzione che è quella di tenere sveglie le menti delle creature intelligenti. L’accettazione del pluralismo non significa che tutte le teorie o dottrine siano uguali o, peggio, tutte giuste e vere, ma che tutte hanno eguale diritto di libera circolazione nell’alveo comunitario, proprio secondo i dettami del Vaticano II che ha riconosciuto per la prima volta anche al cristiano “la libertà di coscienza”, cioè la facoltà di parlare del proprio credo secondo le sue conoscenze e competenze. Non si tratta di avallare un sincretismo religioso ma di rispettare le donazioni che ognuno ha ricevuto da Dio».

Se questo raduno dovesse aver luogo, scrive Ortensio da Spinetoli, «sarebbe un evento inatteso ma veramente profetico, sarebbe la sconfessione di un passato infelice, antievangelico, dittatoriale». Inoltre, «sarebbe straordinario se l’auspicato “raduno” potesse coincidere con la chiusura definitiva del supremo tribunale o ex Sant’uffizio, perché troppo in contrasto con il messaggio centrale del Vangelo, imperniato sulla carità e sul perdono prima che sulla giustizia, tanto meno quella punitiva che è propria dei regimi totalitari. Il Concilio l’aveva pensato e proposto, ma ciò nonostante è rimasto con tutto il suo rigore».

«Le auguro ogni bene e pregherò il Signore per lei e per la riuscita della sua missione; lei voglia avere un pensiero per me e per tutti noi. Frate Ortensio da Spinetoli». (valerio gigante)

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