l’intolleranza ultranazionalista imbarbarisce anche il popolo ebraico

Moni Ovadia accusa la Comunità ebraica romana: fascista e stalinista

Moni Ovadia

M. Ovadia accusa, ma non è il solo, anche l’altro ebreo italiano di rilievo Gad Lerner: per loro il popolo ebraico italiano deve ormai subire una netta divisione fra ebrei democratici ed ebrei (buona parte della comunità ebraica romana) che agiscono come fascisti e stalinisti

Una buona parte della Comunità ebraica romana si comporta come i fascisti o, per chi preferisce, come gli stalinisti. La clamorosa provocazione rivolta agli ebrei del ghetto di Roma non arriva dal solito barbaro leghista in mutande verdi, ma da Salomone “Moni” Ovadia, il celebre attore teatrale e scrittore di origini bulgare e, soprattutto, ebreo e fiero di esserlo. Almeno per questa volta, dunque, nessuna strumentale accusa di antisemitismo potrà essere mossa ad una discussione che si preannuncia infuocata, visto che Ovadia si spinge ben oltre la definizione, quasi blasfema per un ebreo, di “fascista”.

Dietro la polemica rilanciata dall’artista si nasconde una questione ancora più importante: la possibile scissione della Comunità ebraica romana, lacerata tra progressisti e quelli che, secondo Ovadia, “sostengono senza alcuna capacità o volontà critica l’attuale governo di estrema destra israeliano”.

Con un’intervista al Fatto Quotidiano, Ovadia denuncia l’assenza di democrazia all’interno della comunità diretta da Riccardo Pacifici, prendendo spunto da due fatti di cronaca accaduti all’interno del ghetto negli ultimi giorni: il pestaggio da parte di una ronda in kippah  e mazze da baseball di alcuni ragazzi, colpevoli di aver strappato un manifesto in onore del defunto Ariel Sharon; il clima da rissa che ha impedito a Giorgio Gomel (altro noto esponente della Comunità) di partecipare alla presentazione del libro Sinistra e Israele.

“È arrivato il momento di separarci e formare una comunità di ebrei tolleranti – dice Ovadia al Fatto – perché ciò che è accaduto questa settimana nel ghetto ebraico di Roma mostra il livello non più sostenibile di fascismo o, se preferite, stalinismo, a cui gran parte della Comunità romana è arrivata”. Parole affilate come rasoi che, se pronunciate dal Borghezio di turno, sarebbero valse la patente di antisemita a vita. Peccato che la resa dei conti sia un affare interno al mondo ebraico, di cui Moni Ovadia è uno dei più conosciuti esponenti. D’altronde, l’ipotesi scissione non l’ha certo formulata il drammaturgo di Plovdiv. Prima di lui era stato Gad Lerner, ebreo anche lui, a postare sul suo blog l’idea di formare “una nuova Beit Hillel, una Keillah che però potrà nascere solo dopo un atto di dissociazione collettivo rispetto all’attuale organizzazione dell’ebraismo di Roma”.

Sia Lerner che Ovadia se la prendono con la gestione Pacifici, ritenuta intollerante alle critiche. Il secondo, nell’intervista bomba al quotidiano di Padellaro, si azzarda a ribadire che “non bisogna confondere il sionismo con l’ebraismo”, una separazione storicamente accettata, venuta però meno negli ultimi anni. Ma non si ferma qui. Gli ebrei romani, a suo modo di vedere, si comportano come i governi ultranazionalisti israeliani, spietati con i palestinesi, ma anche con gli ebrei più tolleranti. “Si tratta della stessa tipologia di persone – ribadisce – che detestava e detesta Rabin e lo scherniva ritraendolo con la svastica al braccio e la kefiah in testa”.

Ovadia sogna una Comunità democratica, tollerante, basata su Torah e Talmud, ma anche sulla Costituzione italiana. E invece “qui c’è gente che pensa di avere la verità in tasca e chi ha idee diverse è da ostracizzare”. L’artista milanese di adozione non ha dubbi sul fatto che si è arrivati a questo livello di violenza perché “si è confuso il mantenimento dell’identità ebraica con il nazionalismo” praticato da Netanyahu in Israele. Ovadia non ha paura di essere additato come il traditore e di fare la fine di Rabin, neanche quando aggiunge che furono i fascisti a volere gli ebrei riuniti in un’unica Comunità e che “durante i primi anni del Ventennio gran parte del notabilato ebraico italiano era fascista”.

M.Ovadia e la lezione dei grandi pacifisti: la violenza delle piazze

mandela1

una saggia riflessione di M. Ovadia sulla nostra attualità che vede nelle nostre piazze uno scatenarsi di violenza anche dura e gratuita come modo di risoluzione di problemi politici: la grande lezione che, attualissima, ci viene da Gandhi e Mandela:

La violenza delle piazze e la lezione di Gandhi e Mandela

di Moni Ovadia
in “l’Unità” del 14 dicembre 2013

L’esplosione di violenza, intesa come violenza «strictu sensu», ovvero quella fisica, incontrollata o apparentemente tale, lo scontro cercato con le Forze dell’Ordine, l’attacco distruttivo ai simboli del potere, all’indomani del loro manifestarsi, ricevono fiumi di esecrazione e di espressioni scandalizzate a carattere eminentemente retorico. È un rito consuetudinario, si sa. Ora, per essere chiari, io personalmente sono non solo politicamente contrario a tale forma di violenza, ma lo sono anche antropologicamente. Considero oltretutto che, alla fine, si riveli sempre essere un boomerang che si ritorce anche contro la migliore delle cause che cada nella trappola di servirsene. Porta con sé il rischio di coinvolgere, inutilmente, persone incolpevoli che si trovano per caso nel teatro della violenza stessa. Solo la rivolta contro un regime tirannico e liberticida giustifica una violenza insurrezionale per abbatterlo e dopo le grandi lezioni di Gandhi e di Nelson Mandela, anche questa opzione sbiadisce sullo sfondo di altre opzioni di lotta. Fatta questa premessa necessaria, è inevitabile porsi una domanda retorica ma cogente. Come mai tutti coloro che si scandalizzano tanto per la violenza che esplode nelle strade e nelle piazze, non hanno aperto bocca di fronte alle mille e più vili forme di violenza sotto i loro occhi quale la perdurante ingiustizia, ininterrottamente perpetrata contro i ceti più deboli, la violenza del privilegio, la violenza della privazione del lavoro, della sua dignità, la violenza della distruzione della dignità sociale e di quella personale con la riduzione della nobiltà del lavoratore a condizioni servili, massacranti e umilianti? La vasta parte del ceto politico, ha gozzovigliato con le risorse nazionali, le ha sprecate per favorire gli amici degli amici sottraendole alla ricchezza comune, ha passato interi anni a chiacchierare nei talk show prendendo solennemente impegni che non avrebbe mantenuto, ha raggirato gli elettori, ne ha ignorato la volontà con trucchi da mediocre prestidigitatore e si è esercitata nel più sconcio narcisismo mentre il Paese sprofondava nella polverizzazione sociale e il ceto medio si sgretolava dando la stura ad un pauroso incremento della disoccupazione e della sfiducia esistenziale. I sussiegosi stigmatizzatori della violenza di piazza, si sono guardati bene dal condannare la violenza dei grandi speculatori e delle banche che, con le loro azioni banditesche hanno generato la paurosa crisi che divora le nostre vite ed è grazie al marasma sociale creato da questi furfanti che nelle sacrosante ragioni della protesta, possono anche annidarsi fascisti e imbecilli che lanciano accuse sinistre sui banchieri, non in quanto tali, ma in quanto ebrei. Come se i banchieri non ebrei fossero invece dei benefattori. Ma per questa feccia di antisemitismo a Milano abbiamo un detto eloquente: «La razza dei pirla l’è mai finida».

Moni Ovadia scrive al papa per don Gallo

don Gallo secondo Vauro

Lettera al Papa su don Gallo

di Moni Ovadia

Scrivere una lettera al Papa, la guida religiosa dei cattolici di tutto il mondo, è di per sé un azzardo e lo è tanto di più se a scriverla è un non credente, per sopramercato nato e cresciuto nel contesto di un’altra fede. Come dovrei rivolgermi al Sommo Pontefice? Forse direttamente all’uomo Bergoglio che viene prima della sua carica e già dagli esordi della sua ascesa al soglio pontificio, ha mostrato di esprimersi con irrituale semplicità e di astenersi da ogni attitudine curiale?

Sarebbe certo il più modo più appropriato, ma mancherebbe di un’intenzione importante del senso della mia lettera perché è certamente all’uomo che voglio parlare, ma anche al Capo della Chiesa Cattolica. Per questo intesto così: «Caro Papa Bergoglio, mi chiamo Moni Ovadia, sono un ebreo agnostico di professione saltimbanco che pratica il suo mestiere contrabbandando la spiritualità dell’esilio ebraico, soprattutto nelle sue espressioni umoristiche e paradossali. Nella vita e sul palcoscenico, sono un “attivista” che, nei limiti delle sue capacità, ma con passione, si impegna a favore dei diritti degli ultimi e delle minoranze, della loro dignità, della giustizia sociale e della pace.

Talora mi capita anche di pubblicare le mie personali riflessioni su libri, articoli e altri scritti. Le scrivo per assolvere un dovere e un impegno cogenti. Alcune settimane fa, con decine di migliaia di persone in Italia e non solo, ho condiviso la perdita di un grande amico, un fratello, un Maestro. Si chiamava Andrea Gallo, Don Andrea Gallo, era un prete cattolico. Sì, un prete cattolico! Mai, neppure in una sola delle molteplici occasioni in cui ci siamo visti, ha omesso di dirmi che la Chiesa Cattolica era la sua Chiesa. Lei, sicuramente, ne ha sentito parlare. E’ stato uno degli uomini più amati di questo nostro travagliato Paese.

Perché dunque mi sono risolto a scriverLe in quello che sarebbe stato il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno? Perché Don Gallo mi ha eletto come suo direttore spirituale e, nel corso di molte occasioni pubbliche, ha confermato questa elezione. Lei capirà, quando nel corso delle molte manifestazioni in cui abbiamo condiviso la nostra comune passione spirituale, politica e civile, Don Andrea ripeteva che il suo direttore spirituale era un ebreo agnostico, le persone presenti ridevano affettuosamente con allegria e tenerezza come si reagisce ad una battuta, ma la cosa era ed è seria.

Il Gallo sapeva che non poteva affidare in mani migliori il senso più profondo del suo magistero di uomo e di prete cattolico, non perché io sia così degno, tutt’altro, ma perché lui sapeva che io, pur con tutti i miei limiti e peccati, lo avrei custodito come il più prezioso dei lasciti. Caro Papa Bergoglio, io non Le scrivo per chiedere che Lei faccia aprire un fascicolo per la beatificazione di questo prete da marciapiede – come lui stesso si definiva – e non glielo chiedo perché, con tutto il dovuto rispetto, il Gallo per noi che lo abbiamo conosciuto, è già Santo. E chi se non un santo avrebbe potuto dare corpo vivo alla più dirompente delle Beatitudini di Gesù?

Nella Chiesa, nella comunità, nel cuore di Andrea, gli ultimi, i tossicodipendenti, le prostitute, i transgender, i ladri, i poveri, i disperati, erano i primi. Per me personalmente il Gallo era uno Tzàddik, il giusto sapiente delle comunità khassidiche. Noi ebrei attribuiamo la santità solo al Santo Benedetto. Comunque, Don Andrea, prete cattolico ed io, ebreo agnostico, eravamo uniti da una comune spiritualità.

Le religioni possono separare, la spiritualità unisce credenti, diversamente credenti e non credenti. Ecco, per questa ragione io mi permetto di rivolgerLe questa richiesta: Lei che ha mostrato particolare sensibilità per gli ultimi, per lo scandalo delle ingiustizie e delle disuguaglianze, Lei che ha avuto la forza di rubricare nella legislazione dello Stato Pontificio il ripugnante reato di tortura, di abolire la crudeltà dell’ergastolo, trovi il modo di dedicare un’omelia al prete cattolico Don Andrea Gallo, grande cristiano, partigiano, antifascista e uomo di pace. Il suo corpo non è più fra noi, ma il suo pensiero e la sua energia vivono e vivranno nelle nostre menti e nei nostri cuori e in quelli dei giusti di ogni tempo a venire. Di don Gallo, l’umanità ha bisogno».

image_pdfimage_print