il commento al vangelo della domenica

un padre che intorno vuole figli non servi


Un Padre che intorno vuole figli non servi
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima, in “Laetare”

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto (…)».

La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative.
Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia.
Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente.
Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l’azione si fa incalzante.
Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell’amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza.
Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto?
Non chiede: perché l’hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa?
La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio.
L’ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario.
Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto.
È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L’amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
(Letture: Giosuè 5, 9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5, 17-21; Luca 15, 1-3.11-32).

il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica

 

 


11 settembre 2016 
XXIV domenica del tempo Ordinario anno C  
commento al vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Lc 15,1-32 Bianchi


In quel tempo si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
Il brano evangelico di questa domenica è molto lungo: contiene infatti le tre parabole della misericordia che Luca raggruppa al capitolo quindicesimo del suo vangelo. Avendo già commentato nel tempo quaresimale (IV domenica) la parabola dei due figli (Lc 15,11-32), rifletto oggi sulle due parabole gemelle pronunciate da Gesù per giustificare il suo comportamento criticato da scribi e farisei. Sì, perché Gesù durante il suo viaggio verso Gerusalemme continua a insegnare, registrando però reazioni, contestazioni e più spesso mormorazioni da parte di quelli che, professandosi religiosi e volendosi custodi della Legge, non riescono ad accettare il suo stile e sentono il dovere di recriminare contro di lui.

I primi versetti del capitolo mettono proprio in evidenza due comportamenti opposti nei confronti di Gesù e della sua predicazione. Pubblicani e peccatori si sentono attirati da Gesù e vengono a lui per ascoltarlo, mentre i pretesi giusti, gli osservanti legalisti, denunciano con un certo disprezzo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”. Il tema della contestazione è significativo: la comunione che si instaura a tavola. Su tale argomento – non lo si dimentichi – la chiesa nascente ha giocato la sua fedeltà a Gesù, ha dovuto scegliere tra ciò che lui aveva insegnato e ciò che veniva dalla venerabile tradizione, ciò che si era sempre fatto (cf., in particolare, At 10): si doveva scegliere se accostare i peccatori e lasciarsi accostare da loro fino ad andare alla loro tavola e ad accoglierli alla propria, oppure rifiutare la comunione della tavola con uomini e donne segnati dal peccato, a maggior ragione da un peccato pubblico e noto a tutti, perché non era lecito instaurare la comunione tra puri e impuri, tra giusti e peccatori.

Nei vangeli Gesù è sovente a tavola, invitato da farisei o da peccatori, e nessuno è mai escluso dalla sua tavola. Mangiare insieme a tavola doveva essere per Gesù un evento carico di significato, una possibilità feconda di comunione, di conversione, di riconciliazione: lo mostra anche solo la moltiplicazione dei pani nel deserto (cf. Lc 9,10-17 e par.), segno profetico di un banchetto nuziale a cui tutti saranno chiamati e nessuno escluso. Gesù vuole raggiungere i peccatori là dove sono e farsi raggiungere dai peccatori dove lui è. A tavola accade qualcosa: attraverso la comunione del cibo passa una comunione non solo di parole, ma di pensieri e di sentimenti, nei quali può operare lo Spirito di conversione e di rinnovamento. Proprio per questo Gesù non è restato nel deserto con il suo maestro Giovanni il Battista, ma ha scelto di entrare nelle città e nei villaggi, nelle case della gente, per sedersi a tavola con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino di annunciatore del Regno. La sua libertà, il suo stringere le mani di gente “perduta” secondo la Legge, il suo mettersi accanto a gente smarrita, scartata e condannata dall’opinione pubblica: tutto questo scandalizzava!

Per spiegare e rivelare la vera intenzione sottesa al suo vivere la comunione con i peccatori a tavola, Gesù consegna dunque alcune parabole. La prima si apre con una domanda: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. Accade a volte che una pecora che, insieme alle altre, forma il gregge e pascola guidata dal pastore, si smarrisca, resti sola, cada in un dirupo, senza poter più raggiungere le altre. È una pecora perduta che può solo conoscere la morte ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame. Allora il pastore lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande cura, finché non l’ha trovata.

Perché il pastore fa questo, perché si affatica per una sola pecora, quando ne ha altre novantanove? Il vangelo apocrifo di Tommaso riporta questa parabola con una significativa aggiunta: “la pecora più grossa si perse” (detto 107), quasi a giustificare la ricerca da parte del pastore di una pecora più preziosa, dunque più amata. Secondo Luca, invece, il pastore non fa preferenze, ma piuttosto ama tutte le pecore personalmente, perché di ognuna conosce la voce e il nome (cf. Gv 10,3-4.14): questa pecora, dunque, è semplicemente perduta, va verso la morte, e ciò spinge il pastore a cercarla! Quando si ama, non si seguono i calcoli dell’aritmetica! Il pastore non si accontenta di aspettare che la pecora torni, ma va alla sua ricerca, perché ogni pecora, se è amata, va cercata. Come non pensare qui alla strofa del Dies irae: “Quaerens me sedisti lassus”; “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”? Sì, il pastore della parabola è Dio, che continua a pensare a chi si è perduto, a chi l’ha abbandonato per scelta o per errore, e non si dà pace finché la pecora amata non ritorni nella sua intimità. E così Dio “abbandona” le altre pecore per salvare quella perduta…

Noi conosciamo invece pastori che non hanno questo stile indicato da Gesù. Hanno anche loro cento pecore, ma quando una di loro si perde, assaliti dalla paura ammoniscono le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”. E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce, ma loro ripetono gli stessi ammonimenti e restano a guardia del recinto. Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora… ma il pastore che vuole proteggere le pecore non va a cercarle. Così resta pastore di una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché il pastore aveva paura, perché era geloso del suo gregge, perché non aveva coraggio né audacia.

Il pastore della parabola di Gesù, invece, cerca, cerca e non si arrende finché non trova la pecora perduta. Allora, caricatala sulle spalle, per evitarle la stanchezza e l’angoscia della solitudine patita, la porta a casa e convoca gli amici e i vicini per fare festa: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa festa è profezia, segno della festa che avviene in cielo, perché anche Dio si rallegra quando un perduto è trovato, un morto torna in vita, un peccatore si converte. E attenzione: si converte perché Dio lo cerca, lo trova, se lo carica sulle spalle e lo porta a casa. La pecora resta passiva, è l’azione di salvezza di Dio, sempre preveniente, a salvarla!

Segue poi una parabola parallela, in cui Gesù narra di una donna che ha dieci monete e ne perde una. Allora cosa fa? Si dà da fare, accende la lampada, spazza la casa e cerca con cura, finché non trova la moneta che pensava fosse perduta per sempre. Poi chiama le amiche e le vicine e fa festa insieme a loro. Qui non c’è un animale, che con il pastore ha relazioni, ma solo una piccola moneta. Per capire bene la parabola bisogna però cogliere dove cade il suo accento, ovvero sulla gioia del ritrovamento da parte della donna, evento in cui è inscritta la dinamica pasquale: il perduto è ritrovato, il morto è risuscitato.

Insomma, Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere, di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare. Preghiamo dunque di discernere colui che “cercandoci, si è seduto stanco”, e non pensiamoci nell’ovile, perché siamo pecore perdute!

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