l’ira di papa Francesco – gli imprenditori della paura sono violenti e razzisti

migranti

l’ira di Papa Francesco

“fomentare la paura semina violenza razzista”

Migranti, l'ira di Papa Francesco: "Fomentare la paura semina violenza razzista"

il messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace

“Combattere quanti favoriscono il timore nei confronti dei migranti a fini politici”

di PAOLO RODARI

“Spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso” e combattere “quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti a fini politici”.

Il tutto arrivando entro il 2018 “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati”.

È quanto chiede Papa Francesco nel suo Messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2018 sul tema: Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace.

Francesco, che fin dal suo primo viaggio a Lampedusa, nel luglio del 2013, ha mostrato di avere particolarmente a cuore “gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati”, ha denunciato il fatto che “in molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio”.

Questa retorica, largamente diffusa anche in Italia, non piace a papa Bergoglio che anzi ha ricordato che quanti fomentano la paura a fini politici “anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano”.

E ancora: “Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace”. 

La maggior parte dei migranti non cerca altro che un luogo in cui poter vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro, ha detto il Papa, “sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta”. Il motivo per il quale lasciano la loro terra è principalmente uno: “Fuggono dalla guerra e dalla fame o sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale”. 

Francesco chiede azioni di accoglienza concrete, chiamando in causa anzitutto i governanti che “praticando la virtù della prudenza sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, per permettere l’inserimento”. 

Sono loro ad avere una “precisa responsabilità”. Dopo “l’interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di pulizie etniche che hanno segnato il XX secolo” ci sono oggi altri motivi che spingono le persone a migrare: “I conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre”. E poi, come detto, il desiderio di una vita migliore. 

I migranti “non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono”. Ma offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, “richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”.

 

Francesco, quindi, auspica “che lungo il 2018” si possa arrivare “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche”.

le trentamila donne israeliane e palestinesi che gridano la nacessità della pace

Migliaia di donne israeliane e palestinesi insieme in marcia per dire basta ad una guerra che dura da 60 anni. L’intervista ad una protagoniste della manifestazione

Women Wage Peace è un movimento creato all’indomani della guerra “Margine di Protezione” fra Hamas e l’esercito israeliano nell’estate del 2014. Da qui l’idea che ha avuto un gruppo di donne, israeliane e palestinesi, di unirsi per manifestare la volontà di giungere a un accordo per porre fine a un conflitto drammatico.

Un anno fa la prima marcia: oltre 4 mila persone, donne e bambini soprattutto, hanno camminato per 200 km dal nord di Israele fino a Gerusalemme. Quest’anno dal 24 settembre al 10 ottobre sono state molte di più le presenze, almeno 30 mila persone che mettendosi in moto dai quattro lati del paese si sono date appuntamento prima nel deserto per una grande festa di musica, balli e commozione, e poi per una due giorni conclusivi di tavole rotonde, preghiere, incontri.

La richiesta è di vedere seduti ad uno stesso tavolo i leader delle due parti in causa al fine di superare finalmente una situazione di impasse e tensione che condiziona l’intera regione. Un’iniziativa dal basso per dire basta alle violenze e per stimolare i partiti politici, che sul tema paiono non volersi esporre, Un segnale fortissimo da queste ragazze e donne vestite di bianco.

Abbiamo raggiunto telefonicamente una di queste attiviste, Shazarahel, artista e scrittrice israeliana, portavoce del movimento in Italia, per farci raccontare l’atmosfera fra le partecipanti: «E’ stato un prodigio, un miracolo. Migliaia di donne insieme, fianco a fianco, israeliane e palestinesi, ebree e musulmane. Senza propaganda, senza strumentalizzazioni, solo con la voglia di gridare dal fondo del cuore basta a una guerra che da sessant’anni ha versato inutilmente così tanto sangue».

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Siete madri, figlie, sorelle, amiche a dire che “Il re è nudo”, e che la guerra non ha portato ad alcun risultato in una terra dove pare non vi sia alternativa al conflitto permanente.

«Con questa marcia sono caduti vari tabù, e quello dell’inevitabilità della guerra è uno. La narrazione comune spesso presenta madri islamiche felici di vedere i figli immolarsi in nome di Allah, e madri israeliane orgogliose dei propri che difendono la patria. Ma la maggior parte delle donne sia israeliane che palestinesi non sono così come vengono dipinte dalla propaganda politica: tutte noi siamo venute per dire con chiarezza che non siamo più disposte a dare i nostri figli per la causa della guerra e della lotta armata».

Ecco, i figli: dalle immagini si vedono bambine e bambini mano nella mano con le madri a marciare e ballare. Sono loro il futuro del pianeta, perché è importante fossero al vostro fianco?

«Perché devono sapere che un altro mondo è possibile. Vedere le mie due figlie abbracciate e coccolate da donne arabe sconosciute, vederle giocare con bambini palestinesi, senza timori da parte di nessuno, in un clima di festa e di gioia, è stato uno dei momenti più intensi. E poi noi madri abbiamo potuto incontrarci, parlarci e capire che al di là dei facili miti vogliamo tutte soltanto il bene dei nostri figli».

Uomini, classe politica e mezzi di comunicazione: quali sono stati gli atteggiamenti di questi tre attori?

«Alcuni uomini hanno marciato con noi, si è trattato per lo più di alcuni dei nostri mariti. Per il resto questa e nostre altre iniziative sono guardate con occhio critico, sospettoso: purtroppo bisogna avere il coraggio di dire che la parola Pace a queste latitutidini è un vero tabù, quasi una parolaccia: la Pace pare soltanto un’utopia, il sogno degli stolti. E’ incredibile ma siamo arrivati a tal punto. Per questo i media locali hanno snobbato l’evento, almeno fino a quando la sua eco non è rimbalzata su giornali e tv internazionali: allora non hanno più potuto far finta di nulla; i commenti non stati sempre positivi ma volti a presentarci come un gruppo di sognatrici. Stesso discorso vale per la politica».

Tutte insieme a marciare, a ballare, ad abbracciarsi. E la tanto reclamata sicurezza?

«Questo è un altro dei tabù che abbiamo contribuito a smontare. La cosa più incredibile è che ci siamo riunite a migliaia sotto le tende nel deserto senza passare alcun controllo di polizia, senza un metal detector, senza nemmeno pensarci. Che proprio in Israele, dove devi passare a controlli ovunque tu vada, 10.000 donne si siano radunate nello stesso luogo senza controlli di sicurezza è un evento senza precedenti: sarebbe bastato che un solo pazzo entrasse e poteva succedere l’ennesima strage, e la cosa più straordinaria è che non sia successo!».

Il mondo religioso israeliano come ha guardato alla vostra manifestazione?

«Alla marcia hanno partecipato credenti e laiche, con una netta preminenza delle seconde.Ma come ogni religione anche l’ebraismo non è monolitico, e vi sono aree più sensibili ad istanze moderate. E’ stato però molto bello che alla fine della manifestazione abbia preso la parola Adina bar-Shalom, attivista molto nota in Israele perché figlia del grande rabbi Ovadia, il capo spirituale degli ebrei sefarditi, figura mito per gli ultraortodossi. Il suo intervento, seppur si inscriva perfettamente in un percorso che Adina da anni ha intrapreso soprattutto per il superamento delle discriminazioni di genere, l’ha comunque molto esposta nel suo ambiente di provenienza e rappresenta per noi un incoraggiamento a proseguire nei nostri sforzi».

Come fare ora per non dissipare questa grande carica di energia, quali le prossime tappe?

«Intanto meglio sgombrare il campo da equivoci: noi non siamo un partito né ambiamo ad esserlo. Ci sono fra noi donne di ogni pensiero politico che non vogliono dare i propri figli alla causa guerrafondaia. Non entriamo per questo nell’analisi politica. Il nostro è un urlo. Presenteremo al parlamento un documento ufficiale che verrà redatto in questi giorni, per tenere alta l’attenzione sulle nostre azioni. Si sta costituendo intanto una sorta di gruppo informale interpartitico, una lobby di una ventina di parlamentari che si stanno impegnando per portare alla Knesset le nostre istanze. Noi crediamo che la pace sia possibile, e non ci fermeremo fino al raggiungimento di un accordo fra le due parti».

Per il grande raduno erano stati invitati ufficialmente il Primo Ministro Bibi Netanyahu e il Presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen: quest’ultimo ha mandato una sua rappresentante, il premier israeliano invece non ha nemmeno risposto all’invito e i giornali a lui fedeli non hanno fatto molti giri di parole per render noto cosa pensavano di tutto ciò. Ma l’impressione è che non sarà il silenzio a fermare queste donne.

Immagini di Gal Mosenson

la marcia delle trentamila in Israele per la pace

Israele

trentamila musulmane, ebree, cristiane, laiche…

in marcia per la pace

«Nei nostri incontri a volte ci abbracciamo e piangiamo di commozione le une sulle spalle delle altre, senza bisogno di dirci nulla. Molte di noi hanno infatti perso un figlio, un marito, un familiare. Ogni famiglia israeliana e palestinese ha almeno un morto fra i propri cari, perso a causa del conflitto. I media ci hanno abituato alle liste numeriche di morti. Ma quando ascolti le testimonianze dal vivo di chi invece ha perso un affetto, ti rendi conto che i morti non sono “numeri anonimi”, e che dietro ogni morto c’è tutto un mondo di sofferenza, di famiglie spezzate».

Ha raccontato così la scrittrice di religione ebraica Shazarahel RI, referente del Movimento World Wage Peace, “Donne costruttrici di pace”, vicepresidente della Confederazione internazionale laica interreligiosa (Cili-Italia) e coordinatrice del Dipartimento Donne di Uniti per Unire, le emozioni che hanno accompagnato la marcia per la pace organizzata in Israele, dal 24 settembre al 10 ottobre 2017.

Trentamila musulmane, ebree, cristiane, laiche, di colori politici diversi, hanno camminato fianco a fianco, percorrendo quattro rotte – sud, nord, ovest, est – fino a convergere tutte a Gerusalemme; con loro anche uomini, bambini, laici, religiosi. La mattina del 24 settembre a Sderot – città del distretto meridionale di Israele, ad un chilometro da Gaza, spesso bersaglio degli attacchi dei razzi Qassam provenienti dalla Striscia -, e la sera presso il kibbutz Tze’elim, situato nel deserto del Negev, in passato utilizzato come base militare, è stato dato il via alla manifestazione con la cerimonia inaugurale.

L’itinerario ha attraversato città e località quali Kissufim, Zeelim, Yeruham, Rahat, Beer Sheva, Arad, Gush Etzion, Dimona, Nazareth, Jaffa. L’8 ottobre il corteo si è fermato nel villaggio di pace di Agar e Sara, costruito nella pianura accanto al Mar Morto, dove sono stati organizzati gruppi di discussione, mostre, eventi musicali. Quindi, dopo essersi riunite a Gerusalemme, le donne sono state accolte da Adir Bat Shalom, figlia del grande rabbino sefardita Rav Ovadia Yossef z’al, che è intervenuto sui temi della pace. Il 9 e 10 ottobre le donne hanno costruito una grande “capanna della pace” (Sukkàt Shalom – كوخ السلام) e il 10 ottobre hanno inaugurato un Parlamento femminile. Tutta l’iniziativa, organizzata in collaborazione con Uniti per Unire e la Confederazione internazionale laica interreligiosa (Cili-Italia), è stata accompagnata da un Manifesto congiunto per israeliani e palestinesi, co-firmato da tante delle donne in marcia, che sarà presentato alla Knesset, il parlamento israeliano. «Vogliamo alzare la nostra voce per arrivare ad un accordo politico per una soluzione del conflitto israelo-palestinese, che garantirà la sicurezza a lungo termine – ha spiegato Shazarahel RI -. È possibile. Sono state già trovate soluzioni per risolvere altri conflitti in altre parti del mondo. Allo stesso modo anche il lungo conflitto che stiamo vivendo può e deve essere risolto».

«Queste donne hanno coinvolto trasversalmente diverse realtà in Terra Santa, con grande volontà e impegno per concretizzare una proposta di pace vera e duratura, facendo cadere il muro della paura, della diffidenza, del silenzio e delle false illusioni. Trentamila grazie a tutte quante hanno marciato per la pace e stanno così scrivendo una nuova pagina della storia del dialogo in Medio Oriente», ha concluso Foad Aodi, fondatore di Cili-Italia e del Movimento Uniti per Unire.

Oscar Romero martire per amore e testimone di pace nasce cento anni fa

a 100 anni dalla nascita

l’arcivescovo Romero torna a essere testimone di pace

 
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Da oltre quattro anni ormai Papa Francesco denuncia l’esistenza di una “terza guerra mondiale a pezzi”. In queste settimane le minacce di un conflitto globale sono diventate sempre più preoccupanti con il riaccendersi delle tensioni tra gli Usa e la Corea del Nord. Ma scenari altrettanto inquietanti ci sono anche in Iran e Venezuela.Davanti a questa escalation di tensioni il presidente nazionale di Pax Christi, l’arcivescovo Giovanni Ricchiuti, ha chiesto più volte a Bergoglio di scrivere una nuova Pacem in terris. Una nuova enciclica sulla pace per attualizzare il testamento spirituale che, nel 1963, san Giovanni XXIII donò al mondo inviandone una copia con dedica a John Fitzgerald Kennedy e Nikita Krusciov. Non a caso una delegazione di Pax Christi guidata dal suo presidente ha partecipato alle celebrazioni dei cento anni dalla nascita del beato Oscar Arnolfo Romero.

 

Nato il 15 agosto 1917, l’arcivescovo di San Salvador fu ucciso il 24 marzo 1980 da un cecchino di estrema destra mentre celebrava la messa a causa del suo impegno contro le violenze della dittatura militare del suo Paese. La sua beatificazione è stata fortemente voluta da Bergoglio che quest’anno ha nominato cardinale uno dei suoi più stretti collaboratori, Gregorio Rosa Chávez, il vescovo ausiliare di San Salvador. È stato proprio il neo porporato ad annunciare che nel 2018 Francesco canonizzerà Romero.

Ispirandosi a questo martire, sulla scia di quanto più volte affermato dal Papa, monsignor Ricchiuti ha chiesto di sospendere l’invio di armi made in Italy ai Paesi in guerra. Nell’anniversario delle bombe atomiche sganciate su Nagasaki e Hiroshima, il presule ha anche chiesto all’Italia di aderire al trattato firmato dall’Onu per la messa al bando delle armi nucleari. Durissima, inoltre, è stata la “denuncia della follia del progetto dei nuovi caccia F35 moralmente ed economicamente inaccettabile” secondo Pax Christi.

 

Quella dell’arcivescovo di San Salvador è una figura di un’attualità impressionante. “Monsignor Romero esortava a un umanesimo discreto, irrequieto e instancabile. Si presentava ai potenti della terra e agli umili trasmettendo a tutti egualmente il messaggio di amore e di speranza, con la fermezza della carità che aveva saputo ammirare e conquistare”. È quanto ha sottolineato la giornalista Silvina Pérez, responsabile dell’edizione spagnola de L’Osservatore Romano. A Romero il quotidiano della Santa Sede ha dedicato un numero monografico speciale per il Panama.

Nell’omelia pronunciata il giorno prima di essere ucciso, il presule ha donato al mondo un testamento di pace: “Di fronte all’ordine di uccidere dato da un essere umano deve prevalere la legge di Dio che dice: ‘Non uccidere!’. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, impegnata nella difesa dei diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanto abominio. Vogliamo che il governo prenda sul serio il fatto che a nulla servono le riforme se sono così macchiate di sangue”.

Non bisogna dimenticare che il rapporto di Romero coi Pontefici fu abbastanza burrascoso. Nell’ultima udienza privata con Paolo VI, il presule lasciò al Papa questa nota: “Lamento, Santo Padre, che nelle osservazioni presentatemi qui in Roma sulla mia condotta pastorale prevale un’interpretazione negativa che coincide esattamente con le potentissime forze che là, nella mia arcidiocesi, cercano di frenare e screditare il mio sforzo apostolico”. Quando fu ucciso, i più stretti collaboratori di san Giovanni Paolo II consigliarono al Papa polacco di non andare a presiedere i funerali. Ma proprio Wojtyla, durante il Giubileo del 2000, sposò la tesi della sua riabilitazione. Oggi Francesco lo proclama santo.

 

Oscar Romero, un vescovo fatto popolo

di don Tonino Bello

 

Noi t’invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia, martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza, anche quando essa ci trascende.


Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti, di addomesticarla per riguardo di chi comanda, di svilirla per timore che ci coinvolga.
Non permettere che sulle nostre labbra la Parola di Dio si inquini con i detriti delle ideologie. Ma dacci una mano perché possiamo coraggiosamente incarnarla nella cronaca, nella piccola cronaca personale e comunitaria, e produca così storia di salvezza.
Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla.


Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia.
Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale, che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono un crimine, che gli scudi spaziali sono oltraggio alla miseria dei popoli sterminati dalla fame, che la crescente militarizzazione del territorio è il distorcimento più barbaro della voca-zione naturale dell’ambiente.


Prega, vescovo Romero, perché Pietro che ti ha voluto bene e che due mesi prima della tua morte ti ha incoraggiato ad andare avanti, passi per tutti i luoghi della terra pellegrino di pace e continui audacemente a confermare i fratelli nella fede, nella speranza, nella carità e nella difesa dei diritti umani là dove essi vengono calpestati.


Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito non sono grandezze commensurabili tra loro.


Prega, vescovo Romero, per tutti i popoli del terzo e del quarto mondo oppressi dal debito. Facilita, con la tua implorazione presso Dio, la remissione di questi disumani fardelli di schiavitù. Intenerisci il cuore dei faraoni. Accelera i tempi in cui un nuovo ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti al ruolo di Dio.

E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti, perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, per tutti coloro che faticano a vivere.
E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove.

(a conclusione dell’omelia pronunciata da don Tonino Bello nella Basilica dei Santi Apostoli in Roma, il 23 marzo 1987, nel settimo anniversario del martirio di Oscar Romero.)

Boff e la ‘cultura della pace’

alla cultura della violenza opponiamo la cultura della pace

Leonardo Boff

 


LEONARDO-BOFFIl mio sentimento del mondo mi dice che viviamo all’interno di una violenza mondiale sistemica. Troppo lungo enumerare tutti i tipi di violenza, che però è così globalizzata, che il vescovo di Roma, il papa Francesco ha affermato per tre volte, che siamo dentro a una terza guerra mondiale. Non è impossibile che una nuova guerra fredda tra USA, Russia e Cina finisca per scatenare un conflitto nucleare.

Se si verifica questa tragica eventualità, sarà la fine del sistema vita e della specie umana. Questo stato di permanente belligeranza deriva dalla logica del paradigma civilizzatore affermatosi lentamente per secoli fino, ad arrivare alla forma parossistica dei nostri giorni: l’illusione che l’essere umano sia un “piccolo dio” che si colloca al di sopra delle cose per dominarle e accumulare benefici a costo di danneggiare la natura e intere popolazioni. Abbiamo perso la nozione di appartenenza alla terra e che siamo parte della natura. Tale coscienza ci porterebbe a una confraternizzazione con tutti gli esseri di questo magnifico pianeta.

Urge un nuovo rapporto con la natura e con la Terra, rapporto fatto di sinergia, rispetto, convivenza, attenzioni e senso di responsabilità collettiva.

Questa relazione conviviale è sempre stata viva in tutte le culture dell’Occidente e dell’Oriente, specialmente tra i nostri popoli nativi, che nutrono un profondo rispetto verso la Terra.

Nella nostra cultura abbiamo la figura emblematica di San Francesco di Assisi aggiornata dal vescovo di Roma Francesco, nella sua enciclica Laudato si: cura della Casa Comune. Proclama il poverello di Assisi “Santo Patrono di tutti coloro che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia…Per Francesco, qualsiasi creatura era sorella unita a lui con vincoli di amore. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto quello che esiste”(n.10 e 11). Con un certo humor ricorda che “Francesco chiedeva che in convento si lasciasse sempre una parte dell’orto dedicata alle piante selvatiche (n.12), perché anch’esse, a modo loro, lodano Dio.

Questo atteggiamento di tenerezza lo conduceva a spostare, durante le passeggiate, eventuali lombrichi che rischiavano di essere schiacciati lungo il sentiero.

Per San Francesco tutti gli esseri sono animati e personalizzati. Per intuizione spirituale scoperse quello che noi sappiamo oggi per via scientifica (Crick e Dowson, quelli che hanno decifrato il DNA) che tutti noi viventi siamo parenti, cugini, fratelli e sorelle: il sole, la luna, il, lupo di Gubbio perfino la morte. Questa visione supera la cultura della violenza e inaugura la cultura dell’amore e della pace.

San Francesco realizzò pienamente la splendida definizione che la Carta della Terra ha trovato per la pace: “E’ quella pienezza creata da relazioni corrette con se stessi, con le altre persone, altre culture, altre vite, con la Terra, con il Tutto più grande di cui siamo parte”(n.16).

Il papa Francesco pare aver realizzato le condizioni per la pace come predica dappertutto e personalmente dimostra. Ha espresso emotivamente un pensiero che sempre ritorna nell’enciclica: “Tutto sta in relazione, e tutti noi esseri umani camminiamo uniti, fratelli e sorelle in un meraviglioso cammino, abbracciati nell’amore che Dio ha per le sue creature e che ci unisce pure con sentimenti di tenero affetto al fratello Sole, alla sorella Luna, al fratello fiume, e alla Madre Terra” (n.92).

Altrove ha trovato la seguente formulazione, ora critica: “E’ necessario risvegliare la coscienza che siamo un’unica famiglia umana. Non ci sono frontiere né barriere politiche o sociali che permettano di isolarsi e perciò stesso, è proprio per questo non c’è spazio per globalizzare l’indifferenza (n.52).

Da questo atteggiamento di totale apertura, che tutti abbraccia e nessuno viene escluso è nata una pace imperturbabile, senza paura né minacce, pace di coloro che si sentono sempre in casa con genitori, fratelli, sorelle con tutte le creature.

Invece di violenza, pone i fondamenti della cultura della pace: amore, capacità di sopportare le contraddizioni, perdono, misericordia e riconciliazione al di là di ogni presupposto e esigenza previa.

Quando l’enciclica abborda il problema della pace, il vescovo di Roma, Francesco, ripete quello che Gandhi e altri avevano già detto: “La pace non è assenza di guerra. La pace interiore delle persone ha molto a che vedere con la cura, con l’ecologia e il bene comune, perché quando è vissuta autenticamente riflette un equilibrato stile di vita, alleato alla capacità di ammirazione che porta alla profondità della vita, la natura è piena di parole e di amore (n.225). In un altro passo afferma: “La gratuità ci conduce ad amare e accettare il vento, il sole, le nuvole, anche se non stanno sotto il nostro controllo. Così possiamo parlare di fratellanza universale” (n.228).

Con questa sua visione della pace e della gratuità, egli rappresenta un altro modo di-essere- e-di-stare-nel-mondo-con gli altri, una alternativa al modo di essere della modernità che sta fuori e sopra gli altri non insieme con gli altri convivendo nella stessa Casa Comune.

La scoperta e l’esperienza vissuta di questa fratellanza cosmica ci aiuterà a uscire dalla crisi attuale, ci renderà l’innocenza perduta e ci farà venire la nostalgia del paradiso terrestre, i cui segni possiamo anticipare.


*Leonardo Boff è columnist del JB on line e ha scritto Francesco d’Assisi, Francesco di Roma. Una nuova primavera per la Chiesa, EMI 2014.

Traduzione di Romano Baraglia e Lidia Arato

originale in: https://leonardoboff.wordpress.com/2017/03/21/alla-cultura-della-violenza-opponiamo-la-cultura-della-pace/

«non c’è pace in casa di chi sta bene, quando manca giustizia nella casa di tutti»

“più progresso e più esclusi, la grande ingiustizia di oggi”

il papa alla Messa per il «Giubileo dei senzatetto»: «Non c’è pace in casa di chi sta bene, quando manca giustizia nella casa di tutti»; ogni cosa passa, anche «i regni potenti», ma non «Dio e il prossimo»

papa Francesco alla Messa per il «Giubileo delle persone socialmente escluse»

 come si può essere tranquilli nel proprio focolare mentre il povero disperato «giace alla porta»? Non può esserci «pace in casa di chi sta bene, quando manca giustizia nella casa di tutti». Così «nasce la tragica contraddizione dei nostri tempi: quanto più aumentano il progresso e le possibilità, tanto più vi sono coloro che non possono accedervi». Di conseguenza, si osserva il «sintomo di sclerosi spirituale», quando «l’interesse si concentra sulle cose da produrre, invece che sulle persone da amare»

Lo esclama papa Francesco questa mattina, nella Basilica vaticana, presiedendo la Celebrazione eucaristica in occasione del «Giubileo delle persone socialmente escluse», indetto dall’11 al 13 novembre nel contesto dell’Anno santo della Misericordia. Il Pontefice, nel giorno in cui si chiudono le porte della misericordia «nelle cattedrali e nei santuari di tutto il mondo», ricorda che tutto passa, anche «i regni potenti», ma non «Dio e il prossimo».

Papa Bergoglio esordisce partendo dalle parole del profeta Malachia della Prima Lettura odierna: «Per voi sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia». Si leggono «all’ultima pagina dell’ultimo profeta dell’Antico Testamento – spiega il Vescovo di Roma – e sono rivolte a coloro che hanno fiducia nel Signore, che ripongono la loro speranza in lui, scegliendolo come sommo bene della vita e rifiutando di vivere solo per sé».

Per queste persone, «povere di sé ma ricche di Dio, sorgerà il sole della sua giustizia: essi sono i poveri in spirito, cui Gesù promette il regno dei cieli e che Dio, per bocca del profeta Malachia, chiama “mia proprietà particolare”».

Il Pontefice osserva che da qui «nascono domande che interpellano il senso ultimo della vita: dove cerco la mia sicurezza? Nel Signore o in altre sicurezze che non piacciono a Dio? Dov’è diretta la mia vita, dove punta il mio cuore? Verso il Signore della vita o verso cose che passano e non saziano?». E interrogativi «simili appaiono nell’odierno brano evangelico», in cui si parla di Gesù che si trova a Gerusalemme, «per l’ultima e più importante pagina della sua vita terrena: la sua morte e risurrezione». Cristo è «nei pressi del tempio, “ornato di belle pietre e di doni votivi”. La gente sta proprio parlando delle bellezze esteriori del tempio, quando Gesù dice: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra”. Aggiunge che non mancheranno conflitti, carestie, sconvolgimenti nella terra e nel cielo». Il Figlio di Dio «non vuole impaurire – precisa il Papa – ma dirci che tutto quel che vediamo, inesorabilmente, passa. Anche i regni più potenti, gli edifici più sacri e le realtà più stabili del mondo, non durano per sempre; prima o poi, cadono». Allora, la gente «pone subito due domande al Maestro: “Quando accadranno queste cose e quale sarà il segno”?. Sempre siamo spinti dalla curiosità – rileva Francesco – si vuole sapere quando e ricevere dei segni». Però, a Gesù «questa curiosità non piace. Al contrario, Egli esorta a non lasciarci ingannare dai predicatori apocalittici». Infatti chi segue Cristo «non presta ascolto ai profeti di sventura, alle vanità degli oroscopi, alle predizioni che ingenerano paure, distraendo da ciò che conta». Invece avviene che «tra le tante voci che si sentono, il Signore invita a distinguere ciò che viene da Lui e ciò che viene dallo spirito falso. È importante – evidenzia il Pontefice – distinguere l’invito sapiente che Dio ci rivolge ogni giorno dal clamore di chi si serve del nome di Dio per spaventare, alimentare divisioni e paure».

Il Vescovo di Roma sottolinea il forte invito di Gesù «a non avere paura di fronte agli sconvolgimenti di ogni epoca. Egli chiede di perseverare nel bene e di porre piena fiducia in Dio, che non delude: “Nemmeno un capello del vostro capo sarà perduto”». Il Signore non dimentica «i suoi fedeli, la sua proprietà preziosa, che siamo noi».

Però interpella gli uomini e le donne di ogni tempo e luogo «sul senso della nostra esistenza». Per Francesco, le Letture di oggi «si pongono come un “setaccio” in mezzo al fluire della nostra vita: ci ricordano che quasi tutto in questo mondo passa, come l’acqua che scorre via; ma ci sono realtà preziose che rimangono, come una pietra preziosa in un setaccio». Quali sono queste ricchezze che non svaniscono? «Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Questi sono i beni più grandi, da amare. Tutto il resto – il cielo, la terra, le cose più belle, anche questa Basilica – passa; ma non dobbiamo escludere – avverte – dalla vita Dio e gli altri».

Al contrario «proprio oggi, quando si parla di esclusione, vengono subito in mente persone concrete; non cose inutili, ma persone preziose». Capita che «la persona, posta da Dio al culmine del creato, viene spesso scartata, perché si preferiscono le cose che passano». Per il Papa ciò è «inaccettabile, perché l’uomo è il bene più prezioso agli occhi di Dio». Inoltre è «grave che ci si abitui a questo scarto; bisogna preoccuparsi, quando la coscienza si anestetizza e non fa più caso al fratello che ci soffre accanto o ai problemi seri del mondo, che diventano solo ritornelli già sentiti nelle scalette dei telegiornali».

Rivolgendosi agli esclusi presenti e di tutto il pianeta, esclama: «Con la vostra presenza ci aiutate a sintonizzarci sulla lunghezza d’onda di Dio, a guardare quello che guarda Lui: Egli non si ferma all’apparenza, ma rivolge lo sguardo “sull’umile e su chi ha lo spirito contrito”, sui tanti poveri Lazzaro di oggi».

Con amarezza, afferma Francesco: «Quanto ci fa male fingere di non accorgerci di Lazzaro che viene escluso e scartato!»; questo comportamento è «voltare la faccia a Dio. È un sintomo di sclerosi spirituale quando l’interesse si concentra sulle cose da produrre, invece che sulle persone da amare». E in questo modo «nasce la tragica contraddizione dei nostri tempi: quanto più aumentano il progresso e le possibilità, il che è un bene, tanto più vi sono coloro che non possono accedervi». Si tratta di un’«ingiustizia che deve preoccuparci, molto più di sapere quando e come sarà la fine del mondo. Perché non si può stare tranquilli in casa mentre Lazzaro giace alla porta – ammonisce con forza – non c’è pace in casa di chi sta bene, quando manca giustizia nella casa di tutti». 

Il Papa esorta a chiedere «la grazia di non chiudere gli occhi davanti a Dio che ci guarda e dinanzi al prossimo che ci interpella. Apriamo gli occhi a Dio, purificando la vista del cuore dalle rappresentazioni ingannevoli e paurose, dal dio della potenza e dei castighi, proiezione della superbia e del timore umani. Guardiamo con fiducia al Dio della misericordia. Rinnoviamo la speranza della vita vera cui siamo chiamati, quella che non passerà e che ci attende in comunione con il Signore e con gli altri, in una gioia che durerà per sempre, senza fine».

Sui deboli e gli emarginati «punta la lente d’ingrandimento della Chiesa. Che il Signore ci liberi dal rivolgerla verso di noi. Ci distolga dagli orpelli che distraggono, dagli interessi e dai privilegi, dagli attaccamenti al potere e alla gloria, dalla seduzione dello spirito del mondo».

Oggi «io vorrei – dichiara senza leggere il testo scritto – che fosse la giornata dei poveri».

In questa domenica 13 novembre 2016 si chiudono tutte le porte sante del mondo tranne una, primo atto della conclusione del Giubileo straordinario della misericordia; resta aperta ancora una settimana quella della basilica di San Pietro, fino a domenica 20 novembre, quando terminerà l’Anno santo indetto da papa Francesco.

All’Angelus: «La madre terra sia sempre coltivata in modo sostenibile»

«Rimanere saldi nel Signore, camminare nella speranza, lavorare per costruire un mondo migliore, nonostante le difficoltà e gli avvenimenti tristi che segnano l’esistenza personale e collettiva, è ciò che veramente conta; è quanto la comunità cristiana è chiamata a fare per andare incontro al “giorno del Signore”», afferma poi il Papa all’Angelus dalla finestra del Palazzo apostolico. «Proprio in questa prospettiva – sostiene Francesco – vogliamo collocare l’impegno che scaturisce da questi mesi in cui abbiamo vissuto con fede il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude nelle Diocesi di tutto il mondo con la chiusura delle Porte Sante nelle chiese cattedrali». L’Anno santo «ci ha sollecitati, da una parte, a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e, dall’altra, a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti». Il Pontefice annuncia che «in questa settimana è stato restituito alla devozione dei fedeli il più antico crocifisso ligneo della Basilica di San Pietro, risalente al quattordicesimo secolo. Dopo un laborioso restauro è stato riportato all’antico splendore e sarà collocato nella cappella del Santissimo Sacramento, a ricordo del Giubileo della Misericordia».

Papa Bergoglio avverte che «c’è sempre chi specula sul bisogno umano di sicurezze: badate di non lasciarvi ingannare».

Al termine dell’Angelus in piazza San Pietro, mette in evidenza che «si celebra oggi in Italia la tradizionale Giornata del Ringraziamento per i frutti della terra e del lavoro umano. Mi associo ai Vescovi nell’auspicare che la madre terra sia sempre coltivata in modo sostenibile». La Chiesa «è accanto con simpatia e riconoscenza al mondo agricolo ed esorta a non dimenticare quanti, in varie parti del mondo, sono privi dei beni essenziali come il cibo e l’acqua».

 

le attese di pace del Vaticano dal nuovo presidente Trump

“adesso usi il peso degli Usa per portare la pace nel mondo”

intervista a Pietro Parolinparolin

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 10 novembre 2016

il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin ha rivolto i suoi auguri al neo-presidente degli Stati Uniti Donald Trump, esprimendo rispetto per il processo democratico che ha portato alla sua elezione insieme all’auspicio che il nuovo inquilino della Casa Bianca lavori a servizio della sua patria ma anche del benessere e della pace nel mondo
Eminenza, come commenta l’elezione di Trump?

«Prima di tutto bisogna prendere atto con grande rispetto della volontà espressa dal popolo americano con questo esercizio di democrazia, che è stato caratterizzato anche da una grande affluenza alle urne e dunque da una grande partecipazione popolare. E poi facciamo gli auguri al nuovo presidente degli Stati Uniti, perché il suo governo possa essere davvero fruttuoso. Assicuriamo a lui anche la nostra preghiera, perché il Signore lo illumini e lo sostenga al servizio della sua patria. Ma preghiamo anche perché lo sostenga nell’impegno a servizio del bene e della pace nel mondo. Credo che oggi ci sia bisogno di lavorare tutti per cambiare la situazione mondiale, che è una situazione di grave lacerazione, di grave conflitto».

Che cosa si augura la Santa Sede per la politica estera degli Stati Uniti?trump

«L’augurio è che quel grande Paese possa esercitare un ruolo di pace, di capacità diplomatica, di intervento per facilitare soluzioni condivise dei conflitti. L’augurio è che gli Stati Uniti possano usare tutto il loro peso per costruire quei ponti che Papa Francesco non si stanca mai di chiedere, e con l’aiuto delle Nazioni Unite e dell’Europa possano essere decisivi per risolvere le crisi che affliggono il Medio Oriente. Pensiamo ad esempio al dramma della Siria: la Santa Sede continua a insistere perché si trovi una via negoziale per alleviare le indicibili sofferenze della popolazione. Ci sono milioni di persone vittime di violenza insensata. Le crisi, ne abbiamo avuto purtroppo tante conferme, non si risolvono con le guerre, ma con scelte coraggiose di pace. Auspichiamo che non venga mai meno, nei rapporti internazionali, la cultura del dialogo, dell’incontro, del negoziato».

Nei mesi scorsi c’erano state delle polemiche per le parole del Papa sugli immigrati alla fine del viaggio in Messico. Che cosa accadrà?

«Vedremo come si muove il nuovo presidente. Normalmente si dice: una cosa è essere candidato, un’altra è essere presidente, avere una responsabilità così importante… E mi pare che in questo senso, anche da quello che ho potuto sentire dalle sue prime parole, Trump ha già sottolineato di voler essere il presidente di tutti gli americani, il leader dell’intero Paese. Poi sui temi specifici vedremo quali saranno le scelte della nuova amministrazione, e in base a quelle si potranno anche fare delle valutazioni. Mi pare perciò assolutamente prematuro formulare giudizi».

Che cosa la preoccupa di più oggi nel mondo? parolin1

«I milioni di bambini costretti a lasciare le loro case, le migliaia di minori non accompagnati che divengono preda di abusi e sfruttamento. La sorte delle popolazioni inermi vittime delle guerre. Servono sforzi politici e multilaterali per sradicare le cause profonde dei grandi movimenti e dello spostamento forzato delle popolazioni, che sono conflitti e violenza, violazioni dei diritti umani, degrado ambientale, estrema povertà, commercio e traffico di armi, corruzione e oscuri piani commerciali e finanziari».

l’hotel gestito dai rom che diventa laboratorio di pace

Pristina

l’hotel dei Rom dove si costruisce la pace

Hotel Gracanica

nell’albergo lavorano insieme persone di etnie diverse: un simbolo di convivenza in una regione dal passato difficile

 

Un albergo gestito da Rom, persone ritenute nomadi e marginali, che in questo caso sono riusciti a trasformarsi in imprenditori stanziali in una parte d’Europa dove i Rom sono ancor meno amati e tollerati che altrove. Parliamo di Gracanica, alle porte della capitale del Kosovo Pristina, in una zona con splendidi monasteri da visitare. Ecco il sogno impossibile che due kosovari Rom, Hisen Gashnjani e Atlan Gidzic, aiutati da Andreas Wormser, un ex funzionario svizzero che ha lasciato la carriera per inseguire il sogno dell’albergo rom, e dallo scrittore ed ex pugile americano Paul Polansky. Insieme, stanno trasformando un sogno in realtà: scommettono sul futuro e rischiando in prima persona.

“Non so ancora se l’impresa riuscirà”, dice Gashnjani alla Sueddeutsche Zeitung, che all’albergo ha dedicato un ampio reportage multimediale. “Forse Andreas ha scelto me e Atlan, che pure non siamo manager alberghieri di professione, per dare un esempio. Per mostrare al governo del Kosovo e al mondo che uno svizzero, due rom, e dipendenti locali di etnia serba e albanese, possono lavorare insieme. Che la convivenza può funzionare, fino a trasformarsi in un buon affare”.

Hotel Gracanica1

L’albergo si chiama semplicemente Hotel Gracanica. E’un gioiello architettonico, modernista ed evocativo, in stile futurista. Wormser, con l’aiuto di Polansky, ha lanciato l’idea dopo aver lavorato per l’Onu in Kosovo. E si è deciso a rinunciare alla carriera e perfino ad affrontare un matrimonio a distanza visto che la moglie è rimasta a Berna. Certo, si tratta di una scommessa difficile: in Kosovo il turismo non è ancora decollato e finora l’albergo è occupato in media al 20 per cento delle sue capacità. Ma quest’estate, Gashnjani, Gidzic e il loro amico svizzero contano in più arrivi e pernottamenti, sperando di pareggiare il bilancio. I finanziamenti li hanno messi insieme alla meglio, indebitandosi.Hotel Gracanica2

Un destino che sembrava impensabile per Gashnjani e Gidzic, passati attraverso le guerre jugoslave/postjugoslave. Odiati in quanto rom, considerati nemici di tutti e perfino accusati di essere collaborazionisti subendo perfino incursioni e demolizioni di case. Tanto che ancora oggi, Gashnjani non entra nella vicina cittadina di Pomazatin, dove pure i suoi genitori avevano vissuto per 40 anni. Adesso lui, Gidzic e i loro due amici imprenditori, lo svizzero e l’americano sognano, di dare un segnale differente.

Sì, perché dei 125mila rom che vivevano in Kosovo prima della guerra, ne sono rimasti in loco appena un quarto. Ma ora l’Hotel Gracanica potrebbe dare un segnale diverso: quello di un luogo dove la gente può incontrarsi e dare vita a qualcosa di completamente diverso.

 

«Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?»,

papa Francesco

«Basta al traffico di armi, la pace è possibile»

di Luca Kocci
in “il manifesto”

Kocci

Dito puntato, ancora una volta, da papa Francesco contro tutti i Paesi occidentali di area Nato, ma anche contro le monarchie saudite e la Russia, che vendono armi alla Siria o ai ribelli anti Assad mentre contemporaneamente invocano la pace. «Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?», chiede retoricamente il pontefice in un videomessaggio diffuso ieri in occasione del rilancio della campagna per la pace in Siria («Siria, la pace è possibile») promossa dalla Caritas Internationalis, organismo a cui aderiscono 165 Caritas di tutto il mondo, tra cui quella italiana.papa8

«Mentre il popolo soffre – si ascolta nel videomessaggio di Francesco –, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace». Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad (fra cui si annidano anche gli jihadisti dell’Isis e di Al Qaeda), ma anche la Russia di Putin. E qualche giorno fa il New York Times ha rivelato che una grande quantità di armi che la Cia – in collaborazione con i sauditi – aveva destinato ai ribelli siriani contro il regime di Assad è stata rubata dai servizi segreti giordani e collocata sul mercato nero. Si tratta di una guerra, ricorda il papa nel videomessaggio, «oramai entrata nel suo quinto anno. È una situazione di indicibile sofferenza di cui è vittima il popolo siriano, costretto a sopravvivere sotto le bombe o a trovare vie di fuga verso altri Paesi». E a questo proposito la Rete italiana per il disarmo rilancia il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel (“Border wars”) che denuncia come «le principali aziende europee di armamenti coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente sono le stesse aziende che stanno traendo profitti dalla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea». Insomma un affare doppio. Non è la prima volta che papa Francesco denuncia il commercio internazionale delle armi come causa prima delle guerre. E non è la prima volta che interviene sulla Siria, da quando, nel settembre 2013, alla vigilia di quello che sembrava un imminente attacco occidentale alla Siria di Assad, scrisse a Putin (contrario all’azione militare) che presiedeva un G20 a San Pietroburgo per chiedere ai capi di Stato e di governo di abbandonare «ogni vana pretesa di una soluzione militare» contro Damasco; e pochi giorni dopo promosse una giornata di digiuno e una grande veglia per la pace in piazza San Pietro che contribuì a fermare l’intervento armato. «Appelli puntualmente inascoltati – spiega Giorgio Beretta (Rete disarmo) –, le responsabilità sono tutte dei governi occidentali che continuano a vendere armi nonostante siano ben coscienti delle continue violazioni dei diritti umani in Medio Oriente. Se vogliamo fermare le guerre, il primo passo è la trasparenza e un controllo rigoroso sull’export di armamenti, che invece è in aumento, come confermano i recenti contratti firmati da Finmeccanica e Fincantieri» Ancora papa Francesco: «Non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione dì un governo di unità nazionale. La pace in Siria è possibile!».

un mondo pacifico si può costruire

Sharing society

 

antidoto alla violenza

la sharing economy deve poter diventare sharing society

l’economia della condivisione deve inverarsi in una società della condivisione

di Nunzio Galantino
in “Il Sole 24 Ore” del 18 giugno 2016

guardare negli occhi il nemico, toccarlo, parlarci è audacia, provarci è rottura di uno schema che porta insospettabili risultatiGalantino

Violenza provocata, violenza subìta. Violenza che ti sorprende mentre sei in casa o che provoca distruzione mentre si sta cercando faticosamente di guadagnare per sé e per gli altri il diritto di vivere la propria condizione. Ma… siamo inesorabilmente condannati alla contrapposizione violenta? Nei giorni passati mi è parso che la risposta fosse purtroppo già scritta e avesse il colore del sangue sparso nelle diverse parti del mondo. Eppure sono possibili risposte diverse, perché vi sono storie diverse. Ugualmente vere. Faticosamente, ma positivamente vere.

Ne scrivo perché le ho incontrate in questi giorni. «Ci avete già rubato la terra e ora mi vuoi rubare anche la forchetta?!». È iniziato così il rapporto tra Kamelia, giovane palestinese, e Elad, giovane israeliano, incontratisi per la prima volta a Rondine, Cittadella della Pace nei pressi di Arezzo. Lei era scesa un’ora prima alla stazione di Arezzo dove lui, arrivato il giorno prima, l’aspettava per accoglierla e accompagnarla appunto a Rondine. Senza ancora stringergli la mano – all’età di 24 anni avrebbe toccato per la prima volta un israeliano senza divisa militare – lei era salita sull’auto da lui guidata per una decina di chilometri. Compiva così il primo atto di fiducia, conseguente a quella scelta di entrare a far parte del percorso di formazione di due anni che, a Rondine, porta al rovesciamento dell’inimicizia in amicizia. Un incontro che subito graffia: guardare negli occhi il nemico, toccarlo, parlarci è audacia. Provarci è rottura di uno schema che porta insospettabili risultati. Sono risultati che qui, a Rondine, crescono sotto gli occhi stupiti degli stessi protagonisti. «Quando ti vidi per la prima volta non ti detti la mano, quando ci salutammo per l’ultima ho scelto di abbracciarti», dice Elmira, ex studentessa azerbajana, a Sevak, ex studente armeno. E, avendo parlato fino a un attimo prima del sangue che ancora si versa in Nagorno Karabakh, aggiunge con un bagliore stupito: «Come è stato possibile tutto questo?». Raccolgo con attenzione questi frammenti di dialogo, che aprono squarci nella riflessione, possibilità fino a ieri insperate e che, quindi, danno ali all’impegno e leniscono un po’ la sofferenza per le vittime di questi giorni e per quelle senza numero di cristiani ancora perseguitati. Se fossero due o quattro i giovani che attestano la disponibilità di Kamelia ed Elad, di Elmira e Sevak, si potrebbe pensare a un caso; invece, incontrando in tre giorni di Festival Internazionale (Youtopic fest) i 30 studenti presenti nello Studentato internazionale e alcune decine dei 170 ex studenti ritornati dai 25 Paesi del mondo, susseguitisi qui per 18 anni, sorge il dubbio contrario. Si giunge, infatti, a pensare che in questa realtà toscana avvenga davvero qualcosa al fondo dell’umano, che possa interessare non solo i protagonisti di tragici conflitti internazionali, ma anche noi, protagonisti spesso distratti e annoiati, spaesati e impauriti, delle nostre società europee. Le politiche che in esse si fanno facendo rischiano sempre più di farci soffocare pigramente nel mediocre paesaggio delle piccole domande, dove il banale finisce per essere il piccolo mascherato da grande. L’unico modo per sfuggire a questo pericolo consiste nel vigilare perché la banalità non prenda il sopravvento sull’autenticità e sul vero e perché la cultura avvelenata del nemico non l’abbia vinta. È incontrovertibile, del resto, che i sentimenti di inimicizia crescono e dilagano in alcuni luoghi del pianeta, attraversando il corpo sociale dell’intera famiglia umana, suscitati e attizzati da potenti trasformazioni. A loro volta, diffidenza e paura generano regressioni difensive che, strutturandosi anche in processi economici e proposte politiche, rallentano il progresso morale e civile, rievocando pericolosi fantasmi. Tra questi, uno appunto è sempre pronto a materializzarsi: il nemico. Il nemico trova sempre categorie umane da vestire con i suoi panni e genera una irresistibile e mostruosa forza attrattiva. La fabbrica del nemico è sempre produttiva: la cronaca, anche quella della settimana che si chiude, stenta perfino a darne conto. Perché… che si può scrivere di nuovo davanti alla follia omicida che spazza via la vita di 49 persone? Da Orlando a Parigi – ripiombata nell’incubo del terrorismo con l’assassinio di due pubblici ufficiali – a Londra, dove è stata barbaramente uccisa una giovane deputata laburista da uno squilibrato pro-Brexit; sul fronte siriano e iracheno, poi,  l’orrore sembra costretto ad arretrare, ma per esplodere in un Occidente ritenuto il principale nemico da abbattere. Sono situazioni che non possono essere affrontate semplicemente con parole di circostanza; portano, piuttosto, a chiedersi cosa stia succedendo nel nostro mondo. Compreso in quello che vorremmo fosse soltanto un mondo sportivo: non basta certo la vittoria della nostra Nazionale sul Belgio, nel quadro degli Europei in Francia, a farci dimenticare le vergognose violenze di questi giorni tra diverse tifoserie, anche qui all’insegna della logica del nemico, quasi che il calcio funzionasse semplicemente da detonatore, valvola di sfogo di disagi sociali, economici, culturali. A Rondine si insegna e si pratica l’opposto; ci si allena a vedere gli altri con uno sguardo nuovo, a creare linguaggi che possano rappresentare un ponte, contribuendo all’accoglienza e all’abbattimento di muri, ostacoli, sospetti e diffidenze. È partendo da esperienze come questa che si mette in piedi un sistema di smontaggio del nemico, di dissoluzione di questa categoria, svelando concretamente come esso sia frutto di una relazione malata, mentre proprio la cura della relazione – di ogni relazione – sia ciò che permette di giungere a guarigione. A Rondine la speranza ha il volto dei 27 studenti – splendidi ragazzi che mi hanno davvero commosso – che hanno concluso l’innovativo progetto di Quarto anno liceale d’eccellenza, provenienti da altrettante scuole e città di tutte le regioni italiane: sono testimoni su scala italiana della possibilità di educare a essere contemporaneamente unici e uniti, differenti e coesi, superando tutti i precursori del “nemico”: pregiudizio, isolamento, sfiducia, perdita di senso. Abbiamo bisogno di riscoprire la forza di una inedita reciprocità tra nemici, una Gegenseitigkeit, come dicono i tedeschi, che letteralmente descrive come due persone acquisiscono ciascuna qualcosa dell’altro, nell’incontro. Proprio attorno alla dinamica dell’incontro – come continua a ricordarci papa Francesco – occorre puntare incessantemente l’attenzione, per riscoprirne il dinamismo spirituale, culturale e sociale, crescere nella verità della relazione, imparare a smantellare difese inutili e autodistruttive, generare saggezza. Ne va della stessa nostra possibilità di restare umani. Del resto, più volte su queste pagine autorevoli studiosi hanno usato la parola fiducia per denunciarne la mancanza e diagnosticare che taluni processi sociali ed economici non potranno mai essere o tornare positivi senza di essa. Anche laddove i numeri e la dimensione più materiale dell’umano formano le coordinate fondamentali, senza “prodotti” immateriali come la fiducia essi non possono di fatto accadere. Per usare un adagio ricordato da Lamberto Zannier, segretario generale Osce, anch’egli presente a Rondine, «si può portare il cammello alla fonte, ma se non vuol bere…». Così, comprendiamo sempre meglio che la sharing economy deve poter diventare sharing society; che l’economia della condivisione deve inverarsi in una società della condivisione, ma questo non avverrà spontaneamente. Dovremo educarci ed educare a tutto questo e dovremo farlo presto, prima che sia troppo tardi. Vi sembra troppo? Forse, ma in tempo di tempeste oceaniche ci deve pur essere qualcuno che si fa carico di indicare la rotta; qualcuno che si faccia testimonianza e provocazione per la politica, a ogni livello, come per quella cultura che crede di risolvere tutto affidandosi a criteri di efficienza e di snellimento burocratico o riducendo impropriamente la rappresentanza, per consegnare il governo a poche persone se non a una sola.

l’autore è Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana

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