un premio ‘per la pace’ alla ministra che ‘organizza la guerra’

 un premio che offende i morti

vergogna!

zanotelli

Raffaele Nogaro, Sergio Tanzarella, Alex Zanotelli, Francesco de Notaris, Francesco La Saponara (www.ildialogo.org) contro il premio ‘Napoli città di pace’ al ministro della difesa Pinotti da parte dell’Unione Cattolica Stampa Italiana

 dobbiamo con profondo rammarico denunciare che la capacità mimetica della guerra e la giustificazione della violenza si accrescono in modo inatteso nella generale indifferenza con un uso e un abuso della parola pace. Ne è stata dolorosa prova l’attribuzione il 13 aprile 2016 del premio Napoli Città di Pace all’attuale ministra della Difesa Roberta Pinotti da parte dell’Unione Cattolica Stampa Italiana

Le motivazioni del premio a lei dato costituiscono una offesa all’intelligenza e sono un monumento alla mistificazione:
 «I notevoli primati del suo ruolo strategico e riformatore in materia di difesa nazionale e internazionale, declinati al femminile in piena coerenza con un impegno al servizio della politica come forma più alta d’amore, che, mette sempre al centro a tutela e la dignità della vita umana».
 Ci chiediamo da quando i ministri della Difesa si occupano della tutela e della dignità umana e non invece dell’organizzazione e realizzazione della guerra sebbene sotto la denominazione edulcorata e rassicurante di missione di pace e operazione di polizia internazionale? Le guerre in Iraq, i bombardamenti della Serbia e della Libia, la guerra in Afghanistan sono le azioni scellerate che i governi italiani e i ministri della Difesa hanno promosso riuscendo sia ad aggirare l’articolo 11 della Costituzione, sia a fare ulteriormente ingrassare i fabbricanti di armi complici dei Parlamenti fatti da maggioranze di alza paletta che rinnovano esorbitanti finanziamenti per sistemi d’arma, bombe, missili, aerei e navi da guerra tanto da non avere più denaro per curare i malati, istruire i giovani, sconfiggere le marginalità sociali.Nogaro

La stessa ministra Pinotti, sempre pronta a mettere a disposizione soldati italiani per tutte le guerre del pianeta, ha intuito il paradosso della concessione del premio e, prevedendo critiche ha affermato: «Potrebbe sembrare paradossale premiare un ministro che si occupa di Difesa e Forze armate con un premio per la pace, ma si è capito che non è affatto paradossale perché le nostre Forze armate operano proprio per garantire la sicurezza dei cittadini, la stabilità delle Istituzioni e lavorano quotidianamente per riportare la pace».

Sarebbe istruttivo per tutti che a queste affermazioni potessero replicare i civili uccisi dalle bombe italiane, i morti iracheni uccisi a causa della fantomatica arma letale per cui venne combattuta – anche da parte degli italiani – quella guerra. E soprattutto dovrebbero parlare le centinaia di militari italiani morti e le migliaia di ammalati di cancro a causa dell’uranio impoverito alle cui polveri furono esposti senza alcuna protezione. Gli orfani e le vedove di quei militari, cui sono negate anche forme di assistenza, meriterebbero di non essere offese da questo premio.

È certo molto inquietante e moralmente grave che il premio sia stato promosso e attribuito dall’Unione Cattolica Stampa Italiana Campania nella persona del suo presidente regionale Giuseppe Blasi e della vicepresidente nazionale Donatella Trotta con la partecipazione dell’assistete spirituale dell’Unione il salesiano Tonino Palmese. L’Unione Cattolica Stampa Italiana ha commesso un grave errore che noi qui denunciamo. A chi il prossimo premio per la pace? A Finmeccanica? È evidente che l’Unione non presta attenzione alle parole che papa Francesco ha pronunciato, ripetutamente in questi tre anni, contro i fabbricanti di armi e i loro mediatori e clienti. Armi che sono realizzate con il solo scopo di uccidere, per essere utilizzate in questa terza guerra mondiale a puntante nella quale i ministri della Difesa italiani hanno avuto e hanno un ruolo non di comparse, ma di protagonisti premiati in nome della “pace”. Ma questo non è un paradosso, è soltanto vergognoso.

Raffaele Nogaro, vescovo emerito di Caserta
Sergio Tanzarella, storico della Chiesa
Alex Zanotelli, missionario comboniano
Francesco de Notaris, ex senatore e attivista per la pace
Francesco La Saponara, ex deputato e docente universitario
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per far pace in tempo di guerra

dopo le stragi di Bruxelles
7 idee per fare pace in tempo di guerra
di Flavio Lotti
Lotti
1. La morte non ci deve mai trovare indifferenti. Non importa chi sia la vittima, la sua nazionalità, la sua religione, il colore della sua pelle, il luogo dell’accadimento. Non possiamo piangere solamente le “nostre” vittime. Ogni vittima è un nostro fratello o una nostra sorella. Non abituiamoci mai all’orrore. L’abitudine nasconde la rassegnazione. L’abitudine e la rassegnazione alle stragi, alle uccisioni, alla morte, alla violenza ci tolgono la dignità e uccidono la nostra umanità.
2. Il problema che dobbiamo affrontare è complesso. Il che non significa che sia irrisolvibile. Ma (di fronte ad ogni problema complesso) dobbiamo rifiutare le semplificazioni. Le cose da fare per vincere il terrorismo sono molte e ci coinvolgono tutti, collettivamente e individualmente. Richiedono tempo, pazienza, conoscenza, determinazione, costanza. Serve un’accelerazione in tanti campi ma fuggiamo dallo slogan facile e da tutti quelli che puntano il dito e innalzano muri contro gli altri, l’Islam, gli islamici, i migranti, le donne e gli uomini in fuga dalla guerra e dal terrore…
3. Agire con intelligenza. La componente “militare” del terrorismo va combattuta, fermata, neutralizzata con l’intelligenza, le indagini di polizia, la collaborazione tra i servizi di sicurezza, la lotta alla criminalità e ai traffici di droga e di armi, i sistemi di prevenzione. Servono unità, volontà politica, condivisione, cooperazione e coordinamento delle informazioni, delle politiche, risorse economiche adeguate. Cosa vuol dire “siamo in guerra!”? Per questa “guerra” bombe e cacciabombardieri, missili e portaerei sono inutili e inutilizzabili. Ogni volta che li usiamo estendiamo e radicalizziamo le basi del terrorismo. Quindici anni di “guerra al terrorismo” hanno prodotto risultati disastrosi. Dobbiamo smettere di buttare i nostri soldi per fare cose sbagliate e inconcludenti. E’ ora di cambiare decisamente strada. Smettere di fare la guerra non è un moto di pace ma la vittoria del buon senso.
4. Fermare le guerre. Il terrorismo ha molte radici ma la storia ci dice che le guerre in corso lo alimentano. Per questo è nostro interesse lavorare attivamente per fermarle. La loro continuazione e proliferazione non solo allunga la scia dell’orrore e del dolore ma fomenta il terrorismo, lo foraggia, lo estende. Giustificare una guerra col pretesto della lotta al terrorismo è pura ipocrisia. Fermare le guerre è un dovere di tutti i responsabili della politica internazionale. E’ il primo passo di chi ha il dovere e la responsabilità di costruire pace e sicurezza. Per andare alle radici del problema occorre inoltre contrastare con fermezza i traffici legali e illegali delle armi e la loro produzione.
5. Disertare la guerra delle parole. Lo possiamo fare tutti. Le parole uccidono. Prima delle bombe le parole della guerra seminano il terrore, fomentano l’odio, distruggono la ragione. E’ urgente costruire un argine a quelli che speculano sulle paure e sull’indignazione dei cittadini, che vogliono sostituire il buonismo con la cattiveria, che approfondiscono le divisioni, creano nuovi nemici ed erigono sempre nuove barriere. In televisione, nel web, alla radio e sulla carta stampata chi vuole sinceramente la pace deve disertare la guerra delle parole. La grammatica della pace getta acqua sul fuoco della discordia, spegne le polemiche, isola i malvagi, unisce le donne e gli uomini onesti in un fronte comune.
6. Bonificare le periferie intossicate. Combattere la disoccupazione, sradicare la povertà, lottare contro l’esclusione sociale e l’emarginazione, ridurre le disuguaglianze, promuovere il riconoscimento delle diversità, il dialogo interculturale e interreligioso, favorire l’integrazione, educare alla cittadinanza globale, alla solidarietà e all’accoglienza devono essere tra le priorità di chi vuole sradicare il terrorismo dalle nostre città, dall’Europa e dal mondo intero. Il radicalismo si nutre del malessere sociale, economico e morale, dell’ignoranza e dei fenomeni di esclusione dilaganti. Le politiche sociali, culturali ed educative sono strumenti essenziali di una efficace strategia di lotta al terrorismo.
7. Vincere il male con il bene. Non è una sciocca utopia. E’ la via più concreta, costruttiva ed efficace per uscire dal circolo vizioso del male. Il male non conosce limiti né confini. L’illusione di poterlo sconfiggere con gli stessi mezzi alimenta una escalation di violenza senza fine, limiti e confini. Alla teoria della guerra infinita noi dobbiamo contrapporre la volontà di disertare la guerra ovvero la volontà di interrompere la spirale del terrore per non venire stritolati. Con lucida consapevolezza dobbiamo constatare che la violenza non risolve mai i problemi ma li aggrava. Vincere il male con il bene richiede un lungo e impegnativo lavoro a tutti i livelli, esige una larga assunzione di responsabilità e la ricerca costante del bene comune. La violenza divide. La ricerca del bene comune unisce. La violenza paralizza. La ricerca del bene comune mobilita.

Flavio Lotti
Coordinatore Tavola della pace

Perugia, 25 marzo 2016

 

Tavola della pace
M. 3351401733
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49ma giornata mondiale della pace

Messaggio per la Giornata della pace 2016

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il testo integrale del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 49ª Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2016 sul tema: «Vinci l’indifferenza e conquista la pace»

da Toscana Oggi

Vinci l’indifferenza e conquista la pace

1. Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo, come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni. Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo.

Custodire le ragioni della speranza

2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.

Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro quell’anno.

Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»[1], la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto[2].

In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia, di «perdonare e di donare»,di aprirsi «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge»[3].

Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno, vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e conquistare la pace.

Alcune forme di indifferenza

3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.

La prima forma di indifferenza nella società umana è quella verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico. L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti[4]. Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo[5]; e prima di lui Paolo VI aveva affermato che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana»[6].

L’indifferenza nei confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo, non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale[7]. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti»[8].

In altri casi, l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete[9]. «Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene»[10].

Vivendo in una casa comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato di fare nella Laudato si’. L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali influisce sulle sue relazioni con gli altri[11], per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in casa propria[12].

In questi ed in altri casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.

La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata

4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra»[13]. Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace»[14]. L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno prodotto crudeltà e violenza senza misura[15].

A livello individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza.

In questo senso l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità[16].

Quando poi investe il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza[17].

Inoltre, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali[18]?

Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del cuore

5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16), era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità. Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia»[19]. Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.

Dio interviene, allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile, proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).

Caino dice di non sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare, umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio, invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente. È attento e opera.

Allo stesso modo, nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli»(Rm 8,29). Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro, specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o disoccupate (cfr Mt 20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.

Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) denuncia l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide e passò oltre» (cfr Lc 10,31.32). Nello stesso tempo, mediante questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli, ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle, alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti, cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.

La misericordia è il cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv 3,17; cfr Gc 2,15-16).

Ecco perché «è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia»[20].

Così, anche noi siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre relazioni gli uni con gli altri[21]. Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane»[22]. La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti»[23], perché la compassione scaturisce dalla fraternità.

Così compresa, la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato, tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella di altri uomini e donne nel resto del mondo[24].

Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza

6. La solidarietà come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo.

Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli[25].

Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna»[26].

Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene, infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona»[27]. Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito.

La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione

7. Consapevoli della minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono buone pratiche nel cammino verso una società più umana.

Ci sono tante organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al termine della nostra vita.

Il mio pensiero va anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante i conflitti armati.

Quante famiglie, poi, in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie, le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di rifugiati[28].

Infine, vorrei menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).

La pace nel segno del Giubileo della Misericordia

8. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.

Anche gli Stati sono chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i malati.

Per quanto concerne i detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio[29], avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.

Per quanto riguarda i migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.

Desidero, inoltre, in quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne – purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.

Infine, vorrei invitare a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati, garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.

Volgendo lo sguardo al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni.

In questa prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.

Affido queste riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno, all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace, l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno quotidiano per un mondo fraterno e solidale.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia

FRANCISCUS PP.

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[1] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.

[2] Cfr ibid., 3.

[3] Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, 14-15.

[4] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 43.

[5] Cfr ibid., 16.

[6] Lett. Enc. Populorum progressio, 42.

[7] «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 19).

[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 60.

[9] Cfr ibid., 54.

[10] Messaggio per la Quaresima 2015.

[11] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 92.

[12] Cfr ibid., 51.

[13] Discorso in occasione degli auguri al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2013.

[14] Ibidem.

[15] Cfr Benedetto XVI, Intervento durante la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, Assisi, 27 ottobre 2011.

[16] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 217-237.

[17] «Fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 59).

[18] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 31; 48.

[19] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2015, 2.

[20] Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, 12.

[21] Cfr ibid., 13.

[22] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollecitudo rei socialis, 38.

[23] Ibid.

[24] Cfr ibid.

[25] Cfr Catechesi nell’Udienza Generale del 7 gennaio 2015.

[26] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2012, 2.

[27] Ibidem.

[28] Cfr Angelus del 6 settembre 2015.

[29] Cfr Discorso alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014.

il cristiano di fronte alla guerra e alle armi

Bettazzi 2

una bella conferenza di mons. Bettazzi, a suo tempo presidente internazionale di ‘pax Christi’, sul rapporto del cristiano con le armi e la risoluzione dei conflitti fra popoli con  la guerra

una conferenza un po’ datata ma ancora attualissima che fa il punto preciso sull’ampia problematica che vede la vita cristiana individuale ed ecclesiale coinvolta in scelte radicali per essere fedele al vangelo della pace:

INTRODUZIONE

DALLA GUERRA LIBERACI, SIGNORE

La pace è diventata oggi più che mai un tema fondamentale e di attualità.

Essa è sempre stata un desiderio dell’uomo e dei popoli; tra i grandi mali da cui si chiedeva al Signore di essere liberati, la guerra veniva unita alle epidemie e alle carestie: «A peste, fame et bello, libera nos Domine». Oggi peraltro la prospettiva della guerra appare veramente tragica, dal momento che le terribili armi nucleari creano la possibilità effettiva di un olocausto atomico, della distruzione globale dell’umanità.

1. I CRISTIANI DI FRONTE ALLA PACE E ALLA GUERRA

I «segni dei tempi» di oggi I megamorti Gli scienziati, consapevoli delle terribili possibilità delle forze distruttive da essi scoperte, e forse particolarmente toccati dalla responsabilità morale che si accompagna alle responsabilità scientifiche che sono loro proprie, hanno ammonito ripetutamente l’umanità. Essi si appellano soprattutto ai governanti, illustrando in maniera particolareggiata non solo la gravità delle distruzioni che verrebbero provocate diretta- mente dagli ordigni nucleari attuali, ciascuno migliaia di volte più potente delle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki al termine della seconda guerra mondiale, ma altresì delle conseguenze che per lungo tempo renderebbero impossibile qualunque forma di soccorso e di sussistenza. Anche i costosissimi rifugi atomici che qua e là si stanno montando risulterebbero praticamente inutili.

L’Europa in più aggiunge la considerazione che una guerra atomica anche parziale tra le due grandi superpotenze, una guerra di «teatro» come si dice in gergo, avrebbe appunto come teatro l’Europa e porterebbe alla distruzione pressoché istantanea di tutte le sue città e alla morte della maggioranza dei suoi abitanti. Si parla oggi, anche solo nella previsione di una guerra «limitata», di ben 750 milioni di morti (o, come si dice con un macabro eufemismo, di 750 «megamorti») nelle prime ventiquattro ore: e là vi sarebbero inclusi quasi tutti gli europei!

Eppure si continuano a costruire armi sempre più raffinate e distruttive, secondo l’antico detto romano: «Se vuoi la pace, prepara la guerra». Il motivo diffuso è che bisogna difendersi, e che non c’è mezzo più persuasivo, per dissuadere l’avversario dall’ attaccare, che di rendersi più forti e quindi più temibili.

Se si rinunciasse a un bombardiere

Dobbiamo anche dirci chiaramente quanto le guerre fredde e le tensioni tra paesi possano venire influenzate dalle esigenze di mantenere i guadagni e i livelli di occupazione nelle fabbriche di armi, mentre non dobbiamo ignorare come tutto questo sia pagato col saccheggio di materie prime e di lavoro nei paesi dipendenti…

Sono facili i paragoni tra le spese militari e quelle civili. Già nel 1954 l’apostolo dei lebbrosi Raoul Follereau chiedeva, inutilmente, ad Eisenhower e a Stalin di rinunciare ciascuno a un bombardiere: le due potenze sarebbero rimaste in equilibrio reciproco, e con quei soldi si sarebbe eliminata la lebbra dal mondo!

Oggi basterebbe meno per eliminare la malaria o il vaiolo, mentre con l’equivalente di un solo carro armato si potrebbero costruire ottanta trattori agricoli, con un solo caccia a reazione ben quarantamila farmacie di villaggio, con un incrociatore lanciamissili cinquemila posti letto in ospedale, e con l’equivalente di un solo colpo di cannone si potrebbero pagare i libri per un ragazzo della scuola media per tre anni. Si è fatto il calcolo che i cinquanta milioni di uomini – quindici di bambini – che muoiono ogni anno per la fame o per le sue conseguenze, potrebbero essere salvati con le cifre di un mese e mezzo di spese militari!

Possono sembrare cifre proposte a scopi… emotivi; esse peraltro ci aiutano a prendere coscienza delle responsabilità che hanno soprattutto i paesi più industrializzati e più potenti.

sogno una chiesa

I cristiani e le guerre

Le guerre giuste

Nei primi secoli, i cristiani rifuggivano dalla guerra, vedendola come occasione di omicidio, oltreché spesso come occasione di culto pagano per propiziare la vittoria delle armi. Poi, finito il tempo della presenza «eroica» in un mondo pagano e persecutore, si è inaugurata con Costantino una nuova era, in cui lo Stato si preoccupa dell’incremento della comunità cristiana e ne prende le difese, con un esercito esso stesso composto di cristiani. Le guerre che difendono la religione cristiana o che salvaguardano uno Stato garante della vera religione risultano allora «giuste», anzi doverose. Così le Crociate saranno «giuste» per principio, proprio perché legate all’espansione e alla difesa della religione cristiana.

Il concetto di « guerra giusta » si allargherà poi fino ad abbracciare la difesa di qualunque « valore», ivi compreso l’onore dinastico (quando, ad esempio, un re dichiarava guerra a un altro re solo perché questi gli aveva rifiutato la mano della figlia!).

Quando si è capito che il concetto di « guerra giusta » era troppo elastico, lo si è ristretto alla « guerra di difesa », escludendo dunque ogni aggressione (sia pure per motivi nobili), e ponendo delle condizioni: un motivo serio, la legittima autorità che la gestisce, una certa « proporzione » tra i beni da difendere e i danni prodotti dalla guerra.

Anche questo concetto è oggi nuovamente in crisi, non foss’altro perché le guerre nucleari uccidono al primo colpo centinaia di milioni di persone e distruggono intere civiltà, mentre esigono, per una qualunque speranza di cosiddetta vittoria, che si spari per primi per annullare così la possibilità o il volume di attacco dell’avversario.

La pace e il cosiddetto «buon senso»

Non possiamo allora meravigliarci se il tema della pace non trova ancora oggi un’adeguata coscienza nell’opinione pubblica cristiana. Mentre altri temi hanno trovato precisazioni particolareggiate ed esigenti (dalle norme della morale sessuale al precetto della Messa festiva), il tema della guerra non è ancora entrato a pieno titolo e in tutti i suoi aspetti nella coscienza cristiana.

Credo che il grande ostacolo per un giudizio cristiano sia il cosiddetto « buon senso », che è poi oggi il giudizio suggerito dai mezzi di comunicazione sociale, spesso in mano agli stessi proprietari delle fabbriche d’armi!

In realtà, quando si parla tra cristiani di guerre e di armamenti atomici, non ci si appella quasi mai a motivazioni evangeliche. Si ricorre piuttosto a ragioni politiche, anzi partitiche, suggerite dalle scelte tra i due grandi blocchi, o da evidenti interessi economici che guidano la fabbricazione delle armi (da accumulare o da vendere ad altri paesi), e che manipolano l’opinione pubblica perché appoggi quanto è stato da loro programmato.

Il magistero della Chiesa sulla pace

Papa Giovanni XXIII

Di fronte ai drammatici « segni dei tempi » di oggi, il Magistero della Chiesa ha parlato, con chiarezza e con forza. Fu Papa Giovanni XXIII inaugurare questo Magistero specifico nel 1963, con l’Enciclica «Pacem in terris».

Egli era stato colpito dalle sofferenze e dalle contraddizioni della seconda guerra mondiale, che aveva vissuto come Delegato apostolico a Istanbul, un osservatorio privilegiato degli intrecci tra le varie diplomazie e dei loro retroscena più sconvolgenti, come pure delle tante miserie provocate dalle distruzioni belliche e dalle violenze razziali. Ancor più era rimasto sgomento per il rischio di guerra nucleare tra Usa e Urss al tempo della crisi di Cuba, nella quale era riuscito a essere fortunoso e provvidenziale arbitro di pace. Questo forse illumina la sua decisione di pubblicare un’Enciclica specifica sulla pace.

Due cose in essa sono da notare tra le altre: primo, l’assoluta novità di un documento pubblico con un tema non strettamente religioso e rivolto a tutti gli uomini di buona volontà (e non solo ai membri della Chiesa); e secondo, la novità appunto del richiamo ai «segni dei tempi», cioè alle situazioni concrete che, nella perennità della Rivelazione, impongono però nuove analisi e applicazioni per mantenerla sempre attuale ed efficace.

Il Concilio Vaticano II

Il Concilio Vaticano Il, convocato dallo stesso Papa Giovanni e allora in pieno svolgimento, raccolse questa intuizione, sviluppandola nella Costituzione Pastorale su «La Chiesa nel mondo contemporaneo» (chiamata dalle sue prime parole latine «Gaudium et spes»). Questo importante documento dichiara esplicitamente (al n. 78) che la pace non è soltanto il tacere delle armi, il dominio del più potente, o l’equilibrio delle armi (e siamo nel 1965!), ma è frutto di giustizia e di carità.

Passando poi a parlare della corsa agli armamenti (n. 81), il Concilio la condanna apertamente come una realtà non solo pericolosa («Le cause di guerra, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente»), ma altresì ingiusta («Mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente»). Per questo il Concilio ribadisce (sempre al n. 81): « La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi delle quali va già preparando i mezzi ».

Il documento, pur non giungendo a una condanna coraggiosa di ogni guerra, di fronte allo spavento di una guerra totale – quale sarebbe una guerra atomica – non esita a condannarla in modo esplicito e incondizionato, con una solennità che non si ritrova in altri testi conciliari: «Avendo ben considerato tutto ciò, questo Sacrosanto Concilio fa proprie le condanne della guerra totale già pronunciate dai recenti sommi Pontefici, e dichiara: ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni, e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione dev’essere condannato» (n. 80).

La Dichiarazione all’Onu sul disarmo

Tali condanne sono state riprese in documenti successivi. Così nel 1976 la Santa Sede inviava all’Onu una dichiarazione sul disarmo, nella quale la corsa agli armamenti veniva nuovamente condannata senza riserve. Si dice che essa è:

1. un pericolo, per l’uso che viene facilitato e per l’applicazione del ricatto;

2. un’ingiustizia, perché dà il primato alla forza, mentre sottrae numerose risorse alla possibilità di sopravvivenza e di sviluppo ai paesi più poveri: «Gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame»;

3. un errore, perché mentre intende salvaguardare l’occupazione non considera la possibilità di una graduale e programmata riconversione industriale;

4. una colpa, per la rinuncia a cercare modi di sussistenza diversi dal far costruire strumenti di morte;

5. una pazzia, perché provoca una forma di isterismo collettivo diminuendo la sicurezza con la crescita di nuovi rischi, e alimenta il commercio delle armi che provoca squilibri e incoraggia l’aggressività.

Gli ultimi interventi della Chiesa

Di recente (nel 1982) Papa Giovanni Paolo II durante il viaggio in Giappone rinnovava, a Hiroshima, la condanna alla guerra atomica, e in Inghilterra, a Coventry, affermava che ogni guerra, atomica o convenzionale, era da dichiarare inaccettabile.

Su questa linea ci sono state dichiarazioni locali ma significative. Così i vescovi olandesi, in unione con i capi religiosi protestanti, si pronunciavano contro l’accoglienza di missili nella loro patria, inducendo il governo a rinviare l’accettazione dèlle proposte fatte dalla Nato. Inoltre alcuni vescovi statunitensi (così mons. Hunthausen vescovo di Seattle o mons. Matthiesen vescovo di Amarillo) non hanno esitato a dichiarare illecita ogni collaborazione a una possibile guerra atomica; essi hanno affermato l’obbligo di coscienza per gli operai cristiani di non partecipare in alcun modo alla costruzione di quegli ordigni di morte, e invitato i cittadini all’obiezione fiscale, cioè a non pagare la quota di tasse corrispondente al bilancio del Ministero della Difesa, o comunque la quota presumibilmente destinata agli armamenti atomici, inviando il corrispondente a iniziative di vita e di sviluppo.

Nel 1983 vi sono state numerose prese di posizione di episcopati cattolici, all’Ovest e all’Est, sul problema della pace e del disarmo: particolarmente importante quella dei vescovi degli Stati Uniti d’America, sia per la completezza della trattazione che denuncia l’immoralità della guerra nucleare e mette in guardia dai rischi e dallo stesso principio dalla « deterrenza » (tenete le armi per spaventare l’avversario, non per usarle…), sia per l’influsso che può avere su una politica mondiale effettivamente orientata al disarmo.

2. L’ANNUNCIO CRISTIANO DELLA PACE

La pace è stata uno dei temi centrali del messaggio di Gesù, venuto appunto a proclamare «gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che Egli ama» (Luca 2,14). La traduzione più esatta della frase evangelica riconosce che la « buona volontà » è quella di Dio, non quella degli uomini, e che quindi la pace non va riservata agli uomini «di buona volontà», tra i quali ciascuno è portato a mettere in primo luogo se stesso e gli amici, e ad escludere gli altri, soprattutto i «nemici»; essa va estesa a tutti gli uomini, perché tutti sono oggetto della «buona volontà» di Dio, cioè appunto a tutti gli uomini perché Dio li ama tutti!

La pace nuova portata da Gesù

Non uccidere

Proprio perché Dio ama tutti gli uomini, questi devono amarsi tra di loro, riconoscendosi fratelli ed escludendo ogni forma di inimicizia e di violenza reciproca: il riconoscimento della fraternità universale elimina la categoria stessa del «nemico».

Il Vangelo di Matteo ci ammonisce (5,43): « Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti ». E conclude (v, 48): «Siate voi dunque perfetti (il Vangelo di Luca preciserà: siate misericordiosi!) come è perfetto il Padre vostro celeste».

Matteo, preoccupato sempre di richiamare l’aspetto globale degli atteggiamenti cristiani, precisa inoltre che non ci si deve accontentare di non uccidere, ma che bisogna eliminare qualunque tipo di offesa: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non uccidere”, ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio… e chi gli dice pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna» (5,21-22).

Tu porgigli l’altra guancia

Questo rifiuto della violenza dev’essere globale: « Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra… e se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (5,38-41). Il che non è esortazione alla passività, tanto meno alla stupidità; è piuttosto l’invito, anzi il comando, di rifiutare l’uso dei mezzi violenti, sia pure per difendersi da un attacco violento, è impegno a una reazione non violenta, a costo di ricevere un altro schiaffo o di dover raddoppiare il viaggio per riuscire a convincere l’avversario.

Sono parole molto chiare, comandi molto espliciti: essi cozzano contro il nostro modo di pensare e di agire, che noi definiamo come «buon senso», ma che in realtà è un rifiuto ad accogliere la proposta nuova che Gesù porta. Gesù ce lo ricorda, nel suo discorso di addio (Giovanni 14,27): «Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come la dà il mondo, io la do a voi».

La pace che Gesù porta, corona e compimento della pace antica («shalom», cioè pienezza di beni spirituali e materiali), è il regno di Dio, un mondo in cui si è amici di Dio e solidali con tutti.

Pace è riconciliazione

I lontani diventano vicini

In questa luce si comprende perché san Paolo, dopo averci detto che Cristo è la nostra pace, ci presenta la pace come riconciliazione. Il testo è nella Lettera agli Efesini, e richiama la situazione primitiva di discriminazione tra gli ebrei e i pagani: gli ebrei si ritenevano i soli depositari anche della nuova rivelazione di Gesù (si sentivano vicini), e guardavano perciò con un certo distacco i pagani, quasi escludendoli dalla possibilità di un completo riscatto (e perciò lontani). Paolo si rivolge ai pagani, «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo», e li rassicura:

«Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia: egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2,12-17).

Possiamo già fin d’ora notare che la riconciliazione richiede la disposizione, da parte di chi ha, a rinunciare ai propri privilegi a favore di chi non ha. In questo caso erano gli ebrei a dover rinunciare alloro esclusivismo, così come in seguito i popoli più fortunati dovranno rinunciare ai loro privilegi di razza o ai privilegi nazionali. Ma ogni discriminazione dovrà essere superata, comprese quelle date dalle diversità naturali (sesso o impedimenti fisici) o dalle differenze sociali (di ricchezza o di potere). Lo stesso san Paolo lo richiamerà apertamente in altre sue Lettere; basti la citazione lapidaria di Galati3,38: «Non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».

Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te

Questa pace, riconciliazione tra gli uomini, nasce però dalla riconciliazione con Dio, cioè dalla liberazione dal peccato, che è la radice delle tensioni e delle guerre. La Bibbia fin dalle prime pagine descrive l’ordine armonioso in cui Dio aveva creato il mondo, ponendo l’uomo come culmine e signore. E rivela che il peccato ha portato il disordine:

1. nell’interno dell’uomo (la vergogna della nudità, l’angoscia della morte);

2. degli uomini tra loro (il maschio domina la femmina, i fratelli si uccidono, Babele rende incomunicabili gli uomini);

3. del creato contro l’uomo (la fatica del lavoro e del dominio sulla natura).

Cristo, con la sua morte e la sua risurrezione, viene a riconciliare gli uomini con Dio. E gli uomini, riconciliati con Dio, dovranno riconciliarsi tra loro. Ciò è talmente indispensabile, che Gesù ne fa una condizione per la validità del culto: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’ altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello; poi torna a offrire il tuo dono» (Matteo 5,23-24).

Dunque, non c’è vera pace con Dio se non c’è ricerca di riconciliazione e di pace con il fratello. Siamo noi stessi a ricordarlo a Dio nella preghiera: «E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Matteo 6,12). Questo vale per i singoli, vale per la Chiesa: una comunità non celebra validamente il suo culto se non si impegna alla riconciliazione con tutti. Un impegno serio di pace diventa cosi la verifica di autenticità nella vita di una comunità cristiana.

Pace è servizio

Tutta la terra per tutti gli uomini

La riconciliazione non è soltanto perdonare le offese ricevute personalmente, è anche tentare di riportare un ordine e un equilibrio rovinati dalle ingiustizie e dalle discriminazioni del passato.

La pace implica l’impegno di chi è in posizione favorevole, a mettere le sue capacità e disponibilità al servizio di chi si trova in necessità. Tanto più che le situazioni privilegiate molto spesso sono state procurate da sopraffazioni e prepotenze passate, compiute, se non dall’interessato stesso, da altri, ma di cui l’interessato si trova ora a beneficiare.

La terra è data agli uomini perché la utilizzino per la loro vita: tutta la terra per tutti gli uomini. Se la proprietà privata può essere un mezzo idoneo e legittimo per una più approfondita utilizzazione della terra e dei suoi beni, oltreché uno stimolo per l’impegno dell’individuo, ciò non sopprime la sua funzione sociale: quando un certo uso della proprietà affami o danneggi considerevolmente gli altri uomini, la destinazione universale dei beni (cioè il diritto degli uomini alla sopravvivenza e a una vita umana attraverso l’uso dei beni terreni) prevale sulla proprietà privata.

È un’antichissima dottrina della Chiesa, non sempre presente ai cristiani e alloro impegno pubblico, ma richiamata anche di recente da un Documento della Pontificia Commissione Justitia et Pax (agosto 1976). I modi concreti della sua attuazione entreranno nella sfera strettamente politica, ma i suoi princìpi coinvolgono la coerenza con il Vangelo.

Il più grande come colui che serve

Gesù stesso, venuto certamente per portare un messaggio «religioso», si è presentato nella sinagoga di Nazaret commentando una pagina significativa di Isaia (vedi Luca 4,19-21): «Il Signore mi ha unto » (cioè ha preso possesso di me e mi ha dato un incarico sostanziale), « e mi ha mandato a portare ai poveri l’annuncio gioioso» (il Vangelo, annuncio di salvezza), «a dare la vista ai ciechi, a confortare gli afflitti, a liberare i prigionieri, ad annunciare un anno di misericordia del Signore» (che consiste appunto in questa solidarietà con i più poveri ed emarginati).

Ha parlato, sì, di Dio, e ha preso come modello gli uccelli del cielo e i gigli del campo, ma poi non ha esitato a denunciare le ingiustizie e le oppressioni concrete (e si trattava di dominatori religiosi!). E proprio per questo è stato perseguitato e ucciso.

Gesù ha fatto di questo atteggiamento la caratteristica specifica dei suoi discepoli: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo, e chi governa come colui che serve»(Luca 22,25-26).

La sete di avidità e di dominio genera le oppressioni e le guerre, solo lo spirito di servizio può preparare la pace, a qualunque livello.

Quel che si fa agli altri lo si fa a Dio

Dobbiamo richiamarlo ai cristiani (ma anche a tutti gli altri!) che lavorano in politica; e la comunità cristiana deve saper incoraggiare i suoi membri (vorrei dire in particolare i giovani) a impegnarsi nel servizio dei più poveri ed emarginati. Anche questo è un impegno «religioso», se Gesù ne ha fatto il criterio per entrare nel Regno dei cieli.

Si legga e si mediti il brano dell’ «ultimo giudizio» (Matteo 25,31), dove la ragione dell’invito a entrare nel regno preparato da Dio per i suoi eletti è proprio la solidarietà con i più bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, pellegrino e mi avete ospitato, ero ammalato e in carcere e mi avete visitato… Perché ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Fare in modo che i fratelli abbiano pane, lavoro, casa, salute, dignità, è essere solidali con Cristo!

Questo non vuol dire che amare e aiutare gli altri sia più importante dell’amare Dio; ma è importante concretamente perché è segno e garanzia indiscutibile dell’amore di Dio. Ce lo dice chiaramente laPrima Lettera di Giovanni (4,20): «Se uno dicesse “lo amo Dio” e odiasse il fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

Farsi prossimi per aiutare

Questo aiuto, inoltre, non dovrà essere offerto lasciandolo cadere dall’ alto delle proprie ricchezze e superiorità; ci si dovrà invece mettere accanto ai più « piccoli” condividendo i loro problemi, « facendosi prossimo” come il Samaritano della parabola (Luca 10,30). Vi è una profonda pedagogia in questa precisazione evangelica.

La parabola, al sacerdote e al levita, chiusi nei loro problemi e disattenti di fronte alla situazione drammatica dell’uomo assalito dai ladroni, contrappone un Samaritano, dunque un eretico, uno scomunicato, un nemico, che però si fa in quattro per venire incontro alle sofferenze e alle necessità del malcapitato. La conclusione non domanda: «Chi ha trattato il poveretto come prossimo», aiutandolo con la superiorità del benestante, bensì: «Chi si è fatto prossimo al poveretto», mettendoglisi accanto e aiutandolo a livello di fraternità.

Farsi prossimi è aiutare i fratelli più diseredati a realizzare essi stessi, con responsabilità e dignità, la loro affermazione e la loro salvezza. Ogni forma di servizio, ogni impegno di volontariato, in patria o fuori, nelle strutture civili come in strutture confessionali e private, soprattutto se si tratta di aiuto temporaneo che renda i fratelli capaci poi di agire autonomamente, diventa « riconciliazione » concreta, cammino di pace.

3. UNA MENTALITÀ DI PACE

Emerge dunque la necessità di analizzare i motivi delle tensioni e delle guerre, per poterli affrontare in modo non violento. E si troverà agevolmente che alla radice delle guerre ci sono le avidità e gli egoismi di coloro che si trovano in una condizione di privilegio e la vogliono difendere e accrescere a tutti i costi, le avidità di coloro che vogliono crearsi benessere e dominio a danno dei più poveri e dei più deboli.

La giustizia e i più poveri

Il Nord e il Sud del mondo

Ormai diventa ogni giorno più chiaro che lo scontro tra l’Est e l’Ovest, cioè tra l’imperialismo comunista e quello capitalista, non è più tanto uno scontro di ideologie quanto uno scontro appunto di imperialismi; e che chi paga le spese tra questi colossi del Primo e del Secondo Mondo – che in realtà costituiscono il Nord del mondo (cioè la parte più ricca) – è il cosiddetto Sud del mondo, cioè l’insieme dei paesi meno sviluppati e più poveri, che costituiscono appunto il cosiddetto Terzo Mondo.

L’ha illustrato con evidenza un rapporto elaborato da un gruppo di scienziati e di politici di svariate nazioni e continenti, sotto la guida dell’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt (e perciò il Documento viene comunemente chiamato «Rapporto Brandt»).

Forse si rimane talora bloccati dal timore che una critica agli imperialismi finisca col sembrare una critica ali imperialismo capitalista, in particolare agli Stati Uniti d’America, e quindi una scelta filocomunista. Anche perché il capitalismo occidentale (non so se per miopia o per un processo inevitabile) lascia al comunismo internazionale il privilegio di farsi portavoce e difensore dei diritti e delle rivendicazioni dei più poveri, salvo poi a opprimerli con nuove imposizioni. Ma tant’è, il capitalismo sembra fare gli interessi dei ricchi, e il comunismo l’interesse dei poveri.

Questo porta troppe volte che la diffidenza e il rifiuto del comunismo autorizzino e quasi consacrino ogni forma di sfruttamento e di violenza fatti in nome della libertà, rimuovendo ogni preoccupazione di denunciare le ingiustizie e le sopraffazioni dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. E troppe volte questa è presentata come la «terza via»; mentre astenersi dal giudizio e dall’ intervento quando un potente sta schiacciando un misero, è già praticamente mettersi dalla parte del più forte!

Il vergognoso mercato delle armi

Per questo dobbiamo condannare con forza la corsa al riarmo, che affama i più poveri; per questo dobbiamo denunciare con chiarezza il vergognoso mercato d’armi che ne deriva, che incrementa la bilancia commerciale dei più ricchi incentivando gli armamenti (e spesso le dittature!) dei più poveri.

Pensiamo all’Italia, che viene al quarto posto nella graduatoria dei venditori di armi (sia pure a grande distanza da- gli Stati Uniti e dalla Russia, e a una certa distanza anche dalla Francia), e che si presta a favorire con le sue armi qualunque tipo di violenza. Inclusi – e ne fu rimproverata ufficialmente dall’Onu – l’ apartheid sudafricano e le dittature dell’ America Latina.

È così, ad esempio, che il governo rivoluzionario del Nicaragua deve ora pagare a fabbriche italiane armamenti ch’esse vendettero al dittatore Somoza, e che questi non pagò, pur utilizzando le nostre armi per uccidere il popolo a cui noi intanto offrivamo la nostra commiserazione e la nostra solidarietà.

Dare autorità all’Onu

Per questo dobbiamo protestare con tutte le forze contro la divisione del mondo in due, fatta a Yalta verso il termine dell’ultima guerra mondiale, che offrendo spazi d’azione e di dominio alle due grandi superpotenze, le ha forse distolte dal guardare con occhio violento all’altro campo, ma ha ribadito e quasi consacrato la dipendenza e la servitù delle nazioni minori. In questa linea si dovrebbe premere perché l’Onu risultasse davvero efficace, eliminando gli anacronistici «veti» delle grandi potenze, che in tal modo non solo bloccano denunce di violenza e di ingiustizie, ma vanificano l’autorità e l’efficacia dell’Onu. Mentre solo un’efficace autorità supernazionale potrebbe dirimere le contese in maniera pacifica, allontanando i rischi di guerre. Proprio come l’autorità nazionale degli Stati moderni ha eliminato le guerre tra le singole città o regioni, che in altri tempi sembravano inevitabili.

Queste denunce e queste pressioni, anche se fatte in modi che possono essere discussi o contestati, ma non derisi (non foss’altro perché costituiscono alternative di «ideali» a una vita piatta fatta di disinteresse e di evasioni, come la droga o la violenza), in realtà esprimono e incrementano uno stato d’animo della «massa» che non può essere disatteso dai capi politici. Così non è a caso che dopo le grandi marce europee della pace dell’ autunno 1981 è ripreso a Ginevra il dialogo prima interrotto tra Usa e Urss per un accordo sull’armamento nucleare!

La scelta dei poveri…

Una maggiore giustizia trova nei più poveri il punto di riferimento. Abbiamo visto che la corsa al riarmo, accanto alla pericolosità che innesca per il rischio che il moltiplicarsi delle armi possa condurre quasi fatalmente (se non addirittura inavvertitamente, per errore di segnalatori automatici) all’olocausto atomico, realizza già ora l’ingiustizia della sottrazione ai più poveri delle risorse indispensabili alla loro sopravvivenza: è un caso clamoroso in cui l’uso eccessivo della proprietà privata cozza contro la destinazione universale dei beni terreni. Questa considerazione, già fatta dal Concilio e oggi richiamata da molte forze politiche e sociali, dovrebbe trovare il primo posto in un giudizio cristiano.

In realtà il Concilio stesso aveva parlato di «scelta dei poveri», un’espressione che era stata chiarita concretamente e fatta propria dai vescovi dell’America Latina – di un continente di ingiustizie secolari e di sfruttamenti ignominiosi! – nelle loro assemblee di Medellìn (1968) e di Puebla (1980). Non si tratta della scelta di una parte sociale con l’esclusione delle altre, bensì del riconoscimento che un mondo di giustizia e di pace può essere costruito solo se lo si progetta dal punto di vista dei poveri, dei loro diritti conculcati e da risollevare con il sacrificio di tutti, non se si continua a programmarlo dal punto di vista dei ricchi e di un’ economia che difende le posizioni di privilegio, basate sull’inevitabilità di masse di poveri e di diseredati.

… e la scelta dei ricchi

Se per esempio faccio grandi progetti di risanamento che richiedono molto tempo e lunghi sacrifici che io, ricco, posso attendere e affrontare, ma che metteranno alla prova e alla disperazione masse di poveri interni o esterni alla nazione, allora ho fatto la «scelta dei ricchi». Pare che la Banca Mondiale, che dovrebbe assistere e favorire i popoli più poveri, ne abbia scartati un certo numero per il motivo che sono troppo sottosviluppati e il provvedere a loro porterebbe troppi sacrifici per i Paesi più sviluppati!…

Questa «scelta dei ricchi» si appella appunto normalmente alle «leggi ferree dell’economia» per giustificare la difesa degli interessi di chi ha già. E sono le stesse leggi ferree che, ad esempio, un tempo sembravano esigere come necessaria la schiavitù, per poter assolvere i lavori più pesanti…

La «scelta dei poveri» invece si appella alla capacità dei ricchi di rinunciare alle loro sproporzionate ricchezze, o anche solo di non evadere le tasse, di non portare capitali all’estero, di investire in operazioni produttive, in industrie di vita e non di morte. Essa mette al primo posto l’uomo, certa che quando si salvano e si promuovono le categorie più povere (e con un po’ di fantasia e di buona volontà si possono scoprire nuove leggi dell’economia, altrettanto ferree), allora è tutta la società che cresce e si sviluppa.

L’uomo concreto

Lo sviluppo dei popoli

La pace dunque – una pace vera e diffusa – deve partire dal riconoscimento dei diritti umani fondamentali di ogni uomo, soprattutto di chi non se li trova riconosciuti, cioè dei più poveri e dei più emarginati. E questo richiede nei più ricchi e privilegiati – popoli, gruppi, individui – la volontà di saper rinunciare a qualcosa dei propri privilegi, economici e politici, a vantaggio di chi non può goderne.

È illusorio, se non addirittura ipocrita, affermare che la rivendicazione di una libertà sempre più assoluta intende dare la possibilità di far godere domani ai diseredati i privilegi di cui oggi alcuni godono, quando è ben chiaro che il tipo di benessere e di potere dei privilegiati di oggi esige la povertà e la dipendenza degli altri!

È matematicamente impossibile che tutti giungano non solo al livello più alto, ma a un livello comunque confortevole, dal momento che lo stile di vita dei più fortunati, dei «soprasviluppati», è possibile solo se ci sono dei poveri, dei «sottosviluppati» che lavorano a basso costo, senza poter far riconoscere le loro esigenze.

Paolo VI nell’Enciclica «Populorum Progressio», mentre proclamava che il nuovo nome della pace è appunto «lo sviluppo (progressio) dei popoli», precisava che non è cristiano, anzi è antievangelico un sistema basato sul profitto e sulla libertà incontrollata, che diventa poi la libertà di chi può, pagata dalla dipendenza di chi non può.

I poveri nel contrasto fra le ideologie

I ricchi – diceva Paolo VI – diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. Soltanto se i ricchi e i privilegiati (e non solo nel denaro, ma nel potere, nella cultura, nelle capacità organizzative) sanno limitare la loro superiorità, se sanno metterla al servizio dei più poveri e dei più diseredati, solo allora si cammina verso un mondo di giustizia e di pace.

Il pericolo più grande è quello di esasperare le contrapposizioni ideologiche; così, più che approfondire e chiarificare le proprie verità, si cerca di strumentalizzare gli errori altrui. Così l’ individualismo nasconde gli egoismi e gli sfruttamenti del capitalismo più spinto sotto l’esigenza di combattere il comunismo; così questo giustifica il soffocamento delle libertà individuali con l’esigenza di contrastare l’imperialismo capitalista, che soffoca e umilia i popoli più poveri. Così ogni critica al riarmo occidentale verrà tacciata di appoggio dato alla Russia, o ci si guarderà dal criticare la Russia per non fare il gioco dell’America… Chi ne va di mezzo è l’uomo concreto, sono i popoli, soprattutto i più poveri, soverchiati dal contrasto tra le ideologie e le superpotenze.

La «rivoluzione copernicana del Concilio

Occorre saper cogliere, con acutezza e onestà, all’interno di ogni ideologia, quanto essa ha intuito e compiuto a vantaggio dell’umanità, per superarne poi i limiti e le chiusure, aprendosi ad arricchimenti e a collaborazioni. Già nell’«Octogesima adveniens» del 1971 Paolo VI indicava nel superamento delle ideologie uno dei compiti più urgenti dell’uomo di oggi, e una delle condizioni più efficaci per il cammino della pace!

Questo vale anche per ol cristiano, sempre tentato di assolutizzare anche sul piano politico e sociale le sue intuizioni religiose. E la Chiesa stessa è chiamata a realizzare quella che ai tempi del Concilio venne chiamata «rivoluzione copernicana» e che ha trovato appunto nella «Pacem in terris» e nella «Gaudium et spes» i suoi momenti più alti e suggestivi. Copernico persuase il mondo che non era il sole a girare intorno alla terra (come diceva Tolomeo) bensì la terra intorno al sole; cosi oggi la Chiesa è sollecitata ad applicare a sé l’insegnamento di Gesù (Marco 2,27): «Non è l’uomo fatto per il sabato», cioè per ogni istituzione positiva, inclusa la Chiesa, «ma il sabato è stato fatto per l’uomo».

Ovunque ci sono germi di verità e di salvezza

Nella concezione medioevale, elaborata in un mondo tutto cristiano, la Chiesa era vista come unica strada per la salvezza, applicando così anche fisicamente l’antico detto: «Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza». Di qui il rifiuto di chi era fuori della Chiesa, e le condanne per quanti uscivano da essa, e soprattutto per quanti inducevano altri a uscirne. Gli eccessi dell’Inquisizione trovano qui la loro motivazione culturale.

I tempi moderni, che hanno posto la Chiesa di fronte a mondi estranei a essa, l’hanno portata a rendersi conto dei valori che ci sono in altre religioni e sistemi di vita. Essa è stata così indotta a ripensare alla propria visione del mondo e a ritrovare (in accordo del resto con l’antica teologia orientale) il senso più pieno dell’Incarnazione, come elevazione soprannaturale del mondo e quindi come sorgente di salvezza per ogni uomo «di buona volontà». C’è, è vero, la triste realtà del peccato, che essa deve richiamare e aiutare a superare sul piano individuale e sul piano sociale; ma è dato riconoscere ovunque germi di verità e di salvezza.

Questo ha portato a guardare l’uomo e le sue conquiste con occhio nuovo, valutando il bene e il male, soprattutto sul piano sociale, non secondo il favore o l’ostilità data all’istituzione ecclesiale (o magari, come avveniva nei secoli passati, secondo le alleanze e le avversioni allo Stato Pontificio), ma avendo come punto di riferimento l’uomo concreto: tutto ciò che rispetta e favorisce l’uomo è positivo; tutto ciò che lo svaluta, lo opprime, lo emargina, è negativo.

Le guerre di religione e le alleanze con gli oppressori dell’uomo trovano qui la loro definitiva condanna.

La non violenza

Contro ogni violenza

La guerra è violenza, è rinunciare a utilizzare la ragione e il confronto per affidare alla forza la soluzione dei problemi: non indica dunque chi ha più ragione, ma chi ha più forza. Anche quando ci si difende da una violenza subita, in fondo si vince una violenza con un’altra violenza. Non sempre la storia, almeno a breve scadenza, dimostra che chi ha ragione vince.

Se poi entriamo nell’ ottica evangelica, che elimina la stessa categoria di «nemico» e che impone di non resistere alla violenza contrapponendole mezzi non violenti, dobbiamo concludere che la norma del cristiano dovrebbe essere sempre la non violenza. E questa sempre più appare come l’unico ideale valido per ogni uomo, in un tempo in cui la violenza sempre più sfrenata rende intollerabile la vita interna delle nazioni, e a livello planetario fa balenare l’eventualità della distruzione dell’intera umanità.

San Paolo, che si è raccomandato: «Non rendete a nessuno male per male… Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male» (Romani 12,17.21), aggiunge subito (ivi 13,4) l’esortazione a temere l’autorità «perché non invano essa porta la spada»; e indica così che si può tollerare solo la violenza di chi è preposto a garantire il bene e a condannare il male (in questa luce l’unico esercito moralmente ammissibile sarebbe quello dell’Onu!).

Occorre dunque rivendicare il primato assoluto della non violenza. Non violenza non indica solo astensione dall’uso attivo della violenza (soprattutto della violenza fisica inferta ad altri, con impedimento forzato dei movimenti, con percosse, torture, ferite, tanto più con l’uccisione): indica anche rifiuto della violenza altrui, della stessa violenza che leggi o comportamenti ingiusti impongono al popolo. Questa reazione viene fatta con mezzi non violenti (come dichiarazioni, dimostrazioni pubbliche, marce, boicottaggi economici e commerciali ecc.); ma non sarebbe autentica non violenza se non comportasse un impegno attivo per denunciare e contrastare le violenze in atto.

L’esempio di Gesù e dei santi

Il primo esempio di non violenza è quello di Gesù, che denunciò le ingiustizie e i soprusi ma rifiutò di usare la forza (la cacciata dei venditori dal tempio fu un gesto simbolico, con una « sferza di cordicelle », compiuto soprattutto rovesciando i tavoli e i banchi: vedi Giovanni 2,15). Anzi rimproverò Pietro, che nel tentativo di difenderlo aveva tagliato un orecchio a Malco, con una motivazione generale: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, periranno di spada» (Matteo 26,52).

Proprio per la sua non violenza attiva Gesù fu ucciso: il Vangelo ripete spesso che la decisione di farlo morire veniva ribadita dopo i suoi discorsi di denuncia o i suoi gesti di protesta.

I primi cristiani, come s’è detto, resistettero in modo non violento alle leggi oppressive della coscienza, e per questo molti subirono il martirio. Dopo Costantino la guerra venne giustificata, e la violenza legittimata almeno entro certi limiti.

Solo i santi la richiamarono con l’insegnamento e con l’esempio: si pensi a san Francesco che passa le linee crociate e si presenta inerme al sultano per parlargli di Gesù, o che ottiene che l’indulgenza plenaria, cioè la liberazione da tutte le pene dovute per i peccati commessi, fino allora concessa solo a chi combatteva in Crociata, fosse invece concessa a chi pregava nella Cappella della Porziuncola. Ed è lo stesso Francesco che chiede ai Terziari, cioè ai laici che vogliono vivere nello spirito evangelico, di non portare armi.

La non violenza nel mondo d’oggi

In tempi recenti chi ha propugnato la non violenza è stato Gandhi, che è riuscito a ottenere l’indipendenza dell’India senza spargere sangue ma coinvolgendo tutti i compatrioti nella resistenza al dominio politico ed economico dell’Inghilterra. Anche lui ha pagato col suo sangue l’ideale della non violenza. Così come l’hanno pagato Martin Luther King, il pastore protestante pioniere della rivendicazione non violenta dei diritti dei negri d’America, e mons. Romero, fattosi portavoce dei poveri di El Salvador contro la violenza omicida dei dominatori politici ed economici.

La non violenza, che pure nella sua ispirazione coincide col messaggio evangelico, trova più facilmente il consenso dei giovani, mentre chi più ha vissuto finisce spesso col ritenere che solo una violenza ben ordinata possa debellare le forze del disordine e del male. La stessa teologia cattolica ammetteva che, in casi veramente eccezionali, risultasse lecito uccidere il tiranno (e forse così si spiega perché tanti alti ufficiali cattolici presero parte al complotto, poi fallito, che tentò di uccidere Hitler nel 1944).

Un’applicazione di questo principio si avrebbe nella legittimazione comune delle guerre di liberazione da oppressori esterni o interni. Lo stesso mons. Romero, del resto, mentre condannava la violenza del governo e quella della rivoluzione, riconosceva peraltro di non poter mettere sullo stesso piano la violenza che vuol difendere a tutti i costi privilegi ingiusti e quella dell’esasperazione di chi non vede altro mezzo per raggiungere libertà e dignità umana.

Un risvolto della non violenza (o della violenza) è la facilità con cui anche i cristiani legittimano la pena di morte, che ha un carattere vendicativo, non certo correttivo (nemmeno porta a diminuire i delitti!), e che va rifiutata, priva com’è di una vera giustificazione morale.

L’obiezione di coscienza al servizio militare

Un caso tipico di testimonianza non violenta è dato dall’obiezione di coscienza al servizio militare. Questo atteggiamento di scelta non violenta stimolerà l’inventiva nella scelta del modo più efficace per bloccare la corsa al riarmo. Infatti la scelta del riarmo progressivo è una forma di inerzia e di pigrizia mentale, favorita se non imposta da chi ha interessi economici di vario tipo.

Una rivista americana suggeriva ad esempio che certe impennate allarmistiche del governo americano, impegnato nella crescita di armamenti, non solo fossero determinate, com’è ovvio, dai costruttori d’armi, bensì anche dai fornitori di grano, timorosi che una prolungata distensione permettesse all’Urss di rallentare il suo impegno di armamento, e di dedicarsi maggiormente all’agricoltura, sottraendosi così alla dipendenza dai rifornimenti americani!

Questa sensibilità e questa volontà devono impegnare a fare passi concreti verso il disarmo. E se il disarmo unilaterale può sembrare un eroismo difficile e problematico, un avvio unilaterale al disarmo costituisce invece una prova di buona volontà e di fiducia indispensabile per indurre l’avversario a gesti altrettanto concreti di disarmo. È irrisorio pensare che la volontà di essere i più forti per trattare non induca l’avversario a giustificarsi con lo stesso principio.

Quando ci si trova in un comune pericolo e si giudica che l’avversario sia imprudente, non è facendo propria la sua imprudenza che si potrà sperare di rendere più ragionevole la situazione, ma cercando di imporre lo stile della propria prudenza.

Perciò è manifestazione tipica e convincente di non violenza l’obiezione di coscienza al servizio militare, in particolare alla guerra nucleare.

Il servizio civile

Quest’ultima specificazione non indica… simpatia per la guerra convenzionale (fatta cioè con armi non nucleari): vuole solo indicare che se ci sono situazioni in cui l’uso delle armi convenzionali può essere tollerato, ad esempio per le forze di polizia o per forze militari mondiali (dell’Onu) con compiti di polizia internazionale, nessuna giustificazione morale può essere ammessa per l’uso di armi nucleari.

La comunità cristiana ha saputo andare controcorrente difendendo la vita prima del suo nascere e chiedendo per coerenza l’obiezione di coscienza ai medici e a tutti i collaboratori contro ogni interruzione volontaria della gravidanza. Per coerenza essa dovrebbe con chiarezza e coraggio farsi carico di questa non meno urgente difesa della vita, incoraggiando l’obiezione di coscienza al servizio militare, imponendola poi in assoluto per qualunque collaborazione agli armamenti nucleari.

Per evitare che tale gesto possa esser visto come evasione di un contributo attivo alla vita della comunità, dovrà essere legato al servizio civile e inserito in sollecitazioni efficaci al volontariato, sia entro le strutture pubbliche (come gli ospedali o le carceri), sia in organismi di specifica testimonianza evangelica e cristiana.

La Chiesa e l’obiezione di coscienza

L’incoraggiamento all’ obiezione di coscienza in realtà era considerato un tempo sovversivo, proprio perché, contestando il servizio militare, sembrava denigrare il concetto di patria, storicamente unito alla realtà delle guerre. Basti ricordare le vicende di don Milani, portato in tribunale anche da settori ecclesiastici per aver parlato di obiezione di coscienza nel libretto “L’obbedienza non è più una virtù“.

Lo stesso Magistero della Chiesa ha subìto un’evoluzione evidente. Ne parlò per primo il Concilio, che timidamente chiese comprensione e tolleranza ai governi Gaudium et spes n. 80); ma si era nel 1965, e alcuni temevano che incoraggiamenti più aperti apparissero come un boicottaggio dell’impegno militare americano in Vietnam. L’Enciclica di Paolo VI Populorum progressio nel 1967 riconobbe esplicitamente la bontà di quella posizione, mentre il Documento Conclusivo del Sinodo dei vescovi nel 1971 addirittura la incoraggiò, indicandola come espressione significativa dello spirito non violento del cristiano.

La Caritas italiana si fa ora promotrice dell’ obiezione di coscienza non solo al servizio militare (insistendo sul servizio civile), ma perfino dell’obiezione fiscale, a quella parte cioè di tasse che corrisponde alla costruzione di armamenti.

4. L’IMPEGNO PER LA PACE

Il cristiano si rende conto che dovrebbe riflettere maggiormente su questi problemi alla luce della Parola di Dio e dei segni dei tempi. Proprio tutt’e due insieme. Perché se da una parte i segni dei tempi, cioè le situazioni storiche e i problemi concreti, da soli, potrebbero indurre o a esasperazione e sfiducia o ad affrontare il problema in modo unilaterale o egoistico, dall’altra la Parola di Dio accolta in modo astratto o evasivo può condurre a rinchiudersi in considerazioni puramente individuali o intimistiche.

La stessa Parola di Dio del resto non è fatta di enunciazioni teoriche: è una storia di salvezza che noi dobbiamo rivivere nella nostra vita concreta, nella storia della nostra società.

Educare alla pace

Nella Chiesa e nella scuola

Occorre educarsi alla pace, con realismo e con coraggio. In questo la comunità cristiana deve offrire un aiuto collegando la Parola di Dio con la vita e con la storia. Le omelie dovrebbero avere questa rilevanza attuale; e le riflessioni comunitarie sulla Bibbia, moltiplicate e favorite all’ interno della Chiesa, dovrebbero aiutare a questa concreta e costante incarnazione della Parola di Dio nella vita e nella storia.

Di qui dovrebbe svilupparsi una cura costante per educare alla pace e alla non violenza le nostre comunità; a cominciare dai più giovani, che dovrebbero essere aiutati a non considerare la violenza come garanzia di successo, individuale o collettivo.

Si tratterà, ad esempio, di curare che la stessa vita, delle famiglie non privilegi la violenza e l’ira; si tratterà di controllare i giocattoli-armi per i nostri piccoli, evitando che il loro divertimento diventi imitazione o esaltazione delle violenze e delle guerre dei grandi, mentre purtroppo le pellicole e i fumetti «per bambini» spesso presentano la forza e la prepotenza come premessa e condizione di dominio e di vittoria.

Così l’insegnamento della storia non dovrà ridurla a una successione di guerre e di prepotenze che premiano i più forti e i meno coscienziosi, quanto piuttosto dovrà far emergere il faticoso cammino dei valori più positivi, appunto lo «sviluppo dei popoli», nonostante le prepotenze e le ingiustizie dei più forti.

Nella società, con fiducia

Questo dovrebbe essere continuato attraverso un’ accurata e prolungata diffusione di queste convinzioni nell’ opinione pubblica attraverso ogni mezzo di comunicazione sociale, moltiplicando iniziative che portino a sensibilizzare il maggior numero possibile di persone alle tematiche della pace e della giustizia. Anche per controbilanciare il bombardamento fatto dai mezzi normali di comunicazione sociale, troppo spesso strumentalizzati a dichiarazioni verbali di pace (chi dirà mai di volere la guerra?), ma in realtà sobillatori più o meno consapevoli dei sentimenti che alimentano contrapposizioni ed esclusioni, tensioni e guerre.

Educare alla pace è soprattutto incoraggiare a impegnarsi per la pace. Di fronte al «buon senso» che suggerisce di avviarsi alla pace preparando la guerra, o di fronte allo scoraggiamento di chi ritiene il mondo ormai totalmente sulla china inevitabile della guerra, il cristiano deve animare se stesso e gli altri con la virtù della speranza.

Sperare è confidare che ci sono nel mondo forze di bene più forti di quelle del male: basta saperle suscitare e sostenere. C’è la forza dello Spirito di Dio che dev’essere riconosciuta e accolta; e c’è la forza dello spirito umano, se appena sa aprirsi alla chiamata di Dio a saper andare controcorrente, a qualunque costo.

Credere all’utopia della pace

E c’è il conforto della storia. Quando si sente dire che la pace è un’utopia, e si intende dire che è qualcosa di irreale, di inesistente, bisogna invece precisare che l’utopia è sì irraggiungibile, ma non perché irreale, ma perché molto elevata. E che perciò bisogna tentare di raggiungerla. Anche se non la si raggiungerà mai pienamente, l’avvicinarsi a essa è già conquista e progresso.

Penso agli ideali che san Paolo indicava ai Galati, nel testo citato (3,28): «In Cristo Gesù non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna». Erano utopie in ambiente di esclusivismo ebraico, di maschilismo spinto, di economia selvaggia (le «leggi dell’economia» di allora dicevano che il mondo non poteva andare avanti senza gli schiavi!). Eppure qualcuno ha creduto in quelle utopie, si è impegnato, ha sofferto, talora qualcuno è morto (e non sempre sono stati i cristiani in prima fila!). E quella che ieri era un’utopia oggi sta diventando realtà, nell’indipendenza dei popoli e nella parità delle razze, nell’affermazione piena della donna, nella dignità e nella promozione di tutte le categorie sociali.

Se la pace è un’utopia, il cristiano deve impegnarsi in prima fila, correndo tutti i rischi, da quello della strumentalizzazione a quello dell’emarginazione. Perché il suo contributo sia efficace e riconosciuto, e sia un messaggio di speranza nel mondo.

Testimoniare la pace

Nella coerenza della vita

La pace è un nodo centrale del messaggio evangelico, è un momento significativo della solidarietà umana e cristiana. Ogni cristiano dovrà perciò fare quanto sta in lui per far progredire l’idea e la realtà della pace.

E poiché ci si rende conto di quanto sia difficile un impegno isolato, è quanto mai conveniente che si affronti questo cammino in gruppo. Si potrà così dare una dimensione specifica di pace a qualche momento di attività della comunità di cui si fa parte; o si sceglierà qualche gruppo o movimento particolarmente impegnato sul tema della pace per parteciparvi, o quantomeno per informarsi di quanto si può fare a questo proposito.

Occorrerà poi con coerenza portare avanti il discorso della pace, in tutti i suoi aspetti di promozione della giustizia e di scelta dei poveri, proprio perché esso non rimanga una velleità o un «buon pensiero», valido solo a tranquillizzare la coscienza.

Anche nell’esercizio della professione e negli impegni di lavoro occorrerà saper riflettere e applicare le deduzioni raggiunte. Così non si potrà continuare a sfruttate il dipendente, a evadere la legge o il fisco, non si potrà indulgere a moltiplicare introiti o lavoro straordinario, contribuendo così all’emarginazione e alla disoccupazione, radici di tensioni e di disagio sociale.

La «scelta dei poveri» diventa così, per chi ha un livello di vita elevato e anche per chi pensa esclusivamente al suo lavoro, un concreto punto di riferimento per valutare se veramente amiamo la pace. Solo se cerchiamo di creare la pace nella famiglia e nella scuola, di costruire la giustizia nel lavoro e nella società, allora sarà sincero l’impegno di ricerca e di sollecitazione per un cammino di pace tra i popoli.

La testimonianza della comunità cristiana

In particolare nel servizio civile come alternativa al servizio militare i giovani testimonieranno che il servizio alla patria non è tanto (o soltanto) quello di una «difesa» in armi (problematica fra l’altro sotto tanti punti di vista, compreso quello della scarsa formazione umana e democratica vigente in alcune caserme), quanto un mettersi a disposizione effettiva dei settori più emarginati della collettività nazionale, pagando in proprio – anche con l’aggiunta di alcuni mesi in più di servizio – in un modo altamente educativo e autenticamente popolare com’è quello non violento.

La comunità cristiana dovrà contribuire al cammino della pace, presentando i motivi profondi che lo sollecitano e lo orientano, e incoraggiando i singoli cristiani a un impegno effettivo e generoso. Penso ad esempio come il tema e le prospettive della pace dovrebbero entrare più spesso nelle omelie e nelle esortazioni ecclesiali.

Certo, v’è il pericolo di fraintendimenti e di strumentalizzazioni; ma ho già ricordato come lo stesso non parlare possa venire frainteso e strumentalizzato. Sarà strumentalizzato dai potenti e dai dominatori, che lo presenteranno come un motivo di appoggio alla conservazione del loro dominio; e sarà frainteso dai subordinati e dagli oppressi, che lo interpreteranno come una scelta fatta contro di loro da una Chiesa connivente con i potenti, o quanto meno timorosa di perderne gli appoggi o di provocarne l’opposizione. Come ho già detto, tacere quando un violento sfrutta, umilia, opprime un povero (e tanto più se lo fa atteggiandosi a difensore del cristianesimo!) è praticamente schierarsi con il violento contro il povero!

Abbattere il muro delle divisioni

Abbiamo ricordato che la pace è la riconciliazione tra gli uomini e tra i popoli (Efesini2,14), e che ai muri etnici da abbattere (tra ebreo e non ebreo, ma anche tra bianco e di colore, tra uomo del Nord e uomo del Sud), vanno aggiunti i muri biologici (quello tra uomo e donna, ma anche tra sano e malato, tra normale e impedito), e quelli sociali (come tra libero e schiavo, ma in genere tra ricco e povero).

La comunità cristiana dovrà dare testimonianza di riconciliazione e di tolleranza, di uguaglianza e di simpatia reciproca, all’interno come all’esterno. L’accettazione e la collaborazione tra cristiani di diversa estrazione e sensibilità, tra i vari gruppi e movimenti che fioriscono nella Chiesa, e tra questi e le strutture ecclesiali tradizionali, in primo luogo le parrocchie (e viceversa, dalle strutture ai gruppi e ai settori!), diventano così espressione e contributo di pace.

Le divisioni sono un grande pericolo, sempre presente nella Chiesa come in ogni società umana: già Paolo raccomandava ai Corinzi (Prima Corinzi 1,12) che non le accentuassero («io sono di Paolo», «io invece di Apollo», «e io di Cefa») fin quasi a dimenticare che chi è morto per tutti e ha salvato tutti è stato lui, solo lui, Gesù Cristo. Lui è la nostra pace, la pace di tutti, che fa non solo di due popoli ma di tutti gli uomini una cosa sola (anzi in Efesini 2,18 dice «una sola persona»). Non ha efficacia una predicazione di pace fatta da chi non sa nemmeno vivere e collaborare in pace col suo fratello nella fede!

La pace attraverso la sofferenza e il coraggio

Certo, per portare la pace, Cristo ha patito ed è morto: la Lettera agli Efesini (che abbiamo già citato: vedi 2, II) precisa che è con la sua morte che Gesù ha abbattuto il muro delle divisioni; e il cristiano sa che, per essere discepolo di Cristo, per essere operatore di pace, egli deve prendere ogni giorno la sua croce, e che la croce è soprattutto accettare, sopportare, riconciliare gli altri!

Il cristiano guarda allora ai grandi santi, che sono stati predicatori e portatori di pace soprattutto attraverso una vita di dedizione e di sacrificio, di rinuncia alle sicurezze e ai consensi del mondo. Il cristiano pensa a quanti hanno sfidato la morte con consapevolezza umana e cristiana, per portare la società a situazioni di maggiore giustizia, di non violenza, di pace.

E pensa non solo ai grandi non violenti che abbiamo ricordato (Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero), ma altresì a tanti nostri contemporanei, uomini della politica e della magistratura, dei servizi d’ordine o uomini della strada, che si sanno minacciati di morte se continueranno a compiere con coscienza e con coraggio il loro dovere, se approfondiranno le inchieste, se denunceranno speculazioni e soprusi, e che accettano la sfida per contribuire a ridare giustizia e fiducia alla società, per essere concreti operatori di pace…

La risurrezione della società, la pace del mondo passa attraverso la sofferenza e il coraggio di tanti uomini che, lo sappiano o no, si trovano così uniti alla passione di Cristo, che sola distrugge i muri delle divisioni e delle inimicizie e può portare così la pace nel mondo.

Pregare per la pace

Ascoltare Dio

Infine, il cristiano deve dare alla pace l’apporto della preghiera. Se lo cito per ultimo non è perché lo ritenga l’apporto meno determinante: il cristiano sa che è il contributo più grande che egli può dare alla pace del mondo, anzi che egli «deve» dare, proprio perché è un suo contributo specifico. Lo noto per ultimo, dopo gli altri, perché la considerazione degli altri apporti contribuirà a dare alla preghiera l’ orientamento più vero e completo.

In realtà la preghiera ci mette di fronte a Dio e alla sua Parola, e ci conferma dunque che la mancanza di pace nasce dal peccato: le prime pagine della Bibbia pongono chiaramente come conseguenza del rifiuto a Dio sia il dominio dell’uomo sulla donna (Adamo su Eva), sia l’invidia e l’odio spinti fino all’omicidio (Caino e Abele), sia l’incomprensione e la divisione tra i popoli (torre di Babele).

«Padre nostro» dei costruttori della pace

A questo punto della riflessione quando ripeteremo il Padre Nostro – preghiera fondamentale del cristiano, preghiera del costruttore di pace – ci sarà più facile, chiedendo al Signore che «ci liberi dal male», pensare ai mali della società, che derivano appunto dai peccati «sociali». Sono sociali i peccati dei singoli verso gli altri e la società, come appunto non «farsi prossimo», quindi non fare il possibile perché gli altri abbiano da mangiare, abbiano il lavoro e la casa, siano curati e amati; ma lo è anche il partecipare fattivamente o anche solo senza protestare alle ingiustizie e alle oppressioni di collettività su altre, siano esse gruppi, categorie sociali, popoli.

E quando chiederemo che « venga il regno di Dio», ci renderemo conto di chiedere un mondo di coscienza e di libertà, di solidarietà e di pace, al quale dobbiamo attivamente contribuire perché questa è la «volontà di Dio».

E riaffermeremo la nostra convinzione nel significato profondo, individuale ma anche sociale, della riconciliazione, mentre ripeteremo a noi stessi che la riconciliazione con i fratelli è condizione per ottenere la riconciliazione con Dio («e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»).

La Madonna, maestra di pace

Quando poi ci rivolgeremo alla Madonna per invocarla «regina della pace» – della pace del cuore e di quella delle nostre famiglie, ma altresì della pace sociale e della pace nel mondo – non potremo dimenticare che proprio Maria, cantando il Magnificat, annunciò un mondo in cui Dio «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Luca 1,51 e seguenti).

Una illuminata e autentica devozione mariana ci impegna dunque a rinnovare la nostra mentalità, spesso così chiusa e inerte, per coinvolgerci in una partecipazione alla costruzione di un mondo più giusto e più fraterno, nella difesa e nella « promozione» dei più poveri, degli oppressi, dei diseredati. Perché questa è la condizione per un cammino autentico di pace, che è appunto «riconciliazione», cioè superamento delle discriminazioni e delle ingiustizie.

L’Eucaristia, comunione con Dio e i fratelli

La preghiera peraltro trova il suo centro e il suo modello nell’Eucaristia, che è, come dice il Concilio, « sorgente e culmine della vita cristiana», e quindi tanto più della preghiera cristiana (Sacrosanctum Concilium n. 10).

La Parola di Dio ci illustra chiaramente che se l’Eucaristia è il momento più alto della comunione con Dio, essa è anche la verifica più esigente della comunione con i fratelli. Ci basti ricordare l’apostolo san Giovanni: lui, il teologo, il mistico, fu talmente preoccupato di questa «verità» dell’Eucaristia, che, giunto nel suo Vangelo al momento di raccontarne l’istituzione, ha tralasciato di parlare del pane e del vino trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo, per descrivere invece la lavanda dei piedi fatta da Gesù come gesto di servizio, con il comando: «Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (13,14-15).

Ha voluto così richiamare ai cristiani suoi contemporanei – forse già tentati di ridurre l’Eucaristia a un culto esteriore o quanto meno a un culto distaccato dalla vita concreta, quasi un alibi di fronte alle difficoltà e al peso della vita sociale – che essa non è «vera» se non ci mette in atteggiamento di riconciliazione e di servizio.

Qui più che mai vanno riprese le parole così inequivocabili di Gesù (Matteo 5,23): «Se stai per fare l’offerta all’altare e ti viene in mente che tuo fratello ha qualcosa contro di te, va prima a riconciliarti, poi torna a fare la tua offerta…». Solo se porta a un atteggiamento di conversione e di servizio, solo allora l’Eucaristia è davvero «memoriale» (cioè ricordo attuale e attivo) di Gesù che muore e risorge per perdonare e salvare.

Essere fedeli al Vangelo nella vita

Occorre che i cristiani si rendano consapevoli di questi aspetti essenziali della religiosità, cominciando appunto col dare un atteggiamento concreto, «storico» alle loro preghiere e alle loro Eucaristie, aiutati in questo da un adeguato stile delle omelie e delle preghiere dei fedeli. E comprenderanno così che bisogna essere fedeli al Vangelo nella vita, e coraggiosi nella sfida alla mentalità corrente fatta di corsa al successo, alla ricchezza, al potere, vera radice delle tensioni e delle ostilità che – a livello di popoli alimentano le guerre.

Il cristiano scopre così che la sua vocazione cristiana è vocazione alla pace, a essere costruttore di pace. E che per seguire Gesù deve prendere ogni giorno su di sé questo impegno – che è croce, anche se croce esaltante – perché solo così può essere veramente suo discepolo.

Una preghiera individuale mai chiusa su se stessa e sugli interessi esclusivamente privati, una preghiera comunitaria sempre autenticamente illuminata dalla Parola di Dio e concretamente aperta alla solidarietà verso tutti i fratelli, soprattutto i più poveri, costituisce una sicura garanzia e il più efficace contributo del cristiano per la pace del mondo.

l’angelus della pace

il papa

Piazza San Pietro

Domenica, 1° settembre 2013

Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!

Quest’oggi, cari fratelli e sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! E’ il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato.

Vivo con particolare sofferenza e preoccupazione le tante situazioni di conflitto che ci sono in questa nostra terra, ma, in questi giorni, il mio cuore è profondamente ferito da quello che sta accadendo in Siria e angosciato per i drammatici sviluppi che si prospettano.

Rivolgo un forte Appello per la pace, un Appello che nasce dall’intimo di me stesso! Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi! C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!

Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione. Con altrettanta forza esorto anche la Comunità Internazionale a fare ogni sforzo per promuovere, senza ulteriore indugio, iniziative chiare per la pace in quella Nazione, basate sul dialogo e sul negoziato, per il bene dell’intera popolazione siriana.

Non sia risparmiato alcuno sforzo per garantire assistenza umanitaria a chi è colpito da questo terribile conflitto, in particolare agli sfollati nel Paese e ai numerosi profughi nei Paesi vicini. Agli operatori umanitari, impegnati ad alleviare le sofferenze della popolazione, sia assicurata la possibilità di prestare il necessario aiuto.

Che cosa possiamo fare noi per la pace nel mondo? Come diceva Papa Giovanni: a tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore (cfr Lett. enc.Pacem in terris [11 aprile 1963]: AAS 55 [1963], 301-302).

Una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà! E’ un forte e pressante invito che rivolgo all’intera Chiesa Cattolica, ma che estendo a tutti i cristiani di altre Confessioni, agli uomini e donne di ogni Religione e anche a quei fratelli e sorelle che non credono: la pace è un bene che supera ogni barriera, perché è un bene di tutta l’umanità.

Ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma questa: la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo; questa è l’unica strada per la pace.

Il grido della pace si levi alto perché giunga al cuore di tutti e tutti depongano le armi e si lascino guidare dall’anelito di pace.

Per questo, fratelli e sorelle, ho deciso di indire per tutta la Chiesa, il 7 settembre prossimo, vigilia della ricorrenza della Natività di Maria, Regina della Pace, una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero, e anche invito ad unirsi a questa iniziativa, nel modo che riterranno più opportuno, i fratelli cristiani non cattolici, gli appartenenti alle altre Religioni e gli uomini di buona volontà.

Il 7 settembre in Piazza San Pietro – qui – dalle ore 19.00 alle ore 24.00, ci riuniremo in preghiera e in spirito di penitenza per invocare da Dio questo grande dono per l’amata Nazione siriana e per tutte le situazioni di conflitto e di violenza nel mondo. L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace e di sentire parole di speranza e di pace! Chiedo a tutte le Chiese particolari che, oltre a vivere questo giorno di digiuno, organizzino qualche atto liturgico secondo questa intenzione.

A Maria chiediamo di aiutarci a rispondere alla violenza, al conflitto e alla guerra, con la forza del dialogo, della riconciliazione e dell’amore. Lei è madre: che Lei ci aiuti a trovare la pace; tutti noi siamo i suoi figli! Aiutaci, Maria, a superare questo difficile momento e ad impegnarci a costruire ogni giorno e in ogni ambiente un’autentica cultura dell’incontro e della pace.

a Rimini si parla di pace, si parla!

 

 

i tre

A Rimini: abile, arruolato!

21 agosto 2013 – Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi)

Tra poche ore, oggi 21 agosto, al Meeting di Rimini ci sarà una tavola rotonda con il ministro della Difesa Mario Mauro: “Sicurezza ed educazione nelle missioni di pace”. La mia è una lettera, come dire ‘preventiva’ (in quegli ambienti si usa dire così…). Non so come andrà, ma sicuramente le premesse ci sono tutte perché sia un successo. Insieme al ministro ci saranno generali e graduati vari, tutte persone ‘arruolate’, come la stessa Monica Maggioni, chiamata a introdurre il dibattito: una giornalista appunto arruolata (embededd) che ci ha raccontato la guerra in Iraq nel 2003 a bordo dei carri armati americani che entravano a Baghdad… mica storie, qui si fa sul serio. E anche l’informazione è una cosa seria!
Sarà certamente un dibattito ricco e interessante, non con le solite tiritere sulla guerra, sulla violenza, sulle spese militari, sull’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra, sulla follia della guerra.
No, qui si parla di pace, mica di guerra. Anzi di ‘missioni’ di pace. Mica le solite storie di chi dice che la presenza militare italiana in Afghanistan costa 2 milioni di euro al giorno! O di chi avanza sospetti che la Cooperazione Italiana sia un po’… funzionale alla presenza militare, come dire un po’…‘arruolata’.
No no, qui a Rimini si parla di pace e di educazione. Mica come quelli che addirittura hanno lanciato una campagna “Scuole smilitarizzate. La scuola ripudia la guerra”. Ma pensa…
No, qui si parla di pace, e sono certo che il Ministro non si farà distrarre da queste provocazioni che lo porterebbero fuori strada. Il ministro ribadirà il suo concetto che per ‘amare la pace bisogna armare la pace’, che gli F35 sono necessari per la pace e che bisogna mettere la persona al centro, ecc. ecc. Spero che non ci sia qualcuno che vada a tirar fuori le radici cristiane o faccia qualche citazione inopportuna, tipo ‘la guerra è il suicidio dell’umanità’, oppure ‘fede e violenza sono incompatibili’ o richiami una riflessione sull’attuale modello di Difesa, sui grandi interessi delle lobby delle armi o, peggio ancora, vada a tirar in ballo addirittura il Vangelo e Gesù Cristo. No, a Rimini si parla di pace e di educazione. E sarà sicuramente un dibattito serio: abile, arruolato!

vangelo e pace

 

buonaPasqua-1

Che fare di fronte alla cronica mancanza di pace nel mondo, di fronte alla permanente idolatria della tecnica militare e della corsa agli armamenti, di fronte al sovvertimento dei valori che spaccia per dovere eroico e patriottico quella che è soltanto mera barbarie? l’inaudito pensiero di Gesù nelle beatitudini del discorso della montagna consiste proprio nel cominciare dall’altro capo del filo. Non una preparazione militare sempre maggiore, ma il suo contrario, la totale inermità, dovrebbe rappresentare il fondamento del pensiero e dell’azione; invece di incutere per paura un’altra paura ancora maggiore, Gesù dichiarò beate le persone che cercano di sfuggire al circolo vizioso della violenza accettando la propria inermità, e rinunciano così ad ogni tipo di arma e che, invece di armarsi, intraprendono l’audace tentativo di vincere la loro paura e la loro angoscia partendo da Dio. Soltanto con una totale rinuncia alle armi e alla violenza, questa almeno era la speranza di Gesù, si arriverebbe finalmente a combattere ciò che rappresenta la radice di ogni male, cioè l’angoscia umana, invece di continuare, come è stato fatto finora, a peggiorare la nostra malattia lottando contro i sintomi dell’angoscia. L’umanità può armarsi fin che vuole, ma non si avvicinerà alla pace, anzi se ne allontanerà sempre più. Guardando in prospettiva allo sviluppo degli ultimi duemila anni questa visione delle cose non può che trovare conferma. Ma chi sarebbe già pronto a seguire questo criterio?

E.Drewermann

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