un muro contro i palestinrsi anche in un paese arabo

un altro muro per escludere chi già è escluso

l’esercito ha cominciato la costruzione, per presunte ragioni di sicurezza, di una barriera intorno al più grande dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri


palestinesilibano

circondati da muri, nella loro terra e ora anche in un Paese arabo

è il destino dei palestinesi, in particolare dei profugh

L’esercito libanese ha iniziato a costruire un muro di cemento alto diversi metri e torri di guardia intorno ad Ain al Hilweh (Sidone) il più grande, con circa 80mila abitanti, dei campi profughi palestinesi nel Paese dei Cedri. Un muro che ufficialmente dovrà impedire che i ricercati, specialmente i jihadisti in fuga, trovino rifugio nel campo ma che ben rappresenta la condizione degli oltre 400mila rifugiati palestinesi in Libano, di fatto segregati nei loro campi, esclusi da decine di lavori, costretti a sopravvivere grazie agli aiuti umanitari internazionali e locali

L’avvio dei lavori della barriera intorno a Ain al Hilwe, progettata nei mesi scorsi e che sarà completata in 15 mesi, coincide con l’ascesa alla presidenza del Libano dell’ex generale Michel Aoun, che non ha mai nascosto la sua storica avversione per la presenza dei palestinesi. E non è insignificante che tutte le formazioni politiche libanesi, incluse quelle che si proclamano dalla parte dei diritti dei palestinesi, siano rimaste in silenzio rispetto a una costruzione che trasformerà in una enorme prigione Ain al Hilwe.

Sono deboli e isolati i palestinesi in Libano, non in grado di impedire la realizzazione di questo “muro della vergogna”. Anzi hanno dovuto fingere di aver coordinato il progetto con le autorità libanesi. «Il muro è stato costruito al di fuori del campo e lontano dalle aree abitate, queste costruzioni servono a risolvere problemi di sicurezza», si è affannato a spiegare il generale Mounir  al Maqdah, capo della sicurezza palestinese ad Ain al Hilwe. Anche al Maqdah però ha dovuto riconoscere che il muro avrà un effetto negativo sugli abitanti del campo. «Le implicazioni psicologiche di questo muro saranno negative e difficili da superare» ha ammesso, aggiungendo che l’esercito ha accettato alcune  modifiche al percorso della barriera e alle posizioni delle torri di guardia. In rete però le proteste sono aumentate con il passare delle ore. Sui social non pochi hanno paragonato il muro di Ain al Hilwe a quelli costruiti da Israele in Cisgiordania, al confine con l’Egitto e a quello che correrà lungo il confine orientale della Striscia di Gaza.

A distanza di nove anni dalla distruzione del campo profughi palestinese di Nahr al Bared (Tripoli), rimasto per mesi sotto il fuoco dell’artiglieria dell’esercito libanese intenzionato a stanare i jihadisti di Fatah al Islam che vi si erano rifugiati, anche Ain al Hilwe paga il conto della penetrazione di gruppi di islamisti radicali che approfittano del vuoto di sicurezza che regna nel campo profughi. Le formazioni palestinesi, a cominciare da Fatah, hanno provato senza successo ad impedire che i jihadisti creassero delle basi nel campo. E in questi ultimi tempi non sono mancati gli scontri a fuoco con morti e feriti. Nel giugno 2015 uno dei leader di Fatah, Talal Balawna, fu assassinato da “sconosciuti”, un’uccisione che ha anticipato gli scontri armati di due mesi tra Fatah e Jund al Sham, andati avanti per più di una settimana. Jund al Islam da allora ha fatto il bello e il cattivo tempo ad Ain al Hilwe, fino all’arresto due mesi fa da parte dell’intelligence libanese del suo fondatore, Imad Yasmin, che è anche un leader dello Stato islamico. Un clima di cui i profughi sono le vittime e che invece ha contribuito ad alimentare la propaganda dei tanti che in Libano considerano i campi palestinesi un “problema” da risolvere anche con le maniere forti.

Ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Ain al Hilwe, nel Neghev,  gli abitanti del villaggio beduino palestinese di Um al-Hiran lottano contro la demolizione delle loro case, ordinata nel 2015 dalla Corte Suprema di Israele. Le ruspe ieri hanno preso posizione ai bordi del villaggio protette da ingenti forze di polizia mentre gli abitanti, sostenuti da volontari stranieri e attivisti della sinistra israeliana, si sono distesi sul terreno nell’estremo tentativo di salvare le loro case. Nel frattempo i loro avvocati hanno presentato un nuovo ricorso. Per le autorità israeliane Um al-Hiran sarebbe un villaggio illegale e al suo posto è prevista la costruzione di un centro abitato ebraico, Hiran. È una beffa amara per gli abitanti beduini che furono spostati di autorità in quella zona nel 1956, dopo essere stati sgomberati dalle loro terre di origine. I progetti nel Neghev (Piano Prawer) prevedono l’evacuazione di decine di migliaia di beduini che vivono in centri non riconosciuti dallo Stato.

In Cisgiordania INTANTO  si attende l’avvio di nuovi progetti per l’espansione delle colonie israeliane con la benedizione di fatto di Donald Trump. Il presidente eletto ha fatto sapere di non considerare gli insediamenti coloniali un ostacolo alla pace.

Fonte: il Manifesto

24 novembre 2016

l’immagine negativa dei palestinesi che emerge dai testi scolastici israeliani

la Palestina nei testi scolastici israeliani

 

edito dal Gruppo Abele il libro, in traduzione italiana, della professoressa Nurit Peled, la cui figlia è stata uccisa in un attentato kamikaze

 

foto1Nurit Peled-Elhanan è professoressa di lingua e pedagogia all’università ebraica di Gerusalemme,  è stata tra le fondatrici del Parent’s Circle, associazione di parenti palestinesi e israeliani che hanno avuto vittime; in un attentato kamikaze compiuto a Gerusalemme in Ben Yehuda sua figlia di 13 anni è stata uccisa. È stata insignita del premio Sakharov del Parlamento Europeo per i Diritti Umani

Il 7 ottobre 2015 è uscita, per le Edizioni Gruppo Abele, la traduzione italiana del libro di Nurit Peled-Elhanan “La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione”, uscito nel Regno Unito nel 2012, mai tradotto in ebraico e boicottato in Israele.

“Nonostante tutte le altre fonti di informazione, i testi scolastici costituiscono potenti mezzi mediante cui lo Stato può configurare le forme di percezione, classificazione, interpretazione e memoria necessarie a determinare identità individuali e nazionali. Ciò vale in particolar modo per Paesi come Israele, dove storia, memoria, identità personale e nazione sono intimamente legati”.

lo studio, condotto su un campione di testi scolastici pubblicati tra il 1996 e il 2009, scelti in base alla popolarità dei libri fra gli insegnanti, analizza i discorsi e i mezzi semiotici mediante i quali vengono rappresentati la Palestina e i palestinesi. Vengono ben esemplificati alcuni dei principali sistemi di creazione di propaganda, quali l’utilizzo della dicotomia ebreo-non ebreo e la conseguente spersonalizzazione dei palestinesi, il culto della continuità e la legittimazione storica dello Stato di Israele e la cancellazione di 1.300 anni di presenza palestinese sulla terra di Palestina

L’autrice spiega che una delle aree su cui il Ministero dell’istruzione è particolarmente attento, è la comunicazione riguardante l’esercito (IDF). Scrive Nurit, “Fin da piccoli i bambini israeliani imparano che devono diventare dei buoni soldati. Sono sottoposti a questo brainwashing da quando hanno tre anni, quando ricevono le visite dei soldati nelle scuole e ogni vacanza è caratterizzata dalla presenza o rappresentazione di qualche eroe.”

La seconda area riguarda i Palestinesi, la cui stessa esistenza è negata nei libri.

“Nelle scuole in pratica non imparano niente sul Medio Oriente, perché lo stato di Israele è loro proposto come parte dell’Europa, néfoto2 imparano nulla dei loro vicini o delle nazioni confinanti. Neppure della storia degli ebrei negli altri paesi. L’unica cosa che imparano sono i pogrom, l’olocausto e il fatto che il sionismo ha salvato gli ebrei dai cristiani. Rappresentazione quest’ultima che potrebbe funzionare per l’Europa dell’Est ma non per i paesi arabi”.

Dalla lettura dei libri di testo israeliani si capisce che “i palestinesi costruiscono i loro edifici illegalmente perché non vogliono pagare le tasse e che vivono in modo primitivo perché non amano la modernità”.

i palestinesi non sono mai chiamati palestinesi se non quando l’argomento è il terrorismo. Vengono chiamati arabi. “Arabi su cammelli, vestiti come Ali Baba. Li descrivono come spregevoli, devianti e criminali, gente che non paga le tasse, che vive a spese dello stato, che non vuole progredire” racconta. “Vengono rappresentati solo come rifugiati, agricoltori arretrati e terroristi. Non si vede mai un bambino palestinese, un dottore, un insegnante, un ingegnere o un agricoltore moderno.”

L’aspetto più importante, in tutti i testi analizzati, riguarda la ricostruzione storica degli eventi del 1948, l’anno in cui Israele iniziò ad attaccare i palestinesi per affermare la propria identità di stato indipendente e centinaia di migliaia di persone furono. L’uccisione dei palestinesi è raccontata come qualcosa che fu necessario per la sopravvivenza del nascente stato ebraico, afferma l’autrice: “Non è che i massacri vengano negati, ma nei testi scolastici israeliani vengono presentati come eventi che nel corso del tempo si sono rivelati positivi per lo stato ebraico.”

“I bambini crescono per servire nell’esercito e interiorizzare l’idea che i palestinesi siano gente la cui vita può essere sacrificata impunemente. E non solo questo, ma gente il cui numero deve essere ridotto. “

Nel libro sono descritte le forme di razzismo presenti in Israele.

“Una domanda che tormenta tanta gente è come ci si può spiegare il comportamento brutale dei soldati israeliani verso i palestinesi, l’indifferenza alla sofferenza umana, le sofferenze che vengono inflitte. Ci si chiede come possano questi graziosi bambini e bambine ebrei diventare mostri una volta indossata l’uniforme. Io credo che la causa principale sia nell’educazione. Così ho voluto vedere come i testi scolastici rappresentano i palestinesi.” Peled afferma di non aver trovato, in “centinaia e centinaia” di libri, una sola fotografia che mostrasse un arabo come una “persona normale”. All’interno di Israele, dice, Nurit “vedo solo un avanzamento verso il fascismo. Ci sono 5,5 milioni di palestinesi controllati da Israele che vivono in un’orribile condizione di apartheid, senza diritti civili né umani. L’altra metà sono ebrei e stanno anch’essi perdendo i loro diritti, giorno dopo giorno”. Peled è convinta che il sistema educativo aiuti a perpetuare uno stato ingiusto, non democratico e insostenibile. “In ogni cosa che fanno, dalla scuola materna fino alle superiori, vengono imbottiti in tutti i modi possibili, attraverso le letture, le canzoni, le vacanze e i passatempi, di nozioni patriottiche scioviniste.”

Barbara Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus

a Lucca la giornata onu di solidarietà al popolo palestinese

SEMPLICEMENTE APARTHEID
Quel giorno non potremo dire ‘non sapevamo’

 

la ricostruzione di Nandino Capovilla:

 

 palestinesi

 

 

 

 

 

 

“Una cosa va detta subito e senza esitazione: quello che Israele, il mio Paese, vuole fare è accaparrarsi più terra possibile. E questa non è una questione complessa, come spesso si dice. E’ molto semplice: dal ’48 gli ebrei colonizzano la terra palestinese e le loro politiche non sono cambiate. E questo ha un nome: colonialismo. Oggi, poi, dobbiamo parlare chiaramente di un vero regime di apartheid”.

Già dalle prime parole che il grande giornalista israeliano GIDEON LEVY ha pronunciato di fronte ad una sala gremita, sabato 29 novembre a Lucca, si comprende la portata politica di ciò che ha rappresentato il suo contributo alla GIORNATA ONU 2014.

 

“Con il mio lavoro voglio documentare tutto perchè un giorno, quando tutto sarà finito, gli israeliani non possano dire ‘non sapevamo’. Sono nato e vissuto a Tel Aviv sentendomi una vittima e non certo un occupante e ho pensato questo fino agli anni ’80, quando ho cominciato a lavorare per Haarez, che mi ha inviato nei Territori Occupati. Solo lì ho cominciato a vedere e a capire. Come chiamereste un regime in cui uno dei due popoli gode di tutti i diritti mentre l’altro non ha nulla? Io lo chiamo apartheid”.

La voce di questo coraggioso testimone ha fatto diventare, in questo Anno Internazionale per la Palestina, internazionalmente rilevante l’annuale Convegno con cui Pax Christi celebra nella Giornata Onu per i diritti del popolo palestinese.
Ma già incontrando gli studenti delle scuole, al mattino, aveva scosso l’uditorio:

“Da israeliano devo tragicamente ammettere che per gli israeliani un palestinese non sarà mai un essere umano uguale a loro. Sembra eccessivo ma è esattamente questo il primo grande confine tra i due popoli: un confine culturale, sociale, psicologico. Anche gli israeliani più aperti sotto sotto pensano ai palestinesi come ad esseri inferiori. L’israeliano vive in pace con se stesso perchè semplicemente non ritiene che i palestinesi abbiano i suoi stessi diritti”.

La Giornata ONU di Lucca ha registrato una grande partecipazione di persone da ogni parte d’Italia e dal Convegno si leverà nelle prossime settimane la precisa richiesta al Parlamento italiano di seguire i sempre più numerosi Paesi europei che stanno riconoscendo lo Stato di Palestina. D’altra parte Gideon Levy ha rilevato che “la comunità internazionale sa benissimo cosa dovrebbe fare. Con il Sudafrica dell’apartheid l’ha fatto. Ed ora le differenze in Palestina sono minime.

Il problema -ha incalzato Levy- è che, pur non essendoci una censura vera e propria in Israele, sono i media stessi che si autocensurano. Il che è anche peggio, a pensarci. Fanno un lavaggio del cervello incredibile agli israeliani, demonizzando e disumanizzando i palestinesi. Cercano di nascondere sempre le atrocità commesse dall’esercito. Israele nega tutto, vivendo in una continua menzogna. Il linguaggio che usiamo stravolge la realtà. Così, per esempio, in Israele si parla distinguendo coloni moderati o estremisti, gli avamposti illegali e le colonie legali, ma secondo il diritto internazionali non esistono colonie legali. Tutte sono illegali.

palest e isreal

Negli anni immediatamente successivi all’occupazione, gli stessi Territori Occupati non venivano definiti così e chi usava questa espressione era definito traditore. Li chiamavano piuttosto ‘liberati’. Insomma, dipende da come Israele interpreta ciò che accade: quando un blindato entra in un campo profughi spargendo terrore, per noi è solo il bambino che tira la pietra a violare la legge. Quando Abbas chiede aiuto all’Onu, è lui ad essere considerato violatore dello status quo. Israele invece può fare e fa sempre ciò che vuole. Quando dei palestinesi uccidono un colono con un coltello sono terroristi ma quando un aereo militare bombarda Gaza, è autodifesa. Chiunque è a favore dell’occupazione militare vuole il bene di Israele e chiunque si appella al diritto internazionale è antisemita. Quando un palestinese di 6 anni viene ucciso dai soldati israeliani è definito ‘un giovane’, ‘un adolescente’, o semplicemente ‘un palestinese’; quando viene ucciso un 18enne israeliano è ‘nostro figlio’”.

La Newsletter BoccheScucite e l’omonimo sito www.bocchescucite.org , pubblicheranno presto tutti gli interventi della Giornata di Lucca, proprio a partire dalla fortissima denuncia di questa “bocca scucita” israeliana che ha ammesso quanto il suo lavoro sia sempre più a rischio in Israele:

Durante l’operazione dell’esercito a Gaza, quest’estate -ha confidato Levy- 3000 lettori hanno disdetto l’abbonamento al quotidiano Haarez a causa di un mio articolo. Per fortuna il mio giornale non scende a compromessi, e va avanti. D’altra parte, se a Gaza quest’estate sono state uccise oltre 2000 persone palestinesi in nome della sicurezza israeliana io mi chiedo semplicemente: ma chi pensa alla sicurezza dei palestinesi, che si trovano molto più a rischio degli israeliani?

Nandino Capovilla, Campagna Ponti e non muri, nandino.capovilla@gmail.com

image_pdfimage_print