la battaglia di Panikkar
LE RELIGIONI DEVONO ATTUARE UN AMPIO PROCESSO DI RINNOVAMENTO
1. Le religioni sono chiamate a convertirsi e non a essere propagatrici di inviti alla conversione. Il compito che ci proponiamo è nientemeno che la conversione delle religioni. Le religioni sono considerate il veicolo e lo strumento della conversione dell’uomo, ma esse stesse hanno periodicamente bisogno di convertirsi al proprio carattere e fine religioso. La conversione delle religioni è necessaria soprattutto quando esse progressivamente mostrano di scordare la propria origine (che è anche la meta cui tendono) votandosi all’imposizione di affermazioni dogmatiche, al rafforzamento identitario di appartenenza, al consolidamento di strutture istituzionali: il momento storico che stiamo vivendo evidenzia che ci troviamo in questi frangenti e che le religioni meritano in larga misura la cattiva fama di cui godono.
2. Le religioni non hanno il monopolio della religione, del senso religioso della vita. La conversione delle religioni è possibile perché le religioni non hanno il monopolio della religione: ciò che chiamiamo atteggiamento religioso è un’istanza dell’uomo, dello spirito umano di cui le religioni sono uno dei possibili sostegni e veicoli. E bene dunque cominciare chiarendo che cosa intendiamo per religione nel nostro contesto. Le possibili ricostruzioni etimologiche della parola religione indicano il significato di raccogliere, «rilegare». Questa funzione si manifesta e prende forma a vari livelli: ricostituire l’unità dinamica di corpo, mente, spirito, ricollegare gli uni con gli altri, io e tu, riconnettere l’Uomo con la Natura, ripristinare il contatto con il Mistero, ricondurre l’umano sulla soglia dell’oltre. La religione è una funzione della libertà, in quanto lega, riconnettendo, e slega, sciogliendo i vincoli che bloccano.
3. L’identità non è ideologica, ma simbolica. Distinguo identità da identificazione, intendendo con identità la scoperta di quello che ciascuno di noi è in maniera unica e non ripetibile né duplicabile, il volto di ciascuno che si svela nell’incontro senza pregiudizi con l’altro, e per identificazione il riferimento di appartenenza che può dare sostegno e sicurezza ma anche sostituire il proprio volto autentico con una maschera predeterminata. Il dialogo religioso non è un confronto di dottrine, ma usa piuttosto il linguaggio del simbolo. Mentre la dottrina si basa sul riferimento «oggettivo» dell’ideologia che la sostiene, il simbolo non è oggettivo, ma relazionale: è la relazione fra il simbolo stesso e ciò che è simbolizzato a costituirne la forza espressiva, il simbolo, per essere efficace, necessita del credo nel simbolo stesso: un simbolo in cui non si crede non rappresenta più ciò che simbolizza, ma è un semplice segno convenzionale. Il simbolo non si può dunque assolutizzare, ma è il principio del pluralismo e il linguaggio della mistica. Pluralismo significa che c’è una pluralità di significati, ognuno dei quali permette di accedere al riferimento simbolizzato (per esempio molte tradizioni religiose utilizzano la stella del mattino come simbolo della luce chiara che appare, stabilendo nel contempo con quel simbolo diverse modalità interpretative). Quando la religione perde il proprio lato mistico, tende a diventare ideologia e il linguaggio con cui si esprime da simbolico diventa logico. Mentre il linguaggio simbolico è plurale e relazionale, il linguaggio logico è univoco e autoreferenziale.
4. Si deve ricercare non l’unità delle religioni, ma una armonia tra di loro. Il fine cui tendiamo non è l’unità delle religioni, ma la loro armonia. Non si tratta di elaborare una religione onnicomprensiva, ma di creare relazioni armoniche basate sul reciproco riconoscimento. Ma non solo. Il cammino religioso, se è autentico e sincero, dimostra a chi lo percorre, quale che sia il suo riferimento, che la fede è un rischio: il rischio di affidarsi completamente a qualcosa la cui certezza non si basa su alcuna garanzia. Se la fede fosse certificabile da una qualsiasi garanzia, negherebbe se stessa in quanto fede, cioè abbandono fiducioso e totale, un salto senza paracadute in cui tutto è in gioco. Implica dunque un rapporto con l’insicurezza, in termini di valutazione del rischio. La fede è certa, non è una probabilità, e nello stesso tempo non è dell’ordine della certezza garantita. L’ossessione per la certezza, che le nostre società moderne alimentano, ci conduce alla paranoia della sicurezza. La fede non può essere usata come uno scudo o come un’arma, ma implica apertura e disponibilità.
LE RELIGIONI DEVONO FARE REVISIONE CRITICA INDIVIDUANDO GLI ELEMENTI CHE HANNO BISOGNO DI CAMBIAMENTO
Desidero inoltre sottolineare la necessità di un passo ulteriore, difficile ma inderogabile: si tratta di porre, prima a se stessi e poi agli altri, le domande sgradevoli. Far emergere l’ombra che è all’interno della propria tradizione religiosa, perché senza questa operazione critica è troppo alto il rischio dell’autoreferenzialità e dell’autosoddisfazione. Le religioni, come si è detto all’inizio, hanno bisogno di conversione, di trasformazione. Non ci può essere autentica trasformazione senza una profonda revisione critica: le religioni, anche quelle «rivelate» sono elaborazioni che non sfuggono alla legge del mutamento: bisogna dunque identificare quali sono gli elementi che oggi necessitano di un’opera di trasformazione, perché non sono più in sintonia con la trasformazione della sensibilità umana. E, questa, l’opera più difficile perché si tende a prendere rifugio nella visione e dottrina religiosa, la quale ha invece anche la funzione di stanarci dalle nostre sicurezze e dalle nostre egocentriche convinzioni: a nostra volta dobbiamo «stanare» la nostra religione perché ritrovi la propria funzione liberatrice.
La religione è un processo e non un patrimonio di dottrine e insegnamenti immodificabili: in quanto processo deve essere adatto ai tempi in cui si manifesta. Lo spirito della religione è proprio quello di cogliere il rapporto fra l’ideale e la realtà, fra il qui e l’oltre: essere adatto ai tempi non vuol dire adattarsi alle circostanze in modo pragmatico e opportunista, ma sapere rinnovare il proprio linguaggio, la propria sensibilità, la propria pratica di vita. Il rapporto fra tradizione e realtà è quanto mai importante in tempi come quelli in cui stiamo vivendo, nei quali si fa sempre più evidente che gli schemi di riferimento validi fino a ieri oggi non sono più attuali e il rischio di irrigidimento per paura della novità è sempre più forte in tutte le tradizioni religiose e nelle gerarchie che esse esprimono.
Il tema della trasformazione è dunque ineludibile e complesso.
Temi di riflessione:
1. Non dobbiamo assolutizzare la nostra stessa religione
Il processo religioso non consiste nel ridurre tutto al proprio riferimento religioso, come fosse uno schema in cui far entrare la realtà per poterla interpretare. Se da un lato è importante, nel fornire la propria testimonianza, riferire ciò che si dice alla propria religione, passando la propria esperienza al vaglio della tradizione cui ciascuno fa riferimento, d’altro lato è altrettanto importante un atteggiamento mistico, che consiste nel non usare le proprie categorie religiose come filtro per comprendere l’altro: capire l’altro senza usare la propria religione come paradigma interpretativo. Ancora una volta qui sta la differenza fra relatività e relativismo: non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano in maniera neutra, ma di vedere la relatività di tutte le posizioni senza assolutizzarne una in particolare, a cominciare dalla propria.
2. Il dialogo non significa abbandonare la propria religione, ma non nascondersi dietro di essa. La distinzione fra identità e identificazione è di vitale importanza. Spesso è proprio grazie all’incontro con l’altro che atteggiamenti inautentici vengono smascherati dallo specchio in cui siamo obbligati a osservarci con gli occhi dell’altro, con cui l’altro ci vede.
3. Il dialogo è un processo, non un esercizio di giustapposizione
Questo è facile a dirsi, quasi ovvio, ma assai difficile da mettere in pratica. La deriva di un sincretismo di comodo è sempre in agguato. Il dialogo è un processo dagli esiti imprevedibili, ma non è mai una mistura confusa di elementi.
4. Per un dialogo autentico non c’è bisogno di alcun minimo comun denominatore. Anzi, la diversità è radicale e tale deve essere: è proprio la radicalità della diversità a rendere significativo il dialogo e l’incontro. Lo scopo non è quello di riassorbire le differenze in un’idea singola in cui i dialoganti si riconoscano più o meno esattamente. Non si tratta di elaborare universali culturali cui tutti debbano prima o poi far riferimento, ma semmai di rifarsi a un’invariante umana che ciascuno elabora in maniera differente. Non esiste una religione universale, né è auspicabile ricercarla; non possiamo non ravvisare, invece, una religiosità umana, una religiosità propria dell’Uomo, che si nutre di differenze che necessitano di dialogare fra loro sulla base di quell’istanza comune. Il dialogo è ontico, perché si riferisce e si indirizza alla nuda realtà, che però si può indicare e trovare solo per mezzo di un’ermeneutica ontologica.
5. Tre corollari si rivelano indispensabili
a) Un’autentica conoscenza della religione altrui è desiderabile; se lo sforzo di conoscenza è autentico, l’altro, magari sorpreso, deve potersi riconoscere nella descrizione che io faccio di lui, e a sua volta correggerla: il dialogo avanza;
b) il dialogo è un processo di conversione continua: si tratta di un processo religioso e non di una tecnica volta a ottenere un qualche risultato;
c) l’atmosfera del dialogo è quella dell’amore, della conoscenza basata sull’amore.
(R. Panikkar, La religione, il mondo e il corpo)