Francesco e le donne: parole infelici
Poiché ormai da molto tempo si è aperto uno spazio di discussione sul ruolo della donna nella Chiesa, di recente soprattutto a partire dalla decisione di papa Francesco di istituire una prima commissione di studio sulla storia del diaconato femminile, nel discorso agli studenti tenuto sabato 28 settembre a Lovanio sono emersi in modo chiaro alcuni limiti profondi della visione cattolica di Francesco sulla donna, lettura che si pensa di poter proporre come “dottrina”, quando è costituita solo da pregiudizi culturali verniciati da una patina di Vangelo.
Un esame più accurato di alcuni passi del discorso di ieri permette di identificare bene la radice teorica, diremmo dottrinale, di queste parole infelici. Prima cito il testo pronunciato e poi faccio seguire alcuni miei chiarimenti.
Ecologia umana ed essenzialismo
Pensare all’ecologia umana ci porta a toccare una tematica che sta a cuore a voi e prima ancora a me e ai miei Predecessori: il ruolo della donna nella Chiesa. Mi piace quello che tu hai detto. Pesano qui violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici. Perciò bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa. La Chiesa è donna, non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa, è la sposa. La Chiesa è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale. La donna, nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre. Queste sono le relazioni, che esprimono il nostro essere a immagine di Dio, uomo e donna, insieme, non separatamente! Infatti le donne e gli uomini sono persone, non individui; sono chiamati fin dal “principio” ad amare ed essere amati. Una vocazione che è missione. E da qui viene il loro ruolo nella società e nella Chiesa (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem, 1).
Una “ecologia umana” non si lascia definire soltanto sul piano di “funzioni naturali”. Qui vi è una sorta di cattura del femminile nel naturale. La donna appare, inevitabilmente, come corrispondenza: figlia, sorella, madre, sposa. Si deve notare, come da almeno 200 anni si contesta con autorevolezza, che la definizione della donna accade in un rimando all’uomo. Ha senso solo se ha accanto un uomo.
Da figlia, a sposa, a madre. Proprio questo modo di pensare la cultura tardo-moderna ha saputo rielaborare con finezza, senza negare la differenza, ma non proiettandola anzitutto sul piano della autorità. La donna, come l’uomo, è definita da queste relazioni, ma anche da mille altre dimensioni, che fanno parte anch’esse della sua essenza: la donna, come l’uomo, ha una essenza aperta, storica, libera, non predefinita.
Qui sta la fragilità di questa prima proposizione. D’altra parte, il “genere femminile” della parola Chiesa, su cui insiste Francesco, non serve molto a capire la identità femminile. Ignazio di Loyola diceva che la Chiesa gerarchica, se avesse affermato che una cosa era nera, lui l’avrebbe creduto nera anche se la vedeva bianca.
Questa famosa affermazione era comprovata da un ragionamento che dovrebbe sorprendere un “figlio di Ignazio” come il papa. Egli diceva che la Chiesa gerarchica era “sposa di Cristo” e come tale non poteva sbagliare. Essendo la Chiesa gerarchica composta solo da uomini (tanto più ai tempi di Ignazio), era evidente che il genere femminile della Chiesa poteva bene adattarsi al genere maschile dei vescovi. Non si vede perché non dovrebbe adattarsi, anche meglio, al genere femminile di futuri ministri ecclesiali.
L’oblio dei “segno dei tempi”
Ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie. E la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne. La dignità è un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere. A partire da questa dignità, comune e condivisa, la cultura cristiana elabora sempre nuovamente, nei diversi contesti, la missione e la vita dell’uomo e della donna e il loro reciproco essere per l’altro, nella comunione. Non l’uno contro l’altro, questo sarebbe femminismo o maschilismo, e non in opposte rivendicazioni, ma l’uomo per la donna e la donna per l’uomo, insieme.
Questo secondo passaggio costituisce un rafforzamento teorico del precedente e mostra alcuni problemi piuttosto macroscopici. Da un lato esordisce affidando al “femminile” una essenza indipendente dal consenso e dalle ideologie. Una legge originaria assicura la dignità anche della donna, al di qua e al di là di ogni legge umana.
Ma dove sta qui la ideologia? Non è forse proprio questo modo astorico di pensare il femminile ad aver nutrito, lungo i secoli, una sostanziale discriminazione ed esclusione della donna da ogni sfera di esercizio pubblico della autorità? Perché mai sarebbe ideologico scoprire che la donna può fare sport, può esercitare il diritto di voto, può concorrere a concorsi pubblici, può accedere come violinista, o oboista, alle più grandi orchestre del mondo e anche alla autorità ecclesiale?
Il riconoscimento della autonomia della donna, della sua emancipazione, non è contro la legge naturale, ma è il risultato di una nuova lettura del soggetto, del mondo e dell’ambiente. Siamo esseri storici, sia come uomini, sia come donne: il vangelo non elabora la propria cultura a partire dal pregiudizio essenzialista che blocca la donna in privato, ma contribuisce, con tutte le altre culture, alla scoperta di una dignità in cui comunità e individuo stanno in relazione.
La pretesa del maschile di essere il “punto comune” per giudicare su maschi e femmine, distorce la storia: una legittima autonomia del femminile (come del maschile) è il principio di definizione dell’umano. Perciò “la donna in generale” è un concetto vuoto, utile solo per bloccarne la identità. Come ha detto bene Rahner, che era gesuita, “la donna in generale non esiste”.
Riduzione privata del femminile
Ricordiamo che la donna si trova al cuore dell’evento salvifico. È dal “sì” di Maria che Dio in persona viene nel mondo. Donna è accoglienza feconda, cura, dedizione vitale. Per questo è più importante la donna dell’uomo, ma è brutto quando la donna vuol fare l’uomo: no, è donna, e questo è “pesante”, è importante. Apriamo gli occhi sui tanti esempi quotidiani di amore, dall’amicizia al lavoro, dallo studio alla responsabilità sociale ed ecclesiale, dalla sponsalità alla maternità, alla verginità per il Regno di Dio e per il servizio. Non dimentichiamo, lo ripeto: la Chiesa è donna, non è maschio, è donna.
Anche la terza parte del discorso che consideriamo appare segnata pesantemente da pregiudizi culturali, che la tradizione teologica ha assunto acriticamente e che vengono ripetuti come se fossero parte del “depositum fidei”.
Maria non è “principio mariano”. Maria non è “una donna per tutte”. Maria è esclusa dalla pubblica autorità, esattamente come tutte le altre donne, prima e dopo di lei. La sua esemplarità e santità non parla del sesso, ma della fede. Una parte di quello che proiettiamo su Maria, come se fosse santo, è solo il pregiudizio di un mondo maschile, che vuole tenere la donna chiusa nella sfera privata. Così abbiamo riflettuto per secoli.
Abbiamo anche riconosciuto una autorità alle donne in materia sacramentale, purché fosse delimitata dalla camera da letto, dalla sala da parto, dalla casa. Fuori le donne non potevano né agire sacramentalmente, né fare catechesi. L’essenzialismo che domina molti discorsi ecclesiali proietta sulle donne questo modello limitato a tal punto, da arrivare, come fa Francesco, a pensare che la donna che si sente chiamata all’esercizio di autorità in pubblico “vuole fare l’uomo”.
Questa è forse la frase più infelice di tutte. Perché confonde un modello culturale tradizionale e borghese con la verità del vangelo. La donna non è solo “accoglienza feconda, cura, dedizione vitale”: se non usciamo da questo modello naturalistico ed essenzialistico, e lo confondiamo con la rivelazione, non parliamo più del vangelo, ma solo dei nostri pregiudizi. Soprattutto agli studenti questo dovrebbe essere risparmiato, da parte di tutti i cristiani, e a maggior ragione dai papi.