papa Francesco vuole una chiesa italiana più ‘libera’

“ciò che ci fa più liberi”

il cammino della Chiesa italiana


Umberto Folena 

Viva la libertà. La libertà di chi non accumula freneticamente denaro e potere, fino a far soffocare la propria anima. La libertà del Vangelo. E la libertà di Pietro, il primo, il prescelto, che incontrando lo storpio allarga le braccia e gli dice: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (Atti 3, 6).

È la maggior libertà a cui ieri Francesco ha invitato, con dolcezza e con nettezza la Chiesa italiana. Siate più liberi per «fare presto e bene». Le vocazioni sacerdotali calano? Ci sono cause esterne, come la «cultura del provvisorio» e l’«idolatria del denaro»; ma anche cause interne, come una «testimonianza a volte tiepida» e gli «scandali»: fosse anche uno solo, sarebbe uno di troppo la cui ricaduta negativa non è misurabile. Veleni che penetrano dall’esterno, veleni generati dall’interno. Risultato: un tempo sterile, almeno all’apparenza. Come reagire? Innanzitutto con la generosità: chi ha più preti, ne doni a chi ne ha di meno, perché nella Chiesa non possono esserci “ricchi” e “poveri” di alcun genere.

Reagire anche, e soprattutto, tornando a innamorarsi della «povertà evangelica». Facile proclamarla, assai più difficile viverla perché tutti abbiamo, almeno un poco, paura. Tutti avvertiamo il bisogno di qualche garanzia. La precarietà spaventa. Eppure un prete dovrebbe saperlo, quando decide di diventare prete. Tanto tempo fa gliel’ha ricordato il Concilio: i preti «non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di guadagno», avverte Presbiterorum ordinis (17), che invita ad «abbracciare la povertà volontaria». Volontaria, non subita di malagrazia.

Un invito al pauperismo? Alla rinuncia alle risorse? No. L’invito è a considerare le risorse per ciò che sono: semplici strumenti, non fini. La Chiesa sceglie la povertà evangelica «non perché rinuncia alle risorse, ma non tiene nulla per sé»: e questa è la lettera (Sostenere la Chiesa per servire tutti) che dieci anni fa i vescovi italiani scrissero nell’anniversario di Sovvenire alle necessità della Chiesa (1988), dove solidarietà, corresponsabilità e trasparenza erano le parole d’ordine. Si ricordava, allora, l’importanza di tenere due portafogli ben distinti: uno con i propri soldi, l’altro con quelli della comunità. Il vescovo che offre il pranzo, ricordato ieri da Francesco, mette mano al portafoglio numero uno. Ma si ricordava anche a ogni parroco il dovere di fare testamento, affinché sia chiaro che nulla è suo, ma tutto è della comunità.

Libertà significa saper distinguere i mezzi dai fini. Il fine è uno solo, l’annuncio del Vangelo. Il bene è uno solo: Gesù Cristo. I mezzi vanno messi a disposizione di quel fine e quel bene. Anche le diocesi sono strumenti, creati per meglio annunciare Gesù Cristo e servire la causa del Vangelo. Essendo strumenti, nascono e possono trasformarsi, confluendo e unendosi. Le diocesi in Italia sono 226. Tantissime, anche dopo il primo accorpamento di un terzo di secolo fa. Francesco chiede alla Chiesa italiana di snellirsi, in nome della sobrietà e dell’incisività evangeliche.

Già, ma le tradizioni? Ogni diocesi ha la sua, e ne è orgogliosa. Ora il problema è semplice e “duro” al tempo stesso: una tradizione può tramutarsi lentamente, inesorabilmente in una gabbia che si stringe fino a soffocarti; oppure evolversi in un’occasione per coniugare il nuovo e l’antico rinunciando a qualcosa per conquistare qualcos’altro. Libertà è quella dei figli di Dio che hanno lo sguardo lungo e vivono le tradizioni con fedeltà creativa.

Viva la libertà, dunque. È questa che Francesco offre e chiede alla Chiesa italiana. La libertà di chi si scrolla di dosso ciò che forse pensava fosse indispensabile, ma non lo è. Di chi si libera del tragico mantra: «Abbiamo sempre fatto così». Di chi sa farsi come Pietro che davanti allo storpio allarga le braccia: ho finito quel poco oro e argento che avevo, ma erano semplici strumenti, roba che passa e si corrompe. Invece posso donarti l’unica cosa che conta, Gesù. Alzati e cammina, Chiesa che sei in Italia!




una chiesa che sa chiedere perdono … a proposito della pedofilia e dei vescovi cileni

IL SOGNO DI UNA CHIESA

di Raniero La Valle

Mentre molte cose accadono, quella che ci sembra più rilevante e ricca di futuro è la lettera del papa ai vescovi del Cile che non solo da ragione degli eventi inauditi che hanno investito la Chiesa cilena, ma è uno straordinario testo di ecclesiologia, che apre uno squarcio su quello che può essere la Chiesa, e anzi la religione di domani.
È una lettera di dieci pagine, che doveva rimanere segreta, per cui non è uscita sul sito del Vaticano; ma nella Chiesa di Francesco non c’è più nulla di segreto: certo la “Segreteria di Stato” continua a chiamarsi così, ma ormai tutto è gridato sui tetti, la fiaccola è sopra il moggio, e anche il lucignolo che rischia di spegnersi ora si vede. Sicché abbiamo assistito con enorme stupore a un papa che si è messo in gioco riconoscendo l’errore compiuto nel giudizio che aveva dato sullo scandalo della pedofilia in Cile, e poi all’intero collegio di quei vescovi che viene a Roma e per tre giorni ripensa col papa a tutto ciò che era accaduto, e infine si pente e chiede perdono, prima di tutto alle vittime, e poi rinunzia al potere, ciascun vescovo rimettendo nelle mani del papa il proprio mandato, senza nessuno a giustificare se stesso, tutti dal primo all’ultimo, trentaquattro.
È la prima volta che una Chiesa chiede perdono così: finora, anche per le sue colpe più gravi, la formula era che la Chiesa era santa e che semmai chiedeva perdono per il male commesso da qualche suo membro.
Per questo bisogna leggere la lettera del papa. Noi ve la mettiamo sul nostro sito in spagnolo, come è stata scritta  (CHE DIMINUISCA LA CHIESA PERCHÉ CRESCA LA FEDE) e come l’ha pubblicata la Televisione cilena, e cercheremo di darvene poi la traduzione italiana. Ma intanto la si può raccontare.
Per prima cosa bisogna dire che essa parte non da un problema di Chiesa, o di dottrina, ma da una ferita “aperta, dolorosa, complessa e sanguinante”, nella vita di tante persone, non necessariamente credenti, è “perciò” nella vita del Popolo di Dio. Tutte le vittime, tutte le persone sono Popolo di Dio. Ferita non curata come si doveva, e perciò bisogna subito voltare pagina, senza dare la colpa agli altri, perché tutti siamo implicati, dice il papa, “e io per primo”.
Ma come intervenire? Prima di tutto bisogna trovare la strada. E la strada è quella della conversione, perché bisogna cambiare, e non c’è cambiamento senza conversione, e bisogna farlo non separati, ma nella “collegialità” e “sinodalità”.
E qui c’è la chiave teologica della vera conversione richiesta alla Chiesa: “è necessario che lui cresca e io diminuisca”, secondo la parola di Giovanni Battista. La Chiesa del Cile (ma non solo lei) patisce infatti la tentazione di “soppiantare” il suo Signore. Di mettersi lei al posto di Dio. Di crescere tanto, che di Dio non c’è più bisogno, perché c’è lei. È avvenuto così lungo i secoli. Ma se la Chiesa basta a se stessa, non ha più altro da annunciare, viene meno la sua stessa missione, la sua forza profetica si perde. E se la Chiesa mette se stessa al centro dell’attenzione, invece di mettere il Signore che è “la via, la verità e la vita” e perde così “la memoria della sua origine e della sua missione”, anche il peccato della Chiesa viene al centro della scena, non si vede altro e non si parla d’altro; e così è successo proprio in questa crisi.
Il prezzo che si paga è allora molto alto, e mentre infuria lo scandalo, la cosa più urgente è “ristabilire la giustizia e la comunione”, non solo nell’immediato, ma a medio e lungo termine, perché il problema non è solo di affrontare i casi concreti, magari semplicemente rimuovendo i colpevoli (cosa necessaria ma non sufficiente), il problema è di andare alla radice e alle strutture che sono all’origine del male, il problema è di “recuperare la profezia”.
Sembra di capire che cosa cerca di dire il papa: nessun silenzio e nessuna debolezza di fronte allo scandalo, ma la conclusione di tutto non sta nella “tolleranza zero”, com’è per le cose del mondo, la conclusione sta nel recupero della profezia, in una Chiesa che torni ad essere Chiesa.
E qui si vede tutta la tenerezza e la profondità con cui papa Francesco pensa a questa Chiesa, la riconosce e le parla, come si parla all’amata.
Riconosce, proprio alla Chiesa cilena, di aver generato molti alla fede, di aver lottato per difenderla, e aver dato battaglia quando la dignità dei suoi figli non era rispettata o era semplicemente negata. Una Chiesa che ha saputo non mettersi al centro, ma “nei momenti oscuri della vita del suo popolo ha avuto il vigore profetico non solo di levare la sua voce ma anche di chiamare a raccolta per creare spazi di difesa di uomini e donne su cui il Signore l’aveva incaricata di vegliare”, ben sapendo che “non si poteva proclamare il comandamento nuovo dell’amore senza promuovere mediante la giustizia e la pace la vera crescita di ogni persona”. Il periodo cui il papa si riferisce è qui quello della dittatura, e perciò la citazione è di Paolo VI.
Ma, ad abbracciare tutta la sua storia, la vera forza della Chiesa cilena, è stata la pietà popolare, che “è una delle ricchezze più grandi che il popolo di Dio ha saputo coltivare”, con le sue feste, i suoi balli, la sua musica, i suoi vestiti, trasformando tante località del Paese “in santuari della pietà popolare, perché non sono feste che restino chiuse all’interno del tempio, ma riescono a rivestire a festa tutto il villaggio”. E perciò è una Chiesa che ha imparato come la fede si trasmette solo in dialetto, celebrando così, cantando e danzando, “la paternità, la provvidenza, la presenza costante e amorosa di Dio”. Una Chiesa che si fa prossima dei poveri, dei malati, dei senzatetto, degli orfani … Una Chiesa fatta di molti popoli, capace di promuovere le ricchezze e la buona vita di ciascuno, come negli anni Sessanta i vescovi del Sud fecero per la crescita del popolo Mapuche, dal quale c’è tanto da apprendere; una Chiesa profetica, capace di confessare (e qui Francesco cita il cardinale Silva Enriquez di Santiago, che fu uno dei fari del Concilio) “che nella nostra storia personale e nella storia del nostro Cile ci sono stati ingiustizia, bugie, odio, colpa, indifferenza”; per cui lo stesso arcivescovo invitava gli altri pastori e fedeli a essere “sinceri, umili, e a dire al Signore: abbiamo peccato contro di te! Peccare contro il nostro fratello, l’uomo e la donna, è peccare contro Cristo, che è morto e resuscitato per tutti gli uomini. Siamo sinceri, umili! Ho peccato, Signore contro di te! Non ho obbedito al tuo Vangelo!”. E aggiunge Francesco; “la coscienza cosciente dei suoi limiti e peccati la fa vivere in guardia dinanzi alla tentazione di soppiantare il suo Signore”.
E qual è l’antidoto? Il santo popolo fedele di Dio, che dal suo silenzio quotidiano in molte forme testimonia che il Signore non abbandona, sostiene e soffre con i suoi figli. Il santo paziente popolo di Dio, vivificato dallo Spirito, che è il volto più bello della Chiesa profetica che sa mettere al centro il suo Signore nella fatica quotidiana. “In questo popolo fedele e silenzioso sta il sistema immunitario della Chiesa”.
Così immunizzata, la Chiesa potrà ritrovare se stessa. Potrà affermare senza ambiguità che il discepolo non sarà mai il Messia. Guardarsi perciò da ogni forma di messianismo che pretenda ergersi come unico interprete della volontà di Dio. Non cadere, come tante volte è possibile, nella tentazione di un esercizio ecclesiale dell’autorità che pretenda sostituirsi alle diverse istanze di comunione e partecipazione e, ciò che è peggio, sostituirsi alla coscienza dei fedeli, dimenticando l’insegnamento conciliare secondo cui “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nel suo recesso più intimo” (GS n. 16, che cita un discorso radiofonico di Pio XII). I falsi messianismi, dice il papa, pretendono cancellare l’eloquente verità che la totalità dei fedeli ha l’unzione dello Spirito. Mai un individuo o un gruppo privilegiato può pretendere di essere la totalità del Popolo di Dio e meno ancora credersi la voce autentica della sua interpretazione. Bisogna stare attenti alla “psicologia da élite” che può insinuarsi nella nostra maniera di abbordare le questioni. Essa produce dinamiche di divisione, separazione, circoli chiusi che sboccano in spiritualità narcisiste e autoritarie in cui, invece di evangelizzare, l’importare è sentirsi speciali, differenti dagli altri, mettendo così in evidenza che né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Messianismo, elitismo e clericalismo sono tutti sinonimi di perversione nell’essere ecclesiale e anche sinonimo di perversione – scrive il papa – è la perdita della sana coscienza di sapersi appartenere al santo popolo di Dio che ci precede e che, grazie a Dio, ci succederà.
La coscienza del limite ci salva dalla tentazione e pretesa di occupare tutti gli spazi, e specialmente un luogo che non ci appartiene, quello del Signore. Solo Dio è capace della totalità. “La nostra missione sarà sempre condivisa. La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori. Ci libera da quella tendenza prometeica di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri”.
E la conclusione folgorante della lettera è: “Fratelli le idee si discutono, le situazioni si discernono, noi siamo qui riuniti per discernere, non per discutere”.
Discernere, ci sembra vuol dire smettere gli abiti vecchi, avanzare lo sguardo verso quello che sarà il futuro della Chiesa e della stessa religione nel mondo
(Fonte: ChiesadituttiChiesadeipoveri)



ciclone Francesco … le dimissioni di tutti i vescovi cileni

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i vescovi cileni si dimettono in blocco 

“siamo nelle mani del papa”

A conclusione del vertice straordinario sulla pedofilia e gli insabbiamenti, i presuli leggono una dichiarazione: «Imploriamo il perdono delle vittime». E ringraziano la stampa

Iacopo Scaramuzzi
città del vaticano

A conclusione del vertice straordinario al quale il Papa li ha convocati a Roma per affrontare lo scandalo pedofilia (14-17 maggio), i vescovi cileni hanno rassegnato in blocco le dimissioni nelle mani di Francesco, che prossimamente deciderà il loro destino. La Conferenza episcopale del Cile chiede perdono alle vittime dei sacerdoti abusatori e ringrazia la stampa per il «servizio alla verità». 

«Dopo tre giorni di incontri con il Santo Padre e molte ore dedicate alla meditazione e alla preghiera, seguendo le sue indicazioni, noi vescovi del Cile desideriamo dichiarare quanto segue», hanno affermato i vescovi in un testo letto in spagnolo e italiano alla stampa monsignor Fernando Ramos Pérez, uno dei sette ausiliari di Santiago, e segretario della Conferenza episcopale, e monsignor Juan Ignacio Gonzalez Errazuriz, vescovo di San Bernardo. «In primo luogo, ringraziamo Papa Francesco per il suo ascolto da padre e la sua correzione fraterna, ma soprattutto vogliamo chiedere perdono per il dolore causato alle vittime , al Papa al popolo di Dio e al nostro paese per i nostri gravi errori e omissioni commesse».

I vescovi cileni ringraziano anche  monsignor Scicluna e il reverendo Jordi Bartomeu (che il Papa aveva inviato in Cile ad ascoltare le vittime, ndr)

«per la dedizione pastorale e personale, nonché per lo sforzo investito nelle ultime settimane per cercare di sanare le ferite della società e della chiesa del nostro paese. Ringraziamo le vittime per la loro perseveranza e il loro coraggio nonostante le enormi difficoltà personali spirituali sociali e famigliari che hanno affrontato unite spesso alle incomprensioni e agli attacchi della stessa comunità ecclesiale. Ancora una volta imploriamo il loro perdono e aiuto per continuare ad avanzar sul cammino della guarigione per cicatrizzare le ferite».

In secondo luogo, i vescovi comunicano che

In una breve dichiarazione successiva, monsignor Gonzalez ha precisato che il Papa deciderà se accettare, respingere o accettare fino a nomina del successore le dimissioni di ognuno dei vescovi. Nel frattempo il lavoro pastorale dei presuli continua nella sue funzioni. Gonzalez ha poi voluto ringraziare la stampa per il «servizio alla verità» che ha svolto. La conferenza stampa non prevedeva domande finali dei giornalisti.  

Le vittime del sacerdote pedofilo Fernando Karadima, ricevute nelle scorse settimane a Casa Santa Marta dal Papa, hanno commentato la notizia su Twitter.  «Per dignità, giustizia e verità: lasciano tutti i vescovi. Delinquenti. Non hanno saputo proteggere i più deboli, li hanno esposti agli abusi e invece hanno impedito la giustizia. Per questo, meritano semplicemente di andarsene», ha scritto José Andrés Murillo. «I vescovi cileni hanno rinunciato TUTTI. È inedito ed è un bene. Questo cambia le cose per sempre», ha commentato Juan Carlos Cruz.




la condanna di papa Francesco di un’economia che in nome del ‘dio denaro’ crea scarti e schiavitù

un’economia di ingiustizia

il pensiero di papa Francesco nel volume di Michele Zanzucchi  «potere e denaro»

(Città Nuova; 168 pagine; 15 euro)

che esce oggi in libreria

il libro si apre con la prefazione di papa Francesco


esce oggi in libreria «Potere e denaro» il volume di Michele Zanzucchi che si apre con la prefazione di papa Francesco: Non basta un po’ di balsamo per sanare una società che tratta tutto come merce
Economia, l'impronta del bene per giustizia e per speranza

La giustizia sociale secondo Jorge Mario Bergoglio

Ne indica i fondamentali e la descrive Michele Zanzucchi nel volume «Potere e denaro»  che esce oggi in libreria. Il libro si apre con la prefazione di papa Francesco – pubblicata qui sotto – e propone una raccolta ragionata e fluida di quanto il Pontefice argentino ha detto e scritto su ricchezza e povertà, giustizia e ingiustizia sociale, cura e disprezzo del Creato, finanza sana e perversa, imprenditori e speculatori, sindacati e movimenti popolari, “mammona” e culto del “dio denaro”. La sua è una denuncia forte e decisa della speculazione finanziaria, delle rendite che accentuano la distanza tra ricchi e poveri, della meritocrazia che schiaccia i piccoli, della globalizzazione che crea nuovi scarti e nuove schiavitù, del commercio delle armi e delle guerre che esso provoca. Ma, in spirito evangelico, come papa Francesco scrive nella prefazione, non dobbiamo perdere la speranza.

Zanzucchi è giornalista e scrittore; ha diretto la rivista “Città Nuova” e collabora con “Avvenire”. Ha pubblicato una quarantina di libri tra cui «L’islam spiegato a chi ha paura dei musulmani» (2015) e «Il silenzio e la parola. La luce» (2013). Vive in Libano e insegna giornalismo e linguaggi del giornalismo alla Pontificia Università Gregoriana e massmediologia all’Istituto Universitario “Sophia” di Loppiano, la cittadella del Movimento dei Focolari in provincia di Firenze.

Prima da semplice cristiano, poi da religioso e sacerdote, quindi da Papa, ritengo che le questioni sociali ed economiche non possano essere estranee al messaggio del Vangelo. Perciò, sulla scia dei miei predecessori, cerco di mettermi in ascolto degli attori presenti sulla scena mondiale, dai lavoratori agli imprenditori, ai politici, dando voce, in particolare, ai poveri, agli scartati, a chi soffre. La Chiesa, nel diffondere il messaggio di carità e giustizia del Vangelo, non può rimanere silente di fronte all’ingiustizia e alla sofferenza. Ella può e vuole unirsi ai milioni di uomini e donne che dicono no all’ingiustizia in modo pacifico, adoperandosi per una maggiore equità. Ovunque c’è gente che dice sì alla vita, alla giustizia, alla legalità, alla solidarietà. Tanti incontri mi confermano che il Vangelo non è un’utopia ma una speranza reale, anche per l’economia: Dio non abbandona le sue creature in balia del male. Al contrario, le invita a non stancarsi nel collaborare con tutti per il bene comune.

Quanto dico e scrivo sul potere dell’economia e della finanza vuol essere un appello affinché i poveri siano trattati meglio e le ingiustizie diminuiscano. In particolare, costantemente chiedo che si smetta di lucrare sulle armi col rischio di scatenare guerre che, oltre ai morti e ai poveri, aumentano solo i fondi di pochi, fondi spesso impersonali e maggiori dei bilanci degli Stati che li ospitano, fondi che prosperano nel sangue innocente. Nei miei messaggi in materia economica e sociale desidero sollecitare le coscienze, soprattutto di chi specula e sfrutta il prossimo, perché si ritrovi il senso dell’umanità e della giustizia. Per questo non posso non denunciare col Vangelo in mano i peccati personali e sociali commessi contro Dio e contro il prossimo in nome del dio denaro e del potere fine a se stesso. Mi esprimo con sollecitudine anche perché sono cosciente che altre crisi economiche mondiali non sono impossibili. Quando si verifica il crollo di una finanza staccata dall’economia reale, tanti pagano le conseguenze e tra i tanti soprattutto i poveri e quanti poveri diventano, mentre i ricchi in un modo o nell’altro spesso se la cavano.

Che cosa fare? Una cosa che mi sembra importante è coscientizzare sulla gravità dei problemi. È quanto fa Michele Zanzucchi raccogliendo, sistematizzando e rendendo fruibili ai lettori delle sintesi di alcuni miei pensieri sul potere dell’economia e della finanza. Spero che ciò possa essere utile a coscientizzare e a responsabilizzare, favorendo processi di giustizia e di equità. Non basta un po’ di balsamo per sanare le ferite di una società che tratta spesso tutti e tutto come merce, merce che, quando diventa inutile, viene gettata via, secondo quella cultura dello scarto di cui tante volte ho parlato. Solo una cultura che valorizzi tutte le risorse a disposizione della società, ma in primo luogo quelle umane, può guarirne le malattie profonde. I cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati a sentirsi attori di tale cultura della valorizzazione. Coscientizzare e valorizzare dunque, ma anche rinnegare. Ci sono dei no da dire alla mentalità dello scarto: occorre evitare di uniformarsi al pensiero unico, attuando coraggiosamente delle scelte buone e controcorrente. Tutti, come insegna la Scrittura, possono ravvedersi, convertirsi, diventare testimoni e profeti di un mondo più giusto e solidale.

Tanti, tantissimi uomini e donne di ogni età e latitudine sono già arruolati in un inerme “esercito del bene”, che non ha altre armi se non la passione per la giustizia, il rispetto della legalità e l’intelligenza della comunione. È troppo pensare di introdurre nel linguaggio dell’economia e della finanza, della cooperazione internazionale e del lavoro tale parola, comunione, declinandola come cura degli altri e della casa comune, solidarietà effettiva, collaborazione reale e cultura del dono? Il bene non è quietismo e non porta a essere remissivi. L’arte di amare, unico manuale d’uso dell’esercito del bene, comporta al contrario l’essere attivi, richiede la capacità di coinvolgersi per primi, di non stancarsi di cercare l’incontro, di accettare qualche sacrificio per sé e di avere tanta pazienza con tutti per stabilire una migliore reciprocità. I tre attributi che tradizionalmente spettano al livello più alto a Dio sono il vero, il buono e il bello. Non a caso la Chiesa parla di tre virtù teologali: la fede, la carità e la speranza. Gli esseri umani possono riscoprirsi veri, buoni e belli quanto più entrano nel circolo virtuoso di Dio, che è comunione e amore. Perciò anche in economia queste tre virtù recano benefici. È possibile: il fatto che tanti lavoratori, imprenditori e amministratori siano già al servizio della giustizia, della solidarietà e della pace ci conferma che la via della verità, della carità e della bellezza è ardua, ma praticabile e necessaria, anche in economia e finanza.

Come questo libro testimonia, il mio pensiero si situa nel cammino tracciato dal ricchissimo patrimonio della Dottrina Sociale della Chiesa. Chiunque può farlo proprio, anche solo accedendo a quel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che tante volte ho citato perché in poche parole offre una panoramica del pensiero ecclesiale in materia sociale. Tra i testi da me redatti, giustamente l’autore ha privilegiato l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium e l’Enciclica Laudato si’. Al contempo non si sono potute tagliare le radici comunitarie del mio pensare, che affondano in particolare nella Chiesa dell’America Latina. Sono ad esempio debitore della grande assemblea di Aparecida, nella quale si è riproposto un metodo ai cristiani per la vita sociale: vedere, giudicare e agire. Possiamo cioè vedere la realtà che ci circonda alla luce della provvidenza di Dio; giudicarla secondo Gesù Cristo, via, verità e vita; agire di conseguenza nella Chiesa e con tutti gli uomini di buona volontà.

Il mondo creato agli occhi di Dio è cosa buona, l’essere umano cosa molto buona (cf. Gen 1, 4-31). Il peccato ha macchiato e continua a macchiare la bontà originaria, ma non può cancellare l’impronta dell’immagine di Dio presente in ogni uomo. Perciò non dobbiamo perdere la speranza: stiamo vivendo un’epoca difficile, ma piena di opportunità nuove e inedite. Non possiamo smettere di credere che, con l’aiuto di Dio e insieme – lo ripeto, insieme – si può migliorare questo nostro mondo e rianimare la speranza, la virtù forse più preziosa oggi. Se siamo insieme, uniti nel suo nome, il Signore è in mezzo a noi secondo la sua promessa (cf. Mt 18, 20); quindi è con noi anche in mezzo al mondo, nelle fabbriche, nelle aziende e nelle banche come nelle case, nelle favelas e nei campi profughi. Possiamo, dobbiamo sperare.




la riabilitazione del teologo Castillo esempio di chiesa “contemplattiva”

 papa Francesco riabilita J. Castillo

di: Jesús Bastante

Lorenzo Tommaselli ha tradotto questa riflessione di Jesús Bastante apparsa sulla rivista online Religión Digital lo scorso 21 aprile e ripresa dal sito Fine Settimana il 22 aprile 2018

«Due uomini innamorati di Dio e appassionati dell’uomo».

«Siamo sempre una Chiesa “contemplattiva”, innamorata di Dio e appassionata dell’uomo»

Questo venerdì il papa viaggiava verso la punta dello stivale italiano per rendere omaggio a don Tonino Bello, il vescovo-pastore del sud Italia (di Molfetta, ndt). Un anticipatore della Chiesa delle periferie che tanto promuove Francesco.

Alcune ore prima Bergoglio riceveva, abbracciava e riabilitava (oramai è il caso di togliere le virgolette) uno dei nostri migliori teologi e una bellissima persona: José María Castillo.

Tutti e due, “gesuiti irregolari”, da anni si seguivano senza vedersi. Francesco aveva già tentato di incontrare Castillo per lettera e per telefono, ma il momento dell’incontro è stato emozionante.

E, come Tonino Bello, Bergoglio e Castillo sono due esempi di questa Chiesa “contemplattiva” della quale ha parlato il papa ad Alessano. Uomini innamorati di Dio e appassionati dell’uomo. Persone di orazione e di azione, che non capiscono quest’assurda dissociazione tra le due realtà, intimamente legate in ogni seguace di Gesù.

Castillo e Bergoglio, il teologo e il papa, sono due uomini di profonda orazione e decisi nell’azione. Nell’insegnamento, nella predicazione e nell’esempio. Tutti e due si sono riconosciuti non appena si sono guardati negli occhi. La “teologia popolare” di José María Castillo è senza dubbio uno degli assi portanti della Chiesa-misericordia di Francesco.

Una Chiesa contemplattiva, che accoglie tutti, che non innalza muri tra gli uni e gli altri, che lavora per la riconciliazione e l’abbraccio invece delle porte chiuse e delle espulsioni sommarie. Anche se alcuni se ne dispiacciono, Castillo e Bergoglio trasudano Vangelo di Gesù, un uomo (il nostro Messia) che ha unito come nessuno l’azione del contemplativo e l’orazione dell’attivista.

Il Vangelo è questo, orazione e cammino, aiuto e abbraccio, sguardi e Parola. Costruzione di un mondo nuovo, in definitiva. Qualcosa in cui Castillo e Bergoglio, Francesco e José María sono maestri eccezionali. È un orgoglio far parte di questa storia benedetta.




i testi della ‘via crucis’ della pasqua 2018 al Colosseo

VENERDÌ SANTO
PASSIONE DEL SIGNORE

VIA CRUCIS
PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE
FRANCESCO

COLOSSEO
ROMA, 30 MARZO 2018

INTRODUZIONE

I testi delle meditazioni sulle quattordici stazioni del rito della Via Crucis di quest’anno sono stati scritti da quindici giovani, di un’età compresa tra i 16 e i 27 anni. Due, quindi, sono le principali novità: la prima non ha riscontri nelle edizioni del passato e riguarda l’età degli autori, giovani e adolescenti (nove di essi sono studenti del liceo di Roma Pilo Albertelli); la seconda consiste nella dimensione “corale” di questo lavoro, sinfonia di tante voci con tonalità e timbri diversi. Non esistono “i giovani”, ma Valerio, Maria, Margherita, Francesco, Chiara, Greta…

Con l’entusiasmo tipico della loro età hanno accettato la sfida che è stata proposta dal Papa all’interno di questo anno 2018, dedicato in generale alle giovani generazioni. Lo hanno fatto con un preciso metodo operativo. Si sono riuniti intorno a un tavolo e hanno letto i testi della Passione di Cristo secondo i quattro Vangeli. Si sono messi, pertanto, davanti alla scena della Via Crucis e l’hanno “vista”. Dopo la lettura, rispettando il tempo necessario, ognuno dei ragazzi si è espresso dicendo quale particolare della scena lo avesse colpito. E così è stato più semplice e naturale assegnare le singole stazioni.

Tre parole chiave, tre verbi, segnano lo sviluppo di questi testi: innanzitutto, come si è già accennato, vedere, poi incontrare, infine pregare.

Quando si è giovani si vuole vedere, vedere il mondo, vedere tutto. La scena del Venerdì Santo è potente, anche nella sua atrocità: vederla può spingere alla repulsione oppure alla misericordia e, quindi, ad andare incontro. Proprio come fa Gesù nel Vangelo, tutti i giorni, anche questo giorno, l’ultimo. Egli incontra Pilato, Erode, i sacerdoti, le guardie, sua madre, il Cireneo, le donne di Gerusalemme, i due ladroni suoi ultimi compagni di strada. Quando si è giovani ogni giorno si ha l’occasione di incontrare qualcuno, e ogni incontro è nuovo, sorprendente. Si invecchia quando non si vuole più vedere nessuno, quando la paura che rinchiude vince sull’apertura fiduciosa: paura di cambiare, perché incontrare vuol dire cambiare, essere pronti a rimettersi in cammino con occhi nuovi. Vedere e incontrare spinge, infine, a pregare perché la vista e l’incontro generano la misericordia, anche in un mondo che sembra sprovvisto di pietà e in un giorno come questo, abbandonato all’ira insensata, alla viltà e alla pigrizia distratta degli uomini. Ma se seguiamo Gesù con il cuore, anche attraverso il misterioso cammino della Croce. Allora possono rinascere il coraggio e la fiducia e, dopo aver visto ed essersi aperti all’incontro, sperimenteremo la grazia del pregare, non più da soli, ma insieme.

MEDITAZIONI E PREGHIERE

redatte da

I Valerio De Felice
II Maria Tagliaferri e Margherita Di Marco
III Caterina Benincasa
IV Agnese Brunetti
V Chiara Mancini
VI Cecilia Nardini
VII Francesco Porceddu
VIII Sofia Russo
IX Chiara Bartolucci
X Greta Giglio
XI Greta Sandri
XII Dante Monda
XIII Flavia De Angelis
XIV Marta Croppo

coordinati dal professore
Andrea Monda


 

VIA CRUCIS

I stazione
Gesù è condannato a morte

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 22-25)

Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.

Ti vedo, Gesù, di fronte al Governatore, che per tre volte tenta di contrastare la volontà del popolo e infine sceglie di non scegliere, di fronte alla folla, che per tre volte viene interrogata e sempre decide contro di te. La folla, cioè tutti, cioè nessuno. Nascosto nella massa l’uomo smarrisce la propria personalità, è la voce di altre mille voci. Prima di rinnegare te, rinnega se stesso, disperdendo la propria responsabilità in quella fluttuante della moltitudine senza volto. Eppure è responsabile. Sviato dai sobillatori, dal Male che si propaga con voce subdola e assordante, è l’uomo a condannarti.

Oggi noi inorridiamo di fronte a una tale ingiustizia, e vorremmo prenderne distanza. Ma così facendo dimentichiamo tutte le volte in cui noi per primi abbiamo scelto di salvare Barabba anziché te. Quando il nostro orecchio è stato sordo alla chiamata del Bene, quando abbiamo preferito non vedere l’ingiustizia davanti a noi.

In quella piazza gremita, sarebbe stato sufficiente che un solo cuore dubitasse, che una sola voce si alzasse contro le mille voci del Male. Ogni volta che la vita ci porrà davanti a una scelta, ricordiamoci di quella piazza e di quell’errore. Concediamo ai nostri cuori di dubitare e imponiamo alla nostra voce di levarsi.

Ti prego, Signore, veglia sulle nostre scelte,
rischiarale della tua Luce,
coltiva in noi la capacità di interrogarci:
solo il Male non dubita mai.
Gli alberi che affondano radici nel terreno,
se innaffiati dal Male, avvizziscono,
ma tu hai posto le nostre radici in Cielo
e le fronde sulla terra per riconoscerti e seguirti.

Pater noster…

II stazione
Gesù è caricato della croce

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 8, 34-35)

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, [Gesù] disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

Ti vedo, Gesù, coronato di spine, mentre accogli la tua croce. La accogli, come sempre hai accolto tutto e tutti. Ti caricano del legno, pesante, ruvido, ma tu non ti ribelli, non butti via quello strumento di tortura ingiusto e ignobile. Lo prendi su di te e cominci a camminare portandolo sulle spalle. Quante volte mi sono ribellata e arrabbiata contro gli incarichi che ho ricevuto, che ho avvertito come pesanti o ingiusti. Tu non fai così. Sei solo di qualche anno più grande di me, oggi si direbbe che sei ancora giovane, ma sei docile, e prendi sul serio quello che la vita ti offre, ogni occasione che ti si presenta, come se volessi andare fino in fondo alle cose e scoprire che c’è sempre qualcosa di più di quello che appare, un significato nascosto e sorprendente. Grazie a te comprendo che questa è croce di salvezza e di liberazione, croce di sostegno nell’inciampo, giogo leggero, fardello che non grava.

Dallo scandalo della morte del Figlio di Dio, morte da peccatore, morte da malfattore, nasce la grazia di riscoprire nel dolore la resurrezione, nella sofferenza la tua gloria, nell’angoscia la tua salvezza. La stessa croce, simbolo per l’uomo di umiliazione e dolore, si rivela ora, per grazia del tuo sacrificio, come una promessa: da ogni morte risorgerà la vita e in ogni buio risplenderà la luce. E possiamo esclamare: “Ave o croce, unica speranza!”.

Ti prego, Signore, fa’ che alla luce della Croce, simbolo della nostra fede,
possiamo accettare le nostre sofferenze e, illuminati dal tuo amore,
abbracciare le nostre croci, rese gloriose dalla tua morte e risurrezione.
Donaci la grazia di guardare alle nostre storie
e di riscoprire in esse il tuo amore per noi.

Pater noster…

III stazione
Gesù cade per la prima volta

Dal libro del profeta Isaia (Is 53, 4)

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

Ti vedo, Gesù, sofferente mentre percorri la via verso il Calvario, carico del nostro peccato. E ti vedo cadere, con le mani e le ginocchia a terra, dolorante. Con quanta umiltà sei caduto! Quanta umiliazione provi ora! La tua natura di vero uomo si vede chiaramente in questo frammento della tua vita. La croce che porti è pesante; avresti bisogno di aiuto, ma quando cadi a terra nessuno ti soccorre, anzi, gli uomini si prendono gioco di te, ridono di fronte all’immagine di un Dio che cade. Forse sono delusi, forse si sono fatti un’idea sbagliata di te. A volte pensiamo che avere fede in te significhi non cadere mai nella vita. Insieme a te cado anch’io, e con me le mie idee, quelle che avevo su di te: quanto erano fragili!

Ti vedo, Gesù, che stringi i denti e, completamente abbandonato all’amore del Padre, ti rialzi e riprendi il tuo cammino. Con questi primi passi verso la croce, così titubanti, Gesù, mi ricordi un bambino che muove i primi passi verso la vita e perde l’equilibrio e cade e piange, ma poi continua. Si affida alle mani dei genitori e non si ferma; ha paura ma va avanti, perché alla paura sopravviene la fiducia.

Con il tuo coraggio ci insegni che i fallimenti e le cadute non devono mai arrestare il nostro cammino e che abbiamo sempre una scelta: arrenderci o rialzarci con te.

Ti prego, Signore, risveglia in noi giovani
il coraggio di rialzarci dopo ogni caduta
proprio come hai fatto tu sulla via del Calvario.
Ti prego, fa’ che sappiamo sempre apprezzare
il dono grandissimo e prezioso della vita
e che i fallimenti e le cadute
non siano mai un motivo per buttarla via,
consapevoli che se ci fidiamo di te,
possiamo rialzarci
e trovare la forza di andare avanti,
sempre.

Pater noster…

IV stazione
Gesù incontra sua madre

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 2, 34-35)

Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

Ti vedo, Gesù, quando incontri tua madre. Maria è lì, cammina per la strada affollata, ci sono molte persone accanto a lei. L’unica cosa che la distingue dagli altri è il fatto che lei è lì per accompagnare suo figlio. Una situazione che si verifica quotidianamente: le mamme accompagnano i figli a scuola, o dal medico, o li portano con sé al lavoro. Maria però si distingue dalle altre mamme: lei sta accompagnando suo figlio a morire. Vedere il proprio figlio morire è la sorte peggiore che si possa augurare ad una persona, la più innaturale; ancora più atroce se il figlio, innocente, sta morendo per mano della giustizia. Che scena innaturale e ingiusta davanti ai miei occhi! Mia madre mi ha educato al senso della giustizia e ad avere fiducia nella vita, ma quello che oggi i miei occhi vedono non ha nulla di questo, è privo di senso, ed è pieno di dolore.

Ti vedo, Maria, mentre guardi il tuo povero ragazzo: ha i segni della flagellazione sulla schiena ed è costretto a sopportare il peso della croce, probabilmente presto cadrà sotto di essa per la fatica. Eppure sapevi che, prima o poi, sarebbe successo, ti era stato profetizzato, ma ora che è accaduto è tutto diverso; ed è sempre così, siamo sempre impreparati di fronte alla vita, alla sua crudezza. Maria, ora sei triste, come lo sarebbe qualunque donna al tuo posto, ma non sei disperata. I tuoi occhi non sono spenti, non guardano nel vuoto, tu non cammini a testa bassa. Sei splendente anche nella tua tristezza, perché hai speranza, sai che quello di tuo figlio non sarà un viaggio di sola andata e sai, lo senti, come solo le mamme lo sentono, che lo rivedrai presto.

Ti prego, Signore: aiutaci
a tenere sempre presente l’esempio di Maria,
che ha accettato la morte di suo figlio
come mistero grande di salvezza.
Aiutaci ad agire con lo sguardo orientato al bene degli altri
e a morire nella speranza della risurrezione
e con la consapevolezza di non essere mai soli,
né abbandonati da Dio, né da Maria,
madre buona che ha sempre a cuore i suoi figli.

Pater noster…

V stazione
Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 26)

 

Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù.

Ti vedo, Gesù, schiacciato sotto il peso della croce. Vedo che non ce la fai da solo; proprio nel momento dello sforzo maggiore, sei rimasto solo, non ci sono quelli che si dicevano tuoi amici: Giuda ti ha tradito, Pietro ti ha rinnegato, gli altri abbandonato. Ma ecco un incontro improvviso, un tale, un uomo qualunque, che forse di te aveva sentito parlare eppure non ti aveva seguito, e invece ora è qui, al tuo fianco, spalla a spalla, a condividere il tuo giogo. Si chiama Simone ed è uno straniero che viene da lontano, da Cirene. Per lui oggi un imprevisto, che si rivela un incontro.

Sono infiniti gli incontri e gli scontri che viviamo ogni giorno, soprattutto noi ragazzi che entriamo continuamente in contatto con realtà nuove, nuove persone. Ed è nell’incontro inaspettato, nell’incidente, nella sorpresa spiazzante che è nascosta l’opportunità di amare, di riconoscere il meglio nel prossimo, anche quando ci sembra diverso.

Talvolta ci sentiamo come te, Gesù, abbandonati da quanti credevamo nostri amici, sotto un peso che ci schiaccia. Ma non dobbiamo dimenticare che c’è un Simone di Cirene pronto a prendere la nostra croce. Non dobbiamo dimenticare che non siamo soli, e da questa consapevolezza possiamo trarre la forza per farci carico della croce di chi abbiamo accanto.

Ti vedo, Gesù: ora sembra che provi un po’ di sollievo, riesci per un attimo a respirare, ora che non sei più solo. E vedo Simone: chissà se ha sperimentato che il tuo giogo è leggero, chissà se si rende conto di cosa significa quell’imprevisto nella sua vita.

Signore, ti prego affinché ognuno di noi
possa trovare il coraggio di essere come il Cireneo,
che prende la croce e segue i tuoi passi.
Ognuno di noi sia così umile e forte
da caricarsi della croce di chi incontriamo.
Fa’ che, quando ci sentiamo soli,
possiamo riconoscere sulla nostra strada un Simone di Cirene
che si ferma e si carica del nostro fardello.
Donaci di saper cercare il meglio in ogni persona,
di essere aperti ad ogni incontro anche nella diversità.
Ti prego perché ognuno di noi
possa scoprirsi inaspettatamente al tuo fianco.

Pater noster…

VI stazione
Veronica asciuga il volto di Gesù

Dal libro del profeta Isaia (Is 53, 2-3)

Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Ti vedo, Gesù, misero, quasi irriconoscibile, trattato come l’ultimo degli uomini. Cammini a stento verso la tua morte con il volto sanguinante e sfigurato, anche se come sempre mite ed umile, rivolto verso l’alto. Una donna si fa spazio tra la folla per scorgere da vicino quel tuo volto che, forse, tante volte aveva parlato alla sua anima e che lei aveva amato. Lo vede sofferente e lo vuole aiutare. Non la fanno passare, sono tanti, troppi, e armati. Ma a lei tutto questo non importa, è determinata a raggiungerti e riesce per un attimo a toccarti, accarezzarti con il suo velo. La sua è la forza della tenerezza. I vostri occhi si incrociano per un attimo, il volto nel volto dell’altro.

Quella donna, Veronica, di cui non sappiamo nulla, non ne conosciamo la storia, si guadagna il Paradiso con un semplice gesto di carità. Ti si avvicina, osserva il tuo volto straziato e lo ama ancor più di prima. Veronica non si ferma all’apparenza, oggi tanto importante nella nostra società delle immagini, ma ama incondizionatamente un volto brutto, non curato, non truccato e imperfetto. Quel volto, il tuo volto, Gesù, proprio nella sua imperfezione mostra la perfezione del tuo amore per noi.

Ti prego, Gesù, dammi la forza
di avvicinarmi alle altre persone, ad ogni persona,
giovane o vecchia, povera o ricca, a me cara o sconosciuta,
e di vedere in quei volti il tuo volto.
Aiutami a non indugiare
nel soccorrere il prossimo, in cui tu dimori,
come Veronica è accorsa da te sulla via del Calvario.

Pater noster…

VII stazione
Gesù cade per la seconda volta

Dal libro del profeta Isaia (Is 53, 8. 10)

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. […] Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Ti vedo, Gesù, cadere ancora davanti ai miei occhi. Cadendo ancora mi dimostri di essere un uomo, un vero uomo. E vedo che ti rialzi nuovamente, più deciso di prima. Non ti rialzi con superbia; non c’è orgoglio nel tuo sguardo, c’è amore. E nel proseguire il tuo cammino, rialzandoti dopo ogni caduta, annunci la tua Risurrezione, dimostri di essere pronto a caricare ancora una volta e per sempre, sulle tue spalle sanguinanti, il peso del peccato dell’uomo.

Cadendo ancora ci hai mandato un chiaro messaggio di umiltà, sei caduto a terra, su quell’humus da cui siamo nati noi “umani”. Siamo terra, siamo fango, siamo niente in confronto a te. Ma tu hai voluto diventare come noi, e ora ti mostri vicino a noi, con le stesse nostre fatiche, le stesse nostre debolezze, con lo stesso sudore della nostra fronte. Ora anche tu, in questo venerdì, come capita anche a noi, sei prostrato dal dolore. Ma tu hai la forza di andare avanti, non hai paura delle difficoltà che puoi incontrare, e sai che alla fine della fatica c’è il Paradiso; ti rialzi per dirigerti proprio lì, per aprirci le porte del tuo regno. Uno strano re sei, un re nella polvere.

Sento una vertigine: noi non siamo degni di paragonare le nostre fatiche e le nostre cadute alle tue. Le tue sono un sacrificio, il sacrificio più grande che i miei occhi e tutta la storia potrà mai vedere.

Ti prego, Signore, fa’ che siamo pronti a rialzarci dopo essere caduti,
che possiamo imparare qualcosa dai nostri fallimenti.
Ricordaci che quando tocca a noi di sbagliare e cadere,
se siamo con te e stringiamo la tua mano,
possiamo imparare e a rialzarci.
Fa’ che noi giovani possiamo portare a tutti il tuo messaggio di umiltà
e che le generazioni future aprano gli occhi verso di te
e sappiano comprendere il tuo amore.
Insegnaci ad aiutare chi soffre e cade accanto a noi:
ad asciugare il suo sudore e a tendere la mano per risollevarlo.

Pater noster…

VIII stazione
Gesù incontra le donne di Gerusalemme

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 27-31)

Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

Ti vedo e ti ascolto, Gesù, mentre parli alle donne che incontri lungo la tua strada verso la morte. In tutte le tue giornate sei passato incontrando tante persone, sei andato incontro e hai parlato con tutti. Ora parli con le donne di Gerusalemme che ti vedono e piangono. Anch’io sono una di quelle donne. Ma tu, Gesù, nel tuo ammonimento usi parole che mi colpiscono, sono parole concrete e dirette; a primo impatto possono apparire dure e severe perché schiette. Oggi, infatti, siamo abituati ad un mondo fatto di giri di parole, una fredda ipocrisia vela e filtra ciò che vogliamo realmente dire; gli ammonimenti si evitano sempre di più, si preferisce lasciare l’altro al proprio destino, non curandosi di sollecitarlo per il suo bene.

Mentre tu, Gesù, parli alle donne come un padre, anche rimproverandole; le tue parole sono parole di verità e arrivano immediate con il solo scopo della correzione, non del giudizio. E’ un linguaggio diverso dal nostro, tu parli sempre con umiltà e arrivi dritto al cuore.

In questo incontro, l’ultimo prima della croce, emerge ancora una volta il tuo amore senza misura verso gli ultimi e gli emarginati; le donne infatti, a quel tempo, non erano considerate degne di essere interpellate, mentre tu, nella tua gentilezza, sei veramente rivoluzionario.

Ti prego, Signore, fa’ che io,
insieme alle donne e agli uomini di questo mondo,
possiamo diventare sempre più caritatevoli
nei confronti dei bisognosi, proprio come facevi tu.
Dacci la forza di andare contro corrente
ed entrare in contatto autentico con gli altri,
gettando ponti ed evitando di chiuderci nell’egoismo
che ci conduce alla solitudine del peccato.

Pater noster…

IX stazione
Gesù cade per la terza volta

Dal libro del profeta Isaia (Is 53, 5-6)

Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.

Ti vedo, Gesù, mentre cadi per la terza volta. Due volte già sei caduto e due volte ti sei rialzato. Non ci sono più limiti alla fatica e al dolore, ormai sembri definitivamente sconfitto, in questa terza e ultima caduta. Quante volte, nella vita di tutti i giorni, ci capita di cadere! Cadiamo così tante volte che perdiamo il conto, ma speriamo sempre che ogni caduta sia l’ultima, perché ci vuole il coraggio della speranza per affrontare la sofferenza. Quando uno cade tante volte, alla fine le forze crollano e le speranze svaniscono definitivamente.

Mi immagino accanto a te, Gesù, nel percorso che ti sta conducendo alla morte. È difficile pensare che proprio tu sia il Figlio di Dio. Qualcuno ha già provato ad aiutarti ma ormai sei sfinito, sei fermo, paralizzato e sembra che non riuscirai più ad andare avanti. Ma ecco che improvvisamente vedo che ti rialzi, raddrizzi le gambe e la schiena, per quanto sia possibile con una croce sulle spalle, e riprendi a camminare, di nuovo. Sì, stai andando a morire, ma vuoi farlo fino in fondo. Forse questo è l’amore. Ciò che capisco è che non importa quante volte cadremo, ci sarà sempre l’ultima, forse la peggiore, la prova più terribile in cui siamo chiamati a trovare la forza per arrivare alla fine del percorso. Per Gesù la fine è la crocifissione, l’assurdo della morte, ma che rivela un significato più profondo, uno scopo più alto, quello di salvarci tutti.

Ti prego, Signore, donaci ogni giorno
il coraggio per andare avanti nel nostro cammino.
Fa’ che accogliamo fino in fondo
la speranza e l’amore che ci hai donato.
Tutti possano affrontare le sfide della vita
con la forza e la fede con cui tu hai vissuto
gli ultimi momenti nel tuo cammino
verso la morte in croce.

Pater noster…

X stazione
Gesù è spogliato delle vesti

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 23)

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.

Ti vedo, Gesù, nudo, come non ti ho mai visto. Ti hanno privato delle vesti, Gesù, e se le stanno giocando a dadi. Agli occhi di questi uomini hai perso l’unico brandello di dignità che ti era rimasto, l’unico oggetto che possedevi in questo tuo cammino di sofferenza. All’inizio dei tempi, tuo Padre aveva cucito degli abiti per gli uomini, per rivestirli di dignità; ora, degli uomini te li strappano di dosso. Ti vedo, Gesù, e vedo un giovane migrante, corpo distrutto che arriva in una terra troppo spesso crudele, pronta a togliergli la veste, unico suo bene, e a venderla; a lasciarlo così con la sua sola croce, come la tua, con la sua sola pelle martoriata, come la tua, con i suoi soli occhi grandi di dolore, come i tuoi.

Ma c’è qualcosa che gli uomini spesso dimenticano riguardo alla dignità: essa si trova sotto la tua pelle, è parte di te e sarà sempre con te, e ancor di più in questo momento, in questa nudità.

La stessa nudità con cui veniamo alla luce è quella con cui la terra ci accoglie alla sera della vita. Da una madre all’altra. E ora qui, su questa collina, c’è anche tua madre, che ti vede di nuovo nudo.

Ti vedo e comprendo la grandezza e lo splendore della tua dignità, della dignità di ogni uomo, che nessuno potrà mai cancellare.

Ti prego, Signore, fa’ che tutti noi possiamo riconoscere
la dignità propria della nostra natura,
anche quando ci ritroviamo nudi e soli davanti agli altri.
Fa’ che possiamo sempre vedere la dignità degli altri,
e stimarla, e custodirla.
Ti preghiamo di concederci il coraggio necessario
per capire noi stessi oltre ciò che ci riveste;
e di accettare la nudità che ci appartiene
e ci ricorda la nostra povertà,
di cui tu ti sei innamorato fino a dare la vita per noi.

Pater noster…

XI stazione
Gesù è inchiodato alla croce

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 33-34)

Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».

Ti vedo, Gesù, spogliato di tutto. Hanno voluto punire te, innocente, inchiodandoti al legno della croce. Che cosa avrei fatto io al posto loro, avrei avuto il coraggio di riconoscere la tua, la mia verità? Tu hai avuto la forza di sopportare il peso di una croce, di non essere creduto, di essere condannato per le tue parole scomode. Oggi non riusciamo a digerire una critica, come se ogni parola fosse pronunciata per ferirci.

Tu non ti sei fermato neanche di fronte alla morte, hai creduto profondamente nella tua missione e ti sei fidato di tuo Padre. Oggi, nel mondo di Internet, siamo così condizionati da tutto ciò che circola in rete che a volte dubito anche delle mie parole. Ma le tue parole sono diverse, sono forti nella tua debolezza. Tu ci hai perdonato, non hai portato rancore, hai insegnato a porgere l’altra guancia e sei andato oltre, fino al sacrificio totale della tua persona.

Mi guardo intorno e vedo occhi fissi sullo schermo del telefono, impegnati sui social network ad inchiodare ogni errore degli altri senza possibilità di perdono. Uomini che, in preda all’ira, urlano di odiarsi per i motivi più futili.

Guardo le tue ferite e sono consapevole, ora, che io non avrei avuto la tua forza. Ma sono seduta qui ai tuoi piedi, e mi spoglio anch’io di ogni esitazione, mi alzo da terra per poter essere più vicina a te, anche solo di qualche centimetro.

Ti prego, Signore, fa’ che, di fronte al bene,
io possa avere la prontezza di riconoscerlo;
fa’ che, di fronte a un’ingiustizia, io possa avere
il coraggio di prendere in mano la mia vita e agire diversamente;
fa’ che possa liberarmi da tutte le paure
che come chiodi mi paralizzano e mi tengono lontana
dalla vita che tu hai sperato e preparato per noi.

Pater noster

XII stazione
Gesù muore in croce

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 23, 44-47)

Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto».

Ti vedo, Gesù, e questa volta non ti vorrei vedere. Stai morendo. Eri bello da guardare quando parlavi alle folle, ma ora tutto è finito. E io non voglio vedere la fine; troppe volte ho girato lo sguardo dall’altra parte, mi sono quasi abituato a fuggire il dolore e la morte, mi sono anestetizzato.

Il tuo grido sulla croce è forte, straziante: non eravamo pronti a tanto tormento, non lo siamo, non lo saremo mai. Fuggiamo d’istinto, in preda al panico, di fronte alla morte e alla sofferenza, le rifiutiamo, preferiamo guardare altrove o chiudere gli occhi. Invece tu resti lì in croce, ci aspetti a braccia aperte, aprendoci gli occhi.

È un mistero grande, Gesù: ci ami morendo, essendo abbandonato, donando il tuo spirito, compiendo la volontà del Padre, ritirandoti. Tu resti in croce, e basta. Non provi a spiegare il mistero della morte, del consumarsi di tutte le cose, fai di più: lo attraversi con tutto il tuo corpo e il tuo spirito. Un mistero grande, che continua ad interrogarci e ad inquietarci; ci sfida, ci invita ad aprire gli occhi, a saper vedere il tuo amore anche nella morte, anzi a partire proprio dalla morte. È lì che ci hai amati: nella nostra più vera condizione, ineliminabile e inevitabile. È lì che cogliamo, seppure ancora in modo imperfetto, la tua presenza viva, autentica. Di questo, sempre, avremo sete: della tua vicinanza, del tuo essere Dio con noi.

Ti prego Signore, apri i miei occhi,
che io ti veda anche nelle sofferenze,
nella morte, nella fine che non è la vera fine.
Turba la mia indifferenza con la tua croce, scuoti il mio torpore.
Interrogami sempre con il tuo mistero sconvolgente,
che supera la morte e dona la vita.

Pater noster…

XIII stazione
Gesù è deposto dalla croce

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 38-40)

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di aloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.

Ti vedo, Gesù, ancora lì, sulla croce. Un uomo in carne ed ossa, con le sue fragilità, con le sue paure. Quanto hai sofferto! E’ una scena insostenibile, forse proprio perché è intrisa di umanità: è questa la parola chiave, la cifra del tuo cammino, costellato di sofferenza e di fatica. Proprio quell’umanità che spesso dimentichiamo di riconoscere in te e di ricercare in noi stessi e negli altri, troppo presi da una vita che spinge sull’acceleratore, ciechi e sordi di fronte alle difficoltà e al dolore altrui.

Ti vedo, Gesù: ora non sei più lì, sulla croce; sei tornato da dove sei venuto, adagiato sul grembo della terra, sul grembo di tua madre. Ora la sofferenza è passata, svanita. Questa è l’ora della pietà. Nel tuo corpo senza vita riecheggia la forza con cui hai affrontato la sofferenza; il senso che sei riuscito a darle si riflette negli occhi di chi è ancora lì e ti è rimasto accanto e sempre rimarrà al tuo fianco nell’amore, donato e ricevuto. Si apre per te, per noi, una nuova vita, quella celeste, all’insegna di ciò che resiste e non viene spezzato dalla morte: l’amore. Tu sei qui, con noi, in ogni istante, in ogni passo, in ogni incertezza, in ogni ombra. Mentre l’ombra del sepolcro si allunga sul tuo corpo disteso tra le braccia di tua madre, io ti vedo e ho paura ma non dispero, ho fiducia che la luce, la tua luce, tornerà a risplendere.

Ti prego, Signore,
fa’ che in noi sia sempre viva la speranza,
la fede nel tuo incondizionato amore.
Fa’ che possiamo mantenere sempre vivo e acceso
lo sguardo verso la salvezza eterna,
e che riusciamo a trovare ristoro e pace nel nostro cammino.

Pater noster…

XIV stazione
Gesù è collocato nel sepolcro

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 41-42)

Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

Non ti vedo più, Gesù, ora è buio. Cadono ombre lunghe dalle colline, e le lanterne dello Shabbat brulicano in Gerusalemme, fuori dalle case e nelle stanze. Battono contro le porte del cielo, chiuso e inespugnabile: per chi è tanta solitudine? Chi in una notte tale può dormire? Risuona la città dei pianti dei bambini, dei canti delle madri, delle ronde dei soldati: muore questo giorno, e solo tu ti sei addormentato. Dormi? E su quale giaciglio? Quale coperta ti nasconde al mondo?

Da lontano Giuseppe di Arimatea ha seguito i tuoi passi, e ora in punta di piedi ti accompagna nel sonno, ti sottrae agli sguardi degli indignati e dei malvagi. Un lenzuolo avvolge il tuo freddo, asciuga il sangue e il sudore e il pianto. Dalla croce precipiti, ma con leggerezza. Giuseppe ti issa sulle spalle, ma lieve tu sei: non porti il peso della morte, non dell’odio, né del rancore. Dormi come quando nella paglia tiepida eri avvolto e un altro Giuseppe ti teneva in braccio. Come allora non c’era posto per te, non hai adesso dove posare il capo: ma sul Calvario, sulla dura cervice del mondo, lì cresce un giardino dove ancora nessuno è stato mai sepolto.

Dove te ne sei andato, Gesù? Dove sei sceso, se non nel profondo? Dove, se non nel luogo ancora inviolato, nella cella più angusta? Nei nostri stessi lacci sei preso, nella nostra stessa tristezza sei imprigionato: come noi hai camminato sulla terra, e ora al di sotto della terra come noi ti fai spazio.

Vorrei correre lontano, ma dentro di me tu sei; non devo uscire a cercarti, perché alla mia porta tu bussi.

Ti prego, Signore, che non ti sei manifestato nella gloria
ma nel silenzio di una notte oscura.
Tu che non guardi la superficie, ma vedi nel segreto

e nel profondo entri,
dal profondo ascolta la nostra voce:
fa’ che possiamo, stanchi, riposare in te,
riconoscere in te la nostra natura,
vedere nell’amore del tuo volto dormiente
la nostra bellezza perduta.

Pater noster…

 




“Chi governa? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza,della violenza economica, sociale, culturale e militare”

papa Francesco e i movimenti popolari

«Colui che evangelizza è un mendicante che va a dire a un altro mendicante dove entrambi potranno trovare da mangiare»

(Nairobi, 1975)

 L’agibilità per la rivendicazione e l’organizzazione delle masse popolari schiacciate dalle élite mondiali e nazionali è ridottissima. La protesta è tollerata fino a quando rimane innocua altrimenti viene repressa -secondo necessità- con la violenza militare, psicologica o mediatica. L’organizzazione viene intralciata, infiltrata o infangata agli occhi delle stesse persone che ne potrebbero giovare. L’oppresso deve diffidare dei suoi simili in termini di condizioni e fidarsi di più di chi ha il potere anche se lo esercita ai suoi danni. È la strategia dei professionisti del consenso. Le masse faticano a liberarsi perché per rivendicare ed organizzarsi devono sottrarre tempo al lavoro necessario per vivere. E raramente le due attività sono compatibili. Per combattere il Sistema in definitiva si deve essere pronti a perdere tutto economicamente e socialmente e qualche volta anche a morire. In termini umani (o meglio materiali) conviene quindi accordarsi e cercare un compromesso: sopravvivenza in cambio di sottomissione e sfruttamento. La maggioranza sceglie quest’opzione, lasciando allo scoperto le minoranze che invece scelgono la lotta. Facile così per il Sistema individuare le avanguardie e renderle inefficaci. Dopo, quella stessa maggioranza trasforma le avanguardie in poster da attaccare sui muri, in frasi da far girare sui social, in giornate commemorative da organizzare e vivere insieme a quello stesso potere a cui loro si erano opposte e per questo eliminate. D’altronde l’oligarchia non dà riconoscimenti quando è giusto ma solo quando è costretta a farlo. Quindi o la maggioranza si riprende la dignità con azioni combinate di nonviolenza attiva o nessuno gliela restituirà. Il voto è necessario ma non sufficiente: il cambiamento è un processo che deve essere accompagnato con la partecipazione. Altrimenti si rischiano solo pericolose opere di trasformismo.

testo di Papa Francesco: 

Il colonialismo ideologico globalizzante cerca di imporre ricette sovraculturali che non rispettano l’identità dei popoli.[…]

Quel “filo invisibile” di cui abbiamo parlato in Bolivia, quella struttura ingiusta che collega tutte le esclusioni che voi soffrite, può consolidarsi e trasformarsi in una frusta, una frusta esistenziale che, come nell’Egitto dell’Antico Testamento, rende schiavi, ruba la libertà, colpisce senza misericordia alcuni e minaccia costantemente altri, per abbattere tutti come bestiame fin dove vuole il denaro divinizzato.

Chi governa allora? Il denaro. Come governa? Con la frusta della paura, della disuguaglianza,della violenza economica, sociale, culturale e militare che genera sempre più violenza in una spirale discendente che sembra non finire mai.[…]

Nessuna tirannia si sostiene senza sfruttare le nostre paure.[…]

La paura viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre ad essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri e alla fine ci rende crudeli.[…]

Cosa succede al mondo di oggi che, quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarla, ma quando avviene questa bancarotta dell’umanità non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto? E così il Mediterraneo è diventato un cimitero, e non solo il Mediterraneo… molti cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.[…]

Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino.[…]

(papa Francesco, dal Discorso ai partecipanti al 3° incontro mondiale dei movimenti popolari, 5/11/2016)

pubblicato da ‘altranarrazione’

 




“gli ultimi, gli scartati, devono essere i primi … ” così per papa Francesco

gli scartati

la denuncia di papa Francesco

«nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze»

(, Evangelii Gaudium, 201)

 

 La reificazione (vedi Marx e G. Lukacs) è una delle conseguenze più inquietanti del modo di produzione capitalistico. Non solo si determina lo spostamento di valore dalle persone alle cose ma i singoli stessi si valutano secondo parametri di utilità funzionale o produttiva.  Chi è in esubero secondo le esigenze del capitale, chi non può produrre o semplicemente non raggiunge risultati quantificabili in termini economici non serve e quindi può essere scartato. Questa visione antropologica, ad altissima capacità di propagazione, riduce e uccide. Fa leva sugli istinti peggiori quelli cioè che sembrano realizzare l’uomo ed invece lo deformano. Riuscire a far parte di un sistema lasciando morti e feriti dietro il proprio passaggio appaga solo il delirio di onnipotenza ed innesca un inarrestabile processo di svuotamento dei contenuti essenziali.

testo di papa Francesco:

…è inaccettabile, perché disumano, un sistema economico mondiale che scarta uomini, donne e bambini, per il fatto che questi sembrano non essere più utili secondo i criteri di redditività delle aziende o di altre organizzazioni. Proprio questo scarto delle persone costituisce il regresso e la disumanizzazione di qualsiasi sistema politico ed economico: coloro che causano o permettono lo scarto degli altri – rifugiati, bambini abusati o schiavizzati, poveri che muoiono per la strada quando fa freddo – diventano essi stessi come macchine senza anima, accettando implicitamente il principio che anche loro, prima o poi, verranno scartati – è un boomerang questo! Ma è la verità: prima o poi loro verranno scartati – quando non saranno più utili ad una società che ha messo al centro il dio denaro”.
(dal Discorso di Papa Francesco alla Delegazione della “Global Foundation“, 14/01/2017)

 da ‘altranarrazione




i primi cinque anni di papa Francesco

i cinque anni del papa che ha capovolto la chiesa

di Alberto Melloni
in “la Repubblica” del 12 marzo 2018

“chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia”

Lo so. L’egocentrismo cattolico che non scolora la papolatria istintiva in Italia, lo iato morale che da decenni separa i pontefici da molti leader politici — tutto potrebbe far pensare che quello che si dice di Francesco da cinque anni lo si sarebbe detto di chiunque altro fosse stato eletto il 13 marzo 2013. Ma non è vero. Perché Francesco ha un baricentro peculiare, nudo, secco, perfino unilaterale: quello di un papato “kerygmatico”. Il “kèrygma” (annuncio), nel Nuovo Testamento è il nucleo del vangelo di Gesù. Non cancella la catechesi, la dottrina, le norme: queste Francesco le lascia ad altri, se sono capaci. Lui tiene per sé l’annuncio che smaschera l’idolo del potere, così da non sciupare quel che “Dio ha scelto”. Così quando tacciono i denigratori e quelli che lui chiama i “pappagalli bergogliani” (che cinguettano di “periferie”, di “chiesa in uscita” o di “migranti” sperandone una carriera), chi vuole può sentire la commovente dolcezza del vangelo come vangelo, che alla chiesa pellegrina nella storia dà rimprovero e consolazione, fortezza e grazia. Se nel marzo 2013 la maggioranza che Ratzinger sperava eleggesse il cardinale Scola fosse stata solida o sincera, in questi giorni festeggeremmo l’anno quinto di Paolo VII (dicono avrebbe scelto questo nome). Fine teologo, il “papa ciellino”, avrebbe scritto dotte encicliche. La causa di beatificazione di Giussani sarebbe avanzata. Renzi non avrebbe toccato Lupi. Parolin sarebbe nunzio in Venezuela e Bassetti vescovo emerito di Perugia, entrambi senza porpora. Chi campa lodando qualunque Papa, lo loderebbe; i critici sarebbero bastonati senza pietà. Unico dato comune: un fiume d’inchiostro avrebbe seguito i suoi atti sui beni mobiliari e immobiliari della chiesa, sulla riforma della curia e sui pedofili preti. Perché il disordine sistemico che aveva scosso la chiesa e Benedetto XVI aveva portato il Conclave a ritenere (sbagliando) che esso dipendesse solo dagli italiani e solo da queste tre piaghe purulente. Di quelle piaghe, in effetti, anche Francesco si è dunque dovuto occupare: e chi ne monitora i passi falsi credendo di smascherarne le debolezze, non ha capito che Francesco onora il capitolato conclavario col disincanto dell’uomo privo di ansie da prestazione religiosa. Il denaro, ad esempio, non è riformabile. Dopo Porta Pia fu pensato come un surrogato del potere temporale a difesa della chiesa: ma non si tenne conto (dice il cardinale Silvestrini) che quando appaiono i soldi i preti buoni sono spesso così buoni che si fidano dei delinquenti, e i preti delinquenti si fidano sempre dei delinquenti perché sono come loro. Dunque Francesco ha agito sullo Ior con troppe commissioni e troppe nomine: sapendo che però si può ottenere solo lo stesso grado di moralità che c’è nel mondo finanziario. Dicono non sia alto. Qualcosa di simile vale per la curia: la riforma in cantiere da un lustro riguarda i mansionari e lascerà alla bolla di promulgazione la sostanza teologica.

Ma Francesco sa che la curia si riforma non se il Papa si agita: ma se l’episcopato, senza coniglismi, entra nella logica di sinodalità che si apprende facendola. Quanto poi ai pedofili preti, coperti da vescovi eretici (ché se un vescovo segue la “ragion di chiesa” contro le vittime è posseduto da un demone anticristiano) Francesco sa che le grida sulla “tolleranza zero” non bastano e prima o poi permetteranno killeraggi mirati. Per cui, fatto tutto quello che è necessario sul piano giuridico, bisogna interrogarsi sulla elezione dei vescovi e sulla formazione dei preti: cioè guardare negli occhi la questione del ministero, che Francesco non ha voluto ancora affrontare. Questa attitudine non a tutti basta. Ma se uno guarda ai siti del fondamentalismo cattolico, troverà accuse febbricitanti, giochi di specchi social per far pensare che i nemici di Francesco siano tanti e pronti a deporlo. In realtà i nemici del Papa vorrebbero sembrare la metà della chiesa, ma sono pochi: una rumorosa armata in cerca di un cardinal Brancaleone, che li conduca al Conclave della rivincita che sperano vicino. Francesco, non senza crudeltà di un gesuita, glielo fa credere vicino da tempo, dicendo che si aspetta un papato corto, cinque anni. Adesso al quinto anno ci siamo: il Papa sta bene e la buona salute di Ratzinger impedisce ogni pensiero di rinunzia. Il magistero fragile del papa “kerygmatico” continua. Papa Bergoglio, sia chiaro, non ha un angelicato disinteresse per il domani: non dà posti cardinalizi ad alcuni perché quando il suo pontificato finirà — lo decida solo Dio o lo decidano insieme si vedrà — non li vuole al Conclave. Con la rarefazione dei cardinali italiani favorisce il primo papato italiano del secolo XXI, che prima o poi verrà. Ma non ha nessuna intenzione di manovrare e non fa neppure norme per proteggere quel che ha fatto o predicato. Se quel che fa viene da Dio, pensa, durerà. E il “kerygma” è da Dio. Se quel che ha fatto è fatto “in pace”, durerà: e l’uomo risolto in un mondo di maschi irrisolti, è in pace. Ma “ha fatto anche errori!”, dice la gauche caviar della teologia. Effettivamente se avesse fatto votare Amoris laetitia al sinodo avrebbe dato voce ad un organo fin qui muto e si sarebbe liberato delle polemiche bigotte di chi ignora la grande tradizione della chiesa. Se avesse voluto usare fino in fondo le sue prerogative di primate d’Italia avrebbe potuto impuntarsi perché i contenuti del suo potente discorso alla chiesa italiana a Firenze nel 2015 venissero almeno presi sul serio, se non proprio obbediti. Ma Francesco non ambisce all’Oscar come migliore attore protagonista del film della chiesa cattolica. Sa che il premio della fede è la fede. Crede che i processi di riforma riguardano le sfere della conversione che solo uno stupido politicismo penserebbe di poter misurare. E dunque fa “quel che crede” in senso stretto. Senza illusioni, senza posa, senza attivismi. Il papato kerygmatico varca la soglia dell’anno quinto e “la sua vita perentoria” insegna solo a chi sa ascoltare.




i primi cinque anni di papa Francesco e la sua opzione per i più poveri

papa Francesco

5 anni con gli ultimi nel cuore

l’anno che si apre avrà i giovani in primo piano e ‘sogno’ Cina

 Dal “Buonasera” del 13 marzo 2013 ai pianti con le vittime della pedofilia, dai viaggi nelle periferie del pianeta agli appelli per affrontare “la sfida epocale” dei migranti, dall’accelerazione nel cammino ecumenico e interreligioso al ‘sogno’ di vedere una chiesa unita in Cina. Papa Francesco chiuderà martedì 13 marzo il suo quinto anno di pontificato. Ora si apre un periodo ancora ricco di sfide: in primo piano i giovani, ai quali il pontefice ha voluto dedicare il prossimo Sinodo dei vescovi, e la famiglia, con l’incontro mondiale in Irlanda che dovrebbe suggellare le indicazioni della Amoris Laetitia, nella quale il pontefice chiede alla Chiesa di avere uno sguardo di misericordia sull’uomo. Resta forte l’impegno sulle riforme. Sul fronte della politica internazionale, è sempre fitto quel lavoro del pontefice nel tessere relazioni, nel costruire ponti. E’ la pace la priorità da raggiungere, in un mondo frantumato in cui sono gli ultimi, “gli scartati”, a vivere la situazione peggiore