contro papa Francesco senza tregua – la nuova destra europea in difesa dell’Occidente cristiano

Cristianesimo e Nuova Destra in Europa

di: Hans Schelkshorn

Il supplemento del Quaderno n. 204 di Cristianisme i Justicia (giugno 2017), del noto Centro dei gesuiti di Barcellona, dove è assai attivo il teologo José Ignacio Gonzalez Faus, riporta un articolo di Hans Schelkshorn, presidente dell’Istituto di filosofia cristiana della Facoltà cattolica dell’Università di Vienna

Difesa dell’Occidente cristiano? L’ideologia della nuova destra in Europa

In numerosi stati i partiti della nuova destra (ND) determinano in maniera crescente l’avvenire politico. I movimenti di Le Pen, il blocco fiammingo, il FPO austriaco e, più recentemente, la AFD tedesca mettono in discussione la democrazia liberale e il progetto di pace dell’Unione Europea.

Questi partiti non sono sorti dal nulla, ma dal vuoto morale che l’ideologia neoliberale ha lasciato dietro di sé negli ultimi trent’anni. In questo periodo si è svuotata la sostanza morale tanto della socialdemocrazia come dei partiti della democrazia cristiana. In sintesi: come il fascismo fu una reazione al liberalismo sfrenato, così la ND è una risposta al neoliberalismo.

A questo si è aggiunto il massiccio arrivo di rifugiati, che fuggono dalla caduta del Vicino e Medio Oriente e dall’instabilità di numerosi stati africani, ciò che ha alimentato ancor più l’ascesa di partiti della ND, alcuni dei quali sono stati i più votati nei loro paesi.

L’ideologia dei movimenti della ND

Tanto l’opinione pubblica come la scienza politica li qualificano con disprezzo come populisti. Una denominazione che, benché bene azzeccata, la considero tuttavia problematica. In effetti, la parola populismo suggerisce una politica ampiamente priva di ideologia, che si adatta alle opinioni mutevoli del popolo. In altre parole, l’ideologia del populismo consiste nel non avere nessuna ideologia stabile. Ora credo che una tale analisi sia una pericolosa minimizzazione di ciò che questi partiti rappresentano.

Molti analizzano il fenomeno alla luce di categorie psicologiche (risentimento nei confronti degli stranieri e dei partiti “consolidati”, paura della decadenza della classe media ecc.) Di tanto in tanto, sono percepiti come correttivi delle strutture bloccate dei partiti consolidati nella democrazia, in maniera che, come movimenti di protesta, non avrebbero ambizioni di governo. Benché non siano analisi false, sottovalutano la visione ideologica che hanno del mondo.

D’accordo con Jan-Werner Muller, percepisco nella ND una determinata ideologia, certamente flessibile, ma che mina pericolosamente i principi e i valori delle democrazie dello stato di diritto, così come si sono costruite in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

La concezione fondamentale dell’ideologia della ND è sorta in Francia, nell’ambito del movimento presieduto da Le Pen. È stato soprattutto Alain de Benoist, uno degli ideologi della Nouvelle Droite, incaricato a formularla: una concezione che differenzia strettamente la ND dal vecchio fascismo tra le due guerre che si costruì su due pilastri. In primo luogo, essi erano apertamente anti-democratici. Avevano per scopo di abbattere la democrazia, ricorrendo alla violenza qualora fosse necessario. In secondo luogo, erano basati sul razzismo.

La ND prescinde da questi due principi fondamentali del fascismo e adotta i diritti civili e la democrazia. Rinuncia, quindi, alla presa del potere ricorrendo all’uso della violenza e accetta i risultati delle elezioni democratiche. Inoltre, sostituisce il “vecchio” razzismo con un “etno-pluralismo”, promuovendo il riconoscimento delle diverse etnie e culture, ciascuna nel proprio territorio. Un concetto chiave della ND è la preservazione dell’“unione etnica” di una nazione. Dal 1986, insieme al movimento di Le Pen, il FPO austriaco è diventato uno dei più importanti protagonisti della ND europea. Jorg Haider, il leader, espresse in maniera precisa il nucleo di questo pensiero: «se la politica non si costruisce su principi etnici, all’umanità non le rimane nessun futuro».

Ciò nonostante, tra gli stessi partiti che difendono i principi sopra ricordati, la questione di come si determina la etnia dal punto di vista concettuale è ancora oggetto di controversia. De Benoist, per esempio, rappresenta un punto di vista anticristiano, decisamente “pagano”, della nazione francese. Mentre altri, tra questi il FPO, si sono accostati al cristianesimo, erigendosi a difensori dell’Occidente cristiano nella lotta contro l’islam.

Il pericolo delle imposizioni della ND consiste nel fatto che l’interpretazione etnica di “nazione” o di “popolo” è prioritaria, e viene posta al di sopra dei diritti umani. De Benoist parla appunto dell’«ideologia dei diritti umani», criticandola come secolarizzazione della morale cristiana. L’ideale di fraternità, che insieme a quello di libertà e di uguaglianza, è una delle tre colonne della Rivoluzione francese, deve limitarsi, a suo parere, alla nazione. Per questo i partiti della ND mettono in discussione i diritti umani.

Più ancora, considerano che l’interpretazione etnica di “popolo” o di “nazione” sia il fondamento dello Stato e quindi vada tutelata con mezzi statali. Proprio per questo, il FPO ha messo transitoriamente nel suo programma elettorale un “diritto alla patria”, che dovrebbe aggiungersi alla lista dei diritti umani. Così si apre di colpo uno spiraglio ad una politica autoritaria.

Tuttavia, il “diritto alla patria” non è un diritto umano che si debba imporre allo Stato né che possa essere rivendicato giudizialmente. In una democrazia pluralista, i concetti di “patria” o di “identità nazionale” sono piuttosto oggetto di dibattito pubblico e si basano su determinati diritti umani, soprattutto sul diritto alla libertà di opinione e di riunione. Nel “diritto umano alla patria”, che sembra così inoffensivo, si nasconde una carica esplosiva estremamente pericolosa che, a lungo termine, mina le democrazie dello stato di diritto, trasformandole in sistemi autoritari. Di fatto, Jorg Haider rivendicò l’ instaurazione di una “terza repubblica”.

È chiaro che le democrazie liberali si fondano sul principio universale dei diritti umani, ma anche su un determinato consenso sull’“identità nazionale”. Anche Habermas, che sostiene solo la legittimità di un patriottismo costituzionale, mette in rapporto l’universalità dei diritti umani con tutto il sistema democratico di diritto, tenendo conto di determinate concezioni della conservazione dell’identità nazionale.

Il punto caldo della ND consiste nel diluire in maniera unilaterale, a favore della nazione, la tensione tra diritti umani considerati da un punto di vista universale e concezioni particolari di identità nazionale. Per questo, sono partiti che cercano di controllare i media in nome di una ideologia popolare che debilita la separazione di poteri, specialmente l’indipendenza della giustizia e, soprattutto, la giustizia del tribunale costituzionale, creato in molti paesi dopo la seconda guerra mondiale, come conseguenza del fascismo. Il tribunale costituzionale è un’istituzione di grande importanza per la protezione delle democrazie dello stato di diritto.

Cosicché i partiti della ND non sono populisti per il fatto di adattarsi alle mutevoli opinioni del popolo. Al contrario, sanno da sempre quale deve essere “la volontà del popolo”, e soprattutto chi appartiene al popolo. Zingari, giudei, atei, socialisti e artisti di avanguardia non ne fanno parte, di regola.

Viktor Orbán, protagonista cristiano della ND

Queste ideologie non sono patrimonio esclusivo dei partiti della ND, ma vengono adottate da altri, soprattutto nella democrazia cristiana. Un esempio è proprio il democristiano ungherese Viktor Orbán, che è diventato uno dei dirigenti più potenti. Orbán difende pubblicamente l’idea di uno stato “a-liberale”, che ha tutti gli elementi sopra ricordati. Di più: appoggiato da una maggioranza di due terzi, sulla base di un 53% di votanti, Orbán, con la nuova costituzione, per la prima volta ha costruito in Europa uno stato che si basa su questi principi, realizzando il sogno di Haider di instaurare la “terza repubblica”.

In una intervista a Weltwoche (n. 46, dicembre 2015) Orbán espresse con tutta chiarezza la priorità della nazione sui diritti umani: «La mia impressione personale è che, quando si tratta di questioni spirituali, le élites europee dibattono soltanto temi superficiali e secondari. Belle parole su diritti umani, progresso, pace, apertura, tolleranza. Nel dibattito pubblico non si parla mai di temi fondamentali, cioè, da dove procedono di fatto queste cose così simpatiche. Non parliamo della libertà, non parliamo del cristianesimo, non parliamo della nazione, non parliamo dell’orgoglio. Detto brutalmente: ciò che oggi impera nell’opinione pubblica europea è soltanto un “bla-bla-bla” europeo e liberale su tempi simpatici ma secondari».

Questo spirito è stato trasferito in particolare alla costituzione ungherese. Nel suo preambolo, si presenta l’Ungheria come una nazione cristiana. Chiaro che nei preamboli di molte costituzioni a volte si presenta in maniera idealizzata la storia della nazione. Però, a differenza di altre costituzioni occidentali, il tribunale costituzionale ungherese è obbligato a prendere le sue decisioni alla luce di questo preambolo, cioè, alla luce della concezione dell’Ungheria come nazione cristiana.

Inoltre, la questione attuale dei rifugiati proietta ancor più luce sulla ideologia neo-destrista di Orbán. Le democrazie dello stato di diritto insistono sul fatto che esiste una unità tra i diritti umani e le idee dell’identità nazionale. Per questo, gli stati dell’Unione Europea discutono vivacemente la questione di quanti rifugiati possano essere accolti e dove si mette il limite dell’accoglienza. Nonostante tutte le obbligazioni del diritto dei popoli, vi è un ampio campo per considerare legittimi i pro e i contro.

Le ideologie della ND risolvono, tuttavia, la tensione tra identità azionale e diritti umani unilateralmente ed esigono che si metta fine all’accoglienza di rifugiati. Posto che si debba preservare la purezza etnica della “nazione cristiana”, secondo Orbán, non è accettabile neppure una quota minima di 1.300 rifugiati.

Contro l’autodefinizione di “difensore dell’Occidente cristiano”

I nuovi difensori dell’Occidente cristiano tradiscono per questo i successi dello stato democratico di diritto e il contenuto universalista della morale cristiana. Su questo sfondo, è un paradosso storico che sia papa Francesco, che viene dall’America Latina e nel quale si avverte lo spirito della teologia della liberazione, che debba ricordarci sia i fondamenti delle democrazie europee, basati sui diritti umani, come il contenuto centrale della morale cristiana. Il suo discorso a Lampedusa e il recente appello alle parrocchie e monasteri ad accogliere come minimo una famiglia di rifugiati sono stati colti intuitivamente, da parte di settori dell’Europa secolare, come una testimonianza originariamente cristiana. Al contrario, coloro che, di destra, si definiscono i nuovi difensori dell’Occidente cristiano, insultano pubblicamente il papa e persino lo condannano come traditore.

Le Chiese cristiane si portano ancora dietro la passata eredità delle loro alleanze con i sistemi fascisti del secolo XX. Una rinnovata complicità con le ideologie della ND all’inizio del secolo XXI le precipiterebbe in una nuova crisi di credibilità, le cui ombre oscurerebbero per secoli la vita dei cristiani e delle cristiane di tutta Europa.

il peccato di ‘omissione’ come ‘infifferenza globalizzata’

Il grande peccato dell’indifferenza

di papa Francesco
in “L’Osservatore Romano” del 20-21 novembre 2017

Abbiamo la gioia di spezzare il pane della Parola, e tra poco di spezzare e ricevere il Pane eucaristico, nutrimenti per il cammino della vita. Ne abbiamo bisogno tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo mendicanti dell’essenziale, dell’amore di Dio, che ci dà il senso della vita e una vita senza fine. Perciò anche oggi tendiamo la mano a Lui per ricevere i suoi doni. Proprio di doni parla la parabola del Vangelo. Ci dice che noi siamo destinatari dei talenti di Dio, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,15). Prima di tutto riconosciamo questo: abbiamo dei talenti, siamo “talentuosi” agli occhi di Dio. Perciò nessuno può ritenersi inutile, nessuno può dirsi così povero da non poter donare qualcosa agli altri. Siamo eletti e benedetti da Dio, che desidera colmarci dei suoi doni, più di quanto un papà e una mamma desiderino dare ai loro figli. E Dio, ai cui occhi nessun figlio può essere scartato, affida a ciascuno una missione. Infatti, da Padre amorevole ed esigente qual è, ci responsabilizza. Vediamo che, nella parabola, a ogni servo vengono dati dei talenti da moltiplicare. Ma, mentre i primi due realizzano la missione, il terzo servo non fa fruttare i talenti; restituisce solo quello che aveva ricevuto: «Ho avuto paura – dice – e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Questo servo riceve in cambio parole dure: «malvagio e pigro» (v. 26). Che cosa non è piaciuto al Signore di lui? In una parola, forse andata un po’ in disuso eppure molto attuale, direi: l’omissione. Il suo male è stato quello di non fare il bene. Anche noi spesso siamo dell’idea di non aver fatto nulla di male e per questo ci accontentiamo, presumendo di essere buoni e giusti. Così, però, rischiamo di comportarci come il servo malvagio: anche lui non ha fatto nulla di male, non ha rovinato il talento, anzi l’ha ben conservato sotto terra. Ma non fare nulla di male non basta. Perché Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni e i suoi progetti (cfr v. 14). Ed è triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre (cfr Lc 15,17). Il servo malvagio, nonostante il talento ricevuto dal Signore, che ama condividere e moltiplicare i doni, l’ha custodito gelosamente, si è accontentato di preservarlo. Ma non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato. Invece, dice la parabola,

colui che aggiunge talenti nuovi è veramente «fedele» (vv. 21.23), perché ha la stessa mentalità di Dio e non sta immobile: rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia: il proprio utile. Questa è l’unica omissione giusta. L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: “Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società”. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene. Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo.

Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole:
«Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi. Dio lo apprezza tanto, apprezza l’atteggiamento che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, quello della «donna forte» che «apre le sue palme al misero, stende la mano al povero» (Pr 31,10.20). Questa è la vera fortezza: non pugni chiusi e braccia conserte, ma mani operose e tese verso i poveri, verso la carne ferita del Signore. Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali. E ci farà bene: accostare chi è più povero di noi toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce. Oggi possiamo chiederci: “Che cosa conta per me nella vita, dove investo?” Nella ricchezza che passa, di cui il mondo non è mai sazio, o nella ricchezza di Dio, che dà la vita eterna? Questa scelta è davanti a noi: vivere per avere in terra oppure dare per guadagnare il cielo. Perché per il cielo non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà, e «chi accumula tesori per sé non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Non cerchiamo allora il superfluo per noi, ma il bene per gli altri, e nulla di prezioso ci mancherà. Il Signore, che ha compassione delle nostre povertà e ci riveste dei suoi talenti, ci doni la sapienza di cercare ciò che conta e il coraggio di amare, non a parole ma coi fatti.

altri nemici per papa Francesco per le sue parole contro l’ accanimento terapeutico

‘fine vita’

l’apertura procura a Francesco nuovi nemici

“è di sinistra ed eretico”

Fine vita, l’apertura procura a Francesco nuovi nemici: “È di sinistra ed eretico”
Reazioni contrapposte nei sacri palazzi, tra chi prova a depotenziare le parole del pontefice e chi lo attacca. Dopo 5 anni di pontificato è sempre più evidente la frattura tra Bergoglio e una parte consistente della Curia. “Ci fa soffrire questo volerci separare da lui – getta acqua sul fuoco monsignor Becciu, sostituto della Segreteria di Stato – dispiace che l’esprimersi liberamente sia interpretato come un esprimersi in contrasto”
In Vaticano Papa Francesco non ha per nulla vita facile. Le sue parole sul fine vita, pronunciate proprio mentre al Senato è bloccato da tempo il ddl sul Biotestamento, hanno suscitato reazioni contrapposte tra gli inquilini dei sacri palazzi, aumentando la fronda, già ben consistente, dei suoi nemici. Da un lato ci sono coloro che vogliono depotenziare la portata storica delle aperture fatte da Bergoglio. “Il Papa si è limitato a ribadire la dottrina della Chiesa. Stop. Non c’è nulla di nuovo. Sono i media che continuano a costruire il ritratto di un Pontefice comunista”, si lascia scappare un alto prelato della Curia romana esperto di bioetica.Dall’altro lato c’è chi, proprio in Vaticano, non sembra per nulla essere della stessa opinione. “Oltre che di sinistra, è pure eretico. Ma questa – sottolinea un arcivescovo coetaneo di Bergoglio – non è una scoperta di oggi. Ai ‘dubia’ sulle aperture ai divorziati risposati il Papa non ha risposto e ora, dopo più di un anno, il cardinale Burke è tornato alla carica chiedendo con forza al Papa di rispondere”. Prova a gettare acqua su fuoco, invece, il sostituto della Segreteria di Stato, ovvero il “ministro dell’Interno” vaticano, monsignor Giovanni Angelo Becciu, precisando che dopo le affermazioni di Francesco sul fine vita “non cambia niente, il rifiuto dell’accanimento terapeutico era già previsto da Pio XII”.Il presule, però, ammette che “le parole del Papa avranno un peso in Italia, ma quando interviene Francesco non può sempre avere di mira l’Italia e i suoi momenti politici. È un discorso a tutto il mondo e questa assemblea dei medici era prevista da tanto tempo, non da quando hanno deciso di progettare la discussione sul fine vita nel Parlamento italiano. La tabella del Papa non si può misurare con i programmi della politica italiana”. Sarà, eppure proprio nella Curia romana c’è chi fa notare che quello sul fine vita non è stato un discorso pronunciato, magari a braccio, da Francesco, bensì un messaggio che si è avuto tutto il tempo di vagliare con cura ed era molto prevedibile la ricaduta politica che ci sarebbe stata soprattutto in Italia.Così come non manca, sempre in Vaticano, chi pone l’accento sullo stridente contrasto tra la bocciatura netta che aveva fatto la Conferenza Episcopale Italiana al ddl sul Biotestamento e le aperture del Papa. Era stato proprio il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, a tuonare: “Una legge che riguarda l’eutanasia, che riguardi questo ambito particolare, la dichiarazione di fine vita, una legge che attribuisce tutto il potere all’autodeterminazione della persona, evidentemente non può essere accettata. Una legge che smonta quella sorta di alleanza tra paziente, medico e famigliari finisce per essere soltanto il trionfo, ancora una volta, dell’individualismo su questa realtà”.  In cinque anni di pontificato è ormai sempre più evidente la frattura tra Bergoglio e una parte consistente della Curia romana. “Un po’ ci fa soffrire questo volerci separare dal Papa, – afferma Becciu – quando noi invece siamo lì a dare la nostra vita per lui. È chiaro che in Curia possiamo esprimere idee diverse, ma è un contributo per rendere la Chiesa migliore. È normale che ci si esprima. Però ho notato che c’è obbedienza totale. Dispiace che l’esprimersi liberamente sia interpretato come un esprimersi in contrasto con il Papa. Ma c’è unità piena in Curia”. Anche se poi aggiunge: “Mi fa male sentire che il Papa è eretico. Non so che cosa sta succedendo ad alcuni”.

Un invito a “considerare la reale portata del messaggio di Francesco” arriva da padre Carmine Arice, superiore generale della Società dei Sacerdoti del Cottolengo e per cinque anni direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei. “Il Papa – afferma il sacerdote nominato dal Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, membro della Pontificia Commissione per le attività del settore sanitario – conferma il magistero della Chiesa in materia di fine vita, sia quello suo che dei suoi predecessori con una sottolineatura importante: tenere conto dell’apporto dei mezzi tecnico scientifici che la medicina ha acquisito e dunque non abusare in modo sproporzionato di essi. Inoltre, Francesco dà al paziente la vera centralità nel processo decisionale in dialogo con i medici e con quanti lo assistono anche per quello che riguarda le scelte terapeutiche opportune”. Per Arice, inoltre, è “chiara anche la condanna dell’eutanasia che è, come ha sottolineato il Papa, interruzione della vita procurando la morte”.

“vi chiedo scusa” – papa Francesco chiede perdono ai poveri

papa Francesco

le scuse ai poveri

 Se Dio è venuto a capovolgere le gerarchie e le priorità dell’uomo, la Chiesa è se stessa solo se sta dalla parte dei poveri e ne condivide le sofferenze. Scandalizza sia quando si disinteressa di loro mentre rende onori ai potenti in cambio di sovvenzioni e privilegi fiscali sia quando organizza servizi assistenziali dall’alto e dal di fuori. Il paternalismo rende il cibo molto amaro. Il grande dramma della chiesa è che si crede nel giusto imitando le tecniche di sopravvivenza proprie delle classi agiate. Ha introiettato la sua sottocultura e la sua antievangelica visione antropologica.

 Con i poveri sembra trovarsi in imbarazzo. Si infastidisce più per le loro pretese che per la corruzione di un amministratore pubblico. Non si fa problemi a stringere la mano di dittatori o guerrafondai democratici, mentre evita quella dei senzanome che si trovano appena fuori dalla porta. Accetta doni e riconoscimenti da imprenditori senza scrupoli mentre si tiene ben lontano dalle proteste di licenziati e precari. La vediamo continuamente protesa in uno sforzo di compatibilità con il potere nonostante la sua devastante perfidia sociale. Preferisce l’accordo con i potenti al sostegno delle rivendicazioni dei poveri.  Continua ad attribuire all’esterno la colpa della perdita di credibilità non accorgendosi che il problema sta nella imbarazzante contraddizione della sua vocazione. Siamo costretti a cercare testimoni credibili e facciamo fatica a trovarli. È un duro lavoro perché occorre far riemergere dalla polvere e dal pregiudizio i loro testi e poter così riascoltare la loro voce profetica spesso zittita a suo tempo dalla gerarchia. E torniamo così a respirare. Altre volte capita invece che a distanza di anni o secoli, la Chiesa si riappropri di un messaggio che aveva prima ostacolato. Di solito succede quando non può più incidere nella realtà oltre la sala convegni dove viene celebrata la tardiva e inutile riabilitazione.

 

Testo di Papa Francesco

“E vi chiedo scusa se vi posso aver qualche volta offeso con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire. Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo trovando la povertà al centro. Vi chiedo perdono per tutte le volte che noi cristiani davanti a una persona povera o a una situazione di povertà guardiamo dall’altra parte. Scusate.

Il vostro perdono per uomini e donne di Chiesa che non  vogliono guardarvi o non hanno voluto guardarvi, è acqua benedetta per noi; è  pulizia per noi; è aiutarci a tornare a credere che al cuore del Vangelo c’è la povertà come grande messaggio, e che noi – i cattolici, i cristiani, tutti – dobbiamo formare una Chiesa povera per i poveri; e che ogni uomo e donna di qualsiasi religione deve vedere in ogni povero il messaggio di Dio che si avvicina e si fa povero per accompagnarci nella vita”.

(Papa FrancescoDiscorso aipartecipanti al Giubileo delle persone socialmente escluse, 11/11/2016)

una lettera a sostegno di papa Francesco

in 50 000 firmano per Francesco

di Thomas Seiterich
in “www.publikforum.de” dell’11 novembre 2017 

una lettera per esprimere sostegno a papa Francesco: chi la sottoscrive? Per ora lo hanno fatto più di 50 000 persone. L’iniziativa “Pro-Pope-Francis” è partita dal teologo pastorale viennese Paul Michael Zulehner e dal filosofo delle religioni ceco Thomas Halik. L’iniziativa viene presa in considerazione in Vaticano? Ce lo chiediamo.

“Stimatissimo papa Francesco”

– con queste parole comincia la lettera di sostegno. E così il tono è dato. Lo scarno testo, che si può leggere e comprendere in due minuti, si appella al mainstream della Chiesa cattolica. Il gruppo che viene sollecitato è quello delle persone “aperte” o, come dice Zulehner, è “alla maggioranza che finora è rimasta in silenzio” che si vuole dare con questa lettera di sostegno una possibilità di agire. Per questo è molto scarna e senza note a pié di pagina. Ma la situazione, secondo i proponenti Zulehner e Halik, è seria.

“(papa Francesco) le sue iniziative pastorali e il loro fondamento teologico vengono in questo periodo aspramente attaccate da un gruppo di persone nella Chiesa. Con questa lettera aperta esprimiamo la nostra riconoscenza per la sua conduzione coraggiosa e teologicamente fondata”.

L’iniziativa viene presa in considerazione dal papa? “Sì, si suppone di sì”, risponde padre Bernd Hagenkord, gesuita e direttore del settore di lingua tedesca di Radio Vaticana. Anche gli altri giornalisti vaticanisti interpellati da Publik-Forum a Roma annuiscono. Ma non danno molta importanza alla cosa. Perché? Cattolici conservatori e attivisti tradizionalisti dell’America sia meridionale che settentrionale hanno già da tempo raccolto numeri ancora più elevati di firme contro Francesco e la sua linea sui temi di matrimonio e famiglia. Bisogna che da Vienna venga ben altro! Molti quindi restano semplicemente in atteggiamento di attesa. Però per papa Francesco, attaccato dai conservatori, è utile l’iniziativa di Zulehner e Halik, il cui numero di sottoscrittori cresce di più di 2000 al giorno. L’attacco dei conservatori in Vaticano ha come bersaglio fondamentalmente la nota 352 dell’esortazione post-sinodale di Francesco Amoris laetitia. Perché in quella nota il papa spiana la strada in molti “casi particolari” alla possibilità che divorziati e risposati cattolici possano fare la comunione. Tuttavia la luna di miele tra i media a Francesco, che è durata sorprendentemente a lungo, sembra avvicinarsi alla fine. Molti giornali – come la Frankfurter Allgemeine Zeitung o il New York Times – danno la precedenza ai critici del papa. E anche se non è un fatto straordinario che un papa progressista si trovi confrontato a una ondata di protesta globale da parte di ecclesiastici di destra, il cambiamento di atteggiamento dei media lascia intendere quanto sia conflittuale la situazione a Roma. Tanto più che Francesco non manda alcun segnale di annullamento della linea di apertura della Chiesa sotto la sua guida. Come si va avanti? Quasi completamente senza alcuna organizzazione, l’iniziativa viennese raccoglie ogni giorno molti nuovi simpatizzanti. Il 9 novembre ha firmato il primo vescovo ausiliare tedesco, Matthäus Karrer di Rottenburg-Stoccarda. E accanto a Suor Lea Ackermann, a Pierre Stutz, al politico dei Verdi Volker Beck, all’editore di Publik-Forum Wolfgang Thierse e a Thomas Sternberg, presidente del Comitato Centrale dei cattolici tedeschi, c’è anche la firma del vicario generale della diocesi di Essen, Klaus Pfeffer.

un papa dalla grande “potenza semiotica” – un libro di due professori di semiologia

papa Francesco

un papa “pop” dalla grande “potenza semiotica

intervista a Paolo Peverini e Anna Maria Lorusso, curatori del libro “Il racconto di Francesco”

in anteprima alcuni dettagli sul portale unico dei media vaticani

Papa Francesco è un “Papa pop”, un “Papa leader” che “produce senso”, che comunica “semplicità”, rivelando una grande “potenza semiotica”. Jorge Mario Bergoglio, a quasi cinque anni dall’elezione al soglio di Pietro, è stato capace di “ridefinire alcune aree di senso della cristianità e forse del più generale vivere insieme”. È questo che sottolinea il libro appena pubblicato dalla Luiss University Press

“Il racconto di Francesco. La comunicazione del Papa nell’era della connessione globale”

che sarà presentato per la prima volta alla stampa giovedì 9 novembre nella sede romana della Rai, nella Sala degli Arazzi di viale Mazzini, alla presenza del presidente Rai, Monica Maggioni, e del prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede, mons. Dario Edoardo Viganò.

Il Sir ha incontrato in anteprima i due curatori del volume, i semiologi Paolo Peverini (Università Luiss “Guido Carli”, consultore per la Segreteria per la comunicazione) e Anna Maria Lorusso (Università di Bologna), che coinvolgendo altri noti studiosi – tra cui Ruggero Eugeni, Isabella Pezzini e Maria Pia Pozzato – hanno realizzato un’attenta analisi della comunicazione di Papa Francesco, offrendo una prospettiva inedita d’indagine grazie agli strumenti della Semiotica.
Tra le particolarità della pubblicazione c’è un’importante esclusiva: nel suo saggio Peverini, nell’approfondire la comunicazione del Pontefice, richiama alcuni aspetti del nuovo portale unico dei media della Santa Sede, in corso di messa a punto con la riforma, avendo potuto visionare il progetto grazie alla Segreteria per la comunicazione.

Anzitutto il libro, “Il racconto di Francesco”. Nel testo sottolineate come Papa Francesco rappresenti un’occasione particolarmente “ghiotta” per la semiotica.
Papa Francesco è dal nostro punto di vista una specie di potente “macchina semiotica”. Tutti noi, in quanto soggetti umani, siamo macchine semiotiche, nel senso che produciamo senso continuamente, inevitabilmente, talvolta inconsapevolmente, con tutto il nostro fare (non solo quando parliamo ma quando ci vestiamo, gesticoliamo, fotografiamo, etc.). In Papa Francesco, però, è come se le diverse dimensioni della comunicazione assumessero piena visibilità; la sua capacità di ridare significatività e attenzione a modi di essere spesso non marcati, percepiti come casuali (dove si abita, come si telefona, che scarpe si indossano…), è davvero straordinaria e

il modo in cui riesce a far convivere spontaneità e coerenza (quasi programmatica) potrebbero essere una lezione per tutti coloro che si chiedono, a tavolino, come si realizza una comunicazione strategica.

Di fatto il suo modo di comunicare rinnova i codici della comunicazione istituzionale e rituale quasi a ogni passo; il suo modo di restare in equilibrio fra rinnovamento continuo e riconoscibilità, fra immediatezza e carismaticità, costituisce a nostro avviso un caso piuttosto unico di comunicazione pubblica.

 

 

È molto interessante, di fatto unica, la prospettiva che offrite nel tratteggiare la comunicazione di Francesco, concentrandovi su come il Papa ridefinisce alcune aree di senso della cristianità.
La domanda da cui siamo partiti, nel riflettere su Papa Francesco, aveva sostanzialmente a che fare col suo “successo”, ovvero col fatto che fosse riuscito in poco tempo a ridare credibilità alla Chiesa, a conquistare il consenso di fasce anche non cattoliche di popolazione, che fosse riuscito a stabilire un legame “diretto” con la gente. Tutto ciò ha a che fare certamente col suo modo di comunicare, ma in un senso molto più radicale ed esteso di quanto “comunicazione pubblica” possa far intendere. Si trattava per noi di indagare il suo modo di essere tout court, anche quando apparentemente non comunica (certe scelte pragmatiche ad esempio, come indossare un determinato orologio o un certo crocifisso) o anche quando non è lui direttamente il responsabile di un certo discorso sulla Chiesa (come nella gestione dei film su di lui) o quando si affida alla sua rete mediatica vaticana. Attraverso questa riflessione a 360° ci siamo resi conto che la grandezza semiotica di Papa Francesco consiste proprio in una cifra ricorrente, che ridefinisce certi spazi, certi riti e certe pratiche della cristianità.

Papa Francesco riesce a rinnovare la Chiesa standoci dentro; ne rispetta i riti ma li reinterpreta (ad esempio, iniziando il suo primo discorso con il famoso “Buonasera!”), ne rispetta gli spazi ma preferisce percorsi marginali (Santa Marta…), sceglie di immergersi fra la gente ma conserva e anzi accresce il suo carisma. Il suo modo di rinnovare il ruolo papale ha a che fare con la sintesi degli opposti, non con l’esclusione e la frattura.

Perché Papa Francesco è considerato “pop”?
Ci sono tante ragioni per cui possiamo definire Papa Francesco “pop”. È pop perché ricorre a un linguaggio irrituale, perché è in grado di declinare contenuti complessi in forme brevi (si pensi al grande successo dei suoi messaggi su Twitter), manifesta curiosità nei confronti di forme attuali di autorappresentazione come i selfie. Privilegia il contatto diretto con l’interlocutore scegliendo il mezzo del telefono; valorizza modi di dire diretti e azioni di vita quotidiana, come l’andare nei negozi. Allo stesso tempo, tuttavia, Papa Francesco riesce a declinare il suo messaggio all’interno di grandi eventi mediali come il discorso tenuto in lingua spagnola in occasione del Super Bowl e incentrato sui valori della pace, dell’amicizia e della solidarietà.

È pop perché alla sacralità che crea distanza preferisce modi espressivi che non solo riducono le distanze ma mirano all’inclusione. È pop perché è amato dalla gente, perché la gente lo sente vicino, lo sente “uno di loro”, in una strana unione tra carisma e normalità.

In ultimo, avete avuto una straordinaria opportunità, la possibilità di visionare e studiare in anteprima il nuovo portale dell’informazione vaticana (SpC) che verrà lanciato nei prossimi mesi. Cosa ci potete svelare?
Grazie alla disponibilità della Segreteria per la comunicazione e in primo luogo del prefetto, mons. Dario Edoardo Viganò, abbiamo avuto l’opportunità preziosa di visionare in anteprima una prima versione (tuttora in fase di evoluzione) del nuovo portale dell’informazione. Da studiosi, quello che ci interessava era in primo luogo prendere in esame la correlazione tra i valori a fondamento del pontificato di Francesco e l’esordio del nuovo portale, un’operazione di portata strategica mirata per la prima volta a riunificare tutti i media della Santa Sede in un’unica struttura fondata sulle logiche dell’efficienza e della convergenza mediale. Secondo questa prospettiva, l’aspetto che ci sembra più significativo è che

il nuovo portale si fonda sul tentativo di operare una sintesi tra la dimensione “apostolica” e quella “informativa”.

Al suo fondamento ci sarebbe cioè una strategia di comunicazione volta a ridurre la distanza con il destinatario, ribadendo l’esigenza della vicinanza all’altro, del dialogo multiculturale e interreligioso. L’invito all’inclusione, all’incontro, temi centrali nell’idea di Chiesa sollecitata e prefigurata da Francesco sin dalla sua elezione al soglio di Pietro, vengono declinati in modo esplicito nel nuovo portale, assumendo un valore simbolico che trascende la dimensione dell’usabilità (i cui criteri sul piano tecnico sono stati in ogni caso ampiamente rispettati).

 

disarmare il mondo non può essere un miraggio utopico

papa Francesco

il disarmo integrale non è un’utopia

non utopia, ma sano realismo

così papa Francesco, ricevendo in udienza i partecipanti al Simposio vaticano, ha definito l’ambizioso obiettivo del disarmo integrale

le armi nucleari producono “catastrofiche conseguenze umanitarie”, il grido d’allarme contro la “logica della paura

Le armi nucleari producono “catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali”, e sono la conseguenza della “logica di paura” che affligge il pianeta. È il grido d’allarme di Papa Francesco, che ricevendo oggi (10 novembre) in udienza i partecipanti al Simposio internazionale sul disarmo, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, sul tema: “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, ha condannato con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari – ormai diffuso anche via Internet – ma ha anche esortato a mettere da parte il “fosco pessimismo” a favore di un “sano realismo”. Come quello che ha portato alla recente “storica votazione” all’Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra. A 50 anni dalla Populorum progressio, “lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere”. E il disarmo integrale, auspicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris, attende ancora di essere realizzato. Al Simposio, in corso fino a domani in Vaticano, partecipano 11 premi Nobel per la pace, vertici di Onu e Nato, diplomatici rappresentanti degli Stati tra cui Russia, Stati Uniti, Corea del Sud, Iran, nonché massimi esperti nel campo degli armamenti ed esponenti delle fondazioni, organizzazioni e società civile impegnate attivamente sul tema. Presenti, inoltre, rappresentanti delle Conferenze episcopali e delle Chiese, a livello ecumenico e di altre fedi, e delle delegazioni di docenti e studenti provenienti dalle Università di Stati Uniti, Russia e Unione europea.

Anche considerando il rischio di una detonazione accidentale di tali armi per un errore di qualsiasi genere – l’esordio di Francesco – è da condannare con fermezza la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso, proprio perché la loro esistenza è funzionale a una logica di paura che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano”.

La spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta, così come i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi – non solo nucleari – che rappresentano una voce di spesa considerevole per le nazioni, al punto da mettere in secondo piano temi come la lotta contro la povertà, la promozione della pace, la realizzazione di progetti educativi, ecologici e sanitari e lo sviluppo dei diritti umani.

“Non possiamo non provare un vivo senso di inquietudine se consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari”, il grido d’allarme del Papa: “Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici”.

Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, generano un ingannevole senso di sicurezza. Se non vogliamo compromettere il futuro dell’umanità, dobbiamo imparare dalla testimonianza degli “hibakusha”, cioè delle persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: “Che la loro voce profetica sia un monito soprattutto per le nuove generazioni!”. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche attraverso la Rete, e neanche gli strumenti di diritto internazionale hanno impedito che nuovi Stati si aggiungessero alla cerchia dei possessori di armi atomiche. Il Papa parla di “scenari angoscianti”, che nello scacchiere geopolitico si affiancano a quelli del terrorismo o dei conflitti asimmetrici.

Eppure, nonostante il “fosco pessimismo” di cui potremmo cadere vittime, “un sano realismo non cessa di accendere sul nostro mondo disordinato le luci della speranza”. Francesco cita la recente votazione Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra, che colma un vuoto giuridico importante e si unisce alla messa al bando, già proibita attraverso Convenzioni internazionali, delle armi chimiche, quelle biologiche, le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Risultati, questi, dovuti principalmente

“a una iniziativa umanitaria promossa da una valida alleanza tra società civile, Stati, organizzazioni internazionali, Chiese, accademie e gruppi di esperti”.

In questo contesto si colloca anche il documento consegnato al Papa dagli 11 premi Nobel per la pace presenti al simposio internazionale, per il quale Francesco ha espresso il suo “grato apprezzamento”.

Francesco ha poi menzionato il 50° anniversario della Populorum progressio, “memorabile e attualissimo documento in cui Paolo VI ha coniato la definizione di “sviluppo umano integrale”, cioè “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”.

“Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti”. Si è concluso con questo invito il discorso del Papa, secondo il quale soltanto

“un progresso effettivo e inclusivo può rendere attuabile l’utopia di un mondo privo di micidiali strumenti di offesa, nonostante la critica di coloro che ritengono idealistici i processi di smantellamento degli arsenali”.

In questa prospettiva, resta sempre valido il magistero di Giovanni XXIII, che ha indicato con chiarezza l’obiettivo di un disarmo integrale, e quello di Paolo VI, a 50 anni dalla Populorum progressio.

papa Francesco non è eretico – parola dei professori della Gregoriana

“dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco”

un libro scritto da nove professori della Gregoriana che hanno accolto la sfida del Pontefice: fare questa disciplina insieme, nella chiesa e per il mondo

la copertina del libro

di marco roncalli

Di quale teologia ha bisogno oggi la Chiesa? Di teologi che si compiacciono di un pensiero completo e concluso? No. Perché il teologo deve «trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro». Perché alla Chiesa oggi non serve «una sintesi», ma «una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede». E, in quest’atmosfera, anche la teologia è chiamata a fare proprio «un movimento evangelico» che va dal centro alla periferia e viceversa «secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia». Da qui anche un’ immagine di teologo, tanto più «fecondo ed efficace quanto più sarà animato dall’ amore a Cristo e alla Chiesa, quanto più sarà solida e armoniosa la relazione tra studio e preghiera».

Così Papa Francesco il 10 aprile 2014 rivolgendosi alla comunità della Pontificia Università Gregoriana, sede della facoltà teologica con il più alto numero di studenti, da secoli fucina di teologi per tutti i continenti. Parole che ora aprono  il volume

«Dal chiodo alla chiave. La teologia fondamentale di Papa Francesco» (LEV, pagg. 160, 10 euro)

curato da Michelina Tenace, con il contributo di nove professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale

della Gregoriana: un libro che, raccogliendo le provocazioni lanciate ai teologi dal pontefice in questa università, ne recupera nel titolo la parola «chiodo»: pronunciata da Francesco quando il gesuita François- Xavier Dumortier, allora Rettore della Gregoriana – nell’incontro ricordato – gli presentò il Direttore del Dipartimento di teologia fondamentale. «Teologia fondamentale! È come succhiare un chiodo!», disse Bergoglio per descrivere questa disciplina spesso declinata nella presunzione di un sapere teologico chiuso su sé stesso (e magari dedotto a priori da enunciati metacronici o predizioni, per dirla con Karl Rahner), o talmente sigillato da favorire quell’aridità del cuore sempre dannosa (e fuori luogo in qualsiasi riflessione su Dio). Un’uscita estemporanea, non dimentica della propria esperienza di studente, chino su manuali dove la morale era fatta di «si può» e «non si può», «fin qui sì» e «fin qui no», alquanto estranea al discernimento. Un modo di fare teologia, avrebbe ricordato in un’altra occasione, che «ha provocato l’atteggiamento casuistico» per risolvere i problemi. «Ciò che c’era nei libri era più reale di ciò che succedeva nella vita ». E tuttavia: «La “grande scolastica”, quella del “grande Tommaso” è quella che “tiene conto della vita”…». E ancora «Quando un’espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde di vista l’umano», così Papa Francesco nel colloquio spontaneo con i Gesuiti il 24 ottobre scorso durante la loro ultima Congregazione Generale, affrontando temi diversi: dal coraggio profetico al clericalismo, dalla pace alla crisi delle vocazioni, dalla politica al discernimento delle situazioni morali in alcune delle quali solo nella preghiera si ha luce sufficiente. In realtà, come coglie nell’introduzione Michelina Tenace, «quando Francesco descrive il vero teologo, in realtà, senza volerlo, rivela sé stesso». «Perciò» – aggiunge – «osiamo dire che, oggi, la teologia fondamentale ha un maestro e un testimone affascinante: il Papa Francesco, che è il papa della teologia fondamentale per il terzo millennio». Beninteso, una volta capito che anche la teologia fondamentale va integrata con l’impegno missionario, la carità fraterna, la condivisione con i poveri, la cura della vita interiore nel rapporto con il Signore; e che – diversamente dal passato in cui si mettevano in opposizione i teologi che si occupavano di dottrina e quelli dediti alla pastorale – in realtà «l’incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale [ma] è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale» (così nel videomessaggio papale al Congresso Internazionale di Teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina all’inizio del settembre 2015). E allora la teologia fondamentale ha in questo anche un suo statuto chiaro. «Si occupa di aprire un passaggio dentro alla Chiesa, fra più realtà in contatto fra di loro: fede, credenza e non credenza; credenze varie a confronto; mondi e culture in dialogo, passato e futuro in ricerca di un senso in Cristo», sintetizza Tenace. Cristo, comunque – detto con von Balthasar – chiave ermeneutica anche di tutte le esperienze dell’umano. Insomma la teologia che non ha legame con la vita e la preghiera è una scienza su Dio che rischia di diventare ideologia: che porta a vedere anche la Chiesa in modo ideologico. Ben diversa la teologia fondamentale delineata nelle pagine di questa raccolta di saggi, che diventa luogo di incontro e di dialogo. Così chiedono a gran voce i nove professori – sei gesuiti e tre professoresse – coautori di questo libro.  

Vediamoli qui in sintesi.  

L’indiano Joseph Xavier, nel suo saggio, dato risalto alla riflessione di Francesco collocandola nel solco dei predecessori, testimonia nell’esperienza di Jorge Bergoglio l’importanza del suo incontro personale con Gesù. Notando poi come Papa Francesco insista sul fatto che la fede cristiana derivi dal principio fondamentale che Dio ci ha amati per primo e che, appreso ciò, lo stile di vita del cristiano cambia, nella consapevolezza che lo Spirito Santo continua a fare da guida negli eventi quotidiani. È, a ben guardare, l’invito a un continuo discernimento. Una volta che una persona è divenuta vero discepolo di Cristo, si rende conto che la sua fede non è una teoria prestabilita, ma una prassi. La fede è un invito ad agire come Cristo. Tra i temi più ricorrenti nei testi papali Xavier si sofferma inoltre su due in particolare: la nozione di cammino e l’incapacità di farsi guidare da Dio. In tal caso, Dio è solo un’idea convenzionale, non una realtà vivente che tocca la vita d’ogni giorno. Seguendo le dinamiche di fede nel pensiero del pontefice, Xavier evidenzia infine come per Francesco quando la fede si riduce ad un bandolo di principi e dottrine senza interruzioni, può degenerare in un sistema schiavistico di regole e come essa non possa mai esistere in un assoluto isolamento, ma debba essere condivisa.. Insomma «La fede diventa realtà solo nella vita del popolo» (e qui come non riconoscere con Xavier l’influenza che arriva dalla «teologia del popolo» degli argentini Lucio Gera e Rafael Tello o delle riflessioni della Conferenza Episcopale dell’America Latina?).  

L’ungherese Ferenc Patsch descrivendo la situazione mondiale come un «tempo di transizione», dall’era industriale all’era post-industriale, indica la teologia di Francesco come la risposta più adeguata alle sfide che ne conseguono e tra le cifre del Magistero attuale sottolinea il costante riconoscimento della contestualità e della storicità («il modo di dirsi e la condizionatezza socio-culturale della verità, anche quella teologica»). A tal proposito elabora tre applicazioni concrete – la teologia morale, la missiologia, la teologia ecumenica -mostrando come si manifestano i principi individuati nel lavoro concreto del «teologare». Infine individua la vera novità del Magistero di Papa Francesco nell’«autocoscienza dei limiti», nel coraggio con cui esprime «la situazionalità storico-culturale della teologia», nella «convinzione dell’inopportunità di sostituirsi agli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche sui loro territori». È questo il contributo in cui si dilata anche il confronto con il testo di «Amoris Laetitia», nel quale per Patsch Francesco ha dimostrato un grande realismo e un atteggiamento eminentemente pastorale affrontando «in modo compassionevole» la condizione di coloro che vivono in «diverse situazioni dette “irregolari”», e pur «mantenendo il depositum fidei, ovvero salvaguardando l’indissolubilità del matrimonio voluto dallo stesso Cristo» introducendo «una nuova regolazione disciplinare (nota bene: non dottrinale!), concernente la possibilità di ammettere alla comunione eucaristica “in certi casi” i divorziati risposati, dopo un necessario discernimento personale e pastorale e senza più esigere in ogni caso l’impegno alla continenza sessuale».  

Per l’americano Andrew Downing i testi di Francesco, in particolare le encicliche sviluppano diversi aspetti di un’unica credenza di base: la fede cristiana affonda le radici nell’incontro storico con Dio; il suo compito nella situazione storica attuale e la sua speranza sono da scoprire in un futuro che Dio e il suo popolo costruiscono insieme. In questo modo, il pontefice palesa come lo stile della sua riflessione teologica sia modellato da una consapevolezza storica della realtà del presente e del passato, anche quando questa rimane aperta all’orizzonte del futuro.  

Decisamente originale il contributo del francese Nicolas Steeves che tratteggia il profilo di Francesco quale Papa tifoso delle immagini (difficile persino contare le tante metafore usate nei suoi discorsi, come pure i tanti gesti simbolici sapientemente diffusi ai media, materiale sovente motivo di critiche), interrogandosi sulla relazione di questa «tattica immaginifica» con la teologia che diviene per Francesco un vero «locus theologicus». E non a caso Steeves richiama quale prima fonte della teologia fondamentale immaginale di Francesco il pensatore Romano Guardini. Non a caso nota che questo ruolo dato alle immagini e all’immaginazione, porta inevitabilmente Francesco ad apprezzare e accogliere, nel rispetto della coerenza della Rivelazione, una certa pluralità nell’ermeneutica della Rivelazione stessa (non consentita da una teologia meramente concettuale). Conclude il gesuita: «Ovviamente, per alcuni, dalla forma mentis più nozionale o sistematica, un tale modus procedendi può disturbare. Tuttavia, bisogna notare che lo stesso Gesù di Nazareth parlava quasi sempre in parabole o con metafore…».  

Sul «metodo teologico» di Papa Francesco, tanto induttivo quanto esistenzialista, tanto lontano da visioni astratte e garantiste quanto vicino a visioni più rischiose, e segnate da consapevolezza storica, interviene l’irlandese Gerard Whelan. Pronto a ricordarci – con il cardinale Walter Kasper – la non appartenenza di Bergoglio al mondo accademico (a differenza di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), il gesuita suggerisce di guardare in ogni caso alle tre principali caratteristiche del metodo con cui Francesco fa teologia. Un metodo che affonda le sue radici nella nozione di discernimento (desunta dagli «Esercizi Spirituali » di Sant’Ignazio); adotta lo stile induttivo del metodo «Vedere-Giudicare-Agire»; mostra un’ opzione preferenziale per i poveri. Secondo Whelan dall’uso di tale metodo derivano tre conseguenze: la critica a quanto ritiene pensiero astratto o ideologico, l’appello alla cultura dell’incontro, l’opposizione nei suoi confronti da parte di alcuni ambienti. Ne emerge in sintesi, un invito a cambiare orizzonte, a considerare novità che i teologi stessi hanno il compito di spiegare ad un uditorio accademico, magari beneficiando delle indicazioni del teologo canadese Bernard Lonergan, familiare alla tesi per cui la sfida nella moderna teologia consiste nel trasformare «una mentalità classica in una consapevolezza storica». Ciò comporta, innanzitutto, una trasformazione nell’orizzonte dei teologi da «una consapevolezza differenziata teoricamente» a una «consapevolezza differenziata interiormente». Nella lettura lonerganiana, questa trasformazione era una delle vere novità del Vaticano II.   

A Papa Francesco, erede – cioè ricettore di una tradizione, e innovatore – ovvero persona che risponde creativamente a ciò che ha ricevuto, guarda da vicino lo scritto dell’irlandese James Corkery. E pur certo che del papa si possa parlare in tanti modi come è stato fatto sino ad oggi, rammentato che trattasi del primo Papa dall’America Latina, del primo gesuita, quindi del primo religioso, sottolinea il dato che Bergoglio non ha preso parte al Concilio, ha studiato teologia dopo la sua chiusura, dunque… è il primo vero Papa post-conciliare che dal suo immediato antecessore si differenzia nel metodo, nel linguaggio e nello stile specie quanto a innovazione. In cosa consista questa innovazione Corkery lo spiega così. «Per primo, si è registrato un cambiamento nell’ecclesiologia; poi, il recupero di prospettive ormai dimenticate: quella dei poveri e quella di una Chiesa in dialogo con il mondo; terzo, si è dato maggiore equilibrio alle due Costituzioni del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, Lumen Gentium e Gaudium et Spes; quarto, operando da gesuita, ha governato in maniera innovativa e ha richiamato l’attenzione al principio che “la fede opera la giustizia”; quinto, ha fatto teologia in modo nuovo». Come? Meno esigente dal punto di vista accademico, gesuita già alla scuola della teologia kerygmatica, nella sua teologia contestuale afferma che i nostri pensieri devono avere sempre qualcosa di incompiuto. Torna il leit motiv del sistema chiuso, che, oggi, può essere considerato tutt’al più una caricatura della teologia.  

Insieme ai sei gesuiti intervengono qui tre professoresse della Gregoriana. La spagnola Carmen Aparicio Valls, autrice del saggio sulla significatività della Parola negli scritti di Francesco, ne sottolinea il costante richiamo a lasciarsi illuminare da essa «oltre le nostre previsioni e i nostri schemi». «Parlare della Parola negli scritti di Papa Francesco ha un nome: Gesù Cristo. È Lui la Parola definitiva di Dio, il compimento delle sue promesse; è la Parola che si è fatta carne e che, assumendo la nostra condizione, con il nostro linguaggio, ci dice che Dio è Padre, Figlio e Spirito». Interessante constatare in che modo la Parola di Dio chiede il nostro ascolto più fecondo: sollecitando l’abbandono dei nostri meri interessi, l’uscita dalla autoreferenzialità, invitandoci a correre il rischio dell’incontro senza discriminazioni. Scritti e gesti del pontificato inducono a riconoscere che tale rischio va corso, che è necessario tornare alla radice della fraternità. Anche questo contributo torna poi sul metodo induttivo del pontefice che – continuando una modalità inaugurata dal Concilio – prende come punto di partenza la realtà storica per leggervi «i segni dei tempi» e cercare, alla luce della Rivelazione e della Tradizione, una soluzione cristiana ai problemi in questione. Esplicitato con alcuni esempi il magistero di Bergoglio, Aparicio Valls conclude che «la teologia del Magistero di Papa Francesco non ha solo la particolarità di aggiornare la Chiesa, ma, prendendo l’iniziativa, anche di portarci a una teologia e ad una prassi cristiana che risultino appropriate per la nostra  epoca post-industriale». 

E arriviamo all’altra italiana coautrice del volume – Stella Morra – che individua nel pontefice la costante recezione creativa del principio della pastoralità della dottrina, inaugurato dal Vaticano II, e la scandaglia in chiave ecclesiologica. Quanto basta per mostrarci ancora come per Francesco la soggettività del Popolo di Dio costituisca qualcosa in più di «un riconoscimento di partecipazione da parte di un soggetto di potere verso un altro soggetto», ovvero «l’assunzione del punto di vista necessario e indispensabile per ripensare e interpretare l’esperienza stessa della Chiesa». Il punto visibile e discriminante per l’unità del popolo di Dio in quanto tale è l’atteggiamento verso i poveri. Attenzione: non si tratta tanto o solo di «aiutare i poveri», ma di «riconoscere che i poveri ci evangelizzano, cioè ci mostrano con la loro vita, che ne siano consapevoli o no, la misura della conformazione a Cristo».  

 

«Dal chiodo alla chiave: la teologia fondamentale di Papa Francesco», a cura di Michelina Tenace insieme ai professori del Dipartimento di Teologia Fondamentale della Pontificia Università Gregoriana, Libreria Editrice Vaticana, pagg. 160, euro 10  

una giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco

verso la I Giornata Mondiale dei Poveri

In chiusura del Giubileo della Misericordia Papa Francesco ha voluto indire la Giornata Mondiale dei Poveri, con l’intenzione di aiutare le comunità  cristiane, ma anche i singoli cristiani, ad essere più  vicini agli ultimi, alle “vittime dello scarto della società”.
Come stabilito nella sua Lettera Apostolica “Misericordia et misera”, Francesco spiega che “L’evento verrà celebrato ogni anno nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, che quest’anno cade il 19 novembre”.
Il pontefice, ricordando l’esempio di Francesco d’Assisi, perché la Giornata non sia solo un evento “una tantum”, dice:
 “Non pensiamo ai poveri solo come destinatori di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana o, tanto meno, di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze pur validi e utili (…) dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita”.
Siamo invitati, in questa particolare occasione, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, pure ad abbracciarli,
“per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine”,
aggiunge ancora il Papa.
Le persone che ci capita di incontrare o vedere nelle piazze o ai bordi delle strade, spesso, hanno
“la loro mano tesa verso di noi, ed è un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce”.
Poi, il papa, più concretamente, suggerisce cosa fare in questa giornata: 
“Invito la Chiesa, gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo su quanti tendono le loro nani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà”.
Si chiede quindi una reazione alla “cultura dello scarto” che vorrebbe dominare nella società e nei cuori delle persone, indicando la strada della condivisione coni poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di solidarietà.
Infatti, in conclusione del suo messaggio, Francesco suggerisce:
 “Se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Invitiamoli a pranzo: potranno essere maestri che ci aiutano a vivere la fede in modo più coerente”.
 
Germano Baldazzi

le idiozie del ‘sacro cuore di Gesù’ della veggente di Varese

LA VEGGENTE DI VARESE

“A Gesù non piace Papa Francesco, me l’ha detto Lui: tutta colpa di Amoris Laetitia”

una signora del varesotto sposata con un ex sacerdote dal 1991 riceve messaggi da parte di Gesù, dice lei. Che ultimamente si sta scagliando contro papa Francesco

Papa Francescopapa Francesco

 

Non bastavano i dubia, le lettere di pseudo teologi, gli editoriali del giornalista “esperto”: anche Gesù ce l’ha contro papa Francesco. A questo punto dovrà proprio dimettersi, perché se al “principale” non piace il suo operato, ogni bravo “amministratore delegato” lascia il posto, magari con una liquidazione principesca, Anzi, papale. Vabbè questa volta siamo al delirio, i veggenti de noiartri, i profeti con il conto in banca, gli sfruttatori di anime semplici (e ignoranti). Dal 1991, secondo quando dichiara la signora Sabrina Luraschi, sposata dal 2000 con un ex sacerdote, Angelo Corbetta, residente del varesotto, dice di essere in linea diretta con Gesù. Altro che veggenti di Medjugorje. I due hanno inaugurato ben due siti online, “Il Sacro Cuore di Gesù” dove riportano le locuzioni, e l’Associazione riparazione eucaristica Sacro Cuore tramite la quale ricevono donazioni che, pare, vadano alla mensa dei poveri delle suore Vincenziane di Como. Esclusivamente tramite bonifico bancario. I seguaci non mancano. Il più entusiasta dei quali sarebbe proprio nostro Signore Gesù Cristo che incita la signora a usare il web.

D’altro canto bisogna essere aggiornati coi tempi. Dice che i messaggi di Gesù le arrivano per la maggior parte dei casi durante le adorazioni al Santissimo Sacramento, in altri casi le vengono dettati mentre i fedeli della congregazione recitano il rosario o discutono nei loro gruppetti. Ed ecco un paio di esempi di messaggi:

«Devi dire, o Sabrina, eletta Mia – sul Mio Sito, esso prezioso, amen – alle anime elette e non, che da qui in avanti esse, se vogliono continuare ad esserMi fedeli e grate, più non devono seguire gli insegnamenti di padre Bergoglio, poiché nella Amoris laetitia egli, purtroppo – con immenso dolore oggi Io te lo dico, amen – è andato fuori strada. Amen» (…) «Figli cari, vescovi e presbiteri della Chiesa Cattolica, Io vi scongiuro: non abbandonate la legge morale oggettiva per seguire questo – devastante ed eretico – multisoggettivismo pseudo-gesuitico. Amen».

Precisissimo Gesù, anche ad usare il linguaggio dei teologi dubbiosi e degli editorialisti di moda. Il più bello è questo, un invito allo scisma:

«In merito a Jorge Mario Bergoglio – quest’uomo che, a breve, porterà ancor più alla deriva la Mia Santa Chiesa in terra, ossia una larga parte di Essa, amen – riguardo a quest’uomo, adunque, sono a dirti che, giunti a questo punto, egli è, ai Miei occhi santi e divini, il papa canonicamente e validamente eletto, ma egli non è più da considerarsi – dai cattolici, figli e figlie della vera Mia Chiesa, amen – come il Mio Vicario sulla terra; e questo in quanto egli non sta più – nella sostanza – ministrando per Me, ma per altri. Amen».

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse gente che dà credito a queste idiozie

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