Ecco il discorso di Bergoglio che convinse i cardinali ad eleggerlo: "Chiesa deve uscire da se stessa"

per una migliore convivenza sul pianeta – una riflessione di Ivone Gebara sulla ‘laudato sì’ di papa Francesco

  

una teologia non ancora al passo con la scienza

una lettura critica della ‘laudato sì’

introduzione di Claudia Fanti 
 da: Adista Documenti n° 10 del 11/03/2017

 

Non è solo la prima enciclica interamente dedicata alla questione ambientale, ma è anche, probabilmente, quella più letta, commentata e venduta nella storia della Chiesa: la Laudato si’, definita da Leonardo Boff la carta magna dell’ecologia integrale, continua a provocare interesse e ad alimentare riflessioni, fornendo un imperdibile punto di riferimento per tutti coloro che sono impegnati nella difesa della casa comune (e, naturalmente, suscitando il fastidio delle forze conservatrici, delle lobby del petrolio, dei negazionisti del cambiamento climatico e di tutti coloro che perseguono interessi contrari a quelli espressi dal documento papale). A fronte del profondo e praticamente unanime entusiasmo del campo progressista in tutte le sue varianti, alcune ecoteologhe hanno però voluto esprimere qualche accento più critico, ritenendo l’enciclica di papa Francesco ancora troppo ancorata, rispetto al rapporto tra essere umano e natura, alla visione tradizionale della Chiesa ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano, l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, come padrone della creazione, ponendo al suo completo servizio una natura ridotta a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Così, se la religiosa francescana Ilia Delio (v. Adista Documenti n. 22 e 26/15), ha sottolineato come «i principi di base cui si richiama il papa per risolvere la crisi ambientale, specialmente quello dell’essere umano fatto a immagine di Dio», siano «gli stessi principi che, in un certo senso, hanno provocato la crisi», e come sia profondo il rapporto «tra antiche preghiere, credenze e rituali religiosi e la nostra sconnessione ecologica» («Siamo programmati per il cielo sopra di noi e non per una Terra in evoluzione»), un’altra ecoteologa, la brasiliana Ivone Gebara, traccia, per la rivista Iglesia Viva (n. 267/2016), una lettura mirata ad articolare la percezione femminista con quella ecologica, evidenziando nell’enciclica di papa Francesco questioni che «possono, forse, confondere o rivelare visioni ambigue e contraddittorie della realtà ecologica e sociale». In particolare, l’accento è posto dalla teologa sulla distanza tra un accurato discorso scientifico – in linea con le più recenti acquisizioni della scienza relativamente alla distruzione del pianeta e al cambiamento climatico – e una visione teologica ancora estranea agli apporti del pensiero teologico critico contemporaneo, legata com’è a un «modo di parlare del tipo “Dio ha fatto, Dio ha detto, Dio riconosce, Dio minaccia, Dio condanna, Dio decide, Dio domanda, Dio ordina”». Mentre, sul piano delle denunce, sarebbe decisamente auspicabile, secondo Gebara, un riferimento più  esplicito «alla responsabilità non solo dei cosiddetti Paesi ricchi», ma anche, più specificamente, degli artefici diretti delle «politiche di distruzione della fauna, della flora e delle popolazioni escluse», a cominciare da «chi è a capo delle grandi industrie di armamenti, di quelle produttrici di veleni chimici, di quelle farmaceutiche che, nel nome del profitto, sacrificano vite umane e ambiente».

Una missione, questa, che non è solo del papa, «ma di tutti noi», perché, «in un modo o nell’altro, abbracciando la cura del nostro pianeta, dovremmo sollevarci come giudici del mondo capitalista consumista e denunciare il saccheggio della terra che si esprime nelle differenti forme di spolizione praticate dai poteri normativi del nostro mondo». Senza trascurare neppure di «analizzare il nefasto inquinamento» che la teologia tradizionale ha «prodotto sul corpo della terra e, particolarmente, sui corpi delle donne».

Di seguito, in  traduzione dallo spagnolo, ampi stralci dell’articolo di Ivone Gebara pubblicato sul numero di Iglesia Viva dedicato al tema della “cura della casa comune”.

riflessione di Ivone Gebara

 

 

Introduzione

(…). Il mio proposito è quello di articolare la percezione femminista con quella ecologica in relazione alla Laudato si’. Intendo, soprattutto, affrontare alcune questioni presenti nel testo che possono, forse, confondere o rivelare visioni ambigue e contraddittorie della realtà ecologica e sociale.

La mia sarà la riflessione (…) di chi pensa al ruolo degli esseri umani e della loro esperienza religiosa, teologica, in relazione non solamente al testo del papa ma, soprattutto, alla complessa realtà che ci circonda e ci avvolge. Penso, inoltre, a questa realtà in qualità di donna formatasi nella tradizione cattolica, aderente alla teologia della liberazione, al femminismo e all’ecofemminismo, nella complessità di tutte queste piccole ma significative produzioni culturali del nostro tempo. A partire da qui osservo la vita della Chiesa segnata da discorsi contraddittori e da pratiche anacronistiche, espressione dei conflitti di potere esistenti a cui, per quanto non sempre lo si ammetta, partecipiamo. Basta constatare quanto i mezzi di comunicazione hanno divulgato ultimamente rispetto alle reazioni di vescovi e cardinali alle posizioni di papa Francesco. E anche a quelle di gruppi di laici profondamente infastiditi dalla vicinanza del papa agli esclusi del mondo. (…).

L’ambiguità ecologica della teologia della Laudato si’

Una delle questioni che ha più richiamato la mia attenzione nella lettura del testo papale è la distanza esistente tra le evidenze economiche, sociali e scientifiche intorno alla distruzione del pianeta e al cambiamento climatico e la teologia presente nel testo. (…). Per quanto il volto del nostro mondo di oggi si presenti avvolto in una enorme complessità, distruttiva e costruttiva allo stesso tempo, la teologia del papa ripete lo stesso metodo deduttivo e lo stesso modo di parlare del tipo “Dio ha fatto, Dio ha detto, Dio riconosce, Dio minaccia, Dio condanna, Dio decide, Dio domanda, Dio ordina”. Possiamo riscontrare molte altre affermazioni simili presenti nel testo. C’è un “uso di Dio” a indicare il possesso della sua volontà e del suo agire nel mondo che finisce con l’indebolire le rivendicazioni ecologiche di Francesco. Se da un lato si è munito di molte informazioni scientifiche, non ha fatto altrettanto con le informazioni del pensiero teologico critico contemporaneo. Esiste un’inadeguatezza criticamente visibile tra un discorso e l’altro. In tal modo, forse senza rendersene conto, Francesco fa della teologia un discorso estraneo rispetto alle molte affermazioni e informazioni scientifiche offerte.

Francesco utilizza Dio, la Bibbia e la tradizione dei papi precedenti per giustificare e rafforzare i propri argomenti. Così facendo, forse non intenzionalmente (…), si erige a interprete della volontà divina e si presenta come chi parla non, per lo più, a nome proprio ma a nome di Dio o come suo rappresentante. Ma che Dio sarebbe questo? In un mondo tanto plurale, e non rivolgendosi, inoltre, necessariamente ai cristiani, la sua teologia potrebbe essere più attenta a far uso della parola “Dio” e delle parole su Dio o a impiegare la Bibbia nel discernimento rispetto alle situazioni del mondo contemporaneo. E, a parte questo, la sua teologia non esprime la necessaria coerenza richiesta dalle nuove scoperte scientifiche da lui stesso indicate nel corso del testo. E lui l’assume quasi come soluzione a molti problemi anziché come un problema ulteriore. Sì, la teologia insegnata dalla Chiesa è anch’essa un problema nell’“attuale stato” di degradazione e distruzione del pianeta!

(…). Le vecchie spiegazioni teiste a partire da una specie di amorosa volontà divina non reggono più in un universo sempre più complesso che si impone a noi attraverso la vita quotidiana e la conoscenza. È una specie di timore e di cocciutaggine, senza dubbio legata a forme di comportamento culturale e di esercizio del potere religioso, a impedire che sorga all’interno delle mura della Chiesa un’altra configurazione mentale e affettiva della trascendenza che ci circonda e ci avvolge. Il modello gerarchico patriarcale presente nella teologia contraddice molte volte in maniera flagrante gli sforzi per vivere in una prospettiva di interdipendenze e interrelazioni necessarie all’equilibrio di molti degli ecosistemi che ci costituiscono. Non ci rendiamo conto del fatto che un modello ecologico sostenibile di società esige, ugualmente, un modello sostenibile di teologia e di esercizio del potere religioso, includendo la diversità e la complessità di molti gruppi che vivono problemi e sfide differenti.

Alcune affermazioni di Francesco devono essere riprese e dibattute criticamente dalla comunità cristiana. (…).

«Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra» (Laudato si’, 2). L’impressione, per quanto forse non sia questa l’intenzione del papa, è ancora quella di percepire il pianeta Terra come un oggetto tra altri o come un povero tra i poveri del mondo, nonostante si affermi che «noi stessi siamo terra».

Non risulta chiara nel testo l’idea che Terra siamo anche noi stessi. Siamo anche noi, tra i diversi esseri, a emergere da questo pianeta in una specie di genealogia e di evoluzione complessa della materia che ci costituisce. C’è ancora una specie di lontananza tra la terra e noi che irrompe in molti punti del testo, benché sia comprensibile impiegare una distinzione cognitiva o metodologica. Noi individui facciamo, di fatto, molte distinzioni, ma questo è inaccettabile dal punto di vista della sopravvivenza umana sul pianeta e del pianeta stesso. La permanenza di un linguaggio tradizionale mescolato con alcune innovazioni scientifiche denota quanto l’urgente problema della salute del nostro pianeta sia lungi dal toccare la teologia istituzionale.

Afferma Francesco: «Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta» (Laudato si’, 14). Tale invito è realmente urgente, ma è altrettanto urgente ripensare le nostre categorie teologiche, in quanto le nostre azioni e i nostri pensieri non possono trovarsi in contraddizione se abbracciamo una prospettiva di ricerca dell’equilibrio ecologico o della cura reale della nostra casa comune.

In questo invito, quale sarebbe il ruolo delle Chiese in ciò che hanno di più caratteristico? Quale sarebbe il ruolo delle teologie? Non abbiamo risposte che indichino una riflessione diversa da quella abituale.

Quando ci atteniamo ai testi più teologici della Laudato si’, abbiamo l’impressione che il papa si richiami a un modo di vivere e di intendere il cristianesimo cattolico romano all’interno di alcuni parametri fino a un certo punto assunti come inamovibili. (…). È come se tutto ciò che viviamo, facciamo, pensiamo all’interno del cristianesimo fosse protetto da un ampio ombrello a noi concesso o “rivelato” in anticipo da un essere superiore. Possiamo muoverci, ma sempre sotto di esso e assicurandogli la nostra obbedienza.

I parametri inamovibili danno forma e sostengono, in un certo senso, il pensiero di Francesco, per quanto molte volte le sue azioni sembrino sfuggire loro. Tali parametri segnano anche la sua antropologia o il suo modo di intendere gli esseri umani e la loro relazione con Dio. Per mostrare tale mescolanza di parametri antropologici mutevoli e immutabili, mi richiamerò, sempre a titolo di esempio, alla fine del paragrafo 61 della Laudato si’.

Il papa utilizza una frase che non è sua, ma che impiega per esplicitare ciò che ha in mente e che giustifica la sua citazione: «Se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina». Che vuol dire che l’umanità ha frustrato le aspettative divine? Esiste un’aspettativa divina pre-determinata? Chi la conosce? Oserei dire che questa frase rivela una visione nella quale Dio, in una certa misura antropomorfizzato, avrebbe un piano pre-stabilito per l’umanità che sarebbe stato frustrato dagli esseri umani. Sarebbe una specie di tradimento umano al piano divino, come se sapessimo quale sia questo piano (…). Non è difficile indovinare che si tratta di un piano che esige relazioni di giustizia, di sostenibilità e di rispetto per tutti gli esseri viventi nel pianeta. Un piano che esige la realizzazione di una specie di ordine positivo che è inamovibile dai suoi inizi. Neppure è difficile intravedere come in questa frase appaia tra le righe il peccato originale, il peccato della disobbedienza e della rottura di un’armonia primitiva. Tale rottura comporta, per essere sanata, la venuta di Gesù, il Figlio di Dio, che ci offre il cammino per la redenzione e per il ritorno all’armonia del principio.

Potremmo insistere a commentare queste idee già ben note, ma credo che ciò sia sufficiente a cogliere cosa significa un parametro immutabile con le sue conseguenze attuali. Detto altrimenti, è come se ci fosse qualcosa non soggetto alle trasformazioni e ai movimenti inerenti alla vita e questo qualcosa includesse o significasse un piano di Dio pre-determinato al quale dobbiamo obbedire.

Tale posizione contraddice la prospettiva scientifica dell’origine del pianeta, della mutevole condizione umana e della complessità evolutiva della vita. Credere e vivere in base a questa credenza immutevole dà fondamento al  potere di governo della Chiesa. Ma è possibile che da più di duemila anni, o anche dalla presunta creazione, si stiano tradendo i piani divini? Non c’è forse nella reiterazione di questa teologia, nella ripetizione degli stessi testi, delle stesse spiegazioni, della stessa esegesi una specie di diminuzione della stessa forza creativa della Terra nella sua energia creativa e continuamente in trasformazione? (…) Non c’è forse in questo immobilismo di principi teologici una intenzione di dominio e di controllo? (…).

Nel riferirci all’ambiguità antropologica nella Laudato si’ consideriamo appena alcune difficoltà presenti nei diversi comportamenti e ruoli umani che l’enciclica sembra ignorare. Probabilmente molte persone diranno che le ambiguità sono inevitabili. E di fatto lo sono, ma alcune rappresentano qualcosa di più di normali ambiguità, nella misura in cui rafforzano relazioni di ingiustizia sociale ed ecologica. (…). Manca all’enciclica la prospettiva della dinamica della vita, che è sempre più grande delle leggi stabilite e dei dogmi della religione. Tale prospettiva si fonda sul fatto che i differenti disastri ecologici sono vissuti ed esplicitati in maniere diverse da uomini e donne a partire da una asimmetria di genere che non è stata considerata nel documento del papa. L’enciclica privilegia, quasi esclusivamente, le informazioni provenienti da soggetti maschili. In parole semplici, possiamo dire che, dal disastro di Chernobyl, per fare solo un esempio, sono state le donne, a partire dalla necessità urgente di cercare alimenti per i propri figli e figlie, a denunciare esplicitamente la costruzione delle centrali nucleari. Non solo questo: esse hanno denunciato anche la distruzione dell’agricoltura familiare, la mancanza di alimenti sicuri, la proliferazione di malattie sconosciute, l’insicurezza emozionale in cui hanno vissuto a causa di progetti di sviluppo pensati senza i dovuti criteri di prevenzione e di salvaguardia delle molte forme di vita. Le donne hanno trasgredito in molte occasioni gli “ordini maschili” di distruzione delle foreste o di sostituzione delle coltivazioni di fagioli e verdure con piantagioni di eucalipto. Basta fare riferimento agli annali dei movimenti di donne in differenti Paesi per cogliere il contenuto di molte delle loro lotte. Molte sono state assassinate, altre sono state imprigionate per il loro impegno a favore di molte vite e della vita del pianeta. Nulla di tutto ciò appare nel testo.

(…). Non si esprime in maniera chiara la portata di una considerazione plurale dei ruoli che si registrano nella distruzione degli ecosistemi e delle diverse iniziative nei processi di salvaguardia della vita. Si pone maggiormente l’accento sulle teorie globali scientifiche senza affrontare le pratiche di sopravvivenza inerenti alla preservazione della vita quotidiana.

In questo senso, nel corso della storia della teologia e delle differenti Chiese, sono stati principalmente i corpi maschili quelli che hanno esplicitato i problemi della società, gli orientamenti per risolverli e i contenuti di fede che avrebbero dovuto essere assunti dai fedeli. E non sono stati uomini qualunque a svolgere tale funzione… Erano soprattutto gli uomini che facevano parte del clero quelli che credevano non solamente di rappresentare storicamente Dio, ma di costituire quegli esseri “privilegiati” o “eletti” in grado di amministrare la grazia divina. Le donne hanno sempre dovuto sottomettersi alla dottrina insegnata e neppure hanno potuto ambire a far parte del magistero ecclesiastico o ad avere funzioni di rappresentanza nelle proprie comunità. Le loro voci erano assai poco ascoltate da coloro che detenevano il potere nella vita pubblica ed ecclesiale. Il limite biologico imposto ai loro corpi per il fatto di non essere uomini le ha private, e ancora le priva in molti luoghi, dell’accesso a molte conoscenze teologiche e della rappresentazione simbolica del divino.

Per quanto tale situazione sussista all’interno delle Chiese ufficiali e particolarmente della Chiesa cattolica romana, si assiste nel XXI secolo a un cambiamento significativo in relazione a questa forma di razionalità e alla sua espressione nelle diverse credenze religiose. Di fatto, papa Francesco ha iniziato a cogliere qualcosa in questa linea, aiutato dalle tante pressioni ricevute da gruppi di donne. Tuttavia, la sua posizione verso di noi, verso noi donne, continua a essere ancora molto limitata, arrivando a volte a essere infantile e ingenua. Malgrado alcune iniziative, il fatto è che le questioni relative ai diritti delle donne quasi non avanzano all’interno della Chiesa cattolica romana.

Molti gruppi di donne hanno colto, nel corso del secolo scorso e dell’attuale, la complicità delle Chiese cristiane nei confronti di molte forme di esclusione, rispetto non solo alle funzioni all’interno delle Chiese, ma anche ai diritti sociali inerenti alle donne e agli obblighi relativi alla nostra casa comune. Le innumerevoli sofferenze di molte di noi e la coscienza del fatto che parte della dottrina cristiana trasmessa a partire da una logica gerarchica e patriarcale giustificava la nostra sottomissione, ha portato all’elaborazione delle molte teologie femministe. E qui, nel riferirmi al femminismo e nell’aderire a questa corrente di pensiero, commetto forse un peccato, in base alla prospettiva di papa Francesco, il quale, in diversi momenti, ha condannato il femminismo, la maggior parte delle volte senza comprendere in profondità la serietà della sua portata sociale, politica o religiosa, esprimendo, come altri uomini e anche alcune donne, la difficoltà di una Chiesa patriarcale governata da teste maschili a sentirsi solidale con la lotta per la dignità femminile in questo secolo. Queste persone non riescono neppure a pronunciare parole come “femminismo” in maniera positiva, a parte il fatto di disconoscere quasi completamente le tesi femministe contemporanee e le tesi ecofemministe.

Possiamo ammettere un certo tipo di solidarietà gerarchica maschile di fronte a situazioni limite espresse, soprattutto, nelle diverse forme di violenza fisica, culturale e sociale contro le donne. (…). Tuttavia, molte forme di esclusione, svalutazione, violenza simbolica, mancanza di autonomia, linguaggio escludente, difficilmente vengono riconosciute, soprattutto quando avvengono all’interno della stessa istituzione cattolica. Non vogliono udire i clamori delle donne con cuore aperto, ignorando come tali clamori siano parte dell’ecologia integrale che difendono a livello teorico.

In questo senso, quello che percepiamo è una specie di “politica di buon vicinato” che (…) include discorsi sempre generali o universalistici, in cui si esprimono ampiamente denunce socioeconomiche o politiche, ma senza nomi propri, senza destinatari precisi. (…). Per esempio, (…) per alcuni gruppi, i discorsi papali non indicano i soggetti storici concreti che sono, in certa misura, i maggiori responsabili del fenomeno del “riscaldamento globale”. (…). Ci piacerebbe udire dal papa, e anche dai rappresentanti della Chiesa, un riferimento esplicito alla responsabilità non solo dei cosiddetti Paesi ricchi, ma anche degli uomini che sono a capo delle politiche di distruzione della fauna, della flora e delle popolazioni escluse. Ci piacerebbe inoltre che ci si dedicasse di più ad analizzare il nefasto inquinamento che le loro teologie hanno prodotto sul corpo della terra e, particolarmente, sui corpi delle donne. (…).

Sulla stessa linea (…), è necessario avere chiaro che esistono alcune persone e alcuni gruppi o Paesi che sono a capo delle grandi industrie di armamenti, di quelle produttrici di veleni chimici, di quelle farmaceutiche che, nel nome del profitto, sacrificano vite umane e ambiente. (…). Ci piacerebbe sentir nominare più esplicitamente le responsabilità, oltre il romanticismo religioso che ci caratterizza. E questa non è solo la missione del papa, ma di tutti noi. In un modo o nell’altro, abbracciando la cura del nostro pianeta, dovremmo solleverci come giudici del mondo capitalista consumista e denunciare il saccheggio della terra che si esprime nelle differenti forme di spoliazione praticate dai poteri normativi del nostro mondo. (…).

Il papa ha ribadito, in forma rinnovata e piacevole, la teologia cattolica del passato e ciò rende anche lui piacevole, generando in molti l’illusione che si stia entrando in un tempo nuovo, una primavera per la Chiesa cattolica romana. Ma dimenticano che in questi tempi difficili “una rondine non fa primavera”; che, cioè, la voce del papa, da sola, non altera le forze di produzione e di corruzione presenti nella globalizzazione attuale. (…).

Che significa superare l’antropocentrismo nella pratica di vita delle comunità cristiane?

Il papa denuncia un «antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature» (Laudato si’, 68). E usa la Bibbia come esempio e come fondamento per azioni rispettose nei riguardi degli animali e degli altri esseri viventi. È vero che molti testi biblici, particolarmente la Genesi, includono tutta la creazione come opera divina. Ma non sempre la teologia ecclesiastica ha seguito questa logica di inclusione delle diverse forme di vita come orientamento per la vita delle comunità. Al contrario, sappiamo assai bene come la teologia, nelle sue molteplici elaborazioni nel corso dei secoli, abbia messo da parte “le altre creature”, rivolgendo il proprio interesse esclusivamente sull’essere umano e in modo speciale sull’essere umano maschile. E ciò ha determinato senza dubbio lo sviluppo di un paradigma teologico potentemente antropocentrico e androcentrico a cui il papa non si riferisce molto, benché egli stesso viva, in un certo senso, a partire da esso. (…).

Nel paragrafo seguente, Francesco afferma che «proprio per la sua dignità unica e per essere dotato di intelligenza, l’essere umano è chiamato a rispettare il creato con le sue leggi interne» (Laudato si’, 69). Non sarà che il papa (…), con questa affermazione, ci sta ponendo dinanzi a una riflessione piuttosto ingenua sull’intelligenza umana? Non è forse per questa stessa intelligenza che ci distruggiamo reciprocamente? (…). I discorsi generici corrono il rischio di ignorare che la nostra intelligenza, la nostra volontà, i nostri sentimenti e le nostre emozioni (…) non nascono già formati, al di là del fatto che non sono uguali per tutta la specie umana. (…). Per questo, l’intelligenza deve essere educata dal complesso della vita per essere rispettosa del “prossimo” nella sua diversità vitale.

La specie umana (…) è parte della comunità di vita della Terra. Siamo geneticamente connessi a tutta la comunità degli esseri viventi provenienti da uno stesso impulso originario. E in questo impulso la costruzione positiva convive con la negatività, con la forza distruttiva che caratterizza la nostra lotta per la sopravvivenza. L’intelligenza si inscrive in questa complessa mescolanza che ci costituisce.

Inoltre, tornando al testo, perché parlare di “dignità unica” dell’essere umano, quando in realtà viviamo in una interdipendenza senza la quale non sopravviveremmo? Possiamo anche dire, come affermano alcuni, che “siamo il pensiero della terra”, ma un pensiero che sopravvive solamente vivendo di tutto ciò che è vivo sulla Terra. (…).

Molte teologhe femministe in diversi Paesi hanno lavorato per recuperare e costruire collettivamente un cristianesimo etico inclusivo che, senza dubbio, è caratterizzato da tradizioni plurali presenti già alle sue origini. E, così facendo, hanno trasformato la percezione maschile, considerata unica, introducendo la diversità di sguardi, pensieri ed esperienze.

Attraverso questi pochi esempi, possiamo affermare che la teologia cristiana cattolica deve recuperare la dimensione cosmica ed ecologica a partire da un’antropologia in grado di ascoltare la diversità degli esseri umani intrinsecamente ed estrinsecamente uniti a tutti gli esseri viventi. E in questa prospettiva riconfigurarsi a partire dai riferimenti che parlano al complesso mondo di oggi. Senza dubbio, questo ci porterebbe a rivedere il nostro Credo, adattandolo alle molteplici forme possibili e temporali  di espressione dei nostri valori.

Dio, una metafora

L’utilizzo del termine nei documenti del papa, anche nella Laudato si’, è una pacifica conseguenza del suo pensiero. È come se Dio fosse un’evidenza. Se ci soffermiamo un po’ di più sull’utilizzo di questa parola nei documenti pontifici, essa appare come una metafora del potere più elevato, dell’amore puro, della giustizia nel suo più alto livello, del bene supremo… Tuttavia questa metafora rivela anche (…) come queste affemazioni provengano in particolare dal mondo maschile, abituato ai conflitti storici di potere (…). Manifestare questo potere soprattutto attraverso un linguaggio potente in nome di un essere assoluto che presiede la vita sulla terra e nei cieli, che domina l’universo e che ha tutta la creazione ai suoi piedi non è forse un’espressione dei sogni umani di onnipotenza?

Inoltre, questo essere, l’Altissimo, l’Assoluto, l’Immutabile, che presiede tutti i mondi conosciuti e sconosciuti, che conosce tutti i pensieri, che sa quanti capelli vi sono sulla nostra testa, Magnanimo e Potente, è un Signore il cui volto storico è, fondamentalmente, maschile!

Questa potente metafora è, precisamente, una metafora antiecologica, contraria al mondo della natura e alla sua costante evoluzione. È una metafora che contribuisce alla distruzione del pianeta, rafforzando un antropocentrismo gerarchico con poteri dittatoriali.

Perché non ci apriamo ad altre metafore per esprimere il mistero che coinvolge la vita dei più diversi esseri? Perché non esprimerci con parole mobili che non corrono il pericolo immediato di dare forza a espressioni emanate da semplici uomini armati di poteri religiosi istituzionali? (…).

Evidentemente, questo cambiamento culturale non è semplice, perché ci siamo abituati a una figura che sa tutto, presiede tutto, determina tutto e da cui facciamo dipendere la vita e la morte. Non è semplice cercare di salire da questa idea di Dio come controllore dell’universo e, soprattutto, del mondo umano, per entrare in quella di Dio come fonte di vita, vento, aria che respiriamo… (…). Più in là delle idee di causalità e finalità, per le quali abbiamo bisogno di un punto iniziale e di un punto finale, accogliere l’idea della trasformazione permanente della vita, di tutte le vite, e restare in silenzio di fronte al mistero che ci abita. In fondo, sappiamo molto poco… Semplicemente accogliere questo non sapere, queste incertezze, la fragilità della bellezza e della gioia di ogni giorno. Una posizione nuova e diversa esige molti anni di educazione e di cambiamento progressivo dei poteri di organizzazione e di rappresentanza nelle nostre comunità.

A volte, abbiamo l’impressione che i discorsi teologici che ascoltiamo nelle chiese parlino dell’universo come una cosa, un oggetto quasi descrivibile creato da Dio. Siamo persino arrivati a identificare l’universo con una notte stellata in cui possiamo distinguere pianeti, satelliti e stelle. Tutto sembra calmo e tranquillo, suscitandoci desideri di tranquillità e di pace. Oggi, tuttavia, la scienza ci rimanda una straordinaria e spaventosa immagine dell’universo o una metafora dell’universo come realtà in trasformazione e in espansione. E questa evoluzione sembra piena di esplosioni violente che hanno permesso a nuove configurazioni di emergere, fino all’irruzione della vita, e poi fino alla vita umana.  (…). Immaginavamo una serena armonia della creazione divina dell’universo, della terra e degli esseri umani, e questa armonia tranquilla era immaginata come l’ideale da raggiungere. Oggi siamo ormai consapevoli della presenza violenta di questi processi creativi, pur accompagnati da tanta bellezza.

In certo modo, tutta questa violenza è rimasta inscritta anche in noi, capaci di riprodurla gli uni contro gli altri e contro la Terra, pianeta di cui siamo anche corpo.

Stiamo vivendo nel presente un enorme processo di distruzione planetaria del “mondo naturale”. (…). E questo perché crediamo che tutto può e deve servire alle necessità dell’essere umano, considerato il punto di convergenza del pianeta. Necessità, tuttavia, che non riguardano tutti gli esseri umani, ma esclusivamente i privilegiati del darwinismo sociale che ci caratterizza. (…).

Non sarebbe il momento di aprirci a una metafora viva dell’universo come nostro corpo, corpo di Dio (…)? Otterremmo così un’inclusione della trascendenza non solo nella verticalità, ma anche nell’orizzontalità e nella circolarità delle nostre molteplici relazioni. L’esperienza della trascendenza si dà in ogni momento della vita nella misura in cui percepiamo che le individualità o le singolarità non sussistono per sé sole. Siamo individui collettivi, non solo per quanto riguarda noi esseri umani, ma anche rispetto alla collettività della Terra e dell’universo. (…).

La nostra belligeranza o conflittualità è arrivata al limite estremo e in questo contesto storico non si tratta appena di salvaguardare la vita umana o la vita di una foresta, ma di mettere a punto un progetto collettivo di salvezza della terra come comunità viva di molti esseri viventi. (…). Per questo, le questioni relative alla distruzione della Terra e delle sue differenti specie non rappresentano unicamente questioni di ordine antropologico, biologico, geologico o ecologico, ma questioni di sopravvivenza comune. Gli esseri umani sono appena una dimensione della Terra e la Terra è una minima espressione dell’universo e l’universo invita al silenzio e alla contemplazione del mistero più grande in cui viviamo e  siamo e di cui sappiamo tanto poco. Per noi, inoltre, credenti in un Mistero più grande che ci avvolge, costituisce un’esigenza teologica la rilettura delle nostre tradizioni religiose alla luce delle nuove sfide che la vita e la conoscenza ci impongono. (…).

Questa missione tocca anche le nostre Chiese e le nostre teologie. Si tratta di accoglierla, e accogliere la “Fonte” o “esplosione stellare” che ci ha generato e ci ha reso partecipi di questa vita. È questa che ci rivolge questo invito a lasciarci attrarre dalle forze creatrici dello spirito che non può essere contenuto da nessuna dottrina, ma che soffia dove vuole e continua il suo corso più in là di tutti i dogmi e di tutte le previsioni.

Breve conclusione

(…). Senza alcuna pretesa di presentare un nuovo modello di pensiero ecologico-teologico, ho cercato di porre l’accento su aspetti critici che sembrano importanti, ma che sono stati dimenticati o ignorati nell’enciclica di papa Francesco. Ho tentato di (…) mostrare la complessità della vita e, soprattutto, la difficoltà della teologia tradizionale a rispondere al momento attuale. Nuovi processi di riflessione su nuove tradizioni si rivelano urgenti per non tradire la vita che è in noi. Gli antichi già ci dicevano che in ogni trasmissione di tradizioni vi sono anche tradimenti. (…). Mi piacerebbe abbracciare i tradimenti orientati alla novità, la trasgressione creativa come risposta alla molteplice necessità del momento.

Per questo, perseguitare e mettere a tacere i pensieri giudicati come tradimenti significa, in certo modo, distruggere la vita nuova che sorge. Credo nell’impossibilità di mantenere intatta una Tradizione se la vogliamo viva, perché può vivere solo nei nuovi tradimenti/nuove tradizioni che rispondono al momento attuale della vita. Per tale motivo la teologia femminista sviluppò il “metodo del sospetto” ogni volta che il protagonismo delle donne nelle comunità cristiane non era presente nei discorsi ufficiali.

E ora, nella prospettiva ecofemminista, non si tratta più solo del protagonismo femminile, ma anche dell’apertura a una visione più inclusiva della centralità e della diversità della vita che percepiamo nel presente (…). Per questo dobbiamo proporre processi educativi lenti ed efficaci che costruiscano e ricostruiscano in noi una nuova sensibilità e una nuova razionalità. (…).

Sentire la vita… Pensare la vita… Credere nella vita… Amare la vita… Prenderci le mani, intrecciarle, cercando sempre il nuovo…

 




i primi quattro anni di papa Francesco …

quattro anni dopo. Il dono di un Papa “fallibile”

di Gianni Valente
in “La Stampa-Vatican Insider” del 13 marzo 2017

«Quattro anni di Bergoglio basterebbero per cambiare le cose…». Così, all’inizio di marzo di quattro anni fa, un anonimo cardinale confidava a un suo amico giornalista le sue speranze per l’imminente conclave. Quando Papa Francesco si affacciò per la prima volta sulla moltitudine raccolta in piazza San Pietro, bastarono meno di dieci minuti per accorgersi che tante cose erano già cambiate. le prime parole da lui pronunciate come «vescovo di Roma», il pensiero rivolto al «vescovo emerito» Benedetto, le preghiere recitate insieme – il Pater, l’Ave e il Gloria, quelle più semplici e più usate dai poveri – e anche la richiesta al popolo di invocare sul nuovo cammino da fare insieme la benedizione di Dio: a tanti, bastarono quei pochi cenni per rincuorarsi. Per riconoscere che il Signore voleva ancora bene alla sua Chiesa, Ecclesiam Suam. 

Leggende sul «conclave pilotato» L’elezione di Papa Bergoglio, per più di un aspetto, appartiene all’ordine del miracolo. Ostentano uno spietato disprezzo dell’intelligenza e della memoria altrui, i “cattivi maestri” che provano senza vergogna a avvelenare i pozzi con l’inganno del «conclave pilotato».

Prima delle dimissioni di Benedetto e dell’arrivo a Roma dei cardinali per le congregazioni generali pre-conclave, Bergoglio era per quasi tutti i suoi colleghi solo un anziano arcivescovo in procinto di lasciare il governo della diocesi di Buenos Aires. Da tempo si preparava a ritirarsi nella residenza diocesana per i sacerdoti anziani, liberando armadi e distribuendo tra amici e conoscenti le sue cose. Da anni i giornali dell’ultra-destra cattolica argentina facevano macabre allusioni alla sua voce «sempre più fievole», che presto avrebbe taciuto per sempre. I tentativi di tessere soluzioni “preconfezionate” al conclave, accelerato dalla rinunzia di Papa Ratzinger, se c’erano, guardavano certo in altre direzioni. E c’era certo chi operava credendo di poter far scivolare conclave su un piano inclinato, verso una scelta “naturale” e “obbligata”. Nei giorni prima dell’extra omnes, uno stratega ruiniano aggiornava ogni sera i vaticanisti su quanti voti “sicuri” si erano già raccolti intorno al candidato dato per vincente e tutti ricordano l’incidente del comunicato ufficiale pre-confezionato della Cei con l’intestazione sbagliata. Quella sera del marzo 2013 Il disorientamento degli apparati, la sera del 13 marzo, fu dissimulato nelle frasi fatte e si ritrasse presto nell’ombra, per provare da lì a prendere le misure al “marziano”.

Le fabbriche dei conformismi antibergoglisti e bergoglisti non erano ancora state attivate. Così, prima che si cristallizzassero le maschere e le definizioni, il Papa eletto sul crinale di un tempo finale disse nei primi passi del suo pontificato la cosa più importante: confessò alla Chiesa e al mondo che i miracoli non li fa lui, che lui era un poveretto, «un peccatore a cui Cristo ha guardato». Era, al massimo, come il dito che indica la luna. Uno coi suoi limiti, che non era andato a abitare nel Palazzo apostolico «per motivi psichiatrici». Uno che non voleva fare il Papa, perché «una persona che ha voglia di fare il Papa, non vuole bene a se stessa, e Dio non la benedice». Distese nelle pieghe del suo magistero, nelle immagini ripetitive dei suoi interventi, quello che aveva già suggerito nel breve intervento davanti ai cardinali, durante le congregazioni pre-conclave: che la Chiesa stessa, a partire dal Papa, non brilla di luce propria. Che la Chiesa rimane un corpo opaco e buio, con tutti i suoi apparati le sue prestazioni, le sue antichità gloriose e le sue scaltre modernità, se Cristo non la illumina con la sua luce. E che solo Cristo, perdonandola, può liberare/far uscire la Chiesa stessa dalla sua inerziale auto-referenzialità, dal ripiegamento su se stessa. Perché «se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe» (Angelus, 17 marzo 2013).  Le cose di sempre
Nei primi mesi di pontificato, Le parole e i gesti più propri e più intimi del dinamismo della fede e della vita cristiana, riportate ai loro tratti minimali, (grazia, misericordia, peccato, perdono, carità, salvezza, predilezione per i poveri), irrigavano copiosi le giornate e gli interventi pubblici di Papa Bergoglio. Erano le cose e le parole di sempre, eppure per molti suonavano insolite. Dissipavano la cortina delle obiezioni, accendevano le domande di tanti. E Francesco, per farle arrivare a tanti, si affidò fin dal principio allo strumento più ordinario e consueto, da sempre utilizzato nella vicenda della Chiesa: le omelie del mattino, a Santa Marta. Spezzare ogni giorno il pane del Vangelo, e nutrirsene, insieme ai fratelli. Erano quelle che già allora certi “esperti” di politica ecclesiastica chiamano «le predichette». Per non creare ostacoli, per facilitare, per rendere più facile il possibile incontro di ognuno e di ognuna con Cristo. Il sensus fidei del popolo di Dio Dopo tanto tempo, riapparve nell’orizzonte ecclesiale il popolo di Dio. Fragile e distratto, povero e mal curato, riconobbe subito la voce e l’odore del pastore. Riconobbe gli accenti sorprendenti e nello stesso tempo familiari, le fattezza di una promessa di umanità e felicità che accoglie ma allo stesso tempo sorprende, supera ogni attesa. Non i militanti delle sigle, gli attivisti della mobilitazione ecclesiale permanente, gli infervorati a tempo pieno delle “minoranze creative” e dei circoli culturali, ma i “dilettanti”, i battezzati “generici”, quelli che non hanno preparato il discorso. Quelli in cui si percepisce un bisogno quasi fisico di rimanere semplici. Perché essere e dirsi cristiani è già un miracolo, e non serve inventarsi altro. Loro avvertirono una consonanza istintiva con la Chiesa “elementare” proposta in maniera diretta da Bergoglio. La Chiesa di sempre, quella di Papa Benedetto e di tutti i Successori di Pietro. Non una Chiesa “nuova”, ma un nuovo inizio, sul cammino della fede degli apostoli. In una storia sempre punteggiata di ripartenze, affidata alle mani fragili di uomini e donne che annunciano il perdono e la misericordia di Dio, solo perché ne hanno fatto esperienza nella loro carne.

Leonardo Boff fa una grande proposta a papa Francesco

dall’Argentina e da Leonardo Boff arriva una straordinaria proposta a papa Francesco

Nous observons dans le monde entier une accumulation étonnante de richesse, dans laquelle seulement 1% de l’Humanité parvient à contrôler presque la totalité des flux financiers. Ce mécanisme s’effectue au prix de la généralisation de deux injustices: une injustice sociale avec des millions et des millions de pauvres, et l’injustice écologique avec l’épuisement des biens et des services de la Nature, mettant en danger la durabilité de notre Maison commune et de la Terre Mère. Face à ce paysage dramatique, le pape Francisco a favorisé l’émergence d’une initiative, basée en Argentine et ouverte à tous les continents, pour réfléchir sur ces contradictions: l’Observatoire de la richesse Pedro Arrupe – vers un nouveau système financier et communicationnel mondial.

En Argentine, le groupe initial a réuni des personnes notables telles que Perez Esquivel, Raúl Zaffaroni et d’autres personnalités. Nous invitons à présent les intéressés à soutenir à tous les niveaux cette initiative qui sera accompagnée personnellement par l’évêque de Rome, le pape Francisco. Les personnes intéressées peuvent nous envoyer leur demande d’adhésion à l’adresse e-mail suivante : observatoriopadrearrupe@gmail.com

Leonardo Boff

 

lettre au Pape Francisco afin de proposer l’organisation d’une Assemblée universelle des Églises, des religieux et des écoles spirituelles pour un nouvel ordre éthique et spirituel au niveau planétaire

Cher Pape Francisco, Cher frère aîné,

Encouragés par vos déclarations, et en particulier par l’encyclique « Laudato Si – Pour la sauvegarde de la Maison commune », par votre touchant discours à l’ONU de l’année 2015, ainsi que par les trois messages adressés aux mouvements populaires mondiaux, nous nous permettons de vous écrire cette présente lettre pour vous faire part d’une suggestion mûrie au sein de différents groupes continentaux. Nous pensons qu’elle constituerait un pas en avant et un complément des documents que nous venons de mentionner.

Nous partons de la constatation, explicitée dans votre encyclique, que le système Terre et le système Vie sont sérieusement menacés. Comme le dit la Charte de la Terre, « soit nous allons vers un partenariat mondial pour prendre soin de la Terre et d’autrui, soit nous risquons notre propre destruction et celle de la diversité de la Vie » (Préambule).

Les églises, les religions et les écoles spirituelles, en particulier l’Eglise catholique, sont toutes porteuses de messages spirituels et éthiques. Elles disposent d’une responsabilité fondamentale dans le processus de prise de conscience de l’Humanité et des dirigeants politiques pour qu’ils réalisent les efforts nécessaires pour garantir un futur positif pour la Vie, la Terre Mère et notre civilisation dans son ensemble.

Nous savons, cher Pape Francisco, notre frère aîné, que vous partagez profondément ces préoccupations et que vous croyez au pouvoir de la créativité des êtres humains et, surtout, à la force vitale de l’Esprit Créateur, « amant souverain de la vie » (Livre de la Sagesse 11, 26). Pour toutes ces raisons, nous avançons cette proposition, car nous croyons que vous avez atteint une autorité spirituelle, morale, œcuménique et politique nécessaire pour initier ce processus au nom de toute l’humanité, comme vous l’avez initié auparavant avec l’encyclique Laudato Si.

Nous prions que l’Esprit vous éclaire afin d’organiser une Assemblée universelle des Églises, des religions et des écoles spirituelles et d’approfondir les questions concernant l’avenir de notre espèce, de la diversité de la Vie dans la seule Maison Commune dont nous jouissons. Nous imaginons cette initiative comme une concrétisation de vos inspirations et de vos illuminations.

Le thème général pourrait être formulé comme suit :

Un nouvel ordre éthique et spirituel dans l’économie, la politique, la société et pour chaque individu.

Nous vous proposons, à titre de suggestions, d’aborder les sujets suivants que nous considérons comme essentiels :

  • La spiritualité en tant que processus anthropologique qui a lieu dans chaque être humain.
  • L’eau comme un bien naturel, essentiel, commun et irremplaçable.
  • La durabilité de tous les êtres, en particulier de la nature et de la Vie.
  • La faim dans le monde et le droit à une alimentation saine et suffisante pour tous;
  • Les droits de la Terre Mère et de la Nature.
  • Les droits des Peuples à leur souveraineté et au respect de leurs cultures et leurs traditions.
  • Les droits humains individuels et sociaux.
  • La condamnation de toutes les guerres, notamment les guerres préventives, et l’élaboration de propositions pour la paix.
  • Le droit au plein épanouissement de la conscience
  • L’économie solidaire des biens communs de la Terre Mère et de l’Humanité.
  • L’urgence d’une gouvernance pluraliste de la planète Terre afin de mettre en œuvre ce qui a été dit à l’Académie pontificale des sciences dans le document : « Humanité durable, nature durable : notre responsabilité » : «une redistribution équitable des richesses est loin d’être irréalisable. Les bases technologiques et opérationnelles d’un développement durable existent et sont potentiellement accessibles ».Il est évident que chaque groupe invité tentera d’apporter ses équipes de spécialistes dûment informés sur les questions proposées. L’invitation pourrait également inclure d’autres personnalités expertes et de bonne foi, quelle que soit leur appartenance religieuse ou spirituelle.Nous accompagnons cette lettre de nos prières et de nos souhaits, en vous faisant part de notre admiration et du soutien inconditionnel à vos initiatives universelles, humanitaires, courageuses et évangéliques.Les adhésions doivent être envoyées à : observatoriopadrearrupe@gmail.com
  • Par l’Observatoire de la richesse pour un nouvel ordre financier et communicationnel Pedro Arrupe.
  • Cher Pape Francisco, ce n’est qu’après une mure réflexion et un temps conséquent de prière que nous avons décidé de vous faire parvenir cette proposition dont vous saurez sans aucun doute comprendre la valeur. Nous prions l’Esprit de vous éclairer et de vous inspirer afin de permettre que ce projet devienne une réalité à court terme, en songeant surtout aux sujets les plus vulnérables. L’Assemblée serait ouverte et sans date de finalisation.
  • Il ne s’agit que de premières suggestions.




ciao Fra’ detto il papa … i detenuti del carcere di San Vittore aspettando papa Francesco e gli scrivono

lettere al papa

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 6 marzo 2017

Il sito della Curia ambrosiana lo sottolinea col rilievo che merita: il prossimo 25 marzo, con la visita di Francesco a Milano, sarà la prima volta che un Papa entra nel carcere di San Vittore. Vescovi ce n’è stati tanti, è vero. E pure pontefici in visita altrove, da Regina Coeli a Rebibbia dove Wojtyla incontrò anche il suo attentatore Ali Agca, allo stesso Francesco che di detenuti ne ha incontrati un mare e anche all’estero ha visto prigioni tremende, a cominciare da quelle argentine. Ma per San Vittore è la prima volta e Bergoglio ha chiesto anche in questo caso quel che ha chiesto sempre: che non sia una visita formale, che ci sia tempo per parlare, per stare «a tu per tu» col maggior numero di persone possibile. E infatti starà lì per due ore a partire dalle 11.30, pranzando con loro.

 

«Il Papa viene per i detenuti — ha ricordato la direttrice Gloria Manzelli — ma anche per chi lavora con impegno e dedizione nell’Istituto penitenziario. Lasceremo che le persone incontrino Francesco senza il filtro dell’organizzazione, perché possa essere un incontro di anime». Il cappellano don Marco Recalcati ha spiegato che «per quanto possibile abbiamo chiesto di non selezionare i detenuti ma che pur dietro le sbarre, da lontano o mentre passa in rotonda, tutti riescano a sentire le parole del Papa e a vederlo».

Nella rotonda centrale ne incontrerà un centinaio, altri cento saranno a tavola con lui al Terzo raggio. Molti stanno preparando doni da lasciargli. Alcuni, nel frattempo, hanno deciso di scrivergli.

le loro lettere qui di seguito

Mi chiamo Natalino, sono originario della Calabria e ho perso la mia famiglia in 30 lunghi anni di carcere. È la seconda volta che entro. Da dicembre porto in corpo il cuore di un donatore, spero riposi in pace. Al mio risveglio dopo il trapianto ho visto nella mia stanza due figure che piangevano. Erano i genitori di chi mi aveva dato il cuore. Da allora mi sono sempre vicini e ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di una nuova famiglia. Sono felice di vivere di nuovo insieme a tutti. Un caro saluto. Natalino Vallone
Ciao Francesco scusa se non uso appellativi ma una volta che supererai i cancelli di San Vittore sarai un fratello anche per me, che qui mi trovo da un po’ di tempo e che non ho fede. Voglio solo dirti che ho peccato, ho rubato la serenità alla mia mamma e ho ucciso la fiducia di mio padre. Ma loro non mi hanno abbandonato. Così è in loro che ora rivolgo la mia ritrovata fede. Così ho capito che non è importante in cosa credi, l’importante è avere la fortuna di poter credere in qualcuno. Grazie per ogni singolo passo che farai in queste mura. Grazie di rappresentare l’amore e non necessariamente solo una religione. Massimo Scarpat
Se potessi parlare a papa Francesco qui a San Vittore gli chiederei di fare un miracolo: di perdonare tutti i miei sbagli e tutte quelle volte che ho fatto del male, di farmi tornare bambino con i ricordi vissuti e di non fare più quelle brutte azioni che mi hanno allontanato dalla mia famiglia e mi hanno portato dove sono ora. Vorrei davvero potere ricominciare tutto. Alfredo Giacoppo
Abbiamo fedi differenti. Ma tu caro Francesco quando preghi per i carcerati non fai distinzioni di sesso, di razza, soprattutto di religione. Così mi sento accolto anch’io nelle tue preghiere e se potessi chiederti qualcosa sarebbe un regalo bellissimo sentirti fare una preghiera al cielo per noi fratelli musulmani detenuti nelle carceri italiane, lontani da casa e dai nostri affetti. Tu anche a noi di religione diversa ispiri fiducia con bellissime parole che riuniscono in fratellanza tutte le religioni. Ti prego di continuare a trasmettere fede, perché la fede può aiutare anche quelli che come noi hanno sbagliato a trovare la forza per combattere e per uscire dalle nostre dipendenze distruttive. Grazie Francesco da un fratello musulmano. Mustapha Sekouri

Caro papa Francesco, con onestà non sono molto credente. Ma se lei di pura fede in Cristo ritiene opportuno regalare una preghiera per la mia famiglia, che sono di principi cattolici, darà a questa mia carcerazione un senso e un po’ di pace e serenità ad anime pure, quali i miei figli e la mia compagna. A me non resta che chiedere perdono a lei per tutti i miei sbagli. Grazie. Ivan Accordi
Francesco ciao. Nelle tue parole che da San Pietro arrivano anche a noi detenuti di San Vittore emerge una forte partecipazione emotiva alle sofferenze umane. Purtroppo ci arrivano anche immagini cariche di dolore, immigrati, terremotati, e le infinite situazioni di estrema povertà. Ma tutto questo viene mitigato dalla gioia trasmessa dal tuo sorriso che ci fa dimenticare anche solo per un momento angoscia e tristezza. Grazie di donare con la tua visita una briciola d’amore eterno a noi detenuti sospesi nel limbo tra il bene e il male. Fatjoni
Carissimo Papa, mi trovo detenuto nel reparto dei tossicodipendenti di San Vittore chiamato La Nave. Sono qui per pagare il mio debito con la giustizia, ma allo stesso modo per riuscire a curare la mia patologia della sostanza. Le chiedo di fare una preghiera per darmi la forza di portare a termine la mia situazione, per un benessere mio e di mia sorella che è in attesa della mia prima nipotina: vorrei godermela fuori da queste mura visto tutto il sacrificio che fa ogni settimana per venirmi a trovare. Anche se sono musulmano, una parte di me crede in lei. Moutabbid Abdelkbir
Mio caro Papa semplice. Chi se lo sarebbe aspettato, a volte la vita è proprio strana, di incontrarci in questo percorso carcerario. Sarà un’altra esperienza che chiuderò in me. La mia famiglia me lo diceva sempre: da un’esperienza negativa ne può derivare una positiva, e questa ne è la prova. Quel che ti chiedo è di farci cantare per te la benedetta canzone «Hay un amigo en mi» per condividere con te le nostre emozioni e la musica che cantiamo col nostro coro qui a San Vittore. Come dice Madre Teresa quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella anche l’oceano mancherebbe. Te saludo mi querido Papa Simple. Angelo Longo
Sono un papà di religione musulmana, detenuto nella casa circondariale di San Vittore. Sto scontando la mia condanna per colpa della mia tossicodipendenza. Quel che non vedo giusto è che la giustizia colpisce purtroppo non solo chi ha sbagliato, come me, ma anche i suoi affetti familiari. Così per un mio errore i miei due bambini non possono più vedermi. Ti chiedo una preghiera per potere riavvicinarmi a loro. Mi affido a te perché sei il Papa del popolo e della famiglia unita.
Grazie. Ghanim Larbi
Tu che intercedi per tutti coloro che soffrono, per tutti quelli che sono svantaggiati, per tutti quelli che sbagliano: ti chiedo una preghiera, caro Francesco. Poche parole, ma che pronunciate da te hanno la forza e l’intensità per cambiare la mia situazione. Aiutami a diventare un cristiano e un uomo migliore. Paloka Melsed
Ciao Francesco, detto il Papa! Mi dicono che presto verrai a San Vittore. Non so cosa tu abbia combinato per finire qui con noi, ma sta di fatto che ti abbiamo già preparato un letto al quarto piano del terzo reparto: le lenzuola ci sono già, devi solo procurarti il pigiama. Se poi quando dormi russi dimmelo, che mi procuro i tappi per le orecchie. Per il resto c’è tutto: caffè, sigarette e un piatto di pasta non mancano mai. Mi dicono anche che usi vestirti di bianco. Ti consiglio colori più scuri: sai, qui c’è tanta polvere, la candeggina scarseggia, e i capi bianchi non durano molto. Per ora è tutto, ti aspettiamo. Ciao Fra! Fabrizio Saderi



papa Francesco riconosce la corruzione in Vaticano

 

 papa Francesco

«sì, c’è corruzione in Vaticano ma non perdo la serenità»

il pontefice e i mali della chiesa

«a Buenos Aires ero più ansioso. Scrivo bigliettini a San Giuseppe li metto sotto la sua statua»

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ampi stralci del colloquio di Francesco con i superiori degli ordini religiosi, pubblicato nel numero 4000 de «La Civiltà cattolica» e trascritto dal direttore, padre Spadaro

«Il Papa è in ritardo», mi dicono all’ingresso dell’Aula Paolo VI il 25 novembre 2016. Dentro, nel luogo in cui si svolgono i Sinodi, erano in attesa 140 Superiori Generali di Ordini e Congregazioni religiose maschili (Usg), riuniti alla fine della loro 88a Assemblea Generale. Fuori una leggera pioggia. «Andate e portate frutto. La fecondità della profezia»: questo il tema dell’Assemblea che si è svolta dal 23 al 25 novembre presso il «Salesianum» di Roma. Non è comune che il Pontefice arrivi in ritardo. Alle 10,15 ecco arrivare i fotografi e quindi il Papa a passo svelto. Dopo l’applauso di saluto, Francesco esordisce: «Scusate per il ritardo. La vita è così: piena di sorprese. Per capire le sorprese di Dio bisogna capire le sorprese della vita. Grazie tante». E ha proseguito dicendo che non voleva che il suo ritardo influisse sul tempo fissato per stare insieme. Per questo l’incontro è durato comunque tre ore piene. A metà dell’incontro si è avuta una pausa. Era stata preparata una saletta riservata per il Papa, ma lui ha esclamato: «Perché mi volete far stare tutto da solo?». E così la pausa ha visto il Papa gioiosamente tra i Generali a prendere un caffè e uno spuntino, salutando l’uno e l’altro. Non vi è stato alcun discorso preparato in anticipo né da parte dei religiosi né da parte del Papa. Le telecamere del Ctv hanno ripreso solamente i saluti iniziali e poi sono andate via. L’incontro doveva essere libero e fraterno, fatto di domande e risposte non filtrate. Il Papa non ha voluto leggerle in anticipo. Dopo aver ricevuto un brevissimo saluto da parte di p. Mario Johri, ministro generale dei Frati Cappuccini e presidente dell’Usg, e di p. David Glenday, comboniano, segretario generale, il Papa ha ascoltato le domande dell’Assemblea.

E se ci fossero critiche?

«È bene essere criticato — afferma il Papa —, a me piace questo, sempre. La vita è fatta anche di incomprensioni e di tensioni. E quando sono critiche che fanno crescere, le accetto, rispondo. Le domande più difficili però non le fanno i religiosi, ma i giovani. I giovani ti mettono in difficoltà, loro sì. I pranzi con i ragazzi nelle Giornate Mondiali della Gioventù o in altre occasioni, queste situazioni mi mettono in difficoltà. I giovani sono sfacciati e sinceri e loro ti chiedono le cose più difficili. Adesso fate le vostre domande».

Santo Padre, noi riconosciamo la sua capacità di parlare ai giovani e di infiammarli per la causa del Vangelo. Noi sappiamo anche del suo impegno per avvicinare i giovani alla Chiesa; per questo ha convocato il prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Quali motivazioni l’hanno spinta a convocare il Sinodo sui giovani? Quali suggerimenti ci offre per raggiungere i giovani oggi?

Alla fine del Sinodo scorso ogni partecipante ha dato tre suggerimenti sul tema da affrontare nel prossimo. Poi sono state consultate le Conferenze episcopali. Le convergenze sono andate su temi forti, quali gioventù, formazione sacerdotale, dialogo interreligioso e pace. Nel primo Consiglio post-sinodale è stata fatta una bella discussione. Io ero presente. Ci vado sempre, ma non parlo. Per me importante è ascoltare davvero. È importante che io ascolti, ma lascio che siano loro a lavorare liberamente. In questo modo capisco come emergono le problematiche, quali sono le proposte e i nodi, e come si affrontano.
Hanno scelto i giovani. Ma alcuni sottolineavano l’importanza della formazione sacerdotale. Personalmente ho molto a cuore il tema del discernimento. L’ho raccomandato più volte ai gesuiti: in Polonia e poi alla Congregazione Generale . Il discernimento accomuna la questione della formazione dei giovani alla vita: di tutti i giovani, e in particolare, a maggior ragione, anche dei seminaristi e dei futuri pastori. Perché la formazione e l’accompagnamento al sacerdozio ha bisogno del discernimento.
Al momento è uno dei problemi più grandi che abbiamo nella formazione sacerdotale. Nella formazione siamo abituati alle formule, ai bianchi e ai neri, ma non ai grigi della vita. E ciò che conta è la vita, non le formule. Dobbiamo crescere nel discernimento. La logica del bianco e nero può portare all’astrazione casuistica. Invece il discernimento è andare avanti nel grigio della vita secondo la volontà di Dio. E la volontà di Dio si cerca secondo la vera dottrina del Vangelo e non nel fissismo di una dottrina astratta. Ragionando sulla formazione dei giovani e sulla formazione dei seminaristi, ho deciso il tema finale così come è stato comunicato: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».
La Chiesa deve accompagnare i giovani nel loro cammino verso la maturità, e solo con il discernimento e non con le astrazioni i giovani possono scoprire il loro progetto di vita e vivere una vita davvero aperta a Dio e al mondo. Dunque ho scelto questo tema per introdurre il discernimento con maggior forza nella vita della Chiesa. L’altro giorno abbiamo avuto la seconda riunione del Consiglio post-sinodale. Si è discusso abbastanza bene su questo argomento. Hanno preparato la prima bozza sui Lineamenta che si dovrà inviare subito alle Conferenze episcopali. Hanno lavorato anche religiosi. È uscita una bozza ben preparata.
Questo comunque è il punto chiave: il discernimento, che è sempre dinamico, come la vita. Le cose statiche non vanno. Soprattutto con i giovani. Quando io ero giovane, la moda era fare riunioni. Oggi le cose statiche come le riunioni non vanno bene. Si deve lavorare con i giovani facendo cose, lavorando, con le missioni popolari, il lavoro sociale, con l’andare ogni settimana a dar da mangiare ai senzatetto. I giovani trovano il Signore nell’azione. Poi, dopo l’azione si deve fare una riflessione. Ma la riflessione da sola non aiuta: sono idee… solo idee. Dunque due parole: ascolto e movimento. Questo è importante. Ma non solamente formare i giovani all’ascolto, bensì innanzitutto ascoltare loro, i giovani stessi. Questo è un primo compito importantissimo della Chiesa: l’ascolto dei giovani. E nella preparazione del Sinodo la presenza dei religiosi è davvero importante, perché i religiosi lavorano molto con i giovani.

Che cosa si aspetta dalla vita religiosa nella preparazione del Sinodo?
Quali speranze Lei ha per il prossimo Sinodo sui giovani, alla luce della diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente?

Certo, è vero che c’è una diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente. Certamente è collegata al problema demografico. Ma è anche vero che a volte la pastorale vocazionale non risponde alle attese dei giovani. Il prossimo Sinodo ci darà idee. La diminuzione della vita religiosa in Occidente mi preoccupa.
Ma mi preoccupa anche un’altra cosa: il sorgere di alcuni nuovi Istituti religiosi che sollevano alcune preoccupazioni. Non dico che non debbano esserci nuovi Istituti religiosi! Assolutamente no. Ma in alcuni casi mi interrogo su che cosa stia accadendo oggi. Alcuni di essi sembrano una grande novità, sembrano esprimere una grande forza apostolica, trascinano tanti e poi… falliscono. A volte si scopre persino che dietro c’erano cose scandalose… Ci sono piccole fondazioni nuove che sono davvero buone e che fanno sul serio. Vedo che dietro queste buone fondazioni ci sono a volte anche gruppi di vescovi che accompagnano e garantiscono la loro crescita. Però ce ne sono altre che nascono non da un carisma dello Spirito Santo, ma da un carisma umano, da una persona carismatica che attira per le sue doti umane di fascinazione. Alcune sono, potrei dire, «restaurazioniste»: esse sembrano dare sicurezza e invece danno solo rigidità. Quando mi dicono che c’è una Congregazione che attira tante vocazioni, lo confesso, io mi preoccupo. Lo Spirito non funziona con la logica del successo umano: ha un altro modo. Ma mi dicono: ci sono tanti giovani decisi a tutto, che pregano tanto, che sono fedelissimi. E io mi dico: «Benissimo: vedremo se è il Signore!».
Alcuni poi sono pelagiani: vogliono tornare all’ascesi, fanno penitenze, sembrano soldati pronti a tutto per la difesa della fede e di buoni costumi… e poi scoppia lo scandalo del fondatore o della fondatrice… Noi sappiamo, vero? Lo stile di Gesù è un altro. Lo Spirito Santo ha fatto rumore il giorno della Pentecoste: era all’inizio. Ma di solito non fa tanto rumore, porta la croce. Lo Spirito Santo non è trionfalista. Lo stile di Dio è la croce che si porta avanti fino a che il Signore non dice «basta». Il trionfalismo non va bene d’accordo con la vita consacrata.
Dunque, non mettete la speranza nel fiorire improvviso e massiccio di questi Istituti. Cercate invece l’umile cammino di Gesù, quello della testimonianza evangelica. Benedetto XVI ce lo ha detto molto bene: la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione.

Perché ha scelto tre tematiche ne per le prossime tre Giornate mondiali della gioventù che condurranno alle Giornate mondiali di Panama?

I temi ni per le prossime tre Giornate mondiali non li ho scelti io! Dall’America Latina hanno chiesto questo: una forte presenza na. È vero che l’America Latina è molto na, e a me è sembrata una cosa molto buona. Non ho avuto altre proposte, e io ero contento così. Ma la Madonna vera! Non la Madonna capo di un ufficio postale che ogni giorno manda una lettera diversa, dicendo: «Figli miei, fate questo e poi il giorno dopo fate quest’altro». No, non questa. La Madonna vera è quella che genera Gesù nel nostro cuore, che è Madre. Questa moda della Madonna superstar, come una protagonista che mette se stessa al centro, non è cattolica.

Santo Padre, la sua missione nella Chiesa non è facile. Malgrado le sfide, le tensioni, le opposizioni, Lei ci offre la testimonianza di un uomo sereno, di un uomo di pace. Qual è la sorgente della sua serenità? Da dove viene questa fiducia che la ispira e che può sostenere anche la nostra missione? Chiamati a essere guide religiose, cosa ci suggerisce per vivere con responsabilità e pace il nostro compito?

Qual è la sorgente della mia serenità? No, non prendo pastiglie tranquillanti! Gli italiani danno un bel consiglio: per vivere in pace ci vuole un sano menefreghismo. Io non ho problemi nel dire che questa che sto vivendo è un’esperienza completamente nuova per me. A Buenos Aires ero più ansioso, lo ammetto. Mi sentivo più teso e preoccupato. Insomma: non ero come adesso. Ho avuto un’esperienza molto particolare di pace profonda dal momento che sono stato eletto. E non mi lascia più. Vivo in pace. Non so spiegare.
Per il conclave, mi dicono che nelle scommesse a Londra ero nel numero 42 o 46. Io non lo prevedevo affatto. Ho pure lasciato l’omelia pronta per il Giovedì santo . Nei giornali si diceva che ero un king maker, ma non il Papa. Al momento dell’elezione io ho detto semplicemente: «Signore, andiamo avanti!». Ho sentito pace, e quella pace non se n’è andata.
Nelle Congregazioni Generali si parlava dei problemi del Vaticano, si parlava di riforme. Tutti le volevano. C’è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c’è un problema, io scrivo un biglietto a san Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia. È la statua di san Giuseppe che dorme. E ormai lui dorme sotto un materasso di biglietti! Per questo io dormo bene: è una grazia di Dio. Dormo sempre sei ore. E prego. Prego a mio modo. Il breviario mi piace tanto e mai lo lascio. La Messa tutti i giorni. Il rosario…. Quando prego, prendo sempre la Bibbia. E la pace cresce. Non so se questo è il segreto… La mia pace è un regalo del Signore. Che non me la tolga!
Credo che ciascuno debba trovare la radice dell’elezione che il Signore ha fatto su di lui. Del resto, perdere la pace non aiuta affatto a soffrire. I superiori devono imparare a soffrire, ma a soffrire come un papà. E anche a soffrire con molta umiltà. Per questa strada si può andare dalla croce alla pace. Ma mai lavarsi le mani dai problemi! Sì, nella Chiesa ci sono i Ponzio Pilato che se ne lavano le mani per stare tranquilli. Ma un superiore che se ne lava le mani non è padre e non aiuta.

Santo Padre, nei suoi interventi ci ha detto spesso che ciò che specifica la vita religiosa è la profezia. Ci siamo confrontati a lungo su cosa significhi essere radicali nella profezia. Quali sono le «zone di sicurezza e di conforto» da cui siamo chiamati a uscire? Lei ha parlato alle monache di una «ascesi profetica e credibile». Come la intende in una prospettiva rinnovata di «cultura della misericordia»? Come può la vita consacrata contribuire a tale cultura?

Essere radicali nella profezia. A me questo importa tanto. Prenderò come «icona» Gioele 3. Mi viene spesso in mente, e so che viene da Dio. Dice: «Gli anziani avranno sogni e i giovani profetizzeranno». Questo versetto è un nocciolo della spiritualità delle generazioni. Essere radicali nella profezia è il famoso sine glossa, la regola sine glossa, il Vangelo sine glossa. Cioè: senza calmanti! Il Vangelo va preso senza calmanti. Così hanno fatto i nostri fondatori.
La radicalità della profezia dobbiamo trovarla nei nostri fondatori. Loro ci ricordano che siamo chiamati a uscire dalle nostre zone di conforto e sicurezza, da tutto quello che è mondanità: nel modo di vivere, ma anche nel pensare strade nuove per i nostri Istituti. Le strade nuove vanno cercate nel carisma fondazionale e nella profezia iniziale. Dobbiamo riconoscere personalmente e comunitariamente qual è la nostra mondanità.
Persino l’ascetica può essere mondana. E invece deve essere profetica. Quando sono entrato nel noviziato dei gesuiti, mi hanno dato il cilicio. Va bene anche il cilicio, ma attenzione: non deve aiutarmi a dimostrare quanto sono bravo e forte. La vera ascesi deve farmi più libero. Credo che il digiuno sia una cosa che conservi attualità: ma come faccio il digiuno? Semplicemente non mangiando? Santa Teresina aveva anche un altro modo: mai diceva cosa le piaceva. Non si lamentava e prendeva tutto quello che le davano. C’è un’ascesi quotidiana, piccola, che è una mortificazione costante. Mi viene in mente una frase di sant’Ignazio che aiuta a essere più liberi e felici. Lui diceva che per seguire il Signore aiuta la mortificazione in tutte le cose possibili. Se ti aiuta una cosa, falla, anche il cilicio! Ma solamente se ti aiuta a essere più libero, non se ti serve per mostrare a te stesso che sei forte.

Cosa comporta la vita comunitaria? Qual è il ruolo di un superiore per custodire questa profezia? Quale apporto possono dare i religiosi per contribuire al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa?

La vita comunitaria? Alcuni santi l’hanno definita una continua penitenza. Ci sono comunità in cui la gente si spella e si spiuma! Se la misericordia non entra nella comunità, non va bene. Per i religiosi la capacità di perdono deve spesso iniziare nella comunità. E questo è profetico. Si comincia sempre con l’ascolto: che tutti si sentano ascoltati. Ci vuole ascolto e persuasione anche da parte del superiore. Se il superiore rimprovera continuamente, non aiuta a creare la profezia radicale della vita religiosa. Sono convinto che i religiosi siano in vantaggio nel dare un contributo al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa.
Nei consigli presbiterali delle diocesi i religiosi aiutano nel cammino. E non devono avere paura di dire le cose. Nelle strutture della Chiesa entra il clima mondano e principesco, e i religiosi possono contribuire a distruggere questo clima nefasto. E non c’è bisogno di diventare cardinali per credersi prìncipi! Basta essere clericali. Questo è quanto di peggio ci sia nell’organizzazione della Chiesa. I religiosi possono contribuire con la testimonianza di una fratellanza più umile. I religiosi possono dare la testimonianza di un iceberg capovolto, dove la punta, cioè il vertice, il capo, è capovolta, sta in basso.

Santo Padre, noi abbiamo speranze che attraverso la sua guida si sviluppino migliori relazioni tra vita consacrata e Chiese particolari. Che cosa ci suggerisce per esprimere in pienezza i nostri carismi nelle Chiese particolari e per affrontare le difficoltà che a volte sorgono nei rapporti con i vescovi e il clero diocesano? Come vede la realizzazione del dialogo della vita religiosa con i vescovi e la collaborazione con la Chiesa locale?
Da tempo si chiede di rivedere i criteri circa i rapporti tra i vescovi e i religiosi stabiliti nel 1978 dalla Congregazione per i religiosi e dalla Congregazione per i vescovi nel documento Mutuae relationes. Già nel Sinodo del 1994 ne se era parlato. Quel documento risponde a un certo tempo e non è più così attuale. Il tempo è maturo per il cambiamento. È importante che i religiosi si sentano appieno dentro la Chiesa diocesana. Appieno. A volte ci sono tante incomprensioni che non aiutano all’unità, e allora bisogna dare un nome ai problemi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della Chiesa locale: consigli di amministrazione, consigli presbiterali… A Buenos Aires i religiosi eleggevano i loro rappresentanti nel consiglio presbiterale. Il lavoro va condiviso nelle strutture delle diocesi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della diocesi. Da isolati non ci si aiuta. In questo si deve crescere tanto. E così anche il vescovo è aiutato a non cadere nella tentazione di diventare un po’ principe…
Ma anche la spiritualità va diffusa e condivisa, e i religiosi sono portatori di forti correnti spirituali. In alcune diocesi i sacerdoti del clero diocesano si riuniscono in gruppi di spiritualità francescana, carmelitana… Ma che lo stile di vita possa essere condiviso: alcuni preti diocesani si chiedono perché non possano vivere insieme per non essere soli, perché non possano vivere una vita più comunitaria. Il desiderio viene, ad esempio, quando si ha la buona testimonianza di una parrocchia retta da una comunità di religiosi. Dunque, c’è un livello di collaborazione radicale, perché spirituale, di anima. E stare vicini spiritualmente in diocesi tra il clero e i religiosi aiuta a risolvere le possibili incomprensioni. Si possono studiare e ripensare tante cose. Tra queste anche la durata del servizio come parroco, che mi sembra breve e si cambiano i parroci troppo facilmente. Non nascondo che poi ci sono tanti altri problemi a un terzo livello, legato alla gestione economica. I problemi vengono quando si toccano le tasche! Penso alla questione dell’alienazione dei beni. Con i beni dobbiamo essere molto delicati. La povertà è midollare nella vita della Chiesa. Sia quando la si osserva, sia quando non la si osserva. Le conseguenze sono sempre forti.

Santo Padre, come la Chiesa anche la vita religiosa è impegnata ad affrontare le situazioni di abusi sessuali sui minori e di abusi finanziari con trasparenza e determinazione. Tutto ciò è una contro-testimonianza, suscita scandali e ha anche ripercussioni sulla proposta vocazionale e sull’aiuto dei benefattori. Quali misure ci suggerisce per prevenire tali scandali nelle nostre Congregazioni?

Forse non c’è il tempo per una risposta molto articolata e faccio affidamento alla vostra sapienza. Fatemi dire però che il Signore vuole tanto che i religiosi siano poveri. Quando non lo sono, il Signore manda un economo che porta l’Istituto in fallimento! A volte Congregazioni religiose sono accompagnate da un amministratore ritenuto «amico» e che poi le fa fallire. Comunque, criterio fondamentale per un economo è quello di non essere personalmente attaccato ai soldi. Una volta accadde che una suora economa svenne e una consorella disse a chi la soccorreva: «Passatele sotto il naso una banconota e certamente si riprenderà!». C’è da ridere, ma anche da riflettere. Importante poi verificare come le banche investono i soldi. Non deve mai accadere che ci siano investimenti in armi, ad esempio. Mai.
Circa gli abusi sessuali: pare che su 4 persone che abusano, 2 siano state abusate a loro volta. Si semina l’abuso nel futuro: è devastante. Se sono coinvolti preti o religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l’opera di Gesù tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema. Quindi, attenzione a ricevere in formazione candidati alla vita religiosa senza accertarsi bene della loro adeguata maturità affettiva. Per esempio: mai ricevere nella vita religiosa o in una diocesi candidati che sono stati respinti da un altro seminario o da un altro Istituto senza chiedere informazioni molto chiare e dettagliate sulle motivazioni dell’allontanamento.

Santo Padre, la vita religiosa non è in funzione di se stessa, ma della sua missione nel mondo. Lei ci ha invitato ad essere una Chiesa in uscita. Dal suo punto di osservazione, la vita religiosa nelle diverse parti del modo sta operando questa conversione?

La Chiesa è nata in uscita. Era chiusa nel Cenacolo e poi è uscita. E deve rimanere in uscita. Non deve tornare a chiudersi nel Cenacolo. Gesù ha voluto che fosse così. E «fuori» significa quelle che io chiamo periferie, esistenziali e sociali. I poveri esistenziali e i poveri sociali spingono la Chiesa fuori di sé. Pensiamo a una forma di povertà, quella legata al problema dei migranti e dei rifugiati: più importante degli accordi internazionali è la vita di quelle persone! E proprio nel servizio della carità è pure possibile trovare un ottimo terreno per il dialogo ecumenico: sono i poveri che uniscono i cristiani divisi! Queste sono tutte sfide aperte per i religiosi di una Chiesa in uscita. L’Evangelii gaudium vuole comunicare questa necessità: uscire. Vorrei che si tornasse a quella Esortazione apostolica con la riflessione e la preghiera. Essa è maturata alla luce dell’Evangelii nuntiandi e del lavoro fatto ad Aparecida, contiene un’ampia riflessione ecclesiale. E infine ricordiamolo sempre: la misericordia è Dio in uscita. E Dio è sempre misericordioso. Anche voi uscite!

Alle 13,00 circa l’incontro si è concluso con alcune parole di ringraziamento e un lungo applauso. Il Papa, già in piedi, prima di lasciare l’Aula, ha salutato tutti con queste parole: «Andate avanti con coraggio e senza paura di sbagliare! Quello che non sbaglia mai è quello che non fa nulla. Dobbiamo andare avanti! Sbaglieremo, a volte, sì, ma c’è sempre la misericordia di Dio dalla nostra parte!». Prima di uscire, Francesco ha voluto salutare ancora una volta tutti i presenti, uno ad uno.

 




“il capitalismo è disumano, produce scarti umani e li vuole nascondere” – parola di papa Francesco


 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO “ECONOMIA DI COMUNIONE”
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI

Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017

 

sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze

Economia e comunione  Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.

Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose:

La prima riguarda il denaro.

È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.

Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.

Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!

La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.

Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà. E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.

Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.

Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!

L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.

Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.

Infine, la terza cosa riguarda il futuro.

Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.

Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?

Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.

Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.

Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.

Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.

Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.




i manifesti contro papa Francesco sono un attacco brutale da non sottovalutare

manifesti contro papa Francesco

di Marco Politi
in “http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/mpoliti/” del 5 febbraio 2017


l’attacco è stato preciso, violento, ben pianificato. Sbagliano i sostenitori di Francesco a voler minimizzare. E sbaglia anche il Vaticano a diffondere la tacita consegna “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Perché i manifesti   contro papa Bergoglio affissi sabato in molte parti del centro di Roma toccano i punti vitali dell’immaginario di questo pontificato

In primo luogo, il rapporto diretto con la massa dei fedeli e anche il popolo, che non crede ma ascolta con attenzione le parole di Francesco: rapporto ridicolizzato e deformato dalla foto, che sui manifesti mostra un pontefice ingrugnito. Più insidioso ancora è il secondo messaggio veicolato dalle affissioni: l’attacco brutale al cuore della sua buona novella, la misericordia. Come dire: “Sei un dittatore subdolo che parli di misericordia ma perseguiti chi non è d’accordo con te: dall’Ordine di Malta ai Francescani dell’Immacolata, a sacerdoti per te scomodi … e non hai nemmeno il coraggio di rispondere a quei cardinali che ti mettono in discussione”. Vero e falso in un messaggio di lotta politica senza quartiere non hanno importanza. (La campagna elettorale di Trump insegna). E questo dei manifesti è un attacco “politico” in piena regola al pontificato bergogliano. Raffinato nella sua perfidia è anche l’uso del dialetto romano.

“A France’… “. Uno sberleffo che mira a svuotare nella sua volgarità ogni preminenza morale della personalità presa a bersaglio. Sbaglia anche chi minimizza, considerando la vicenda un mero sviluppo di un clima della comunicazione contemporanea diventato sempre più esplicito, polarizzato e aggressivo. Il che è vero. Ma nel caso di Francesco l’ondata di manifesti derisori è qualcosa di più: è   un’ulteriore mossa di un’escalation che ha per scopo la   denigrazione sistematica   del suo riformismo e in ultima analisi la mobilitazione delle forze in vista del futuro conclave da cui (secondo i conservatori) non deve uscire assolutamente un Francesco II. Ridicolizzare il Papa a Roma con metodi, che ricordano i tweet di Trump contro i suoi avversari o gli insulti da stadio contro giocatori e arbitri, significa appunto trascinare in basso la figura di Francesco per metterlo alla pari degli insulti da bar. In questa vicenda – quali che siano i quattro gatti che un domani potranno essere individuati come autori materiali del fatto – non esiste un burattinaio unico. Esiste invece, a partire sin dai primi mesi del pontificato e in accelerata con il primo sinodo sulla famiglia, il coagularsi costante e crescente di molteplici   gruppi, preti, vescovi e cardinali sostenuti da una galassia di siti internet, il cui motto è: “Questo Papa non ci piace!”. E’ un demagogo, un populista, un comunista, un femminista, un eretico … Che protestantizza la Chiesa cattolica, sminuisce il primato papale, toglie sacralità alla cattedra di Pietro, si allontana dalla Tradizione, semina confusione tra i fedeli …”. Si prenda una cartina geografica e si appuntino con uno spillo le località da cui provengono i cardinali e i vescovi, che hanno scritto libri contro la svolta pastorale di Francesco in tema di etica familiare, che hanno firmato petizioni, che gli hanno mandato una lettera accusandolo praticamente di manipolazione dell’ordine dei lavori del Sinodo 2015, che infine (con la lettera dei quattro Cardinali dell’autunno scorso) lo hanno sostanzialmente accusato di tradire la parola di Dio iscritta nel Vangelo – e si avrà una mappa della rete mondiale – in Curia e nei cinque continenti – di coloro che nutrono malumore nei confronti della linea del pontefice. Preti,
teologi, vescovi e cardinali che gli si oppongono apertamente e che dietro le quinte sono appoggiati da quanti ne condividono le idee ma non vogliono esporsi e intanto fanno resistenza passiva. I manifesti di Roma, che attaccano pubblicamente Bergoglio nella Roma, di cui è vescovo e da cui svolge (come suona la definizione cattolica tradizionale) la sua “missione di pastore universale”, sono il segno allarmante di un movimento a lui contrario, che non ha tregua e incarna la stessa aggressività logorante che ha avuto negli Stati Uniti il tea party movement. La somiglianza colpisce. Quel movimento, che incessantemente anno dopo anno ha disgregato l’immagine di Obama, non era ovviamente in grado di rimuoverlo da presidente, ma al termine del suo mandato ha pesato enormemente sulle elezioni presidenziali. C’è un “movimento del sacro incenso”, abbastanza numeroso come hanno dimostrato le votazioni al sinodo sulla famiglia, e variamente aggressivo, che mira a corrodere dall’interno degli ambienti ecclesiastici l’autorevolezza di Bergoglio. Il vasto consenso di cui gode nei sondaggi è solo una parte della questione. L’altra dimensione riguarda la Chiesa come istituzione. E in questa dimensione la guerra sotterranea è violenta. Bergoglio, mostrando tranquillità, ha finora ordinato discretamente ai suoi sostenitori nella gerarchia di non dare importanza agli attacchi a lui rivolti. Ma la storia insegna che in una guerra civile chi non contrasta efficacemente gli attacchi, finisce per logorarsi. E qui chi si logora non è tanto la personalità storica di Francesco, ma la vitalità del fronte riformatore.