un’umanità dis-umanizzata
dalla narrazione delle migrazioni alla criminalizzazione della solidarietà
di Francesco David
In principio fu il caso del respingimento della nave Aquarius, fino a quelli più recenti della Sea Watch 3 e dell’Open Arms, imbarcazioni delle Organizzazioni Non Governative impegnate in operazioni di Search and Rescue nel Mar Mediterraneo dopo la fine delle missioni europee di pattugliamento e salvataggio di migranti in quella che è ormai divenuta la frontiera più pericolosa del mondo. Senza dimenticare i numerosissimi altri episodi avvenuti in tutta Europa, in particolare ai confini tra i vari Stati, in cui la solidarietà, l’assistenza e il salvataggio di vite umane sono diventati il bersaglio principale di politiche, slogan e retoriche xenofobe e regressive da parte di governi e partiti di destra, o comunque di ispirazione nazionalista e populista, e non solo. Ma come si è giunti a tutto questo? Come si è potuti arrivare a mettere in discussione, e persino criminalizzare, il salvataggio di vite umane?
In questo articolo, partendo dall’analisi dei “discorsi” relativi alla questione dei fenomeni migratori, ovvero di quella che può essere definita “narrazione delle migrazioni”, proverò ad esaminare il processo socio-culturale che ha condotto alla cosiddetta «criminalizzazione della solidarietà».
Il fenomeno delle migrazioni può essere considerato a tutti gli effetti un «fatto sociale totale» (Mauss, 2002; Sayad, 2002), ovvero rientra in quell’insieme di elementi capaci di coinvolgere nel loro accadere la pluralità complessiva dei vari livelli sociali e delle dinamiche delle comunità umane. Allo stesso modo, rientrando tra i principali aspetti all’origine della formazione e dei cambiamenti della società, le migrazioni possono essere pensate come “fatto politico totale”, cioè come parte integrante della vita umana in quanto tale e, quindi, possono essere interpretate e analizzate nel quadro delle caratteristiche salienti dell’organizzazione politica della società (Palidda, 2008). Ciò vuol dire, in sostanza, che non si possono comprendere le migrazioni, o meglio, le «mobilità umane» [ibid.], senza capire il processo di cambiamento della società che, ovviamente, riguarda gli aspetti economici, sociali, culturali e le conseguenze che ne derivano sulle caratteristiche della società stessa. In questo senso, «le mobilità si situano nei giochi delle molteplici interazioni di questo processo conducendo a conflitti e a mediazioni. Sono quindi rivelatrici delle caratteristiche salienti della società di partenza, di quella d’arrivo e delle relazioni tra questi due poli» (Palidda, 2010: 7). Da ciò deriva la cosiddetta “funzione specchio” (Sayad, 2002) delle migrazioni, ovvero il fatto che queste spesso costituiscano un riflesso della società di immigrazione nel suo complesso. Tale effetto specchio delle società di immigrazione e delle loro istituzioni ne rivela le profonde e problematiche sfumature, predisponendo così l’antropologia in generale, e l’antropologia delle migrazioni in particolare, a farsi critica culturale (Marcus, Fisher, 1994).
Tale critica, innanzitutto, non può prescindere dal presupposto e dalla consapevolezza che i fenomeni migratori rientrano anch’essi nell’ambito di quell’insieme di “discorsi” che vanno a costituire ciò che si potrebbe definire una vera e propria “narrazione delle migrazioni”. In questo senso, parlare di discorso nell’accezione foucaultiana del termine significa fare riferimento alle strutture di senso implicite, indirette, che hanno la tendenza a presentarsi come obiettive, indiscutibili, necessarie. Tali discorsi costituiscono quello che può definirsi una sorta di pensiero del potere, o del dominante (Foucault, 1967; 1971), che permette la riproduzione delle scienze che ne forgiano i dispositivi e ispirano le pratiche dei poteri e dei loro agenti (Palidda, 2010). Si tratta, in poche parole, dell’insieme di rappresentazioni e forme ideologico-discorsive attraverso cui le istituzioni di potere dei gruppi dominanti descrivono e giustificano la realtà sociale dei gruppi dominati.
Sayad (2002), a tal proposito, parla di “pensiero di Stato”, ovvero di quel meccanismo per cui le strutture mentali dei cittadini tenderebbero a riflettere quelle dello Stato e verrebbero perciò incorporate dagli attori sociali e naturalizzate fino a diventare ovvie, nascondendo la loro natura sociale e politica. Secondo Sayad, infatti, le categorie attraverso le quali pensiamo il mondo e la società riflettono quelle nazionali e sono alla base del nostro stesso modo di concepire la realtà. Siamo cioè in presenza di «prodotti socialmente e storicamente determinati, e allo stesso tempo strutturanti, nel senso che predeterminano e organizzano tutta la nostra rappresentazione del mondo e, di conseguenza, questo stesso mondo» [ibid.]. In tal modo, in base alla stessa logica, si può dire che le nostre categorie di pensiero esercitano un’influenza anche sulle modalità attraverso le quali percepiamo e interpretiamo i fenomeni migratori e, quindi, i concetti stessi di “straniero”, “immigrato”, “rifugiato”. Un’attenta analisi dei fenomeni legati alle migrazioni, quindi, deve preventivamente partire da un approccio “decostruzionista”, da una prospettiva cioè che tenda a decostruire le logiche e le retoriche che sottendono la produzione di forme discorsive atte appunto a rappresentare e legittimare la realtà sociale dei migranti.
A ben vedere, è proprio quando i “moderni” Stati europei iniziano a farsi pienamente nazionali e quando lo “straniero”, in quanto migrante e profugo, diventa oggetto privilegiato delle politiche governative, che il concetto di straniero subisce una trasformazione radicale, diventando paradigma “dell’esclusione” politica, parallelamente alla ridefinizione dei codici “dell’inclusione” e della cittadinanza su basi appunto nazionali (Sassen, 1996). Non a caso, nell’analisi dei discorsi relativi ai fenomeni migratori trovano spazio sia quelli destinati alla selezione e all’inquadramento, ovvero alla governabilità come insieme di pratiche, non solo statali ma anche intellettuali e tecniche, sia i discorsi che giustificano e orientano le pratiche dell’esclusione, del rigetto, dell’ostilità, della persecuzione e della guerra contro quello che può essere considerato il nemico di turno (Palidda, 2010). Vediamo nello specifico le caratteristiche di tali discorsi.
In primo luogo, all’interno del dibattito pubblico e politico contemporaneo che ruota attorno alle tematiche migratorie si possono riscontrare tutta una serie di discorsi, pratiche e rappresentazioni che fanno capo a quella che può essere definita «ragione umanitaria», che Fassin (2018) suggerisce di considerare nel quadro più ampio di una geografia mondiale di governabilità degli esseri viventi. Tale nuova “razionalità di governo”, secondo l’antropologo francese, sarebbe il prodotto della progressiva affermazione nella sfera pubblica occidentale di una soggettività politica collettiva fondata sul «dispiegamento di sentimenti morali», e farebbe parte di uno sviluppo intrinseco alla tradizione filosofica occidentale, di ispirazione soprattutto cristiana e liberale, che avrebbe fagocitato il discorso politico sino a cristallizzarsi in quello che si può considerare un vero e proprio “governo umanitario”.
Ciò vuol dire, in pratica, che i sentimenti morali e il richiamo a una comune umanità diventano la sostanza stessa della politica, assurgono a strumenti fondamentali per rispondere a particolari questioni del mondo. A partire dagli anni Novanta, infatti, il termine “umanitario”, dapprima circoscritto alle operazioni di emergenza e usato da un ristretto gruppo di Organizzazioni Non Governative, si estende anche ai contesti dello sviluppo, delle politiche sociali, sino addirittura agli interventi militari, diventando la parola d’ordine adoperata dalle grandi agenzie internazionali e dagli apparati statali per descrivere e giustificare una serie diversa di eventi, dall’assistenza ai soggetti svantaggiati al sistema degli aiuti internazionali, dal soccorso alle vittime di catastrofi al riconoscimento dello status di rifugiato o alla regolarizzazione degli stranieri senza permesso di soggiorno. Il governo umanitario, pertanto, si presenta come un nuovo dispositivo di potere in grado di agire in contesti sociali diversi e che contiene in sé anche le motivazioni profonde, di tipo morale, dal quale prende avvio gran parte dell’agire politico contemporaneo, a partire dalle istituzioni statali agli organismi internazionali, dalle Organizzazioni Non Governative alle associazioni del Terzo settore, passando per i singoli individui riuniti in forme associative o di attivismo.
“L’umanitarismo” è oggi ben riscontrabile nei luoghi della precarietà, nei ricoveri per i poveri, nei campi profughi, nei centri di accoglienza per immigrati o per sfollati. Esso si concentra sui soggetti che hanno a che fare con situazioni di povertà, disastri naturali, carestie, epidemie, guerre, mostrandosi attraverso le immagini di sofferenza che vengono spiattellate ovunque dai media e che sembrano ormai appartenere alla nostra quotidianità, così come ne fanno parte gli interventi di aiuto e di assistenza. Siamo in effetti continuamente pervasi dalla spettacolarizzazione della sofferenza e dall’esposizione globale del soccorso [1]. Ciò avviene perché la logica umanitaria necessita da una parte di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, nello specifico di “corpi sofferenti” (ibid.), facendo appello a un immaginario caritatevole, e dall’altra parte di spostare l’attenzione dalla “struttura” a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale possiamo facilmente riconoscerci proprio perché appartenenti a una medesima comunità umana. La forza ideologica della ragione umanitaria come nuova forma egemonica di governo, allora, sta proprio nell’aver sostituito il vecchio lessico della politica, incentrato intorno a espressioni come lotta, sfruttamento, diritti, giustizia sociale, con una nuova retorica che fa largamente uso di nozioni di tipo morale come “sofferenza”, “compassione”, “solidarietà”, e a ciò che Fassin definisce “ethos compassionevole” di stampo paternalistico (2006a). In questo senso, la logica umanitaria, spogliando i fatti di qualsiasi specificità storica e politica, in un susseguirsi senza differenze di eventi drammatici, non farebbe altro che riprodurre le condizioni strutturali di diseguaglianza entro cui si inscrive [2]. Il discorso umanitario, in effetti, a prescindere dalla buone intenzioni soggettive, presuppone un rapporto sociale fondamentalmente di tipo gerarchico e diseguale, nel quale soggetti in posizione dominante rappresentano e descrivono la condizione di soggetti subalterni. L’Altro, sia esso il povero, il migrante, il profugo o lo sfollato, può essere riconosciuto e accettato, e quindi esistere, solo attraverso la figura della vittima, di un soggetto passivo, questuante e sofferente (Mesnard, 2004), corpo biologico da salvare, curare e assistere.
Il discorso migratorio, a ben vedere, viene ampiamente inglobato da quello umanitario e il migrante è costitutivamente figura vulnerabile, fragile, bisognosa di essere aiutata e salvata, riconosciuto solo in quanto vittima, suffering body intorno al quale l’azione umanitaria disegna i contorni di una nuova “economia morale” (Fassin, 2009), attraverso «un diritto che salva, cura, protegge, difende solo corpi umani» [Pandolfi, 2005]. Il tipo di potere che agisce sui migranti, in questo caso, non è altro che un “biopotere”, cioè potere sulla vita intesa sempre più spesso come mera esistenza fisica e naturale, “nuda vita” (Agamben, 1995) spodestata delle sue valenze storiche, sociali e soprattutto etiche. Tale è la “biopolitica” (Foucault, 2005), una forma di potere che si afferma e si riproduce proprio attraverso il corpo e che si traduce in un regime di controllo e di sorveglianza dei corpi degli individui che si può definire “panoptico”, ovvero di estensione capillare ed estensiva della visibilità dei soggetti da parte delle istituzioni (Foucault, 1976). Una forma di potere, in sostanza, che «rinvia all’emergere della vita stessa tanto come oggetto, quanto come soggetto del potere» (Quaranta, 2006).
Fassin, a proposito della biopolitica che incontra i corpi dei migranti, corpi “altri”, stranieri, irregolari e clandestini, luoghi di inscrizione e di incarnazione delle politiche immigratorie, parla non a caso di “biopolitica dell’alterità” (Fassin, 2006b), ovvero di quel potere che, agendo direttamente sulla nuda vita degli immigrati, investe tanto le dinamiche riguardanti i flussi migratori quanto le politiche dell’accoglienza e dell’esclusione degli stranieri, così come anche le norme per il riconoscimento del loro status giuridico e legale. Pensare e ragionare esclusivamente in termini di umanità, compassione e pietà, ha portato in definitiva a considerare il “diritto alla vita” come unico diritto riconosciuto, spostando decisamente in secondo piano quelli che sono i diritti sociali, civili e politici dei migranti. Non solo. La logica umanitaria finisce paradossalmente col produrre una sorta di “dis-umanizzazione” del migrante, una sua mutilazione alla stregua di una “persona a metà”, come se la sua vita dipendesse unicamente dal suo non “essere (più) nel mondo” (Agier, 2005), accolto ed accettato non come soggetto avente una propria storia e dignità, ma solo come il prototipo di una figura socialmente accettabile, quella appunto della vittima da salvare e assistere.
Un secondo tipo di narrazione che investe le dinamiche migratorie è sicuramente quello derivante dall’insorgenza del cosiddetto «discorso securitario» (Wacquant, 2006), strettamente connesso al concetto di «securitarizzazione» [3]. Tale termine indica quel processo di costruzione sociale che spinge un settore ordinario della politica nella sfera delle questioni relative alla sicurezza attraverso una retorica e atti linguistici che inquadrano un tema pubblico in termini di “minaccia”, creando così un frame che giustifica l’adozione di misure e azioni che eccedono rispetto ai normali confini dei provvedimenti politici (Waever, 1995). In quest’ottica, la securitarizzazione di una determinata questione pubblica è effetto di una pratica discorsiva che ne fa una questione di sicurezza del tutto indipendentemente dalla sua natura obiettiva o dalla rilevanza concreta della supposta minaccia. Anche il fenomeno migratorio, negli ultimi decenni, è stato affrontato sotto il profilo della securitarizzazione, non soltanto dal punto di vista del paradigma classico centrato sulla sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, ma anche in base ad altri princìpi interpretativi che hanno affollato il dibattito pubblico contemporaneo, andando a rafforzare ulteriormente il legame tra migrazioni e sicurezza (Campesi, 2012).
Secondo il paradigma tradizionale, come detto, le migrazioni costituirebbero un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato-nazione per via di un modello teorico interpretativo che finisce per associare le mobilità umane con tutta una serie di fenomeni criminali e di minacce strategiche, in base a una logica che Dal Lago (1999a) definisce «tautologia della paura». In linea generale, il legame tra migrazioni e aumento dell’insicurezza è supportato da alcune linee argomentative che fanno riferimento da una parte all’aumento del disordine urbano e di episodi di criminalità comune e, dall’altra, a minacce di ordine transnazionale come ad esempio quelle dovute al crimine organizzato e al terrorismo internazionale. Un altro paradigma fondamentale è quello che considera le migrazioni come una minaccia dal punto di vista prevalentemente politico-identitario. In questo senso, viene supposto che i movimenti degli esseri umani metterebbero in serio pericolo l’integrità politica e la presunta identità etnica e culturale delle società di destinazione.
Tale visione delle migrazioni ha avuto un potente effetto di securitarizzazione, attivando la mobilitazione nel dibattito pubblico e politico di retoriche securitarie volte a legittimare un approccio poliziesco alla questione. Non a caso, questa logica non ha fatto altro che rafforzare forme di “fondamentalismo culturale” (Stolcke, 2000) e, di conseguenza, del cosiddetto nuovo “razzismo differenzialista”, ovvero la reificazione delle differenze, culturali e religiose, presentate come a-storiche, immutabili e assolute, per giustificare l’ostilità e il rifiuto degli altri, o peggio, per legittimare pratiche discriminatorie (Gallini, 1996). Il razzismo differenzialista, in effetti, sostiene la difesa delle differenze culturali dai processi di omogeneizzazione tipici del mondo globalizzato per negare ogni forma di multiculturalismo e di interculturalismo, una sorta di celebrazione delle differenze per legittimare le disuguaglianze (Rivera, 2003). Infine, un ultimo paradigma su cui si basa il discorso securitario è quello che considera le migrazioni come una minaccia di natura socio-economica. Da questo punto di vista, gli immigrati vengono spesso descritti come concorrenti illegittimi e sleali sul mercato del lavoro e come profittatori dei benefici assistenziali offerti dai sistemi di welfare State dei Paesi occidentali, secondo una logica che indirizza nei confronti di veri e propri nemici di comodo tutte le insicurezze e le incertezze generate dal processo di deindustrializzazione e dalla crisi del modello politico economico dello Stato sociale (Castel, 2004). L’uso di immagini evocative e di retoriche che rimandano di sovente a una presunta “invasione” di potenziali richiedenti asilo o immigrati economici è funzionale e, allo stesso tempo, contribuisce a costruire la minaccia rappresentata dalle migrazioni per la tenuta del sistema socio-economico dei Paesi di accoglienza.
Il discorso securitario, a ben vedere, non fa altro che produrre “retoriche dell’esclusione” (Stolcke, ibid.), che oggi abbondano nell’arena pubblica dei vari Stati nazionali e nelle relative politiche di chiusura delle frontiere, di trattenimento coercitivo e di restrizioni normative e giuridiche attive tanto a livello nazionale quanto europeo, rafforzando le discriminazioni quotidiane nei confronti dei migranti. Particolarmente decisiva per la securitarizzazione delle migrazioni e per aver impresso un giudizio di valore negativo nei confronti degli stranieri è stata ovviamente la categoria dell’immigrazione “irregolare”. Tuttavia, la condizione di irregolarità, o “clandestinità” come viene ormai più comunemente definita, non è altro che il prodotto stesso di politiche sempre più restrittive in materia di ingresso e permanenza nel territorio di uno Stato e, di fatto, quella che dovrebbe rientrare nell’ordine di un’infrazione amministrativa finisce per assumere i caratteri di un reato criminoso, di una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale. La costruzione di discorsi diversificati e spesso contraddittori sulla nozione di illegalità all’interno dei sistemi normativi nazionali dovrebbe essere di per sé sintomatica dei processi politici, culturali e burocratici di produzione “legale” della “illegalità” dei migranti (De Genova, 2005). Anzi, si potrebbe addirittura sostenere che «un essere umano è persona solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto» [Palidda, 2008: 158], e ciò è ancor più vero nel caso degli immigrati.
Ed è proprio attraverso tali modalità che si giunge alla “criminalizzazione” dello straniero, dell’estraneo, del diverso, un processo che si nutre della paura e delle insicurezze di cui tale individuo è ritenuto responsabile per giustificare pratiche di potere che mescolano protezionismo, autoritarismo e proibizionismi di ogni sorta (Palidda, 2009). Il migrante finisce così per essere riconosciuto in quanto criminale, come soggetto pericoloso e da stigmatizzare non tanto per la sua condotta quanto per la sua stessa esistenza. Egli diviene la rappresentazione emblematica del nemico di turno, un ruolo alimentato da retoriche e discorsi che attraversano tanto i media quanto i luoghi del potere, fino a diventare senso comune e capro espiatorio della maggioranza. Tale processo di criminalizzazione si inscrive oggi in un assetto politico liberista/neoconservatore fondato sull’asimmetria di potere e di ricchezza fra gli attori forti e i deboli senza diritti della società globalizzata. Non a caso, se si toglie il reato di immigrazione irregolare e gli altri connessi a questa condizione, conseguenza di una legge proibizionista che di fatto rende impossibile l’immigrazione regolare e il mantenimento della regolarità, gli altri reati attribuiti agli immigrati «sono quasi sempre i tipici reati dei poveri» (Mucchielli, Nevanen, 2009). Ed è noto ormai come le leggi xenofobe anti-migrante attive nel nord del mondo risultino più efficaci nell’indebolire tutti gli stranieri piuttosto che nel frenare l’immigrazione, dato che la forza che li spinge ad emigrare è decisamente più forte di ogni mezzo impiegato per respingerli (Staid, 2011).
Il migrante, quindi, assume le caratteristiche di una figura particolarmente critica, perennemente nella condizione di escluso, il quale in ogni momento deve scontrarsi con il suo “non dover esserci” e con la sua necessaria “invisibilità” (ibid.). Ciò avviene perché le politiche repressive contro gli stranieri non sono fini a se stesse ma sono intenzionalmente e funzionalmente atte alla creazione di una massa di individui estremamente vulnerabili e ricattabili, di una classe di lavoratori a basso costo e senza diritti, di esseri umani ridotti allo stato di “non persone” (Dal Lago, 1999b) e costretti ad esistere in condizioni di marginalità e precarietà. Il migrante, in sostanza, sia straniero, clandestino, rifugiato, richiedente asilo, si ritrova ad essere definito come “atopos” (Sayad, 2002), ovvero come fuori posto e non classificabile. Sottoposto a una sorta di processo di spersonalizzazione e di negazione, egli viene privato della propria identità a causa della sua “doppia assenza” (ibid.) sia dal luogo di provenienza che da quello in cui risiede. Egli risulta essere, in definitiva, un individuo privo di un proprio spazio all’interno di una data società, escluso da ogni ordine politico, né cittadino né straniero, destinato ad una perenne “non-appartenenza” e “non-esistenza”, a quella che anche in questo caso si può definire una condizione di “dis-umanizzazione”.
Come si è avuto modo di vedere da questa breve analisi in merito ai principali discorsi che ruotano attorno ai processi migratori e facendo riferimento a ciò che sta accadendo negli ultimi anni in Europa, e in Italia in particolare, sembra che il dibattito pubblico e politico contemporaneo sia incentrato quasi unicamente sulla contrapposizione tra narrazione “umanitaria” e narrazione “securitaria”, sul riconoscimento del migrante o come “vittima” o come “criminale”, come corpo biologico da assistere e salvare o da respingere, detenere e criminalizzare. Fassin (2018), pur ammettendo che la storia non si presta bene a rigide periodizzazioni, fa notare come l’era dell’umanitarismo si sia dispiegata in particolar modo negli ultimi decenni del XX secolo, mentre a partire dal XXI secolo, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, si è assistito a un’accelerazione delle spinte securitarie. Non che siano mancati fermenti culturali provenienti dall’uno o dall’altro discorso in altri periodi storici. Ma se si possono identificare elementi che dominano il linguaggio di un’epoca, allora è possibile rintracciare dei “momenti” in cui si cristallizzano delle reti semantiche, ovvero serie di nozioni e rappresentazioni che insieme assumono un senso. Tali reti semantiche costituiscono una certa visione del mondo e forniscono punti di riferimento per rispondere a particolari questioni, in poche parole ciò che in questo articolo si è tentato di analizzare appunto con concetti quali “discorso” o “narrazione”. Non è possibile ovviamente sostenere che oggi il discorso umanitario sia scomparso, ma è innegabile che quello securitario sia diventato preponderante, dominante, soprattutto quando i due tipi di narrazione entrano in concorrenza nell’interpretazione delle situazioni e nella scelta delle risposte più adeguate. E questo è soprattutto il caso dei fenomeni migratori.
In effetti, invece di essere pensate e affrontate sulla base del diritto internazionale e dell’asilo, le migrazioni sono diventate una questione di regolazione dei flussi e di repressione nei confronti di quanti fuggono da persecuzioni, guerre e povertà. La risposta all’accoglienza di un numero di persone che corrisponde solamente all’1-2% della popolazione complessiva europea si è concretizzata in muri, fili spinati, campi di detenzione, violenza delle forze dell’ordine, manifestazioni di ostilità da parte dei locali, discorsi esplicitamente xenofobi di partiti e governanti populisti che accomunano i migranti a potenziali terroristi, criminali e usurpatori delle risorse della parte ricca del mondo. Eccezion fatta per gli sforzi fatti da alcuni Stati e per le iniziative locali portate avanti da soggetti, associazioni e collettività per accogliere e integrare i migranti provenienti da alcune zone dell’Africa, del Medio Oriente e dall’Asia, si deve ammettere che la logica securitaria è prevalsa quasi ovunque su quella umanitaria. Al punto che in nome della prima si è giunti persino a criminalizzare, reprimere, per soffocarla, la seconda (ibid.). E in questo modo le persone che assistono i migranti e i rifugiati, soccorrendoli, aiutandoli, portandogli da mangiare e offrendogli un riparo, come è spesso accaduto nelle valli alpine al confine tra Italia e Francia, vengono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Oppure come è il caso più famoso delle Organizzazioni Non Governative che operano nel Mediterraneo per salvare la vita di persone in viaggio su imbarcazioni alla deriva, che vengono continuamente imputate di complicità con il traffico di esseri umani e poste sotto l’attacco mediatico e politico dell’ultimo Governo italiano Lega-5Stelle, in particolare dell’ex Ministro degli Interni Matteo Salvini, il quale senza remore alcuna le ha assunte come vero e proprio “feticcio politico”.
La “criminalizzazione della solidarietà”, in conclusione, seppur non inedita, dà la misura della trasformazione dell’economia morale nei confronti delle migrazioni (ibid.) del mondo neoliberista globalizzato. Una trasformazione che non solo vede il superamento della retorica umanitaria a favore di quella securitaria, ma che sembra oggi andare ben oltre a causa dell’assunzione di discorsi che stanno tornando ad assumere toni di stampo razzista e propagandistico da parte di politici, governanti, esponenti pubblici e mediatici, e dalla loro accettazione da parte delle masse popolari. Un livello discorsivo e comunicativo costituito per lo più dal moltiplicarsi di fake news e da una interpretazione dei fatti che pare piuttosto voler esprimere una narrazione capovolta della realtà e delle migrazioni. Si può allora arrivare addirittura a sostenere che la “comune umanità” che contraddistingue il discorso umanitario, nel quale ci si sente al riparo dal senso di colpa cristiano per le disuguaglianze del mondo e tra gli uomini e che conduce comunque a una disumanizzazione del migrante pensato solo in termini di corpo biologico e naturale, non solo sia stata sostituita dalla disumanizzazione dello straniero di carattere securitaria attraverso il quale è possibile dar sfogo a tutte le paure e all’arroganza dell’etnocentrismo culturale occidentale, ma che stia lentamente lasciando il passo a una “comune dis-umanità” che sembra in definitiva accomunare tanto il soggetto quanto l’oggetto dell’attuale narrazione e visione del mondo.
Una “disumanizzazione” generale, cioè, in grado di coinvolgere e assimilare, in maniera quasi sintomatica e contraddittoria, tanto l’uomo bianco, moderno, europeo e occidentale, quanto l’alterità migrante, straniera, diversa, che si vorrebbe al contrario allontanare, respingere e rifiutare. Abbiamo, in sostanza, disumanizzato talmente tanto la figura del migrante che l’unica strada che ci è rimasta è quella di disumanizzare a nostra volta noi stessi. Allora, mai come in questi tempi, per i tanti che si rispecchiano in una narrazione securitaria e criminalizzante delle migrazioni e della solidarietà, può ritenersi lontana la massima tratta dal Talmud e ripresa anche nel celebre film di Steven Spielberg Shindler’s list che recita: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Perché un’umanità dis-umanizzata, in fondo, non ha bisogno né di salvatori né di salvati.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] http://www.lavoroculturale.org/didier-fassin-ragione-umanitaria/
[2] http://www.decoknow.net/trappola-umanitaria-accumulazione-neoliberale/
[3] Termine introdotto da alcuni studiosi di relazioni internazionali raccolti in quella che è identificata come la “Scuola di Copenaghen”.
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Francesco David, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia, svolgendo ricerche sul campo in Basilicata, dove ha analizzato i processi storici e culturali di una festa patronale locale, e nel C.I.E. di Bologna, dove ha avuto modo di indagare i meccanismi di gestione biopolitica della sofferenza delle donne immigrate, ha conseguito un Master di II livello in Peace Studies – Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, Diritti Umani e Politiche dell’Unione Europea, occupandosi del rapporto tra antropologia e Cooperazione allo sviluppo umano sostenibile. Si è impegnato nel settore migratorio come insegnante di lingua italiana per stranieri e in iniziative per la promozione dei diritti umani con Amnesty. È membro dell’Associazione Amici della Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con la quale ha collaborato come Tutor per il primo Summer Camp “MigrAction – Immagine innovative tools for Breaking Stereotypes and Building Dialogue”. Lavora come Freelance Writer e scrive per alcune riviste scientifiche.
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