il commento al vangelo della domenica

perdonare l’altro, perché perdonati dal Padre

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Pietro si avvicinò̀ a Gesù̀ e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò̀ perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù̀ gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette». (…) «Così anche il Padre mio celeste farà̀ con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Bellissimo questo stupore per l’illogico perdono: fino a settanta volte sette. Dio che rompe i nostri bilancini, che rimette i debiti sempre, che libera non come uno smemorato che dimentica il male, ma con la casta follia della croce che si prende gioco della logica e degli equilibri umani e anche delle mie morti quotidiane. Lui è l’Innamorato che vede primavere dentro i miei inverni. Il servo, appena uscito, appena visto quanto sia grande un cuore di re, appena liberato, preso il suo compagno per il collo lo strangolava: ridammi i miei centesimi! Lui, perdonato di milioni. Quel servo non è ingiusto, è senza cuore. Tecnicamente non è disonesto, è crudele. Davvero è possibile essere onesti e spietati. Non dovevi anche tu aver pietà? Non dovevi anche tu agire come agisco io? Tu come me, io come Dio, la creatura come il creatore… Chiave di volta di tutta la morale biblica. Perché avere pietà? Semplice: per un battito all’unisono con il battito di Dio. Nella Bibbia ogni indicativo divino (ogni azione riferita a Dio) diventa un imperativo umano, per la pienezza e lo sconfinamento in alto. Un istinto in noi ci fa credere che il male si possa “riparare” mediante un altro male, ferendo chi ci ha ferito. Occhio per occhio. Non più una, ma due ferite che sanguinano. Il perdono invece, che forse non guarirà la ferita, ci aiuta a sentire che non tutto il mondo impugna un’arma. Che ci sono anche mani che accarezzano oltre a quelle che mi hanno schiaffeggiato. Ci libera dallo sguardo torvo che vede nemici dovunque: lo sconosciuto in fila con te o un barcone di migranti. Il perdono è de-creazione del male, lo blocca, gli impedisce di proliferare; ci concede il lusso di non trascinarci dietro all’infinito i nostri errori e i nostri dolori, come patiboli interiori su cui inchiodiamo noi stessi e gli altri. “Il perdono ci strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt). Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo, senza aspettare che tutto sia a posto; il coraggio degli inizi e delle ripartenze; non un colpo di spugna sulla vita, ma un colpo d’ali che non libera il passato, libera il futuro; un colpo di vento sulla mia barca: Io la vela. Dio il vento. Dio perdona per un atto di fede nell’uomo, perché vede noi oltre noi, vede la luce prima dell’ombra, il santo prima del peccatore, le spighe di buon grano prima della zizzania. Vede che ogni vita è grembo pronto a un di più. E il perdonante ha gli stessi occhi di Dio. Scandalo per la giustizia, follia per l’intelligenza, ma consolazione per noi debitori.

(Letture: Siracide 27,33 – 28,9 (NV), Salmo 102, Romani 14,7-9; Matteo 18,21-35)




il commento al vangelo della domenica

far crescere la fraternità è il tesoro della storia

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica – del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità (….)».

Tutto comincia quando ci sentiamo debitori, dice Paolo; quando ci sentiamo custodi dell’altro, dice il Profeta; debitori senza pretese e custodi attenti: sono i due nomi belli di ogni persona in relazione. E il terzo è offerto dal Vangelo: restauratori di legami, coloro che incessantemente rammendano il tessuto continuamente lacerato delle relazioni. Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, vai e ammoniscilo. Tu fa il primo passo, ricomincia il dialogo, sospinto dal vento di comunione che è Dio, “cemento del cosmo, forza di coesione della materia, collante delle vite” (Turoldo). Quando un io e un tu ricompongono un noi, quando riparano l’alleanza, il legame che si ri-crea è il mattone elementare della casa comune, il sentiero del Regno, la porta di Dio.
Ma che cosa mi autorizza a intervenire nella vita di una persona? Nient’altro che la parola fratello, percepire l’altro come fratello o sorella… non l’impalcarsi a difesa della verità, non il credersi i raddrizzatori dei torti del mondo, ciò che ci autorizza è la custodia direbbe Ezechiele, è l’I care di don Milani: mi stai a cuore e mi prendo cura. Solo chi ci ama sa prendersi cura e ammonirci nel modo giusto, gli altri sanno solo ferire o adulare. Dopo aver così interrogato il tuo cuore, tu va’ e parla, tu fa il primo passo, prova tu a riallacciare la relazione. Lontano dalle apparenze, nel cuore della vita, tutto inizia dal mattoncino elementare della realtà, il rapporto io-tu. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello. Verbo stupendo: guadagnare un fratello. C’è gente che accumula denaro, gente che guadagna prestigio o potere, e poi c’è gente che guadagna fratelli. Il crescere della fraternità è il tesoro della storia, dobbiamo investire tutto nel capitale relazionale, l’unico investimento che produce vera crescita. E alla fine del percorso di ricomposizione tracciato da Gesù, il Vangelo riporta una frase da capire bene: se non ascolta neppure i testimoni, neppure la comunità, quel fratello sia per te come il pagano e il pubblicano. Lo considererai un escluso, uno scarto, un rifiuto? No. Con lui ti comporterai come Gesù, che siede a mensa con Matteo e i pubblicani di Cafarnao, che discute di figli, di briciole e cagnolini con una donna pagana. Questo percorso mi fa sentir bene dentro la prima espressione del Vangelo di oggi: quando due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro. Parola che scavalca la liturgia: “Non nell’io, non nel tu, lo Spirito risiede nell’io-tu” (M. Buber). Il Signore respira meglio quando è catturato dentro quei nostri abbracci che, qualche volta almeno, ci hanno fatto meravigliosamente perdere il fiato.

(Letture: Ezechiele 33, 1.7-9; Salmo 94; Romani 13, 8-10; Matteo 18, 15-20)




i vescovi cileni chiedono perdono per gli scandali di pedofilia commessa e nascosta

 

presidente dei vescovi cileni

 

 mons Santiago Silva, presidente dell’episcopato cileno, ha pubblicato una nota. Ecco gli stralci più importanti:

1 – Siamo tornati in Cile dopo quattro fruttuosi incontri con Papa Francesco. Se qualcosa si è chiarito in noi, frutto di conversazioni sincere, è che la vita dei vescovi e dei sacerdoti non sempre scorre attraverso i sentieri del Vangelo. Ci allontaniamo da questi sentieri a causa dei nostri errori e, cosa più grave ancora, anche per via di reati come l’abuso su minorenni.
2 – Ancora una volta chiediamo perdono, pregando insistentemente che i crimini vengano denunciati ai tribunali. La Chiesa non è un luogo per delinquere! A noi, al tempo stesso, ci è rimasto chiaro che sono molte le vite di credenti che danno testimonianza del Vangelo e per loro Cristo è il seme della nuova umanità.
3 – Indubbiamente saranno i valori evangelici ed ecclesiali quelli che ci permetteranno il desiderato e urgente rinnovamento. Ma dobbiamo mettere Cristo al centro e a partire da Lui il servizio generoso alle persone, in particolare ai più vulnerabili e ai poveri.
4 – In questo momento, il più importante dei valori è la riparazione alle vittime nella giustizia e nella misericordia. Confesso che tutti i vescovi viviamo con il Papa il forte impatto del danno causato alle vittime, cosa non facile da sanare.
5 – Quando parliamo di “vergogna”, lo facciamo con sincerità, perché la Chiesa non è stata costituita da Gesù per generare danni e per di più danni di tale portata. Capisco che molti non diano credito al perdono che chiediamo e al dolore che esprimiamo. Non recupereremo la fiducia da un giorno all’altro. Dobbiamo dimostrarlo con azioni riparatrici concrete.
6 – Per noi è imprescindibile conoscere a fondo ciò che nel rapporto del vescovo Scicluna fa riferimento a documenti smarriti, alla superficiale qualifica delle accuse, al ritardo nelle indagini, e cioè, tutti gli errori commessi in materia di abusi. Con l’incarnazione di Gesù sappiamo “che solo ciò che è stato assunto è redento”. Ma per assumere, devi conoscere la realtà e accettarla con umiltà.
7 – La speranza ci aiuterà a non ruminare la desolazione, ma a generare uno sforzo continuo per rendere tutto nuovo. Assumere la realtà con speranza ci permetterà di fare i pastori a partire dalle nostre debolezze e povertà, non a partire dal potere e dall’elitarismo. In questo modo possiamo costruire legami che animati dal Vangelo costruiscono una nuova cultura dell’essere Chiesa.
8 – A che servono le buone intenzioni se tutto rimane uguale? In virtù del valore della conversione personale e pastorale, centrale nella predicazione di Gesù, spetta a tutti noi, in particolare ai vescovi, incoraggiare un intenso e vasto progetto di rinnovamento ecclesiale. E dobbiamo iniziare con il dialogo.
9 – La Chiesa non è costruita da gruppi di élite, perché è “il popolo di Dio santo, fedele e sofferente” nell’espressione del Papa. L’intero popolo di Dio quindi ha qualcosa da dire sugli abusi dei minori, sul potere e sulla coscienza, e sulla missione alla quale lo Spirito ci chiama come Chiesa in questa cultura postmoderna.
10 – È tempo di generare un dialogo dove nessuno si sente escluso. Tutti abbiamo bisogno l’uno dell’altro in questa “nuova Pentecoste” che speriamo di vivere. E spero che questo dialogo non sia solo intra-ecclesiale e, naturalmente, che non rimanga solo nelle buone intenzioni, ma che in realtà generi un processo di rinnovamento, cercando l’impegno di tutti. Solo come popolo di Dio che ascoltiamo insieme possiamo discernere ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.
11 – Affinché questo rinnovamento ecclesiale diventi una realtà, abbiamo posto le nostre cariche pastorali nelle mani del Papa con totale disponibilità. Non si tratta di fuggire, ma di collaborare.




papa Francesco chiede ancora perdono

«chiedo perdono per i preti pedofili»

di papa Francesco


 “Corriere della Sera” del 17 agosto 2017

Per le vittime di violenza pedofila è una sfida davvero grande prendere la parola e raccontare quanto abbiano dovuto patire, riuscire a descrivere come le esperienze traumatiche di anni addietro continuino a tormentarli anche a distanza di tempo. Per questo motivo la testimonianza di Daniel Pittet è così necessaria, preziosa e coraggiosa. Ho conosciuto Daniel Pittet in Vaticano nel 2015, anno della Vita Consacrata. All’epoca Daniel era tutto preso dalla pubblicazione di un libro dal titolo Vivere vuol dire dare tutto .

All’interno di quel libro erano state raccolte testimonianze di religiosi di ambo i sessi, sacerdoti e monaci. Che questo cristiano così fervente fosse stato oggetto di abuso sessuale proprio da parte di un sacerdote mi sembrava davvero cosa impossibile, eppure era proprio quello che mi aveva raccontato. La storia delle sue sofferenze mi ha colpito e commosso nel profondo: sono arrivato a capire quali siano i danni terribili che possono essere provocati da un abuso sessuale e quanto lungo e doloroso sia il cammino che si prospetta alle vittime. Sono felice che ora la testimonianza di Daniel sia stata resa accessibile anche ad altre persone, cosicché noi tutti ora possiamo arrivare a comprendere quanto in profondità il Male possa andare ad insinuarsi nel cuore di un servitore della Chiesa. Come potrebbe altrimenti un sacerdote, uno che si è consacrato a Cristo ed alla Sua Chiesa, arrivare al punto di provocare tali disgrazie? Come potrebbe altrimenti questa persona, uno il cui compito è quello di condurre i bambini verso Dio, andare ad attirare uno di questi bambini verso ciò che già ho avuto occasione di chiamare «sacrificio diabolico», a causa del quale non sarà soltanto il bambino a rimanerne ferito, bensì la stessa esistenza della Chiesa? Alcune delle vittime, alla fine, si sono addirittura tolte la vita. Queste morti pesano sul mio cuore, sulla mia coscienza e su quella di tutta la Chiesa. Alle loro famiglie vorrei esprimere il mio amore ed il mio dolore, così come in tutta umiltà vorrei chiedere loro perdono. Si tratta di qualcosa di assolutamente spaventoso, di un peccato gravissimo che contraddice tutti gli insegnamenti della Chiesa. Gesù lancia parole severe contro coloro che arrecano dolore ai bambini: «Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare» ( Matteo 18, 6). Come ho ricordato nella mia Lettera Apostolica del 4 giugno 2016 «Come una madre amorevole», compito della nostra Chiesa è prendersi cura e proteggere i deboli ed i bisognosi d’aiuto. Ho dichiarato che contrasteremo con la massima severità i sacerdoti che abbiano tradito la propria missione. Questo vale anche per vescovi e cardinali che, come avvenuto ripetutamente nel passato, prendano quei sacerdoti sotto la propria tutela e difesa.

In tutta quella sua sofferenza, tuttavia, Daniel Pittet è comunque riuscito a scoprire per sé un altro lato della Chiesa. Un lato che gli ha permesso di arrivare a non dubitare degli uomini e dello stesso Dio. Mi riferisco, per esempio, alla forza della preghiera che non lo ha mai abbandonato e che lo ha sostenuto e guidato durante le ore più buie. Dopo quarantaquattro anni Daniel ha deciso di andare a rintracciare il suo aguzzino, quell’uomo che gli ha portato dolore fin nel profondo dell’anima, di guardarlo negli occhi… e di stringergli la mano! Quel bambino ferito è oggi un uomo che cammina a testa alta. Può essere ferito, ma camminerà sempre a testa alta. Le sue parole mi hanno davvero commosso: «Molte sono le persone che non riescono a capire come io possa non provare odio nei suoi confronti. Io l’ho perdonato ed ho ricostruito la mia vita sulle fondamenta di quel perdono». Io vorrei ringraziare Daniel, perché sono testimonianze come la sua che rendono possibile passare oltre il plumbeo silenzio che circonda i dolori e gli scandali, testimonianze che vanno a portare luce all’interno di tenebre spaventose che si celano nella vita della Chiesa. Sono testimonianze come questa che aprono la strada ad un adeguato risarcimento, una strada che porta alla grazia della riconciliazione. Per chi ha commesso abusi di pedofilia conducono inoltre alla presa di coscienza della spaventosa portata delle proprie azioni. Prego per Daniel e per tutti quelli che nella loro innocenza sono stati feriti. Che Dio possa aiutarli a rialzarsi ed a guarire. Possa Egli perdonarci tutti ed essere misericordioso.




anche per l’islam l’essenza di Dio è perdono e misericordia – un altro modo di guardare all’islam

di Pietro Citati
in “la Repubblica” del 10 luglio 2017

 

In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet),

“nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”. Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.

Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita.

Non possiamo che implorare Allah:

“O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.

Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso. Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male – insiste al-Ghazali – e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi – dice al-Ghazali – e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno. Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati. Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa – sottolinea Alberto Ventura – è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica. Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo. Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte. Allah perdona soprattutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”.

Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è
l’essenza della rivelazione di Allah.




nell’ultima settimana incontra tre volte i clochard e chiede loro perdono

papa Francesco benedice i clochard

“vi chiedo scusa se qualche volta vi ho offeso”

nell’ultima settimana è la terza volta che incontra i senza fissa dimora

Volti segnati, felpe e giubbotti, Papa Francesco percorre il corridoio a braccia spalancate e i clochard che riempiono a migliaia l’Aula Nervi si sporgono per stringergli la mani, lo tirano a sé, uno riesce a baciarlo sulle guance, Christian racconta la sua storia e piange appoggiato alla spalla del pontefice (Corriere della Sera, 11 novembre).
Nell’ultimo fine settimana, prima della conclusione solenne dell’Anno Santo, il Papa ha voluto dedicare tre giorni ai senza fissa dimora. Francesco si rivolge loro con parole paterne: «Vi ringrazio per essere venuti qui a trovarmi, e vi chiedo perdono se qualche volta vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire»,
Poi aggiunge: «Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono nel Vangelo trovandovi al centro la povertà, per tutte le volte che i cristiani di fronte alle persone povere si sono girati dall’altra parte. Perdono. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, limpidezza»

“Chiedo perdono ai poveri per i cristiani che li hanno ignorati”

di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider” dell’11 novembre 2016papa8

Udienza a chi vive per strada per il «Giubileo dei senza fissa dimora»: la povertà è al cuore del Vangelo, insegnate all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace. Il Papa ha chiesto ai «poveri a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte», nel corso dell’udienza alle persone che vivono o hanno vissuto per strada in occasione del «Giubileo dei senza fissa dimora», ultimo appuntamento prima della conclusione, domenica 20 novembre, dell’Anno santo della misericordia. Francesco ha chiesto ai 6mila poveri presenti in aula «Nervi» di insegnare all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace, ed ha concluso l’udienza pregando circondato da un gruppo di senza fissa dimora che gli tenevano la mano sulle spalle. Francesco ha parlato a braccio dopo la testimonianza di due poveri, Christian, francese, e Robert, polacco. «Una cosa che diceva Robert – ha detto il Papa – è: noi non siamo diversi dai grandi del mondo, abbiamo passioni e sogni, anche mille passioni, vogliamo risalire la china. La passione a volte ci fa soffrire, ci crea barriere, esterne e interne, a volta la passione è patologica, ma c’è anche la buona passione, una passione positiva che ci porta a sognare. Per me un uomo, una donna molto povero può avere una povertà diversa dalla vostra, quando perde la capacità di sognare, quando perde la capacità di portare avanti una propria passione. Non smettete di sognare. Il sogno di un povero, di una persona senza tetto, come sarà? Io non lo so, ma voi sognate. Sognate che un giorno magari potrete venire a Roma, e in questo caso il sogno si è realizzato, sognate che il mondo possa essere cambiato, è una semina che nasce dal vostro cuore. Ricordavate una mia parola che uso spesso: che la povertà è nel cuore del Vangelo. Solo colui che sente che gli manca qualcosa guarda in alto e sogna. Colui che ha tutto non può sognare. La gente, le persone semplici, quelli che seguivano Gesù lo seguivano perché sognavano, sognavano che li avrebbe curati, liberati, e lui li liberava. Uomini e donne con passioni e sogni, questa è la prima cosa che volevo dirvi: insegnate a tutti, noi che abbiamo un tetto sulla testa, non ci mancano cibo e medicine, insegnateci a non rimanere soddisfatti con i vostri sogni, e insegnateci a sognare a partire dal Vangelo, a partire dal cuore del Vangelo». «La seconda parola che ci è stata detta… o meglio non è stata detta ma era presente nell’atteggiamento di coloro che hanno parlato», ha proseguito il Papa, che ha pronunciato il suo discorso in spagnolo, «è quando Robert ha detto nella sua lingua, la vie devient si belle, la vita diventa bella, e come riusciamo a vederla bella anche nelle peggiori situazioni che voi vivete. Questo significa dignità, questa è la parola che mi è venuta. La capacità di incontrare, di trovare la bellezza anche nelle cose più tristi, e più toccate dalla sofferenza, questo può farlo solo una persona che ha dignità. Povero sì, ma non che si trascina, questa è la dignità!», ha detto Francesco tra gli applausi. «La stessa dignità che ha avuto Gesù, che è nato povero ed ha vissuto da povero, è la dignità del Vangelo, la dignità che hanno un uomo e una donna che vivono del loro lavoro, poveri sì, ma non dominati, non sfruttati. Io so che molte volte avrete incontrato persone che hanno voluto sfruttarvi, sfruttare la vostra povertà, ma so anche che questo sentimento di vedere che la vita è bella. Questa dignità vi ha salvati dall’essere schiavi. Poveri sì schiavi no. La povertà è al cuore del Vangelo per essere vissuta, la schiavitù non è lì per essere vissuta nel Vangelo, ma per essere liberata». «So che per ognuno di voi, come diceva Robert, a volte spesso è difficile, la vostra vita è stata molto più difficile che la mia, e Robert ha detto che per altri è stata ancora più difficile che per lui:  troveremo sempre qualcuno più povero di noi. Dignità è anche questo: saper essere solidali, saper dare la mano a chi sta soffrendo più di me. La capacità di essere solidale, è uno dei frutti che ci dà la povertà, quando c’è molta ricchezza uno si dimentica di essere solidale, è abituato al fatto che non gli manca niente, quando la povertà ti porta a far soffrire diventi solidale e tendi la mano a chi vive una situazione più difficile della tua. Grazie per questo esempio: insegnate la solidarietà al mondo». Il Papa, riprendendo sempre le parole delle due testimonianza iniziali, ha poi toccato il tema della pace. «La più grande povertà è la guerra», ha detto il Papa, «la povertà che distrugge: ascoltare questo dalle labbra di un uomo che ha sofferto la povertà materiale, la povertà della salute, è un appello a lavorare per la pace. La pace per noi cristiani è cominciata in una stalla, in una mangiatoia, da una famiglia emarginata, la pace che Dio vuole per ognuno dei suoi figli. E voi a partire dalla vostra povertà, dalla vostra situazione, potete essere artefici di pace. La guerra se la fanno tra i ricchi, per possedere di più, poi territorio potere denaro, è molto triste quando la guerra viene fuori tra i poveri, perché è una cosa rara. I poveri a motivo della loro povertà sono più inclini a essere operatori di pace, artefici di pace, credono nella pace. Date un esempio di pace. Abbiamo bisogno di pace nel mondo. Abbiamo bisogno di pace nella Chiesa. Tutte le Chiese hanno bisogno di pace, tutte le religioni hanno bisogno di crescere nella pace perché tute le religioni devono crescere nella pace. Ognuno di voi, nella vostra religione, può aiutare, la pace che nasce nel cuore, cercando l’armonia che dà la dignità. Io vi ringrazio di essere venuti qui a visitarmi, ringrazio quelli che hanno dato la loro testimonianza». «Vi chiedo perdono – ha concluso il Papa – se a volte vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire. Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, è limpidezza per tornare a capire che al cuore del vangelo c’è la povertà e che noi cristiani dobbiamo costruire una Chiesa povera per i poveri, e ogni uomo e donna di ogni religione deve vedere in ogni povero un messaggio di Dio che si fa povero per accompagnarci nella vita». Il Papa ha concluso l’udienza con una preghiera: «Dio padre di ognuno di noi, ti chiedo che tu ci dia forza, gioia, che ci insegni a sognare, per guardare avanti, ci insegni a essere solidali perché siamo fratelli e ci aiuti a difendere la dignità: tu sei il padre di ognuno di noi, benedicici padre». Il Giubileo dei senza fissa dimora è promosso dall’associazione «Fratello». Oggi i 6mila partecipanti provenienti da diversi paesi europei (Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Spagna, Polonia, Italia) sono stati ricevuti in udienza dal Papa, nell’aula Paolo VI, domenica assisteranno alla Messa presieduta dallo stesso Francesco a San Pietro. Tra questi due momenti importanti, avrà luogo una grande Veglia di preghiera presieduta dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, che ha introdotto l’incontro. Etienne Villemain, fondatore dell’associazione «Lazar» che ha promosso il viaggio a Roma, ha proposto, introducendo l’udienza, che, oltre alla Giornata mondiale della Gioventù, si organizzi una «Giornata mondiale dei poveri».




il coraggio di riconoscere che “abbiamo sbagliato”

papa Francesco in Svezia chiede perdono per la scomunica a Martin Lutero

«abbiamo sbagliato»

di Franca Giansoldati

“Sarà un viaggio molto importante per l’unità dei cristiani” ha detto il Papa in aereo, non appena partito per Lund, città chiave della realtà luterana, dove è andato per celebrare in modo congiunto i 500 anni dell’affissione sul duomo di Wittenberg delle 94 tesi di Martin Lutero. Una cerimonia commemorativa densa di elementi simbolici perché mai prima d’ora un pontefice aveva sdoganato la Riforma in modo tanto esplicito e intenso.

“Lutero ha messo la Parola di Dio nelle mani del popolo”.

Papa Bergoglio viene accolto dalla arcivescova che guida la Chiesa luterana, Antje Jackelen, sorridente, vestita di nero, con una gonna longuette e un bel crocifisso d’oro bene in vista sulla giacca. Davanti a lei e a tutti i vertici delle chiese protestanti Papa Francesco pronuncia parole importanti. Un vero mea culpa.

“Anche noi dobbiamo guardare con amore e onestà al nostro passato e riconoscere l’errore e chiedere perdono. Dio solo è giudice”.

E ancora

“Si deve riconoscere con la stessa onestà che la nostra divisione si allontanava dalla intuizione originaria del popolo di Dio, che aspira naturalmente a rimanere unito, ed è stata storicamente perpetrata da uomini di potere di questo mondo più che per volontà del popolo fedele”.

Come dire che aveva ragione Lutero e non Papa Leone X che poi lo ha scomunicato. Oggi, a distanza di 500 anni, le scomuniche non ci sono più, quelle sono morte con la scomparsa del riformatore tedesco anche se restano però tante incomprensioni e diffidenze da stemperare con una buona dose di pazienza. Intanto Francesco e i luterani si incontrano sul terreno della concretezza, presentando una road map di obiettivi comuni che include la lotta contro la violenza, la sfida climatica, la povertà, la questione della pace, il tema del conflitto mediorientale. Una piattaforma impegnativa che il monaco agostiniano certamente avrebbe apprezzato.  
Papa Bergoglio arriva in sordina nel Paese europeo più scristianizzato di tutti, dove esistono persino i cimiteri per gli atei (privi di qualsiasi segno distintivo), dove Dio sopravvive a fatica tra i giovani e dove una chiesa ammette senza problemi vescovi dichiaratamente gay, vescove lesbiche, il matrimonio tra coppie omosessuali. L’evento ecumenico di Lund è a dir poco eccezionale se si guarda alla storia europea degli ultimi cinque secoli. In particolare ai conflitti, ma anche ai tentativi di unità falliti nel corso della storia del cristianesimo europeo. Fino al Vaticano II la figura di Lutero era per i cattolici negativa (salvo rare eccezioni tra qualche teologo cattolico). Dopo il Concilio le cose sono lentamente cambiate. E il cammino ecumenico ha fatto grandi progressi. Lund può segnare davvero una svolta positiva per le Chiese cristiane. A elogiare il tentativo del monaco ribelle di riformare la Chiesa del suo tempo, era stato, una decina d’anni fa, Benedetto XVI il quale aveva promosso a Castel Gandolfo un summit a porte chiuse tra i suoi ex allievi teologi. “Tutta l’idea di Lutero era cristocentrica”. Cosa che ha ripetuto anche durante un viaggio in Germania, a Erfurt, la cittadina in cui Luterò visse e studiò teologia. “Lutero non si dava pace sulla questione di Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. Come posso avere un Dio misericordioso?” Questa domanda, spiegò Ratzinger, penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore.  Il viaggio di Francesco nelle terre del mondo luterano sembrano portare a compimento un lungo tragitto di ricerca comune. “Come cristiani saremo testimonianza credibile della misericordia, nella misura in cui il perdono, il rinnovamento e la riconciliazione saranno una esperienza quotidiana tra noi”.




“ti chiediamo perdono”

venerdì 8 luglio 2016

“Caro Emmanuel, ti chiediamo perdono …”

la preghiera rivolta da don Albanesi al giovane nigeriano ucciso a Fermo

la barbara morte di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano 36enne, richiedente asilo, aggredito martedì 5 luglio, da un ultrà di Fermo, mentre camminava non lontano dal seminario arcivescovile dov’era ospite insieme alla compagna Chinyery


 
“Caro Emmanuel, ti chiediamo perdono”. Inizia così la preghiera rivolta da don Vinicio Albanesi al giovani nigeriano ucciso a Fermo, letta durante la veglia che si è tenuta ieri al seminario arcivescovile per ricordarlo. Emmanuel Chidi Nnamdi era ospite del seminario insieme alla sua compagna Chimiary, da otto mesi, nel progetto di accoglienza gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Albanesi.
 Fermo

“Non siamo stati capaci di garantirti un futuro insieme alla tua amata Chimiary – recita la preghiera – . Ti avevamo accolto con rispetto. Tu eri particolarmente attento, sorridente, sperando di vivere una vita finalmente gioiosa. Ti chiediamo perdono anche a nome di chi ti ha fatto del male. Sono nostri concittadini e purtroppo noi stessi soffriamo la loro aggressività”. “Venivi da sofferenze indicibili: la famiglia dispersa, i bambini non nati, la violenza gratuita, la solitudine e la povertà per sopravvivere. Ti hanno dato la morte, ma hanno anche rovinato la loro vita e la vita delle loro famiglie. Che Dio li perdoni. Ricordiamo con gioia i momenti belli trascorsi insieme, soprattutto il tuo matrimonio. Eravate felici quel giorno, vestiti come fiori, insieme a tutti gli amici. Abbiamo fatto festa, una festa desiderata dopo le lunghe sofferenze dell’inferno della guerra”. Così si conclude la preghiera: “Tu che sei vittima e martire, guardaci dal cielo. Proteggi Chimiary, proteggi tutti i ragazzi in Italia. E non dimenticarti di noi”.

mancini



Don Vinicio Albanesi che non esclude collegamenti 
con precedenti episodi di intolleranza in città
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Servizio TG2000