“mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’”, parola di papa Francesco


welfare non «per» i poveri ma «dei» e «con» i poveri


«Finché vi mantenete nella casella delle politiche sociali – ha detto il Papa – finché non mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come delle politiche verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema»

Echeggia ancora nella riflessione di tanti il discorso che papa Francesco ha tenuto nell’aula Paolo Vl a conclusione del terzo incontro dei ‘movimenti popolari’. In esso il Papa ha affrontato con determinazione il nodo del rapporto tra queste realtà e la politica. Dopo aver sottolineato che la grande ricchezza dei movimenti popolari è quella di non essere dei partiti «perché esprimete una forma diversa, dinamica e sociale di partecipazione alla vita pubblica», Francesco ha incoraggiato gli stessi movimenti all’impegno politico in senso alto e pieno. Ed è a questo punto che Francesco ha sferrato un magistrale attacco all’attuale logica delle politiche sociali. «Finché vi mantenete nella casella delle politiche sociali – ha detto il Papa – finché non mettete in discussione la politica economica o la Politica, ‘con la maiuscola’, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come delle politiche verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema».

Ecco allora un nuovo obiettivo prestigioso che il Papa affida ai volontari. «Voi, organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società, siete chiamati a rivitalizzare, a rifondare le democrazie che stanno attraversando una vera crisi». Questo mandato e quel passaggio sulle ‘politiche sociali’, che a qualcuno potrebbe sembrare quasi casuale, rappresentano un essenziale elemento di riflessione, in grado di ribaltare il nostro approccio abituale alle politiche sociali. La «cultura dello scarto», concetto al quale Francesco ci ha ormai introdotti, rappresenta una vera e propria chiave di volta che ci costringe a ripercorrere alcuni corsi e ricorsi delle politiche sociali. Se c’è esclusione sociale, infatti, vuol dire che esiste un soggetto che esclude, che scarta, e ciò non ha nulla di fatalistico o di necessario. Tutt’altro. Da qui deriva la necessità di un cambio di passo. E di riconsiderare un modello ormai superato del Welfare State, quello che è stato per decenni punto di riferimento obbligato e la cui inadeguatezza, oggi, deriva non tanto dalla scarsità delle risorse quanto piuttosto dalla discrasia che si va man mano accentuando tra qualità dei nuovi bisogni sociali e risposte delle istituzioni. Se infatti il Welfare è in grado di rispondere ai bisogni materiali e istituzionali che hanno come bene-risposta i beni materiali e quelli che le istituzioni sono in grado di produrre (scuola, sanità servizi sociali); questo modello non è assolutamente in grado di rispondere ai bisogni di relazione che riguardano le domande di solidarietà, di condivisione, di affettività e di dignità che oggi attraversano in prevalenza le fasce dei deboli e degli esclusi. Essere invisibili, non contare nulla, non poter instaurare alcun tipo di rapporto umano con le persone vicine che scappano piuttosto che ascoltare… Ecco i bisogni profondi dei più poveri e sono bisogni che risultano nettamente più importanti e vitali dei bisogni materiali e istituzionali.

Perché impediscono ai poveri di vivere, di andare avanti in una società che non vuole saperne di loro. E per questo tipo di bisogni esiste un solo bene-risposta possibile: la ricomposizione di una comunità solidale all’interno della quale i poveri non solo siano accolti, ma diventino protagonisti. Il soggetto che esclude è, infatti, la società civile, ma proprio in essa il volontariato può avere un ruolo determinante per ricostituire una vera comunità. E all’interno di una comunità rinnovata e realmente solidale si possono produrre quei processi vitali e relazionali in grado di rispondere ai bisogni di riconoscimento, di dignità e di partecipazione che connotano oggi fortemente la condizione dei poveri. Solo in questo modo si potranno concepire – come afferma papa Francesco – quelle politiche non verso i poveri, ma dei poveri e con i poveri. Solo i poveri possono contribuire credibilmente a rispondere ai bisogni profondi degli stessi poveri, offrendo un terreno ottimale per una loro piena partecipazione alla costruzione di un progetto sociale che coinvolga tutti i popoli.

“la teologia è dire Dio con un senso che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri”

a volte anche i cardinali si lasciano convertire … quando si mettono alla scuola dei poveri e degli ultimi

il cardinale Tagle

gli ultimi sono stati i miei insegnantiluis-antonio-gokim-tagle2

intervista a Luis Tagle, a cura di Monica Mondo
in “Avvenire” del 4 dicembre 2016

 

 

 

è un giovane cardinale, guida la diocesi più grande dell’Asia, cucina benissimo, ama i libri gialli e il canto, ha una voce da tenore. Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila, è un raffinato teologo, presidente di Caritas internationalis. Abbiamo imparato a conoscere il suo sorriso, spesso accanto a papa Francesco, che gli è amico

Sorride perché è felice, sorridere e far sorridere è missione del cristiano?

La felicità non è solo un’emozione, ma una condizione spirituale: la gioia che la fede porta a noi. E la gioia è una missione che dobbiamo condividere: la Chiesa ha ricevuto la missione di annunciare una bella notizia, cioè che il Signore ha trionfato sul peccato e la morte.

In questi giorni è in libreria in Italia un libro di cui è autore, “Ho imparato dagli ultimi”, edito dalla Emi.

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Che cosa significa concretamente?

Ho imparato dagli ultimi in senso ampio, per avere non solo una sapienza mondana, ma anche una saggezza spirituale. Mi ricordo un Natale di quando ero seminarista, ho celebrato con una comunità di poveri. Il giorno prima avevano ricevuto l’ordine di lasciare il terreno perché non era loro. Durante la preghiera del Padre Nostro una donna mi ha detto: «È facile dire Padre Nostro per voi, perché quando voi tornate a casa siete sicuri che c’è pane, riso e cibo. Per noi poveri, la preghiera è una fatica e una lotta contro l’incredulità. È un atto di fede dire “Padre Nostro”». Un esempio semplice per cui mi chiedo chi sia stato l’insegnante, il professore di fede, e chi l’allievo. Questa donna per me è stata il mio insegnante.

Lei è presidente della Caritas, spesso definita erroneamente un ente benefico. Perché si resta ancorati a una visione più assistenziale o emergenziale?

La Caritas è la portavoce della Chiesa e con parole attive dell’amore del Signore. È ben conosciuta come agenzia di aiuto umanitaria, ma c’è una campagna contro le radici della povertà e della sofferenza. La parola “avvocato” Gesù la usa per sé e pure per lo Spirito Santo paraclito, qualcuno che parla per gli altri, qualcuno che è accanto degli altri e che sapendo la condizione alza la voce per farla sentire. La Caritas è un’ambasciatrice di giustizia e di pace. Una metropoli, tanto più in Asia, è luogo di forti contraddizioni. La globalizzazione pone modelli di vita irraggiungibili, ma aiuta anche ad appianare le differenze.

Lei ha detto però che «con la globalizzazione c’è il rischio di escludere Dio dall’orizzonte della società, e svilire l’identità della Chiesa».

Il tipo di globalizzazione che abbiamo sperimentato in questi decenni non è solo finanziaria ed economica, ma anche culturale, di valori. Ci sono “valori” che nascondono la fede o la presenza del Signore e sono penetrati tra i confini delle generazioni e delle nazioni. Sviliscono l’identità della Chiesa, specialmente attraverso i social media, il cinema e le canzoni: qui la presenza della fede e di una comunità credente è quasi abbandonata. Anche in un contesto un po’ religioso come quello delle Filippine, per i giovani, i più vulnerabili, queste suggestioni sono molto forti: nella scuola si insegna catechesi, ma radio e cinema promuovono un messaggio contrario.

Che famiglia è la sua? Una famiglia in cui ha respirato la fede da piccolo?

La mia è una famiglia normale, ordinaria. I miei genitori erano impiegati di banca, dove si sono incontrati. Una famiglia molto semplice, ci siamo concentrati sulle cose essenziali: famiglia, chiesa, fede, scuola, lavoro. La nostra vita circolava su questi punti.

Perché ha scelto il sacerdozio? Voleva fare il medico: sono entrambi segni di una passione per l’uomo?

Come giovane ho partecipato a un progetto giovanile della parrocchia, in cui mio padre mi ha forzato a entrare. E ha fatto bene! In questo gruppo ho incontrato grandi personaggi e specialmente un grande prete che mi ha stupito col suo atteggiamento verso la vita. Aveva impensati talenti e mi sono chiesto perché un uomo così avesse “scartato” la sua vita e quale fosse il senso di questo
“scarto”. Per me è stata l’ispirazione: ho scoperto che si trattava di un dono, un atto di donazione e non di scarto. La mia famiglia e questi modelli di missione mi hanno ispirato.

Lei da giovane si è innamorato della teologia, tanto da approfondire in America i suoi studi, per diventare a 40 anni parte della Commissione teologica internazionale, per volontà di Giovanni Paolo II. Ma contemporaneamente faceva volontariato dalle suore di Madre Teresa. C’è una teologia dei poveri, una sapienza che nessuno studioso può raggiungere?

Credo che ci sia una sapienza dei poveri. Ho imparato la teologia non come professione o specialità, ma come una realtà viva, una parola su Dio. È dire Dio con un senso profondo che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri. È stata una grazia scoprire la comunità delle Missionarie della Carità a Washington Dc, mentre scrivevo la tesi di dottorato. La mattina ero in mezzo ai libri e al pomeriggio avevo un contatto diretto con le persone che per me sono quasi sacramento della presenza del Signore. A questo proposito la pietà, la religiosità popolare, molto vissuta nel suo Paese, non è solo folclore, come spesso si pensa. La fede popolare è sbagliato vederla solo come folclore: nella mia esperienza e cioè nel mio paese, la trasmissione della fede in un modo semplice accade attraverso la religiosità popolare. Certamente c’è il rischio di sentimentalismo e superstizione, però è un ricco campo di evangelizzazione. Troviamo in questo ambito la presenza dello Spirito Santo.poveri

Lei è cresciuto in anni durissimi di dittatura, ma la posizione della Chiesa è stata chiara.

Io devo dire che nei primi anni della dittatura alcuni vescovi e molti filippini che avevano influenza nella società credevano che la “dittatura”, con l’imposizione della disciplina, fosse utile, giusta. Pian piano, però, abbiamo scoperto che non era così, era anzi come rubare i diritti e il futuro alla gente del Paese. Anche oggi la Chiesa deve difendere l’uomo, dall’aborto e dalla difesa della legalità con mezzi drastici e inaccettabili. Al centro della Dottrina sociale della Chiesa c’è una visione e un’eredità grande: la dignità di ogni persona umana, qualunque essa sia, piccola o grande, colpevole o sbagliata. È figlio o figlia di Dio, mio fratello o mia sorella. I vescovi filippini hanno fatto una scelta di campo anche sulla controversa questione della riapertura delle centrali nucleari. Le Filippine sono un Paese ferito da tanti terremoti, tifoni e altre catastrofi naturali. Dobbiamo essere realistici e cooperare a questa missione, di custodire il Creato e anche i poveri, perché i soldi bisogna prima usarli per loro.

Il ricordo più forte del viaggio del Papa nelle Filippine?

La memoria più toccante per me è stato l’incontro con il padre di una ragazza morta proprio in quei giorni. A Takloba venne un tifone e durante la Messa una ragazza volontaria della Caritas è morta sul colpo perché un’impalcatura è crollata su di lei. Il giorno seguente il Papa ha incontrato il padre di questa ragazza. È stato un incontro intimo di due padri. Io ho fatto da traduttore per il Papa, e il padre ha detto: «Santo Padre, prima della sua venuta avevo deciso di non partecipare alle Messe e agli incontri perché sono anziano e non mi piace partecipare agli incontri. Però, la mia unica figlia è morta e mi ha dato la grazia di incontrare il Santo Padre». Il Papa si è stupito della fede profonda di quest’uomo. È bello vedere un padre che insegna la profondità della fede al Santo Padre e io sono un testimone di questo incontro sacro.

Che amico è per lei papa Francesco? Lo conosceva anche prima? È cambiato?luis-antonio-gokim-tagle

È la stessa persona, uguale. Anzi devo stare attento a quel che faccio, perché sono abituato a parlare con lui come prima e mi devo ricordare che è il Papa. Non cambia nulla però perché lui mi ripete: «Sono Bergoglio!». Sa bene che l’avevano messa tra i papabili nel 2013. Sono i giornalisti che parlano così e non gli elettori.

In Italia la presenza dei cattolici filippini è significativa quanto a numeri e a integrazione. Quale apporto danno alla Chiesa italiana?

Giovanni Paolo II ha dato la risposta giusta anni fa in una Giornata mondiale dei migranti, quando  mandò un messaggio alla comunità filippina a Roma. Diceva: «Voi siete qui a Roma, in Italia, per cercare posti di lavoro, per le vostre famiglie nelle Filippine. È una bella cosa lavorare per le proprie famiglie. Voi non avete solo trovato posti di lavoro qui in Italia, ma una missione: portare la semplicità della fede filippina nelle case degli italiani, ai bambini e ai ragazzi». Per i filippini migranti, la seconda casa familiare è la parrocchia. L’anno scorso il cardinale Angelo Scola mi ha invitato a Milano per conferenze e una Messa nel Duomo di Milano con la comunità filippina: erano ventimila. Il cerimoniere mi ha detto: «Ecco il futuro della Chiesa a Milano». Gli risposi: «Non solo il futuro, ma anche il presente».

È vero allora che è l’Asia il futuro della Chiesa?

C’è futuro per la Chiesa in Asia, anche per tutta la sofferenza, la povertà e la testimonianza nelle persecuzioni che sono segno di speranza. Voglio credere che in questa situazione pur drammatica c’è il seme del futuro. Lei ama cantare e ha una bellissima voce, ma non ha mai studiato canto. Da bambino ho sentito tanta musica da mia mamma e da tutta la famiglia. Non sono “tifoso” della musica ma ne ho un grande amore. Non sono andato a scuola di canto, mi è naturale.

Lei ha ricevuto dalle mani del Papa la Lettera apostolica «Misericordia et misera» che ha chiuso l’Anno Santo della misericordia.

Devo dire che è stata una sorpresa per me. Sono stato informato durante la processione all’inizio della Messa che il Papa mi avrebbe consegnato la Lettera, come rappresentante delle grandi città del mondo, per evangelizzare. È una bella Lettera non per chiudere l’Anno della misericordia, ma per continuare una cultura di misericordia

. Che cosa pensa delle sottili o palesi contestazioni al Papa dall’interno della Chiesa?

Penso che il Vangelo porta una verità sconveniente e scandalosa. Come peccatori siamo contenti nella nostra zona di comfort, non vogliamo parole che ci disturbano. La città di Manila, le sue piaghe. Sono tanti i problemi, ma per me la povertà è il più grande. La Chiesa cerca vie per avvicinarsi ai poveri, non solo per trovare soluzioni: la Chiesa non è un governo o uno Stato parallelo. Lo scopo è la vicinanza, anche per testimoniare un amore che è sempre presente.

Perché ama tanto i libri gialli, i polizieschi?

I libri gialli sono un esercizio della verità tramite i segni: insegnano a leggere i segni dei tempi, per questo sono preziosi. Mi piace tantissimo Agatha Christie o Sherlock Holmes, ma ora purtroppo mi manca il tempo… Se dovesse esprimere il suo desiderio più grande… Vorrei che noi, non solo come Chiesa ma come umanità, continuassimo a cercare le porte aperte nelle ferite del mondo. Per me le ferite dei poveri e di coloro che soffrono sono come porte sante in cui entrare. Gesù risorto ha detto ai discepoli, specialmente a Tommaso : «Vieni e tocca le mie ferite». Si chiude la porta di San Pietro, ma le ferite rimangono aperte per entrare nella via di Gesù.cardinalta_53692661

L’autorità personale verso la gente è una grande e forse pesante responsabilità?

Essere cardinale è una grande responsabilità, ma è anche una chiamata all’umiltà. Io credo che Gesù è il Salvatore, non sono io! Gesù non ha bisogno di un altro salvatore, per questo con calma e tranquillità posso professare “Io Credo in Gesù Salvatore”, facendo quello che posso, e il resto a Lui.

 

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i gesuiti dalla parte dei poveri

la 36esima Congregazione dei gesuiti

«Guardate il mondo con gli occhi del povero»


 

l’invito di padre Sosa ai gesuiti: «guardate il mondo con gli occhi del povero

La visita di papa Francesco alla curia dei gesuiti il 24 ottobre 2016 con accanto il preposito Arturo Sosa

la visita di papa Francesco alla curia dei gesuiti il 24 ottobre 2016 con accanto il preposito Arturo Sosa

un discernimento per andare nelle periferie del mondo

«Vedere il mondo con gli occhi del povero». E’ uno dei passaggi più significativi dell’omelia pronunciata nella con cui il neo preposito dei gesuiti il venezuelano Arturo Sosa Abascal sabato 12 novembre ha chiuso la 36esima Congregazione generale. La celebrazione eucaristica si è svolta nella chiesa di Sant’Ignazio in campo Marzio (dove tra l’altro riposano le spoglie dei santi Luigi Gonzaga e Roberto Bellarmino e dell’unico papa sepolto in un luogo di culto della Compagnia di Gesù a Roma Gregorio XV). Padre Sosa (succeduto alla guida dei gesuiti allo spagnolo Adolfo Nicolás Pachón dal 14 ottobre scorso) nella sua omelia ha ricordato come gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio si fondino sulla contemplazione come strumento attraverso il quale raggiungere Dio. «L’amore si deve dimostrare più nelle opere che nelle parole – ha detto il superiore dei gesuiti – ed è uno scambio dove ciascuno dona tutto ciò che ha e tutto ciò che è». Di qui l’invito rivolto ai suoi confratelli: «Il nostro discernimento ci porta a vedere questo mondo con gli occhi dei poveri e a collaborare con loro per far crescere la vita vera. Ci invita ad andare alle periferie e a cercare di capire come affrontare globalmente l’integralità della crisi che impedisce le minime condizioni di vita alla maggioranza dell’umanità e mette a rischio la vita sul pianeta terra per aprire spazio alla lieta notizia».

un’immagine di Arturo Sosa Abascal durante la sua “prima” Messa da generale al Gesù di Roma

la centralità dell’apostolato intellettuale

Il preposito della Compagnia di Gesù ha rinnovato l’impegno dell’istituto a puntare sul discernimento come strumento efficace per combattere la superficialità e l’ideologia. «Il nostro apostolato — ha continuato — è, perciò, necessariamente intellettuale. Gli occhi misericordiosi, che abbiamo acquistato nell’identificarci col Cristo in croce, ci permettono di approfondire la comprensione di tutto ciò che opprime uomini e donne nel nostro mondo».

«sconvolti dalle testimonianze dei fratelli nelle zone di guerra»

Di grande impatto – nella omelia e nella celebrazione eucaristica a cui hanno partecipato i 212 religiosi delegati della 36 Congregazione generale – sono state le parole pronunciate da padre Sosa per ricordare a tutti i gesuiti le «testimonianze dei nostri fratelli in condizioni di guerra». Le ferite dei conflitti infatti fanno crescere i flussi dei rifugiati e aumentano le sofferenze dei migranti.«Le disuguaglianze tra i popoli e all’interno delle nazioni son il segno del mondo che disprezza l’umanità», ha detto, precisando che la politica intesa come arte della negoziazione per il bene comune «continua a indebolirsi».

un momento della sessione finale a Roma della 36esima Congregazione generale dei gesuiti a Roma

«compagni nella missione di riconciliazione e giustizia»

Nella sede della Curia generale dei gesuiti a Roma durante la sessione finale nei giorni scorsi di novembre sono stati approvati i documenti finali della 36esima Congregazione generale . I testi saranno la bussola di orientamento nei prossimi anni per l’apostolato e l’azione di tutti i gesuiti sparsi nel mondo (16.740 religiosi, divisi in 12mila presbiteri, 1.300 fratelli, 2.700 scolastici e 753 novizi). I documenti riprendono idealmente i decreti della precedente Congregazione generale la 35esima (celebratasi nel 2008). In questo decreti vengono riconfermati i tratti salienti dello stile di annuncio che spetta ai gesuiti nel mondo di oggi mettendo al centro parole chiave come discernimento, missione come passione (dove tutti i sacerdoti e fratelli della Compagnia sono chiamati ad “essere uomini che bruciano per il Vangelo”) e ribadendo l’essenzialità di una pratica fondamentale per la spiritualità ignaziana: gli Esercizi Spirituali. Tra i dati originali di questi decreti finali vi è stata la riaffermazione di concetti – (già presenti in altre Congregazioni come la 32esima, quella guidata da Pedro Arrupe nel 1974) come riconciliazione, giustizia e lotta alle disuguaglianze sociali. Negli atti finali infatti della Congregazione è stata ribadita la centralità della riconciliazione con Dio, con l’umanità – in modo speciale attraverso il ministero di pace e giustizia che lotta contro le disuguaglianze – e con il Creato, avendo come modello di riferimento e di ispirazione l’enciclica di papa Francesco la Laudato si’. L’invito e la sollecitazione dei 212 gesuiti al loro neoeletto generale Arturo Sosa Abascal è stata inoltre quella di indicare loro le linea guida della vita apostolica nel difficile contesto odierno per l’Ordine aiutandoli a continuare ad essere «persone di buona volontà che affrontano l’oscurità del mondo consolati dal fuoco dell’amore di Cristo».

un’immagine che ritrae il logo della 36esima

Filippo Rizzi

nell’ultima settimana incontra tre volte i clochard e chiede loro perdono

papa Francesco benedice i clochard

“vi chiedo scusa se qualche volta vi ho offeso”

nell’ultima settimana è la terza volta che incontra i senza fissa dimora

Volti segnati, felpe e giubbotti, Papa Francesco percorre il corridoio a braccia spalancate e i clochard che riempiono a migliaia l’Aula Nervi si sporgono per stringergli la mani, lo tirano a sé, uno riesce a baciarlo sulle guance, Christian racconta la sua storia e piange appoggiato alla spalla del pontefice (Corriere della Sera, 11 novembre).
Nell’ultimo fine settimana, prima della conclusione solenne dell’Anno Santo, il Papa ha voluto dedicare tre giorni ai senza fissa dimora. Francesco si rivolge loro con parole paterne: «Vi ringrazio per essere venuti qui a trovarmi, e vi chiedo perdono se qualche volta vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire»,
Poi aggiunge: «Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono nel Vangelo trovandovi al centro la povertà, per tutte le volte che i cristiani di fronte alle persone povere si sono girati dall’altra parte. Perdono. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, limpidezza»

“Chiedo perdono ai poveri per i cristiani che li hanno ignorati”

di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider” dell’11 novembre 2016papa8

Udienza a chi vive per strada per il «Giubileo dei senza fissa dimora»: la povertà è al cuore del Vangelo, insegnate all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace. Il Papa ha chiesto ai «poveri a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte», nel corso dell’udienza alle persone che vivono o hanno vissuto per strada in occasione del «Giubileo dei senza fissa dimora», ultimo appuntamento prima della conclusione, domenica 20 novembre, dell’Anno santo della misericordia. Francesco ha chiesto ai 6mila poveri presenti in aula «Nervi» di insegnare all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace, ed ha concluso l’udienza pregando circondato da un gruppo di senza fissa dimora che gli tenevano la mano sulle spalle. Francesco ha parlato a braccio dopo la testimonianza di due poveri, Christian, francese, e Robert, polacco. «Una cosa che diceva Robert – ha detto il Papa – è: noi non siamo diversi dai grandi del mondo, abbiamo passioni e sogni, anche mille passioni, vogliamo risalire la china. La passione a volte ci fa soffrire, ci crea barriere, esterne e interne, a volta la passione è patologica, ma c’è anche la buona passione, una passione positiva che ci porta a sognare. Per me un uomo, una donna molto povero può avere una povertà diversa dalla vostra, quando perde la capacità di sognare, quando perde la capacità di portare avanti una propria passione. Non smettete di sognare. Il sogno di un povero, di una persona senza tetto, come sarà? Io non lo so, ma voi sognate. Sognate che un giorno magari potrete venire a Roma, e in questo caso il sogno si è realizzato, sognate che il mondo possa essere cambiato, è una semina che nasce dal vostro cuore. Ricordavate una mia parola che uso spesso: che la povertà è nel cuore del Vangelo. Solo colui che sente che gli manca qualcosa guarda in alto e sogna. Colui che ha tutto non può sognare. La gente, le persone semplici, quelli che seguivano Gesù lo seguivano perché sognavano, sognavano che li avrebbe curati, liberati, e lui li liberava. Uomini e donne con passioni e sogni, questa è la prima cosa che volevo dirvi: insegnate a tutti, noi che abbiamo un tetto sulla testa, non ci mancano cibo e medicine, insegnateci a non rimanere soddisfatti con i vostri sogni, e insegnateci a sognare a partire dal Vangelo, a partire dal cuore del Vangelo». «La seconda parola che ci è stata detta… o meglio non è stata detta ma era presente nell’atteggiamento di coloro che hanno parlato», ha proseguito il Papa, che ha pronunciato il suo discorso in spagnolo, «è quando Robert ha detto nella sua lingua, la vie devient si belle, la vita diventa bella, e come riusciamo a vederla bella anche nelle peggiori situazioni che voi vivete. Questo significa dignità, questa è la parola che mi è venuta. La capacità di incontrare, di trovare la bellezza anche nelle cose più tristi, e più toccate dalla sofferenza, questo può farlo solo una persona che ha dignità. Povero sì, ma non che si trascina, questa è la dignità!», ha detto Francesco tra gli applausi. «La stessa dignità che ha avuto Gesù, che è nato povero ed ha vissuto da povero, è la dignità del Vangelo, la dignità che hanno un uomo e una donna che vivono del loro lavoro, poveri sì, ma non dominati, non sfruttati. Io so che molte volte avrete incontrato persone che hanno voluto sfruttarvi, sfruttare la vostra povertà, ma so anche che questo sentimento di vedere che la vita è bella. Questa dignità vi ha salvati dall’essere schiavi. Poveri sì schiavi no. La povertà è al cuore del Vangelo per essere vissuta, la schiavitù non è lì per essere vissuta nel Vangelo, ma per essere liberata». «So che per ognuno di voi, come diceva Robert, a volte spesso è difficile, la vostra vita è stata molto più difficile che la mia, e Robert ha detto che per altri è stata ancora più difficile che per lui:  troveremo sempre qualcuno più povero di noi. Dignità è anche questo: saper essere solidali, saper dare la mano a chi sta soffrendo più di me. La capacità di essere solidale, è uno dei frutti che ci dà la povertà, quando c’è molta ricchezza uno si dimentica di essere solidale, è abituato al fatto che non gli manca niente, quando la povertà ti porta a far soffrire diventi solidale e tendi la mano a chi vive una situazione più difficile della tua. Grazie per questo esempio: insegnate la solidarietà al mondo». Il Papa, riprendendo sempre le parole delle due testimonianza iniziali, ha poi toccato il tema della pace. «La più grande povertà è la guerra», ha detto il Papa, «la povertà che distrugge: ascoltare questo dalle labbra di un uomo che ha sofferto la povertà materiale, la povertà della salute, è un appello a lavorare per la pace. La pace per noi cristiani è cominciata in una stalla, in una mangiatoia, da una famiglia emarginata, la pace che Dio vuole per ognuno dei suoi figli. E voi a partire dalla vostra povertà, dalla vostra situazione, potete essere artefici di pace. La guerra se la fanno tra i ricchi, per possedere di più, poi territorio potere denaro, è molto triste quando la guerra viene fuori tra i poveri, perché è una cosa rara. I poveri a motivo della loro povertà sono più inclini a essere operatori di pace, artefici di pace, credono nella pace. Date un esempio di pace. Abbiamo bisogno di pace nel mondo. Abbiamo bisogno di pace nella Chiesa. Tutte le Chiese hanno bisogno di pace, tutte le religioni hanno bisogno di crescere nella pace perché tute le religioni devono crescere nella pace. Ognuno di voi, nella vostra religione, può aiutare, la pace che nasce nel cuore, cercando l’armonia che dà la dignità. Io vi ringrazio di essere venuti qui a visitarmi, ringrazio quelli che hanno dato la loro testimonianza». «Vi chiedo perdono – ha concluso il Papa – se a volte vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire. Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, è limpidezza per tornare a capire che al cuore del vangelo c’è la povertà e che noi cristiani dobbiamo costruire una Chiesa povera per i poveri, e ogni uomo e donna di ogni religione deve vedere in ogni povero un messaggio di Dio che si fa povero per accompagnarci nella vita». Il Papa ha concluso l’udienza con una preghiera: «Dio padre di ognuno di noi, ti chiedo che tu ci dia forza, gioia, che ci insegni a sognare, per guardare avanti, ci insegni a essere solidali perché siamo fratelli e ci aiuti a difendere la dignità: tu sei il padre di ognuno di noi, benedicici padre». Il Giubileo dei senza fissa dimora è promosso dall’associazione «Fratello». Oggi i 6mila partecipanti provenienti da diversi paesi europei (Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Spagna, Polonia, Italia) sono stati ricevuti in udienza dal Papa, nell’aula Paolo VI, domenica assisteranno alla Messa presieduta dallo stesso Francesco a San Pietro. Tra questi due momenti importanti, avrà luogo una grande Veglia di preghiera presieduta dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, che ha introdotto l’incontro. Etienne Villemain, fondatore dell’associazione «Lazar» che ha promosso il viaggio a Roma, ha proposto, introducendo l’udienza, che, oltre alla Giornata mondiale della Gioventù, si organizzi una «Giornata mondiale dei poveri».

il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

i poveri della terra si incontrano ancora con papa Francesco

La lotta dei poveri per Terra, Casa e Lavoro. Il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

la lotta dei poveri per Terra, Casa e Lavoro

il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

Claudia Fanti 

 

Se è un compito di enorme portata quello di trasformare un pianeta ferito e inospitale in una casa accogliente in cui non vi sia più «nessun contadino senza terra, nessuna famiglia senza casa, nessun lavoratore senza impiego», i movimenti popolari di tutto il mondo sanno almeno, e non da oggi, di poter contare sul chiaro e deciso sostegno di papa Francesco. Ed è proprio con lui, il loro più potente alleato, che potranno nuovamente riunirsi il prossimo 5 novembre – evento culminante del Terzo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP) –, a due anni dal primo storico incontro in Vaticano (nell’ottobre del 2014), quando più di 100 delegati – appartenenti a quella ricca galassia di forme di auto-organizzazione riconducibili in vario modo alla categoria dell’economia informale – erano stati invitati a Roma per iniziativa del papa stesso, il quale, «coerente con la sua opzione per i poveri», aveva voluto, secondo le parole di Frei Betto, «sentire coloro che li rappresentano». Vale a dire – come ha spiegato mons. Silvano Tomasi, del Pontificio Consiglio Gustizia e Pace, durante la conferenza stampa di presentazione del III EMMP svoltasi oggi presso la Sala Stampa della Santa Sede – riportare al centro quanti sono da sempre relegati in periferia, invitandoli, una volta tanto, non solo ad ascoltare, ma soprattutto a parlare e a confrontarsi, indipendentemente da ogni appartenenza confessionale, e ancor di più ad auto-organizzarsi, unendo le loro forze per combattere le cause dell’esclusione e iniziare a edificare quell’altro mondo ritenuto possibile eppure sempre drammaticamente lontano. È proprio questa, del resto – come ha evidenziato durante la conferenza stampa il membro del Comitato organizzativo dell’incontro Juan Grabois – l’«idea soggiacente al concetto di movimento popolare»: i poveri, secondo quanto sottolineato dallo stesso papa Francesco durante l’incontro del 2014, «non si limitano a subire l’ingiustizia, ma si organizzano e lottano contro di essa». Cosicché ciò che ha fatto papa Francesco, ha proseguito Grabois, è stato «porre sotto gli occhi del mondo una realtà coperta dal silenzio: esiste un’enorme quantità di organizzazioni, grandi e piccole, che sono costituite, organizzate e guidate dagli esclusi, i quali non si rassegnano alla miseria che è stata loro imposta e resistono in un’ottica di solidarietà all’attuale paradigma tecnocratico».

Convocato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e da esponenti dei movimenti stessi (un comitato organizzativo composto da Joao Pedro Stédile del Movimento dei Senza Terra-Via Campesina, da Juan Grabois della Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare dell’Argentina, dalla spagnola Xaro Castelló del Movimento Mondiale dei Lavoratori Cristiani e dall’indiano Jockin Arputham di Slum Dwellers International), il primo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari era stato pensato come un punto di partenza nel processo di costruzione di una sorta di coordinamento delle organizzazioni popolari, con il sostegno della Chiesa. E si era proposto di individuare le cause strutturali dell’esclusione e i modi per combatterle, partendo da tre grandi tematiche: Terra, Casa, Lavoro. Un processo che ha poi fatto tappa nel 2015 a Santa Cruz de la Sierra, dove, durante il viaggio del papa in Bolivia, 1.500 rappresentanti di organizzazioni provenienti da 40 Paesi hanno nuovamente avuto la possibilità di incontrarsi con lui, impegnandosi ad approfondire gli stessi tre grandi temi del precedente incontro. E che ora fa ritorno in Vaticano, dove, dal 2 al 5 novembre, si svolgerà il terzo incontro, con l’obiettivo di aggiungere un nuovo tassello al cammino di costruzione di un rinnovato protagonismo degli esclusi nella lotta per la Terra, la Casa, il Lavoro; di promozione di un dialogo fra le organizzazioni e i movimenti popolari a livello internazionale e locale; di lotta a favore dei cambiamenti strutturali proposti da papa Francesco nella Evangelii gaudium e nella Laudato si’, di rafforzamento della cooperazione tra la Chiesa (a livello mondiale, nazionale, regionale) e le organizzazioni popolari, al di fuori di ogni approccio assistenzialista e paternalista.

In riferimento alla metologia tradizionale latinoamericana del vedere, giudicare e agire, ha affermato Juan Grabois, «si potrebbe dire che il primo incontro è servito a conoscere le nostre realtà (vedere)», a capire, cioè, che le lotte per la Terra, la Casa, il Lavoro sono le stesse in tutto il mondo; il secondo è stato dedicato al «discernimento collettivo» su «cosa sta avvenendo (giudicare)», su una realtà costituita da «situazioni di ingiustizia strutturale legate da un “filo invisibile” che è possibile spezzare solo attraverso un programma di radicale trasformazione» (sintetizzato nella Carta di Santa Cruz de la Sierra, sottoscritta da oltre 500 organizzazioni di tutto il mondo); e, infine, questo terzo dovrà concentrarsi sulle «concrete proposte di cambiamento (agire)».

Tenendo ferme le ormai note parole chiave – «la lotta per le 3 “T” (Tierra, Techo, Trabajo) continua a essere il cuore dei nostri incontri», ha sottolineato Grabois – la riflessione si centrerà stavolta in particolare su tre grandi temi: territorio e beni naturali, nell’ottica di quell’Ecologia intregrale su cui si è soffermato papa Francesco nella Laudato si’; popoli e democrazia (cioè la natura delle istituzioni democratiche e «la loro incapacità di limitare il potere arbitrario dei poteri forti»); rifugiati e sfollati (un dramma, questo, per il quale il papa, ha evidenziato Grabois, ha sempre mostrato una particolare preoccupazione e in cui «le contraddizioni del sistema si esprimono in maniera particolarmente brutale»). E, rispetto all’incontro del 2014, vi sarà un’importante novità: l’evento conclusivo del 5 novembre, quello che culminerà con il discorso di papa Francesco, sarà esteso a un grande ventaglio di movimenti italiani (Libera, Miseria Ladra, la Campagna Stop Ttip, Attac Italia, Mondeggi Bene Comune, Forum italiano dell’acqua, Contratto Mondiale dell’Acqua, Arci, Agesci, Azione Cattolica, Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, Pax Christi, Amig@s MST-Italia, Rete Radié Resch, solo per citarne alcuni), i quali, per volontà esplicita del papa, che ha messo per questo a disposizione l’aula Paolo VI (con una capienza di 7.000 persone), potranno così dialogare e confrontarsi con i circa 200 delegati dei movimenti popolari internazionali, più diversi altri invitati all’Incontro, dall’ex-presidente uruguaiano José Mujica a don Luigi Ciotti. Un’opportunità, per le organizzazioni italiane, afflitte da un calo generalizzato di partecipazione e da una frammentazione sempre più evidente e drammatica, per iniziare a riallacciare un dialogo di cui in tanti lamentano la mancanza, in vista del possibile avvio di una nuova stagione di lotte a livello italiano e internazionale.

* Un’immagine della conferenza stampa. Foto di Claudia Fanti

i poveri, i nostri maestri …

i poveri sono la porta santa

 

I poveri sono la porta santa 
di Tolentino Mendonça José,
teologo e scrittore porteghese

 

è vice rettore dell’Università Cattolica di Lisbona e Consulente del Pontificio Consiglio della Cultura. E’ autore e curatore editoriale di vari saggi e studi teologici

relazione tenuta ad Assisi il 19 settembre 2016 in occasione del meeting “SETE DI PACE – Religioni e Culture in dialogo” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e dalle Famiglie Francescane ,”Panel 12: Religioni e poveri”povero2

Quando penso al contributo che l’esperienza religiosa dà nel presente e potrà dare, in un futuro prossimo, alla cultura, al tempo e al modo dell’esistenza umana, penso all’immenso patrimonio spirituale che nasce dall’amicizia con i poveri. I poveri spesso si siedono alle porte delle chiese. In realtà, essi non sono seduti davanti alla porta, ma sono loro la porta per arrivare a Dio, questo Dio che ci chiede sempre: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). I poveri ci mostrano Dio. Essi sono testimoni e maestri della fede nella sua forma più concreta, perché sono gli ultimi, i piccoli, gli emarginati, i dimenticati, le vittime, quelli che senza voce gridano per la giustizia, gli affamati, quelli che possono contare solo su Dio. Le religioni non possono dimenticare mai la centralità dei poveri nella sua missione. I poveri sono la porta santa. Sono la più santa delle porte sante.  
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I poveri ci insegnano tanto sulla vita spirituale. Ci insegnano l’ascolto. L’ascolto non è soltanto apprendere il discorso verbale. Prima di tutto, è atteggiamento, chinarsi verso l’altro, è dedicargli la nostra attenzione, è disponibilità ad accogliere quello che è stato detto e non detto. Ascoltare significa offrire una spalla dove l’altro possa poggiare la mano, per alzarsi rapidamente. Poter essere ascoltati ci rilancia nel cammino. Uno dei testi che più impressionano sul valore dell’ascolto è il racconto Tristezza di Čechov. Descrive la storia di un vetturino, Iona, che ha perso un figlio e non trova, tra gli umani, nessuno disposto a confortarlo. «Sente il bisogno di raccontare come si è ammalato il figlio, le sue sofferenze, cosa disse prima di morire e come è morto … Sente il bisogno di descrivere il funerale, di raccontare quando è andato all’ospedale a cercare i vestiti del defunto. Nel villaggio è rimasta la figlia, Anissia… Vuole parlare anche di lei … » ma nessuno ascolta. Il vetturino si rivolge allora al suo cavallo e, mentre gli dà da mangiare comincia ad esporgli, in un lungo e dolente monologo, tutto quello che ha vissuto. Le ultime parole del racconto di Čechov sono queste: «Il cavallo continuò a masticare, mentre sembrava che ascoltasse, perché soffiava nella mano del suo padrone… Allora Iona, il vetturino, si animò e gli raccontò tutto ».  
I poveri ci insegnano la forza terapeutica della presenza: un semplice tocco aiuta a dissipare i turbamenti, tranquillizza un animo agitato e trasmette un conforto che nessuna macchina o farmaco può dare. Gesù, per esempio, va a toccare l’intoccabile. Tende la mano a coloro che è proibito toccare. Un uomo malato di lebbra spezza il cordone sanitario e si avvicina a Gesù per dire: “Signore, se vuoi, puoi sanarmi” (Lc 5,12). A quell’epoca i lebbrosi avevano l’obbligo di vivere lontano dagli abitati, separati dalla famiglia, in un distacco che serviva a evitare il contagio. Ebbene, Gesù non si limita alle parole: «Lo voglio», ma tende la mano e lo tocca (cfr. Lc 5,13). Preferisce correre il rischio del contagio, nel desiderio di toccare la ferita dell’altro; volendo condividere, come solo attraverso il tocco si condivide, quella sofferenza; aiutando a vincere l’ostracismo, interiorizzato con la separazione forzata. Cos’è che cura l’uomo? Cos’è che cura la donna che, in un altro punto del Vangelo, segue Gesù e lo tocca (cfr. Lc 8,43-48)? A curarli è certamente il potere di Dio che si manifesta in Gesù, ma in un processo dove la forma non è affatto indifferente. Li cura il fatto di sapersi toccati, e toccati nel senso di trovati, assunti, accettati, riconosciuti, riscattati, abbracciati. La mistica non è uno stato di impermeabilità, ma esattamente il suo contrario: una radicale porosità nei confronti della vita e degli altri. Una pelle, una presenza, un battito del cuore, un incontro, un’allegria condivisa con i poveri.povero

I poveri ci insegnano l’accoglienza di Dio.

Ricordo sempre questa storia:
C’era una volta un uomo devoto che, nella sua preghiera, chiese a Dio una cosa smisurata, ma che Dio immediatamente soddisfò. L’uomo chiese che Dio venisse a visitarlo nella sua casa. Avendo ottenuto il sì di Dio, l’uomo diede il via a grandi preparativi (pulizia, riparazioni, ornamenti…) per ricevere il suo Ospite. Nel giorno stabilito della visita, l’uomo si mise sulla soglia della porta di casa in attesa di Dio. La mattina presto venne un ragazzino che cercò, dalla finestra, di rubargli una mela sul tavolo, ma lui glielo impedì rimproverandolo duramente. A mezzogiorno un mendicante venne a disturbarlo con le sue richieste, ma lui gli spiegò che stava aspettando una visita illustre, di ritornare un altro giorno. Nel pomeriggio, un viaggiatore stanco gli chiese ospitalità, che lui gli negò, perché aspettava Dio. Soltanto Dio non venne. Per questo, quando scese la notte, anche l’uomo cadde in un grande sconforto. E durante la sua preghiera protestò con Dio che non aveva mantenuto la parola. Ma Dio gli rispose: “Per tre volte ho cercato di entrare in casa tua, ma tu stesso me l’hai impedito”.

i poveri che disturbano e danno fastidio

 

“tanti emarginati, profughi, e noi proviamo fastidio”

il vangelo letto da papa Francesco

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di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider”

«Quante volte quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare, sentiamo fastidio, quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio…»

All’udienza generale in piazza San Pietro Papa Francesco ha raccontato l’episodio evangelico di Gesù che guarisce un cieco nella città di Gerico sottolineando che «l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi» e affermando: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti da mendicanti possiamo diventare discepoli».

L’evangelista Luca, ha detto Francesco, scrive che «quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare. Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata nei suoi pensieri … e in tante altre cose; e la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa … ma lui è lì solo. E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa».

poveri assoluti
«Mentre il cieco grida, aveva una buona voce, invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida», ha proseguito il Papa. «Quante volte noi quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – ha proseguito il Papa a braccio – sentiamo fastidio… quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio: è una tentazione, tutti noi abbiamo questo, eh, tutti, anche io, e per questo la parola di Dio ci insegna: l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indiferenza e ostilità: e quando questa indifferenza e ostilità diventa aggressione, e anche insulto, “ma cacciateli via tutti questi, metteteli in un’altra parte” questa aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava “ma tu vai via, non parlare non gridare”».
L’evangelista, ha proseguito il Papa, «dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: “Passa Gesù, il Nazareno!”», è «il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione. Quando passa Gesù sempre c’è liberazione, salvezza. Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua» e «a differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, “Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui”. Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche a noi, quando siamo stati in situazioni difficili o brutte, anche situazioni di peccato, come è stato proprio Gesù a prenderci per mano e toglierci dal margine della strada».migranti
La gente, ha spiegato il Papa, «aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso». Inoltre, «il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, il passaggio del Signore è un incontro di misericordia – ha detto il Papa che sta svolgendo, durante il Giubileo, un ciclo di catechesi sul tema dell’anno santo, la misericordia appunto – che tutti unisce intorno a lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di

povertà
aiuto e di consolazione». Il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio»: «Si fa discepolo, da mendicante a discepolo», ha detto il Papa: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti i giorni dobbiamo fare questo passo, da mendicanti a discepoli», «colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e “tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio”. Il secondo miracolo, ha concluso Francesco, è che «ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li attira a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso».
Prima dell’udienza in piazza San Pietro, il Papa ha ricevuto il Primo Ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, che si è successivamente incontrato con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, accompagnato da monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati. «Durante i cordiali colloqui – informa la sala stampa vaticana – sono state rilevate le buone relazioni bilaterali tra i Paesi Bassi e la Santa Sede. Ci si è poi soffermati su questioni di comune interesse, quali il fenomeno delle migrazioni, e sono state passate in rassegna alcune problematiche di carattere internazionale».

un grido da ascoltare

summit umanitario mondiale

“ascoltiamo il grido di chi soffre”

Non ci deve essere una famiglia senza casa, nessun rifugiato senza un’accoglienza, nessuna persona senza una dignità, nessun ferito senza cure, nessun bambino senza un’infanzia, nessun giovane senza un futuro, nessun anziano senza una dignitosa vecchiaia.

 A chiederlo è Papa Francesco, nel suo messaggio inviato al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in occasione della prima giornata del Summit Umanitario Mondiale. Dobbiamo impegnarci personalmente e poi tutti insieme – si legge nel testo – “coordinando le nostre forze e iniziative, rispettando le reciproche competenze ed esperienze, non discriminando, ma piuttosto accogliendo”

da Istanbul, Il servizio di Francesca Sabatinelli:

 

Questo summit, per Francesco “è un’occasione per dare una svolta alle vite di milioni di persone che necessitano protezione, cura e assistenza, e che cercano un futuro dignitoso”. L’auspicio che il Papa rivolge all’assemblea è quindi quello che da questo summit possano arrivare risultati che possano “realmente contribuire ad alleviare le sofferenze di questi milioni di persone”, frutti che “possano essere dimostrati attraverso una solidarietà sincera e un vero e profondo rispetto per i diritti e per la dignità di coloro che soffrono a causa dei conflitti, della violenza, della persecuzione, e dei disastri naturali”. Le vittime, scrive il Papa, sono le persone più vulnerabili, chi vive in condizioni “di miseria e di sfruttamento”
No al “mercato” degli aiuti
Le soluzione dei conflitti oggi sono impedite da troppi interessi, le strategie militari, economiche e geopolitiche costringono le persone a spostarsi, “imponendo il dio denaro, il dio del potere”. Allo stesso tempo – stigmatizza Francesco – gli sforzi umanitari sono spesso condizionati da vincoli commerciali e ideologici. Occorre quindi “un impegno rinnovato per proteggere ogni persona nella sua vita quotidiana e per proteggerne la dignità e i diritti umani, la sicurezza e i bisogni globali”.
Nessuno resti indietro
Al tempo stesso è necessario preservare la libertà e l’identità sociale e culturale dei popoli, senza che ciò ne comporti l’isolamento, ma che al contrario favorisca cooperazione, dialogo e soprattutto pace. “Non lasciare nessuno indietro” e “fare ognuno del suo meglio” (alcuni obiettivi del Summit – ndr) sono esigenze che chiedono che non ci si arrenda, e che tutti noi ci si assuma la responsabilità delle nostre decisioni e azioni riguardanti le stesse vittime.
Conoscere chi si prende cura della società
Francesco si augura quindi che il Summit possa anche essere l’occasione per riconoscere il lavoro di chi aiuta il prossimo, il proprio vicino, di chi contribuisce alla consolazione delle sofferenze delle vittime di guerre e calamità, degli sfollati e dei rifugiati, di chi si prende cura della società, in particolare attraverso scelte coraggiose in favore della pace, del rispetto , della guarigione e del perdono. E’ così, dice il Papa, che si salvano vite umane.
Non amiamo le idee, ma le persone
“Nessuno ama un concetto, nessuno ama un’idea, noi amiamo le persone. Il sacrificio di sé, vero dono di sé, scaturisce dall’amore verso gli uomini e le donne, verso i bambini e gli anziani , i popoli e le comunità… facce, quei volti e nomi che riempiono i nostri cuori”. Da Francesco parte quindi quella che lui stesso definisce “una sfida” al Summit: ai partecipanti chiede di far “ascoltare il pianto delle vittime e di coloro che soffrono”. Di consentire loro di insegnarci una lezioni di umanità. E di consentire a tutti noi di cambiare il modo di vivere, le nostre politiche, le nostre scelte economiche, i nostri comportamenti e atteggiamenti di superiorità culturale. “Imparando dalle vittime e da coloro che soffrono – conclude il Papa – saremo in grado di costruire un mondo più umano”.

(Da Radio Vaticana)

non può esserci crescita escludendo i poveri che sono maggioranza nel mondo

“una vera crescita economica deve includere poveri ed emarginati”

 
 

«Che tipo di crescita è quella che esclude la maggior parte della famiglia umana e coinvolge invece solo una sua piccola parte?». La domanda, retorica, è stata posta dal cardinale Luis Antonio Talge, arcivescovo di Manila e presidente di Caritas internationalis, nel corso dell’intervento pronunciato al convegno della Fondazione Centesimus annus , «Iniziative imprenditoriali nella lotta contro la povertà. L’emergenza profughi nostra sfida». Il Cardinale ha toccato vari argomenti e in particolare quello dei migranti e di una «crescita inclusiva»

Talge cardinale

Tagle ha fatto riferimento agli ultimi quattro pontefici e al loro magistero sociale attraverso quattro testi diversi: le encicliche Populorum progressio di Paolo VI,Sollecitudo rei socialis, di Giovanni Paolo II, Caritas in Veritate di Benedetto XVI, e l’esortazione Evangeli gaudium di Francesco. In tutti questi scritti, ha specificato il Cardinale, si rileva una progressiva preoccupazione per l’estrema povertà in cui versano miliardi persone, per l’assenza di lavoro su scala globale, per il consumo irrazionale delle risorse e per le diseguaglianze fra nazioni e aree continentali. Il tema delle ingiustizie sociali e della loro diffusione a livello planetario, è insomma ben presente nel magistero della Chiesa.
 
L’Arcivescovo ha proposto quindi un approccio «ampio» sulla questione dei profughi; in particolare, ha spiegato, «evitando la distinzione fra un rifugiato e un migrante forzato», sarebbe possibile includere fra le emergenze del fenomeno migratorio non solo quanti fuggono da guerre e terrorismo, ma anche coloro che sono in fuga da povertà e calamità naturali. Da questi movimenti forzati di persone, ha aggiunto, sono scaturite «la tratta e i traffici di esseri umani e le nuove schiavitù» cioè un «business multimiliardario». Così per rispondere alla gravità delle diverse crisi sociali in corso, umanitarie ed economiche, è necessario mutare profondamente alcuni stili di vita. In tal senso il Presidente di Caritas internationalis, parla della necessità di tornare a considerare la vita come dono, proponendo cioè una concezione contraria a quella consumistica e utilitaristica oggi prevalente. La gratuità e la fraternità si fondono insieme in una simile prospettiva, per questo fra gli standard economici vanno considerati anche criteri come la giustizia redistributiva e quella sociale che traggono origine dalla solidarietà.
 
«Una delle mie esperienze più strazianti come vescovo – ha raccontato Tagle – è stato quando ho presieduto una liturgia funebre di due bambini, di età compresa tra 6 e 5. Erano fratelli. Sono morti dopo avere mangiato cibo raccolto dal padre da un bidone della spazzatura nei pressi di un ristorante». Come fosse un’abitudine, ha detto ancora Tagle, «il padre andava a cercare cibo scartato dai clienti dei ristoranti ogni volta che non riusciva a guadagnare abbastanza per comprare da mangiare per la sua famiglia». In quella «fatidica» sera i due figli sono rimasti avvelenati. Cosa si può dire – ha osservato l’Arcivescovo – in questi casi? «Come si fa a proclamare la Buona Novella?». Dobbiamo quindi, ha detto ancora il Cardinale, tornare a essere dei «buoni amministratori» del Creato senza pretendere di esserne diventati i proprietari.«In Laudato si’, papa Francesco ci chiede una conversione ecologica integrale nella quale l’ecologia ambientale è collegata all’ecologia umana».
 
Vanno di conseguenza esercitate insieme sia la giustizia ecologica che quella intergenerazionale, serve inoltre un modo responsabile di utilizzare i beni della Terra. La ricerca del bene comune, inoltre, deve trovarsi alla base dell’attività economica, e anzi esserne motoreIl principio di generare la ricchezza dovrà essere accompagnato dalla giustizia distributiva «per realizzare il bene comune». Obiettivo fondamentale di questo percorso è quello di includere nella crescita quanti fino a ora ne sono rimasti esclusi. E questi ultimi sono «gli emarginati, i poveri». I poveri, ha rilevato Tagle, sono esclusi da tutte le previsioni economiche, di gestione dalla vita delle imprese, da ogni forma di pianificazione, non si ragiona sui servizi di cui hanno bisogno.
 
Dunque i poveri costituiscono la maggioranza della popolazione del Pianeta ma spesso sono considerati solo come una sorta di danno collaterale. «Ciò è dovuto al fatto – ha osservato l’Arcivescovo – che molti professionisti, opinion maker, mezzi di comunicazione e centri di potere, essendo situati nelle aree urbane ricche, sono ben lontani dai poveri, e hanno quindi pochi contatti con i loro problemi». La ricerca di una strada per «la crescita inclusiva da parte delle imprese» dovrebbe allora cominciare con «l’ingresso» delle persone povere nella nostra coscienza per disturbarci, per farci da maestri e per indurci a passare all’azione.
da lastampa.it

di chi è la pasqua? “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia”

la pasqua o è degli ultimi e degli impoveriti o non è

 

 

In questi giorni si celebra la dinofrisulloPasqua. Il giorno in cui coloro che si credono “bravi cristiani”(quelli che difendono le “radici cristiane” e che vogliono sempre stare nelle prime fila in chiesa la domenica mattina) si ritrovano tutti insieme a festeggiare nel caldo delle case tra agnello e cioccolata, seduti su tavole imbandite in case calde e comode.

Eppure pare che Tu sia nato al freddo e al gelo come un barbone qualsiasi. Quei barboni che puzzano e danno fastidio, chiedono sempre l’elemosina e non lavorano mai. Orrore e paura della gente bene! E infatti qualche mese fa si sono inventati la schedatura dei “senza fissa dimora” e il reato di clandestinità. Perché chi fugge dalla miseria e chi dalla povertà non riesce ad uscire sono nemici dell’ordine pubblico e della sicurezza. Eppure a Pasqua e Natale sono sempre i primi a festeggiare.

Pare che tu sia stato condannato a morte, incatenato,  scaraventato nel buio delle carceri. Negli ultimi anni in Italia ci sono stati centinaia di suicidi e di persone massacrate a morte.

Alla fine di marzo a Parma una persona è stata trovata morta assassinata sul ciglio della strada, in prossimità di una discarica. Aveva 29 anni. Non ha avuto alcun clamore mediatico. Era clandestina e transessuale e quindi la sua vicenda è stata trascurata da tutti.

Periodicamente  tornano a parlare di amore, dell’amore di Cristo e dei Vangeli. Bisogna amare, vivere e credere nell’amore. E, infatti, voleva solo poter amare Alfredo Ormano, poeta siciliano perseguitato in vita e in morte. Dopo l’ennesimo documento della Prefettura per la Congregazione della Fede che condannava l’omosessualità e discriminava tutte le forme di amore diverse da quello eterosessuale, il 13 gennaio 1998 si è dato  fuoco in piazza San Pietro ed è morto dopo dieci giorni di una dolorosa agonia. Su  specifici ordini del Vaticano gli organi di stampa hanno censurato le parole da lui scritte prima dell’addio e messo a tacere la sua vicenda, mentre negli anni per varie volte è stato impedito il suo ricordo.

Tutti gli anni la Quaresima è un fiorire, neanche fosse il prato di una canzone di Morandi, di fioretti e fiorellini. Spicca tra tutti la rinuncia alla carne nei venerdì. E’ la tradizione, la sacra tradizione da rispettare(è peccato!!). Nessun bravo cristiano trasgredirebbe mai (tanto si recupera la Domenica di Pasqua quando dell’Agnello ci sarà solo il sangue che scorrerà sulle tavole imbandite e nelle località del turismo di lusso), si rifiuterebbe sdegnato. Mentre in pochi, negli scorsi anni, hanno sentito la necessità e il dovere di rifiutarsi di azzannare l’animo sofferente del dolore che ha dilaniato nelle carni, due persone che hanno chiesto di veder leniti i loro calvari e rispettata la loro dignità. Non è stato considerato peccato il rifiutare il dolore di uno dei due per “un motivo di ordine logico”.

E’ peccato “mangiare la carne il venerdì di quaresima” ma in quante chiese si è sentito gridare che è peccato uccidere e lucrare sulle vite altrui? Mentre continuano a ribadire la loro vicinanza al Vaticano e a sbandierare croci, i governanti italiani stanno completando l’acquisto di 135 cacciabombardieri da guerra, strumenti di morte e di sterminio. Affermano di voler difendere le “radici cristiane” ma hanno chiuso le porte agli ultimi e agli impoveriti, a chi bussa alle porte di un’Europa sempre più trafficante d’armi (dalla Libia alla Turchia, dal Qatar alla Siria, senza dimenticare i conflitti in terra d’Africa) e protagonista di guerre permanenti. Eppure il Gesù Cristo che dicono di adorare, ancora in fasce, dovette fuggire “clandestino” in Egitto e, mentre l’ora della Crocifissione si avvicinava disse “chi di spada ferisce di spada perisce”.

Aveva 22 anni e tutto un futuro davanti. Non lo avrà più. Mentre le chiese italiane erano impregnate dell’incenso delle celebrazioni è morta, ennesima donna assassinata dal proprio lavoro. 5 euro l’ora in nero. Aveva 33 anni (incredibilmente gli stessi anni di Cristo), terza vittima nello stesso impianto. Il 17 ottobre 2007 era morto un altro operaio, lasciando a 32 anni un bambino di due anni e la moglie incinta del secondo figlio. Nel giugno 2008 è morto sul colpo, cadendo da 20 metri, un 24enne.

Alcuni anni fa mi è stata raccontata una storia. Non ricordo i dettagli precisi e quindi non posso raccontarla per intero. Si narrava di una festa enorme, con fuochi d’artificio, corandioli, banda musicale, tavole imbandite. Per ore e ore tutti parteciparono, mangiando, bevendo, divertendosi e godendosi lo spettacolo. Alla fine, quando tutti erano già andati via, in fondo alla sala fu trovato un bambino piangente. Era il festeggiato …

Se non sappiamo chinarci sul dolore delle tante Eluana e dei tanti Piergiorgio, se distrattamente passiamo oltre alle tante e ai tanti che ogni giorno muoiono, se non impariamo a rispettare l’amore di persone come Armando, se non sappiamo scandalizzarci davanti ai miliardi spesi in strumenti di morte (mentre per gli impoveriti e gli ultimi si riserva solo muri e fili spinati, ingiustizie, disumanità, diritti calpestati, cancellati, negati) e allo scandalo contro i più piccoli, aver festeggiato la  Pasqua è stata una bestemmia esecrabile, un atto disumano ipocrita e anticristiano.

Questo brano, in una versione che è stata modificata, era già stato pubblicato nel 2010 col titolo “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia”. Alcuni riferimenti temporali sono ormai datati, ma la situazione è sempre quella. Se non peggiorata. In questi sei anni sempre più c’è stata xenofobie, odii, guerre, traffico di armi sono aumentati. Mentre la “crisi” si è abbattuta sempre più sugli impoveriti di ogni latitudine e longitudine, sui lavoratori, sugli ultimi e sui penultimi. Il crocifisso è stato ancora brandito come un’arma, contro e non per. “Oggi più di ieri domina l’ingiustizia” – riprendendo i versi del “Don Chisciotte” di Guccini – e la mancanza di umanità, l’ideologia capitalista di dominio e oppressione. Per questo quella “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia” mi è apparsa ancora terribilmente attuale. E la ripropongo.  

 

Alessio Di Florio

 

Durante un tributo a Dé Andre Dori Ghezzi riservò duecentocinquanta posti per la Comunità San Benedetto. Qualcuno tentò dall’organizzazione di confinarli nel loggione. Don Andrea raccontò che fermò “il traffico della sala e come un vigile li feci sedere in platea, tre qui, due là, tossici, barboni, prostitute accanto a notai, dame e politici”. E continua nel racconto: “No, lì no. Lì ci va il Ministro della Cultura Giovanna Melandri” gli intimarono. Don Andrea rispose: “Allora le mettiamo accanto una puttana delle vecchie case, vedrai come esce arricchita dall’incontro!”. Concluse il racconto della serata: “Erano tutti molto preoccupati, mi chiedevano garanzie su ciò che sarebbe successo e io li tenevo sulle spine rispondendo che nn potevo saperlo, essendo io un prete, non un indovino. Invece sapevo benissimo ciò che poi accadde: i miei emarginati erano tutti quelli che durante le canzoni piangevano veramente!”

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