i poveri al centro della chiesa di papa Francesco

“mettere i poveri al centro non significa assistenza sociale”

lo ha detto papa Francesco: “Evangelizzare gli emarginati, non vuol dire solo fare assistenza sociale, tanto meno attività politica, ma avere la gioia di servirli e di portare loro il lieto annuncio”

“Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa”

La missione del cristiano? «Evangelizzare i poveri», cioè «avvicinarli», «avere la gioia di servirli, di liberarli dalla loro oppressione, e tutto questo nel nome e con lo spirito di Cristo». Lo ha detto Francesco prima dell’Angelus recitato dallo studio su piazza San Pietro davanti ad alcune decine di migliaia di fedeli. Chiedendo «quanto la Chiesa sia fedele a questo programma di Gesù», il Papa ha precisato che questa «priorità» per la Chiesa non significa «solo fare assistenza sociale, tanto meno attività politica».

Papa Francesco  ha svolto questa riflessione a partire dal brano del Vangelo in cui si narra di Gesù che nella sinagoga di Nazaret apre il rotolo del profeta Isaia e spiega la missione del «portare il lieto annuncio ai poveri». Quel Gesù, ha specificato il Pontefice, che «è diverso dai maestri del suo tempo: non ha aperto una scuola per lo studio della Legge,ma va in giro a predicare e insegna dappertutto: nelle sinagoghe, per le strade, nelle case. Gesù è diverso anche da Giovanni Battista, il quale proclama il giudizio imminente di Dio, mentre Gesù annuncia il suo perdono di Padre». 

Il Papa ha dunque chiarito il senso della venuta di Cristo: «Evangelizzare i poveri: questa – ha ribadito – è la missione di Gesù; questa è anche la missione della Chiesa, e di ogni battezzato nella Chiesa. Essere cristiano ed essere missionario è la stessa cosa. Annunciare il Vangelo, con la parola e, prima ancora, con la vita, è la finalità principale della comunità cristiana e di ogni suo membro». Quindi, a braccio, ha aggiunto: «Si nota qui che Gesù indirizza la Buona Novella a tutti, senza escludere nessuno, anzi privilegiando i più lontani, i sofferenti, gli ammalati, gli scartati della società». 

Ma, si è poi domandato il Papa, che cosa significa evangelizzare i poveri? «Significa avvicinarli, avere la gioia di servirli, liberarli dalla loro oppressione, e tutto questo nel nome e con lo Spirito di Cristo, perché è Lui il Vangelo di Dio, è Lui la Misericordia di Dio, è Lui la liberazione di Dio. E’ Lui che si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà». 

«Probabilmente – ha notato Bergoglio – al tempo di Gesù queste persone non erano al centro della comunità di fede. E ci domandiamo: oggi, nelle nostre comunità parrocchiali, nelle associazioni, nei movimenti, siamo fedeli al programma di Gesù? L’evangelizzazione dei poveri, portare loro il lieto annuncio, è la priorità?»  

Ed ecco la risposta di Francesco: «Attenzione: non si tratta solo di fare assistenza sociale, tanto meno attività politica. Si tratta di offrire la forza del Vangelo di Dio, che converte i cuori, risana le ferite, trasforma i rapporti umani e sociali secondo la logica dell’amore. I poveri, infatti, sono al centro del Vangelo». 

«La Vergine Maria, Madre degli evangelizzatori, – ha concluso il Pontefice -ci aiuti a sentire fortemente la fame e la sete del Vangelo che c’è nel mondo, specialmente nel cuore e nella carne dei poveri». 

Dopo la preghiera mariana e i saluti, il Papa si è congedato con l’ormai tradizionale: «A tutti auguro buona domenica e buon pranzo. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Arrivederci! »

aver cura della terra e dei poveri

accanto a Lazzaro

 custodire la terra con profezia ma senza demonizzazioni

da Il Re g n o – Attualità

povertà

un commento all’Enciclica Laudato si’

questo inizio di XXI secolo sarà ricordato anche per la fine della critica al capitalismo, che invece aveva caratterizzato buona parte del XX. Il capitalismo è diventato l’ambiente dentro il quale viviamo e ci muoviamo, e vi siamo talmente immersi da non avere più la capacità culturale di guardarlo per analizzarlo, criticarlo, rivolgergli le domande fondamentali dell’equità, della giustizia, della verità

Anche le varie forme d’impresa responsabile, o la stessa economia del settore non profit, si concepiscono all’interno dello stesso sistema capitalistico e sono a questo funzionali e sempre più essenziali – in Italia, ad esempio, circa la metà delle grandi organizzazioni non profit riceve direttamente o indirettamente finanziamenti dalle multinazionali dell’azzardo, inclusi importanti movimenti cattolici –. In questa povertà di pensiero critico, si comprende il valore e la portata storica della Laudato si’, che è anche una lucida e profetica critica del capitalismo finanziario e tecnologico. E lo fa a vari livelli, tutti essenziali. Innanzitutto, la Laudato si’ di Francesco è un grande discorso concreto di bene comune. Non è un discorso «sul» bene comune come categoria (di questi, tra i cattolici, ce ne sono fin troppi), ma è un esercizio di bene comune – nel linguaggio antico dovremmo dire che in questa enciclica il bene comune non è l’oggetto materiale bensì l’oggetto formale: si guarda il mondo dalla prospettiva del bene comune, che diventa criterio etico di giudizio globale. Oggi, soprattutto in Occidente, non riusciamo a vedere la questione etica del mondo proprio perché ci manca la categoria di bene comune – e quindi anche quella strettamente collegata di beni comuni –, la grande assente della nostra civiltà dei consumi e della finanza.

povertà

Eppure la nostra epoca ha conosciuto nella propria carne che cosa siano i mali comuni: guerre mondiali, pericolo atomico, epidemie e, oggi, il terrorismo globalizzato. Abbiamo imparato che cosa significhi essere anche un corpo quando cadevano le bombe sulle case dei ricchi e su quelle dei poveri, quando la follia suicidaomicida uccideva manager e operai; ma dall’esperienza del male comune non abbiamo imparato la sapienza del bene comune. Non abbiamo appreso collettivamente che il bene primo di una società (nel senso che se manca sono minacciati anche i beni secondi) è il bene comune, quello di tutti e di ciascuno. E così, giorno dopo giorno, legge dopo legge, non-legge dopo non-legge, stiamo dando vita alla «civiltà dell’interesse privato», che con ideologie sempre più sofisticate sta convincendo tutti che gli «scarti» siano un prezzo da pagare al benessere dell’élite, e che è normale e inevitabile che il 10% degli abitanti del pianeta utilizzi energia per l’aria condizionata negli appartamenti e per i SUV, e che il 90% che non ha né aria condizionata né SUV sia condannato a subire le conseguenze di un pianeta sempre più inquinato da chi è sopra di lui. Ancora una volta la storia umana conferma e amplifica la verità del Vangelo: non solo Lazzaro continua a stare sotto la tavola del ricco epulone a raccogliere le briciole della sua opulenza, ma da quella tavola sempre più imbandita con prodotti che nascono dalle terre sfruttate dei tanti poveri del pianeta ormai gocciolano sul capo di Lazzaro anche i rifiuti, le scorie, la sporcizia, che rendono immangiabili quelle poche briciole di pane.

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Un umanesimo integrale Papa Francesco è capace di vedere tutto ciò e di dirlo a tutti, per renderci almeno un po’ meno tranquilli nei nostri banchetti opulenti. E lo fa con la libertà che nasce da chi ha il solo interesse di servire la verità, che non dipende dai finanziamenti delle multinazionali e della grande finanza, e quindi di dar voce a chi non ce l’ha, denunciando con una forza e un coraggio inediti l’economia dei nuovi epuloni generatori di briciole inquinate e inique. Lo sguardo migliore sul bene comune, forse il solo giusto, è quello di chi si mette sotto il tavolo accanto a Lazzaro, e da lì guarda verso l’alto. Un altro tema che ispira tutto l’impianto dell’enciclica è il rapporto uomoterra letto come relazione di reciprocità con pari dignità, perché uomo e terra sono «creazione» (c. II; Regno-doc. 23,2015,14), reciprocità tra esseri umani e reciprocità tra noi e la terra. Una sola è la custodia: custodia dell’altro uomo («Sono forse io il custode di mio fratello?»: Gen 4,9), e custodia della terra (l’Adam deve coltivare e custodire il giardino: cf. Gen 2,15). La parola ebraica che l’autore della Genesi usa in entrambe le custodie – che poi saranno negate – è la stessa (shamar), a ricordarci che se non custodisco l’altro uomo, ogni altro uomo e donna, non sarò capace di custodire né la terra né me stesso (se non custodisco l’altro divento presto incapace anche della cura di me stesso: resta solo l’edonismo nichilista). Dove non c’è la custodia il fratricidio prende il posto della fraternità e la terra viene macchiata dal sangue – ma Dio e i suoi amici veri e non ruffiani riescono ancora a sentire l’odore del sangue delle vittime («La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo»: Gen 4,10). Ed è per questa ragione che «l’ecologia integrale» (c. IV; Regno-doc. 23,2015,30) di cui parla la Laudato si’ può nascere solo da un «umanesimo integrale» (c. III; Regno-doc. 23,2015,22). L’antropocentrismo «deviato» – come il papa definisce quella visione, alimentata anche da alcune teologie cristiane parziali, che vede tutto l’universo in funzione del benessere degli esseri umani – è il primo errore da rettificare per costruire una relazione corretta con la terra e con natura, una relazione che Francesco, francescanamente, chiama di fraternità: «quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità» (n. 92; Regno-doc. 23,2015,20). Al tempo stesso, l’uomo è realmente il centro del processo di deterioramento che sta subendo la vita del pianeta, un deterioramento che non mette in discussione la sopravvivenza della terra (che nella sua storia ha superato «crisi» molto più devastanti di quella da noi prodotta) ma la sopravvivenza dell’homo sapiens. Inoltre – e questo il papa lo sottolinea in molti passaggi della sua lettera – il comportamento irresponsabile dell’uomo, invece di «accudire» depreda la terra e sta producendo una forte perdita di biodiversità nel pianeta e la morte di molte altre specie viventi. Alcuni commentatori, sedicenti amanti del libero mercato – senza spiegare che cosa intendano per «mercato» e per «libero» –, hanno scritto, in Italia e altrove, che papa Francesco è contro il mercato e contro la libertà economica, e vedono in questo un’espressione del suo anti-modernismo e magari marxismo. In realtà, se leggiamo il testo senza occhiali ideologici, troviamo cose molto importanti sul mercato e sull’economia. Francesco ci ricorda che il mercato e l’impresa sono preziosi alleati del bene comune se non diventano un tutto. Il mercato è una dimensione della buona vita sociale, essenziale oggi a ogni bene comune. Ma le parole delle economie non sono né le uniche né le prime.

La regola del mutuo vantaggio Innanzitutto, il papa denuncia lo snaturamento del mercato. Se è vero, infatti, che la legge aurea del mercato è quella del «mutuo vantaggio» – come ci ricordano Adam Smith, Antonio Genovesi e la migliore tradizione del pensiero economico – e non il vantaggio di una parte a spese dell’altra, allor quando le imprese depredano persone e terra (e lo fanno spesso), stanno negando la natura stessa del mercato. Il papa non fa altro che richiamare l’economia e il mercato alla loro vocazione più vera: il mutuo vantaggio o, nelle parole di Genovesi, «la mutua assistenza» (in Lezioni di economia civile, scritte tra il 1765 e il 1767). Infine anche riconoscendo il mutuo vantaggio come una legge fondamentale del mercato civile, e magari estendendolo anche al rapporto con altre specie viventi e con la terra (molte esperienze nel rapporto uomo-terra si possono leggere anche in questo senso), esso non deve essere l’unica legge della vita. In questo il papa è in sintonia con grandi economisti contemporanei, tra i quali il premio Nobel A.K. Sen. Sen nei suoi lavori sulla giustizia parla degli obblighi di potere, e lo fa ispirandosi anche alla tradizione religiosa indiana. Gli obblighi di potere ci spingono ad andare oltre il mutuo vantaggio e il contratto – il suo principale strumento. Il mutuo vantaggio e il contratto non sono sufficienti per la costruzione di una società giusta. Esistono altri obblighi morali e civili che non possono essere ricondotti al principio del mutuo vantaggio. In particolare, gli obblighi di potere sono fondamentali quando abbiamo a che fare con i bambini e con altre specie viventi non umane. Quando ci troviamo nella condizione d’esercitare un potere nei confronti di altri viventi più deboli e che dipendono decisamente dalla nostra potenza, dobbiamo agire sulla base del riconoscimento dell’asimmetrica possibilità di fare cose cariche di conseguenze per la vita degli altri (cf. A. Sen, The Idea of Justice, Harvard University Press, Harvard 2009; trad. it. L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010). Dobbiamo agire responsabilmente nei confronti del creato perché oggi la tecnica ci ha messo nelle condizioni oggettive di poter produrre unilateralmente conseguenze molto gravi verso altri esseri viventi con i quali siamo legati. Tutto nell’universo è vivo, e tutto ci chiama a responsabilità. Molto importante, infine, è la questione del «debito ecologico» (n. 52; Regnodoc. 23,2015,12), che rappresenta uno dei passaggi più alti e profetici dell’enciclica. La logica spietata dei debiti degli stati domina la terra, mette in ginocchio interi popoli (come la Grecia ma non solo), e ne tiene sotto ricatto molti altri. Molto potere nel mondo è esercitato in nome del debito e del credito finanziari. Esiste però anche un grande «debito ecologico» del Sud del mondo nei confronti del Nord, un 10% dell’umanità che ha costruito il proprio benessere scaricando i costi sull’atmosfera di tutti, e che continua a produrre «cambiamenti climatici» che hanno effetti devastanti proprio in molti tra i paesi più poveri. L’espressione «cambiamenti» è fuorviante perché è eticamente neutrale. Il papa parla d’«inquinamento» e di deterioramento di quel «bene comune» chiamato «clima» (n. 23; Regno-doc. 23,2015,6). Il deterioramento del clima contribuisce alla desertificazione di intere regioni che influiscono decisamente sulle miserie, le morti delle bambine, dei bambini, delle donne, degli uomini, e le migrazioni (cf. n. 25). Di questo immenso «debito ecologico» e di giustizia globale non si tiene conto nei tavoli dei potenti, e si pretende magari di dare anche una vernice etica alle chiusure delle nostre frontiere verso chi arriva da noi perché prima gli abbiamo bruciato la casa. Questo debito ecologico non pesa per nulla nell’ordine politico mondiale. Nessuna troika condanna un paese perché ha inquinato e desertificato un altro. E così il debito ecologico continua a crescere sotto l’indifferenza dei grandi e dei potenti. La nostra civiltà globale ha un bisogno estremo e vitale di profezia. La profezia è sempre stata il primo alimento del bene comune, dentro e fuori le religioni. Ma dove sono, oggi, i profeti? E quei pochi, chi li ascolta? Papa Francesco è uno dei pochissimi profeti del nostro tempo, e, grazie a Dio, è anche ascoltato. Certamente è ascoltato e amato dai Lazzari. Auguriamoci che sia ascoltato anche da qualche ricco epulone: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31).

Luigino Bruni

raddoppiati i poveri in pochi anni

IL RAPPORTO CARITAS 2015

  in sette anni raddoppiati i poveri

povertà

 Erano poco meno di due milioni nel 2007; sono risultati essere oltre 4 milioni nel 2014. Colpiti anche il Nord, i giovani e chi un lavoro comunque ce l’ha. La Caritas italiana chiede di nuovo l’introduzione del Reis, il Reddito di inclusione sociale proposto dall’Alleanza contro la povertà
E’ raddoppiata in sette anni. Dal 2007, anno in cui la crisi iniziò a mordere, al 2014 la povertà assoluta, in Italia, ha colpito un numero crescente di pesone, passando da 1,8 a 4,1 milioni di persone. Dal punto di vista percentuale si è saliti dal 3,1% al 6,8% della popolazione. È quanto emerge dal Rapporto 2015 sulle politiche contro la povertà in Italia curato dalla Caritas italiana in collaborazione con l’Università Cattolica, presentato oggi a Roma. Sono mutati anche geografia e volti della povertà (per vedere la tabella riassuntiva clicca qui). Prima della crisi era un fenomeno circoscritto sostanzialmente al Meridione, ora riguarda anche il Nord. Prima penalizzava soltanto gli anziani, ora anche i giovani. Prima riguardava le famiglie con almeno tre figli, adesso anche quelle con due. Prima si era poveri perché senza lavoro, ora si è poveri anche con il lavoro. E a pagare il prezzo più alto, durante la crisi, sono stati i più poveri tra i poveri: il 10% delle persone in povertà assoluta ha sperimentato una contrazione maggiore del proprio reddito (-27%) s uperiore a quella del 90% della popolazione.

In questi anni, rivela il Rapporto intitolato Dopo la crisi, costruire il welfare, sono cambiati i governi, ma le politiche sociali non hanno contribuito a risolvere la situazione, che rischia di diventare strutturale se non viene messo in piedi un sistema di welfare pubblico. Il Rapporto analizza nel dettaglio la situazione socio-politica. «Per poter valutare l’operato del Governo guidato da Matteo Renzi nei confronti della povertà è opportuno considerare la realtà delle politiche contro la povertà prima del suo arrivo, cioè l’eredità lasciata dai suoi predecessori». si legge. «Primo, l’Italia è l’unico Paese europeo, insieme alla Grecia, privo di una misura nazionale mirata a sostenere l’intera popolazione in povertà assoluta. Secondo, l’attuale sistema di interventi pubblici risulta del tutto inadeguato per volume di risorse economiche dedicate e frantumato in una miriade di prestazioni non coordinate, suddivise tra una varietà di categorie e con caratteristiche diverse. Terzo, la gran parte dei finanziamenti pubblici disponibili è dedicata a prestazioni monetarie nazionali mentre i servizi alla persona, di titolarità dei Comuni che poi coinvolgono anche il terzo settore, sono sottofinanziati. Quarto, la distribuzione della spesa pubblica è decisamente sfavorevole ai poveri: l’Italia ha una percentuale di stanziamenti dedicati alla lotta alla povertà inferiore alla media dei Paesi dell’area euro».

Cos’è cambiato durante la crisi? «In termini strutturali nulla», viene risposto nel Rapporto, «poiché nel periodo 2007-2014 non sono state introdotte novità degne di nota. L’unica misura stabile introdotta nel periodo è stata la Social Card, attiva dal 2008, che non ha modificato in misura significativa il quadro delineato, data l’esiguità tanto degli importi previsti quanto del numero di poveri raggiunti. In parallelo, le già ridotte risposte esistenti sono state ulteriormente indebolite dalle politiche di austerità rivolte ai Comuni, che li hanno portati a contrarre la loro spesa sociale, già molto scarsa. Oggi ci troviamo, dunque, di fronte a una povertà diffusa e a un welfare pubblico ancora del tutto inadeguato».

E Renzi? «L’attuale Governo ha sinora introdotto alcuni interventi per supportare il reddito delle famiglie rivolti prevalentemente a fasce più ampie della popolazione ma che, in varia misura, riguardano anche i nuclei in povertà: il bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, il bonus bebè per famiglie con figli entro i tre anni, il bonus per le famiglie numerose e l’Asdi. L’insieme degli interventi di sostegno al reddito sinora varati restituisce un quadro piuttosto chiaro. Ai poveri viene fornito qualche sollievo – concede il Rapporto Caritas -, che si traduce in un complessivo incremento medio di reddito pari al 5,7%, risultato migliore rispetto ai precedenti Governi. Si tratta, però, di un avanzamento marginale e non privo – per come è stato disegnato – di controindicazioni. Pertanto, la valutazione d’insiemenon può che essere la seguente: in materia di sostegno al reddito l’attuale esecutivo, ad oggi, non si è discostato in misura sostanziale dai suoi predecessori e ha confermato la tradizionale disattenzione della politica italiana nei confronti delle fasce più deboli di popolazione.

«Occorre decidere se si vuole o meno dar vita ad un sistema fondato su una misura rivolta a chiunque sia in povertà assoluta, un livello essenziale costituito da un mix tra diritti nazionali e risposte disegnate dalla rete dei servizi locali e dotato di finanziamenti adeguati», termina il Rpporto: «un sistema, in altre parole, come quello previsto dal Reddito d’inclusione sociale (Reis), proposto dall’Alleanza contro la povertà in Italia e del quale la Caritas italiana auspica l’introduzione»

la nostra paura dei poveri

siamo ostaggi del nostro benessere per questo i migranti ci fanno paura

(Z. Bauman)

«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio divide et impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso»….

Bauman

ZYGMUNT Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.

Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.

«Il volume e la velocità dell’attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”, nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state “estranei”, “altri”».

Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?

«Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura».
La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?

«In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».

Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?«Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».
Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico…«Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi».E allora che fare?

«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».

 
da repubblica del 15/06/2015
 

chi ha paura di papa Francesco?

 

 

 

comincia ad apparire ormai abbastanza chiaramente che numerose persone hanno paura di questo papa

sono in genere uomini di chiesa, funzionari di religione che si comportano come arrampicatori, guadagnano denaro e vivono bene

ma il vero motivo sta nel fatto che papa Francesco parla dei poveri e dell’opzione preferenziale per questi e mette quindi all’ultimo posto le persone privilegiate e importanti

si vedano le belle riflessioni del teologo spagnolo J. M. Castillo

(vedi link qui sotto)

per una chiesa povera tra i poveri

 

papa

è ancora una volta (ma si prevede che non sarà provvidenzialmente l’ultima) il papa a richiamarci ad una evangelica chiesa ‘povera’, tra i poveri, di poveri, per i poveri

una chiesa ‘ricca’ non può avere una vita evangelica – s. Pietro non aveva il conto in banca … soprattutto non aveva una banca!

vedi link qui sotto

Papa Francesco

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