riformulare l’evento cristiano oltre il linguaggio mitico

 

oltre il mito

per una nuova interpretazione del messaggio cristiano

una riflessione di

Andrés Torres Queiruga 

 
da: Adista Documenti n° 12 del 25/03/2017
 
 Non è sicuramente un problema nuovo quello legato alla necessità di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio che possa ancora risultare comprensibile all’uomo e alla donna contemporanei: già nel 1948, infatti, il grande esegeta cristiano Rudolf Bultmann richiamava  l’attenzione sull’urgenza di avviare quella che egli chiamava la «demitizzazione» della fede cristiana, evidenziando come il linguaggio mitico dei Vangeli risultasse ormai anacronistico nel mondo moderno.

Una questione che oggi, in piena età postmoderna, si è fatta ancor più pressante, come emerge, in particolare, dalla ricerca di teologi come il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con la sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere onnipotente che dimora al di fuori e al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle questioni umane) o come il gesuita belga Roger Lenaers, con la sua proposta di riformulazione della fede nel linguaggio della modernità, o come il teologo clarettiano José María Vigil, con la sua riflessione sulla necessità di elaborare, a fronte delle rivoluzionarie trasformazioni epistemologiche in atto, nuovi paradigmi teologici (da quello pluralista a quello ecologico, da quello post-religionale a quello archeologico-biblico).

Ma è del resto una parte sempre più rilevante del mondo teologico (e non solo) ad avvertire la serietà della sfida, sottolineando l’importanza di una revisione di ogni aspetto del catechismo cattolico (a cominciare dalla liturgia; v. Adista Documenti n. 8/2017) sulla base di nuove idee e di nuove parole. Una sfida assai presente, per esempio, nella ricerca teologica dello spagnolo André Torres Queiruga –  già autore di importanti studi sulla necessità di ripensare la santità (v. Adista Documenti n. 33/2013), la Provvidenza (v. Adista Documenti n. 35/2013) e la Teodicea (v. Adista Documenti n. 31/2016) -, il quale proprio sul tema della demitizzazione del linguaggio religioso come conseguenza della profonda mutazione culturale in atto si sofferma in un articolo apparso in gallego sul numero 198 della rivista Encrucillada (maggio-giugno 2016) e in castigliano sul portale teologico latinoamericano Koinonía (febbraio 2017).

di seguito, in  traduzione dal castigliano, ampi stralci del suo articolo:

il linguaggio religioso

demitizzazione e cambiamento culturale

 
da: Adista Documenti n° 12 del 25/03/2017

 

1. L’ALLARME DELLA “DEMITIZZAZIONE”

1.1 La necessità del cambiamento

«Non si può usare la luce elettrica e l’apparecchiatura radio, o ricorrere ai moderni mezzi clinici e medici in caso di malattia, e allo stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli del Nuovo Testamento» (Rudolf Bultmann, Neues Testament und Mythologie).

Questa frase, che impressiona per la sua efficacia, non è stata scritta ieri da un esponente del nuovo ateismo, ma ormai parecchi anni fa, nel 1948, da uno dei grandi esegeti cristiani, il tedesco Rudolf Bultmann. E non la scrisse per attaccare la fede cristiana, ma per difenderne la validità, benché, questo sì, invocando una necessaria e urgente attualizzazione nel modo di comprenderla e di annunciarla. Che è quello che egli chiamò il problema della “demitizzazione”. Non è importante essere d’accordo su tutto ciò che dice Bultmann, troppo condizionato da un forte radicalismo esegetico e da un chiaro riduzionismo teologico (…), per  comprendere la serietà della sfida e la correttezza della sua messa in guardia.

Nell’acuto e profondo prologo alla traduzione francese del piccolo e influente libro di Bultmann su Gesù, Paul Ricoeur ne evidenziò assai bene i limiti, ma anche i meriti irrinunciabili, operando una distinzione, tanto ovvia quanto fondamentale, tra due livelli. Quando la lettura invade i dominii della scienza, conferendo valore di soluzione scientifica alla cosmologia primitiva della cultura biblica – la «concezione di un mondo stratificato su tre piani, cielo, terra, inferno, popolato da poteri soprannaturali che discendono qui in basso da lassù» –, il mito deve essere «puramente e semplicemente eliminato» (“Préface à Bultmann”, in Le conflit des interprétations, Parigi, 1969). Ma il mito è «qualcosa di diverso da una spiegazione del mondo, della storia e del destino; esprime, in termini di mondo, o piuttosto di ultra-mondo o secondo mondo, la comprensione che l’essere umano ha di se stesso in relazione al fondamento e al limite della sua esistenza». Per questo, dinanzi al mito, ciò di cui veramente deve trattarsi è di interpretarne l’intenzione genuina, eliminando le spiegazioni oggettivanti e guardando invece a cosa esso rivela riguardo al significato ultimo dell’esistenza.

Di fronte allora al rivestimento mitico con cui a volte viene presentato il messaggio del Nuovo Testamento, è necessario prendere in seria considerazione la necessità di una traduzione che vada al fondo di ciò che lì ci viene rivelato. Nulla sarebbe più lontano da questo di una banalizzazione che, senza uno studio serio né una meditazione profonda, si fermasse a un livello superficiale, non importa se disprezzando tutto e gettando il bambino con l’acqua sporca, o con un accomodamento puramente formale, fino al limite espresso da un aneddoto che ho già avuto occasione di raccontare: una volta ho ascoltato per caso un conduttore radiofonico che, allo scopo di “modernizzare” il messaggio dell’Ascensione, ha avuto la brillante idea di descrivere Cristo come “il divino astronauta”.

1.2 La serietà della sfida

Dinanzi a espressioni come questa, allorché si cade in una certa e irrimediabile sensazione di ridicolo, sorge subito il sospetto che si stia di fronte a un problema molto grave. L’esempio dimostra, in effetti, come l’urgenza della reinterpretazione nella comprensione e nell’espressione della fede sia legata all’enorme cambiamento culturale che, a partire dall’avvento della Modernità, ha scosso le radici più profonde del pensiero e dell’espressione dell’esperienza cristiana.

Perché risulta evidente che la descrizione neotestamentaria non si adatta alla nuova visione di un mondo che non ha un sopra né un sotto, che non presenta una dimensione terrena (imperfetta, mutevole e  corrotta) opposta a una dimensione sovralunare o celestiale (incontaminata, circolare, perfetta e divina). Per questo, tentare, come nell’aneddoto, di forzare l’adattamento mediante una superficiale rivisitazione linguistica appare un’assurdità; e, quel che è peggio, conferma l’accusa, così estesa, di chi ritiene che la religione appartenga irrimediabilmente a una mitologia passata.

E, una volta messi in guardia, basta un semplice sguardo per comprendere che non si tratta di un caso isolato, ma che il problema investe profondamente il quadro stesso delle formulazioni in cui trovano espressione le grandi verità della nostra fede. Chi è che, di fronte ai dati offerti dalla storia umana e dall’evoluzione biologica, potrebbe oggi pensare all’origine dell’umanità a partire da una coppia perfetta, in un paradiso senza belve feroci e senza fame, senza malattie e senza morte? Più grave ancora: chi è che, non essendo in grado, come qualsiasi persona normale, di colpire un bambino per punire l’offesa di suo padre, potrebbe credere in un “dio” capace di castigare per millenni miliardi di uomini e donne solo perché i  loro “primi antenati” non hanno obbedito al suo ordine mangiando il frutto proibito?

Potrebbe sembrare una caricatura, e in realtà lo è; ma tutti sappiamo che fantasmi uguali o simili popolano in maniera assai efficace l’immaginario religioso della nostra cultura. E l’enumerazione potrebbe continuare rispetto a questioni anche più gravi. Così, per esempio, si continua a parlare con troppa facilità di un “dio” che punirebbe per tutta l’eternità e con tormenti infiniti colpe di esseri tanto piccoli e fragili, come, in definitiva, siamo tutti noi esseri umani. O che ha preteso la morte di suo Figlio per concedere il perdono dei nostri peccati; un tema a proposito del quale grandi teologi, da Karl Barth a Jürgen Moltmann e Hans Urs von Balthasar, non esitano a pronunciare affermazioni che ricordano eccessivamente quelle teologie e quella predicazione che parlavano della croce come del castigo con cui Dio ha scaricato su Gesù la sua “ira” verso di noi…

Sappiamo bene che sotto queste espressioni palpita una profonda esperienza religiosa e anche che, con sforzo e buona volontà, risulta possibile arrivare a intenderle in maniera più o meno corretta. Però sarebbe pastoralmente e teologicamente suicida chiudere gli occhi sul fatto che il messaggio che arriva veramente alla gente normale è quello suggerito dal significato diretto di queste espressioni, considerando che le parole assumono il loro significato all’interno del contesto culturale in cui vengono pronunciate e ricevute.

D’altro canto, il rischio è di incorrere in quello che giustamente qualcuno ha definito “tradimento semantico” (P. Fernández Castelao), finendo per rendere inutile e anche contraddittorio il ricorso a procedimenti ermeneutici, artifici oratori o raffinatezze teologiche per ottenere una significatività attuale, pretendendo allo stesso tempo di conservare parole ed espressioni che sono debitrici del contesto precedente. Come per quelle dighe la cui struttura ha ceduto ormai alla pressione della piena, i muri di contenimento e i rimedi provvisori sono incapaci di arrestare l’emorragia di senso provocata dalle numerose e crescenti rotture del contesto tradizionale. Per cui o si rinnova la struttura, o il risultato potrà essere solamente lo straripamento e la catastrofe.

Come già evidenziato, sarebbe un peccato che, per colpa di certe esagerazioni da parte di Bultmann e di certi lambiccamenti teologici di molti critici, si ignorasse il suo grido di allarme. Teniamo presente che, per quanto il libro di Giosuè possa ripeterlo, nessuno di noi può oggi credere che il sole si muova intorno alla terra e, se accanto a noi qualcuno cadesse per terra per un attacco epilettico, non potremmo credere che la causa sia stato un demonio, per quanto così si pensasse al tempo di Gesù, o, addirittura, per quanto così lo dicesse, dal punto di vista culturale, naturalmente, lo stesso Gesù.

Affermare questo non implica in nessun modo negare il contenuto religioso né il valore simbolico (Bultmann parlava di “significato esistenziale”) di queste narrazioni. Quello che si mette in discussione non è il significato, ma l’adeguatezza di quelle espressioni per veicolarlo nel nuovo contesto.

Diciamolo con un esempio concreto: la creazione dell’essere umano nel secondo capitolo della Genesi continua a conservare tutto il suo valore religioso e tutta la sua forza esistenziale per una lettura che cerchi di cogliervi la relazione unica, intima e amorevole di Dio con l’uomo e con la donna, diversa da quella mantenuta con le altre creature. Ma, per farlo, risulta indispensabile andare oltre la lettera di quelle espressioni. Al contrario, se insistiamo a voler leggere in quei testi, di evidente carattere mitico, una spiegazione scientifica del funzionamento reale del processo evolutivo della vita, tutto si traduce in uno sproposito. Di fatto, sappiamo molto bene che, per quasi un secolo, in questo caso concreto, la fedeltà alla lettera è diventata una terribile fabbrica di ateismo, trasformando in realtà l’avvertimento paolino che «la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3,6).

2. LA MODERNITÀ COME CAMBIAMENTO  DI PARADIGMA CULTURALE

Ridurre tuttavia il problema alla demitizzazione significherebbe minimizzarlo, in quanto tale questione si inscrive nel processo più ampio e profondo di cambiamento di paradigma culturale, che, investendo l’insieme della cultura, modifica profondamente la funzione del linguaggio. Risulta ovvio che ciò porta con sé l’urgenza di un rimodellamento e di una ri-traduzione dell’insieme di concetti ed espressioni in cui culturalmente si incarna la fede.

2.1 La profondità e la trascendenza della mutazione culturale

L’affermazione precedente è grave e impegnativa. Non è possibile ignorare il fatto che prenderla sul serio implica per il cristianesimo una riconfigurazione profonda – molte volte scomoda e persino dolorosa – delle abitudini mentali, degli usi linguistici e dei modelli di devozione. Basti pensare a un dato semplice ed evidente: l’immensa maggioranza dei concetti e buona parte delle espressioni in cui è stata verbalizzata la fede – nella devozione e nella liturgia, nella predicazione e nella teologia – appartengono al contesto culturale precedente all’Illuminismo. Affondano pertanto le loro radici vitali nel mondo biblico, sono stati riconfigurati culturalmente durante i primi cinque o sei secoli della nostra era e hanno ricevuto la loro formulazione più stabile nel corso del Medioevo. Successivamente ci sono state, certamente, delle attualizzazioni, ma – soprattutto nel cattolicesimo, a causa del maggiore controllo magisteriale – hanno avuto in generale un marcato carattere restaurazionista (la neo-scolastica del Barocco e del XIX secolo, il neo-tomismo e la reazione antimodernista).

La situazione si è ulteriormente aggravata per il fatto che il cambiamento moderno non si è prodotto nell’evoluzione pacifica data da un avanzamento lineare, bensì come una transizione violenta. La caduta della cosmovisione antica ha generato in molti la sensazione di essere stati ingannati, la convinzione che fosse necessario ricostruire tutto di nuovo. Le reazioni sono state molte volte senza dubbio eccessive, ma hanno indicato un compito ineludibile: la cultura, e per ciò stesso la religione, nella misura in cui era solidale con essa, non potevano continuare a parlare lo stesso linguaggio. Non era possibile andare avanti né con la lettura letteralista della Bibbia né con la concezione astorica del dogma.

Per la teologia, il compito appariva così immenso che non possono sorprendere le reazioni difensive e lo stile maggioritariamente restaurazionista. Il risultato è stato un chiaro ritardo storico, che rende più grave la situazione. Per fortuna, il Vaticano II, proclamando l’urgenza dell’aggiornamento, ha riconosciuto la necessità di un rinnovamento e aperto ufficialmente le porte per metterlo in pratica. Ciononostante, il peso delle difficoltà si è fatto sentire, e la paura del nuovo ha frenato molte iniziative. Fortunatamente, benché a breve o medio termine non ci si possano ancora attendere soluzioni sufficientemente soddisfacenti, il nuovo pontificato di Francesco riprende con vigore evangelico la feconda semina del Concilio. Se fino ad allora poco si parlava di inverno ecclesiale, tutto indica che, come per il fico del Vangelo, si annuncia una nuova primavera.

2.2 La possibilità di cambiamento

Per questo oggi apparirebbe fuori luogo un atteggiamento rassegnato e pessimista. Quando da una certa prospettiva si pensa ai profondi cambiamenti avvenuti soprattutto a partire dal Concilio, se si fa attenzione ai processi di fondo che si vanno delineando nella vita ecclesiale e si tocca con mano l’accoglienza cordiale e colma di speranza suscitata dal nuovo papa, non risulta difficile cogliere passi avanti di grande rilevanza. Resta molto da fare, certamente, ma la percezione profonda di questa mutazione fondamentale e la necessità di portarla avanti rappresentano già un elemento forte nell’ambiente generale.

Le resistenze sono notevoli, anche da parte di personalità ecclesiastiche, che invece dovrebbero essere le prime a puntare al rinnovamento. Ma lo stesso sconcerto che produce la loro mancanza di coerenza – considerando la loro rigida fedeltà al magistero papale quando tutto sembrava scorrere in sintonia con la loro ideologia religiosa – e, d’altro lato, la mobilitazione ecclesiale che si sta generando negli ambienti più sani del cristianesimo indicano come tali resistenze abbiano perso protagonismo e remino contro il vento dello Spirito. Anche in questo caso si realizza il principio enunciato da Hölderlin secondo cui «dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza». Per due ragioni fondamentali: perché la percezione di uno scompenso obbliga alla chiarezza e perché la nuova situazione porta con sé possibilità specifiche che solo a partire da essa diventano percepibili e realizzabili.

L’entità del cambiamento, in effetti, consente di vedere meglio la struttura del problema: è esattamente la stessa mutazione culturale che ci impedisce di prendere alla lettera il racconto dell’Ascensione quella che ci consente di liberare dalla sua schiavitù letterale il significato permanente dato dal suo senso profondo. L’impossibilità di leggere il racconto come un’ascensione materiale ci lascia liberi di ricercare il suo intento autenticamente religioso.

Operazione non facile né semplice, certamente, dal momento che tra la forma e il contenuto non esiste una relazione estrinseca, neppure come quella che si dà tra il corpo e il vestito. Il significato non esiste mai nudo, “in uno stato puro”, ma è sempre tradotto in una forma concreta: non vedere l’Ascensione come una salita al cielo significa necessariamente leggerla già nel quadro di un’altra interpretazione. Ciononostante, la distinzione risulta possibile, ed è molto importante comprenderla e affermarla, in quanto è unicamente da qui che nasce la legittimità del cambiamento e la libertà per intraprenderlo.

Vale la pena chiarirlo con un esempio, prendendo come riferimento l’acqua e la sua figura (non la sua formula), al posto del corpo e del suo vestito. Non esiste mai la possibilità di avere la figura dell’acqua “allo stato puro”: avrà sempre la forma del recipiente – bicchiere o bottiglia, brocca o catino – che la contiene. Se non ci piace una figura, possiamo cambiarla, ma solo a condizione di sostituirla con un’altra: quella imposta dal nuovo recipiente. Tuttavia, distinguiamo con facilità l’acqua dalle sue figure; e comprendiamo che si può cambiare recipiente senza che con ciò si debba cambiare l’identità dell’acqua. Certamente, in ogni travaso esiste sempre il rischio di perdite e di fuoriuscite, ma, se non vogliamo che l’acqua ristagni e si rovini, l’alternativa non è quella di conservarla sempre nello stesso posto, ma di fare attenzione che il travaso avvenga senza perdere nulla del contenuto del recipiente.

Con le limitazioni proprie di ogni esempio, qualcosa di simile succede con la fede e con le sue espressioni. La fede non esiste mai allo stato puro, ma sempre all’interno di un’interpretazione determinata. Tuttavia, se deve vivere nella storia, non può ristagnare in un tempo determinato, ma deve attraversarli tutti, adattandosi alle loro necessità e approfittando delle loro possibilità. Il che implica al tempo stesso libertà e modestia. Modestia, perché appare chiaro che nessuna epoca può pretendere che la propria interpretazione sia unica o definitiva, e neppure la migliore: le nostre attualizzazioni sono sempre provvisorie. Ma anche libertà, perché, proprio per questo, ogni epoca ha il diritto alla propria interpretazione. Esattamente perché la fede vuole essere “acqua viva”, la migliore maniera di conservarla non è richiuderla in un deposito morto, bensì costruire – con affetto e rispetto, perché nulla si perda, ma anche con coraggio e creatività, perché non ristagni e non si corrompa – canali sempre nuovi attraverso cui possa scorrere, fecondando i tempi e le culture.

2.3 I cammini del cambiamento

La questione è così seria da rompere di per sé la sacralizzazione di qualunque configurazione della fede, compresa quella iniziale, per non parlare di quella medievale. Neppure nella Scrittura possiamo incontrare l’esperienza cristiana allo stato puro, bensì la vediamo già tradotta negli schemi culturali del suo tempo e nelle “teologie” dei diversi autori o comunità: lo stesso Gesù parlava e pensava all’interno del suo quadro temporale, che non è né può essere il nostro. In effetti, l’inevitabilità di questo fatto si è fatta notare, in maniera francamente impressionante, già nelle stesse origini. Perché, quando ci si ferma un po’ a riflettere, non risulta difficile comprendere l’entità della trasformazione che ha comportato la traduzione non solo nella lingua, ma anche nella cultura greca, carica di intellettualismo filosofico, del messaggio evangelico, formulato in aramaico e sorto all’interno di una mentalità simbolica e decisamente funzionale.

Nell’attualità, la rivoluzione esegetica, superando la prigione fondamentalista del letteralismo biblico e il rinnovamento patristico, mostrando la storicità del dogma e gli ampi margini di legittimo pluralismo teologico, ha rivelato in maniera irreversibile l’apertura intrinseca della comprensione della fede. Quel che è certo è che, malgrado le profonde resistenze restaurazioniste, si sono aperte grandi possibilità non soltanto per la rottura di schemi obsoleti, ma anche per la ricerca di nuove formule ed espressioni. La fioritura della teologia che è seguita al Concilio, imprevedibile e quasi inimmaginabile appena poco tempo prima, indica come la fecondità della Parola resti viva e in grado di fecondare il futuro.

Inizialmente, il cambiamento richiesto dalla nuova cultura non è risultato, né poteva risultare, facile. Di fatto, ha provocato una delle crisi più gravi nella storia del cristianesimo. Affrontarla ha comportato, malgrado resistenze, fastidi e repressioni, un coraggio di tale portata da indurre Paul Tillich, sulla scia di Albert Schweitzer, ad affermare che «forse nel corso della storia umana nessun’altra religione ha avuto la stessa audacia né ha assunto simili rischi». Per questo, non celebreremo mai abbastanza l’aria fresca entrata grazie al Concilio nella Chiesa. E non c’è nessun ringraziamento migliore che quello di portare avanti l’impresa, cercando di condurla alla sua piena realizzazione. Quello che in definitiva ci viene chiesto, per stretta fedeltà al dinamismo della fede, è lavorare alla ricerca di un’interpretazione e del suo relativo linguaggio che, rompendo modelli culturali che non sono più i nostri, rendano trasparente il significato originario per gli uomini e le donne di oggi.

La nuova situazione non si limita a fare luce sul problema, ma offre anche nuove possibilità per affrontarlo. La stessa coscienza della necessità del cambiamento presuppone già un enorme passo avanti, in quanto invoca l’utilizzo di tutte le risorse dell’ermeneutica moderna. Non per niente ci troviamo nell’“età ermeneutica” della teologia (cfr J. Greisch, L’âge herméneutique de la raison, Parigi, 1985; C. Geffré, El cristianismo ante el riesgo de la interpretación. Ensayos de hermenéutica teológica, Madrid, 1984) e non come risorsa occasionale, bensì per profonda convinzione, considerando che l’esperienza religiosa, proprio per la difficoltà che offre la trascendenza dei suoi riferimenti, chiede di approfondire al massimo l’esercizio dell’interpretazione. (…).

La nuova cultura non offre soltanto lo strumento formale dell’ermeneutica, come mezzo per l’interpretazione rinnovata di quanto è stato ricevuto. Offre ugualmente qualcosa di forse ancora più importante: aprendo campi inediti alla comprensione umana, amplia lo spazio dell’intellectus fidei (la comprensione della fede) e aumenta le risorse per esprimerlo e per renderlo accessibile alla sensibilità attuale.

Pensiamo, per esempio, alle brecce aperte da teologie come quelle della speranza, della politica e della liberazione, grazie al fatto che hanno saputo approfittare dei mezzi offerti dall’analisi sociale. E, in un altro senso, vale la pena valorizzare anche il contributo derivante dalla scienza psicologica: il fatto che molte volte il suo ingresso risulti conflittuale, come nel caso di Jacques Pohier o di Eugen Drewermann, non toglie validità alla constatazione, ma piuttosto la conferma, in quanto mostra di toccare punti sensibili e decisamente reali. È a partire da qui che può ricevere aiuti fecondi e purificatori un campo così sensibile e importante come quello della morale, che, sempre più cosciente della sua autonomia, ha davanti a sé l’urgente e delicato compito di chiarire la sua vera relazione con la teologia e, in definitiva, con la religione.

In generale, è importante imparare a valorizzare sempre più il fatto che l’autentico progresso culturale, lungi dal costituire una minaccia per la fede, rappresenti un forte arricchimento. Di fatto, la storia recente mostra chiaramente come un’alleanza critica con quella parte della cultura impegnata a perseguire l’autenticamente umano (e per ciò stesso “divino”) sia sempre stata benefica per le Chiese: si pensi, per esempio, alla tolleranza, alla democrazia o alla giustizia sociale.

In una parola, se dinanzi alla questione strutturale del linguaggio religioso bisogna perseguirne il rinnovamento attingendo soprattutto alle profonde risorse della tradizione biblica, del dialogo delle religioni e dell’esperienza religiosa e anche mistica, per quel che riguarda la sfida culturale è principalmente delle scienze umane che bisogna approfittare. E non c’è dubbio che un’apertura generosa e un utilizzo al tempo stesso critico e coraggioso offrano ricche possibilità per affrontare il difficile ma irrinunciabile compito di una ri-traduzione del cristianesimo come quella che richiede la nostra situazione culturale.




Dio è innocente di fronte alla grande sofferenza del mondo? qualche spiegazione comunque ce la dovrà dare – intanto è utile affrontare in altro modo il problema

oltre il mito di un mondo senza male

 

la realtà della sofferenza e la bontà di Dio

adista

Claudia Fanti   

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

È una domanda – forse “la” domanda – a cui non è dato sfuggire: come conciliare l’esistenza di un Dio d’amore con la presenza del male e della sofferenza nel mondo? Una domanda che, per esempio, ha indotto il grande teologo Karl Rahner ad affermare che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale» o che ha spinto un altro celebre teologo, Romano Guardini, a confidare, sul letto di morte, che avrebbe avuto anche lui qualche domanda da porre al Giudice divino: «domande sul dolore dei bambini innocenti».

Ed è proprio a questo tema capitale – “La sofferenza e Dio” – che è dedicato l’ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium (3/2016), edita dalla Queriniana di Brescia, nella convinzione, espressa dai curatori (Luiz Carlos Susin, Solange Lefebvre, Daniel FranklinPilario e Diego Irarrázaval) sulla scia del filosofo Paul Ricoeur, che «la sofferenza è divenuta la più grande e quasi l’unica sfida alla teologia e alla filosofia contemporanee». Ma anche nella consapevolezza che «si tratta di un oscuro mistero al quale non è bene accostarsi dando risposte» e che «solo con un’attenzione e una fiducia radicale possiamo avvicinarci alla sofferenza, sia la nostra che quella altrui».

Una riflessione, quella della rivista, che non a caso inizia con il racconto di una perdita, di un dolore radicale e di un difficile perdono, riportato dalla teologa presbiteriana Pamela R. McCarroll: il percorso interiore di sofferenza e rinascita di Nora Melara-López, moglie del giornalista e attivista per i diritti umani honduregno José Eduardo López, arrestato e selvaggiamente torturato nel 1981, fuggito dal Paese un anno più tardi ma costretto a farvi ritorno dopo il rifiuto da parte del Canada della sua domanda di riconoscimento dello status di rifugiato («non essendovi timore fondato di persecuzione») e nuovamente sequestrato nel 1984 dalle forze di sicurezza, torturato per giorni, giustiziato e sepolto in un cimitero clandestino. È l’esperienza di una «disconnessione da Dio che li aveva abbandonati, che aveva dato via libera al male e aveva punito il bene», di un disorientamento disperato rispetto all’evidenza di qualcosa di profondamente sbagliato nel mondo: «le brave persone minacciate, torturate, assassinate, messe a tacere e il male che può accrescersi incontrollato». L’esperienza degli immancabili “perché” che, come commenta McCarroll, frantumano «i concetti dell’inevitabilità della giustizia, del bene e del senso della vita», scagliandosi «contro la fede in un Dio onnipotente che ci ama», al punto da generare a volte un «ateismo rabbioso», ma che possono anche aiutare a far emergere «una conoscenza più vera della presenza divina e del suo operato», una «Presenza santa che piange e il cui potere è sempre e soltanto riconoscibile nel potere dell’amore di trasformare dal di dentro le vite umane e le relazioni». È la transizione dal “Dio onnipotente”, morto dinanzi all’evidenza schiacciante del male e dell’ingiustizia, al “Dio piangente”, presente «proprio nel mezzo della vita vera, richiamandola ad azioni redentrici e a vedere di nuovo la bellezza dell’esistenza»: la stessa transizione che segna il percorso umano di Nora, indotta dalle parole del marito dopo il primo sequestro – «Non possiamo odiare i miei aguzzini. Sono solo dei prodotti di questa società» – a perdonare i torturatori di suo marito, accettando anche di incontrare uno di loro, forte della convinzione che l’eredità lasciata dalla vita di Eduardo «valesse molto più della sua morte». E che è possibile cogliere anche nella vicenda del giornalista Antoine Leiris, il quale, dopo aver perso la moglie Hélène nell’attentato terroristico al Bataclan, il 13 novembre 2015, ha scritto una lettera, dal titolo “Non avrete il mio odio”, in cui, rivolgendosi agli assassini, afferma: «Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore». Una vicenda da cui parte la teologa brasiliana Maria Clara Bingemer per evidenziare come, «in mezzo al male e alla violenza, l’amore non può vendicare o rispondere al male con il male: può soltanto soffrire, morire, resistere». E come pertanto, «davanti alla sofferenza dell’innocente, non c’è altro luogo per l’amore, e pertanto per Dio, se non immergersi dentro la sofferenza, al fianco del più debole e oppresso, soffrendo con lui».

Ma, più ancora che la morte del Dio onnipotente, è il superamento del presupposto mitico premoderno di un mondo-senza-male la chiave che consente di accostarsi in modo nuovo al problema della sofferenza nel mondo, sfuggendo alla trappola del paradosso di Epicuro – se Dio non vuole impedire il male, non è buono; se non può, non è onnipotente -, una trappola che si ripropone ad ogni catastrofe naturale e ad ogni disgrazia individuale. Solo interpretando la presenza del male e della sofferenza come conseguenza inevitabile dell’autonomia di un mondo finito, infatti, Dio non apparirà più, come mostra mirabilmente in questo numero di Concilium il teologo Andrés Torres Queiruga, chi permette quando potrebbe evitare o chi non vuole intervenire potendo farlo (quando non, addirittura, chi causa direttamente il male): «Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio». Ed è solo così che si riscatta in maniera piena «la tenerezza infinita della bontà divina»: «Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariamente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio». E se l’unica questione diventa allora quella di «creare o non creare», è facile rispondere che, se ha deciso di farlo, «è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente» vincere il male. È qui, infine, che si incontra il significato autentico della croce, in quanto «in Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti, per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci».

Cosicché, come sottolinea il teologo brasiliano Alberto da Silva Moreira, «la grande domanda per i cristiani non è sapere dov’è Dio nella sofferenza, ma perché mai le persone non si ribellano contro l’ingiustizia e il male che le colpiscono, poiché avrebbero Dio dalla loro parte».

proponiamo ampi stralci dell’intervento di Torres Queiruga.

Ripensare la teodicea

ripensare la teodicea 

Andrés Torres Queiruga 

 

da: Adista Documenti n° 31 del 17/09/2016

 

La teodicea attuale non può evitare il duro interrogativo della sofferenza. Ma, prigioniera com’è del suo retaggio culturale, sembra incapace di dare risposte. Il suo orizzonte è confuso, fino alla contraddizione. Di fronte alla sfida moderna, essa condivide con la critica atea un presupposto mitico, premoderno: dare per scontata la possibilità di una creazione senza sofferenza, di un mondo-senza-male. Nascosto nel dilemma di Epicuro, tale presupposto continua ad alimentare la sua forza devastatrice. Una volta smascherato criticamente, diventa evidente il suo anacronismo, viene disciolta la sua logica e smontata la sua validità.

Allora risulta possibile una teodicea veramente attuale, che a) colloca il problema all’interno delle esigenze e delle possibilità della cultura laica o secolare, b) preserva il “mistero”, mostrando il suo vero posto nella risposta religiosa, c) riscatta la coerenza della fede in un Dio buono e onnipotente e d) recupera l’intenzione centrale del messaggio biblico e la logica profonda che, nonostante tutto, ha sempre abitato la teologia tradizionale.

I/ IL DILEMMA DI EPICURO, UNA SFIDA PREMODERNA

Il dilemma di Epicuro – «Se Dio può evitare il male e non lo fa perché non vuole, allora non è buono; se vuole e non lo fa perché non può, allora non è onnipotente …» – è antico quasi quanto la filosofia e ha rappresentato sempre una dura sfida per la religione. È sorto in una cultura precedente la rivoluzione della Modernità. Allora era normale dare per scontati tanto la possibilità mitica di un mondo paradisiaco e senza male, quanto i continui interventi divini o demoniaci. La scoperta dell’autonomia del mondo, che obbliga a studiare i problemi analizzando la sua struttura e il suo funzionamento, mostra che la finitudine (…) implica due fondamentali conclusioni: 1) che il paradiso è impossibile, per la stessa ragione per cui lo è un cerchio-quadrato o un triangolo-rettangolo-equilatero su una superficie piana; 2) che è necessario cercare all’interno del mondo le cause di quanto in esso avviene. La conclusione fondamentale risulta evidente: il dilemma contiene un pregiudizio che lo rende assurdo. Sarebbe come argomentare che Dio non è buono perché, potendo, non vuole fare cerchi-quadrati; o che non è onnipotente perché, volendo, non può fare ferri-di-legno (l’esempio del triangolo dimostra che vedere il non senso può risultare difficile all’interno di realtà complesse; per cui può passare inosservato che un mondo-senza-male sarebbe un mondo-finito-infinito).

L’Antichità ha potuto fare suo quel dilemma, perché il pregiudizio non era avvertito culturalmente e in quel contesto la fede religiosa era pacificamente accettata: il pagano Epicuro, che lo ha proposto, continuava ad ammettere gli dèi; e Lattanzio, che lo ha divulgato, rimaneva cristiano. Nella Modernità invece la situazione risulta paradossalmente ambigua. La sensibilità culturale moderna percepisce con forza la contraddizione; Bayle e Voltaire, pur non divenendo atei, hanno preannunciato la crisi; Hume si è spinto oltre, e Büchner pronuncerà infine la sentenza: la sofferenza è la “roccia dell’ateismo”. Anche la sensibilità religiosa percepisce la contraddizione, e nasce la “teo-dicea”.

Lasciare irrisolto il dilemma costituisce una evidente incongruenza. Di più per la fede, che lo accetta, ma cerca di eluderne la logica: come credere che Dio sia infinitamente buono e potente, se, essendo possibile, non vuole o non può creare un mondo-senza-male? Incongruente lo è parimenti per l’ateismo moderno: con quale logica quest’ultimo dà per scontata la possibilità di un mondo-senza-male? E come fa a rispettare l’autonomia del mondo, se nega Dio a motivo del fatto che non interviene interrompendo le leggi fisiche durante il terremoto di Lisbona oppure annullando la libertà umana durante la Shoah?

II/ UNA PARTENZA GIUSTA, FATALMENTE SPRECATA

È curioso: proprio all’apice della sfida si è intuito l’inganno e si è cominciato a dare la vera risposta. Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) e il vescovo William King (1650-1729) – costui ingiustamente poco studiato, sebbene già elogiato da Leibniz – hanno percepito la contraddizione e hanno proposto un’impostazione culturalmente laica. Prima di andare a cercare la spiegazione in cielo, hanno cominciato a osservare la terra: il male è inevitabile a motivo della costituzione finita del mondo. Pensare un mondo-senza-male sarebbe come pensare un mondo-infinito; ma infinito può essere solo Dio. Essi hanno denunciato, pertanto, un’impossibilità essenziale e costitutiva. Nell’Essai de Théodicée Leibniz argomenta che il male nasce da una impossibilità creaturale: «Dio attribuisce tanta perfezione alle creature, quanta ne può ricevere l’universo» (§ 335); «Dio infatti non poteva darle [alla creatura] tutto senza fare di essa un Dio» (§ 31).

All’epoca era inevitabile la contaminazione teologica del linguaggio. Oggi invece risulta possibile – ed ermeneuticamente obbligato – riscoprire, al di là dei limiti del testo, la forza laica del significato, che avviava – anche assegnando il nome di teodicea – una nuova tappa. Purtroppo, la critica di ciò che era accessorio ha impedito la percezione di ciò che era fondamentale: la teologia ha continuato a rimanere ancora prigioniera del fondamentalismo biblico e tradizionale (…). È stata un’autentica catastrofe culturale: sprecata questa occasione, il presupposto mitico del rnondo-senza-male ha continuato a rimanere vigente.

Non del tutto però (…). Sono apparse teorie che, come quelle ireneane (dal filosofo e teologo del II secolo Ireneo,  secondo cui la crescita spirituale richiede il libero arbitrio e l’esperienza del male, ndr), difese da John Hick (1922-2012), e quelle del processo, a partire da Alfred North Whitehead (1861-1947), ne riconoscono l’“impossibilità” e cercano nuove strade. Significativamente, Whitehead, senza far riferirnento a Büchner, parla del male come “roccia” del problema, anziché dell’ateismo. E Schubert M. Ogden (n. 1928) arriva a definirlo “pseudoproblema”, poiché «nasce soltanto sul presupposto di alcune premesse del teismo cristiano classico, che sono incoerenti anche al di fuori del problema del male».

Il compito attuale consiste nel rendere tematicamente esplicita la portata di questa intuizione fondamentale, evitando che la persistenza implicita del fantasma del mondo-senza-male continui a contaminare il problema.

III/ LA TEODICEA NEL MARASMA DELLE INCONGRUENZE

Come il rivelatore in un processo chimico, non appena si scopre il presupposto del mondo-senza-male, si chiarisce il quadro teodiceico: la confusione appare come conseguenza inevitabile. Schematizzando, bisogna distinguere due orientamenti fondamentali: teorie che riconoscono espressamente la logica del dilemma e teorie che, pur senza dirlo, la presuppongono.

Le prime, per rigettare l’ateismo, modificano radicalmente l’idea di Dio. Tre casi riferiti all’Olocausto lo dimostrano in modo esemplare, e la loro chiarezza logica ci risparmia tanti discorsi. Hans Jonas nega l’onnipotenza, poiché Dio non ha potuto impedirlo; David Blumenthal nega la bontà, poiché, potendo, non volle impedirlo (è buono, ma crudele e non “onnibenevolente”); Jean-Pierre Jossua, evitando conclusioni tanto estreme, nega la comprensibilità. (…).

Il secondo orientamento, meno radicale, evita conseguenze così drastiche. Ma il suo disagio risulta evidente: nega la conseguenza, ma non può spezzarne la logica. E le risposte manifestano la tipica ambiguità delle “soluzioni insoddisfatte”: tendono logicamente verso uno dei poli estremi, ma rimangono a metà strada.

Al suo interno, la reazione più emotiva riconosce l’impasse, negando la legittimità della teodicea in tre modi. 1) È impossibile e non necessaria, per inconsistenza logica e perché Dio non ha bisogno di difesa (senza avvertire che non si tratta di giustificare la realtà di Dio, ma la nostra idea: non si giustifica il sole quando si rifiuta il geocentrisrno). 2) È smobilitante, poiché la comprensione “giustifica” il male e paralizza l’azione (mentre la diagnosi, lungi dal giustificare la malattia, incoraggia a lavorare per la terapia). 3) È nociva e anche “eretica”, “blasfema” e “diabolica”, insistendo su ciò che conduce a una visione teista, complice o colpevole delle disgrazie naturali e dei crimini umani (rendendo tale concetto una caricatura realmente offensiva per coloro che continuano – per noi che continuiamo – a parlare di un Dio creatore, libero, amorevole e salvatore).

Più numerosa è la posizione di chi, sforzandosi di mantenere integra la fede biblica, modifica i termini della questione senza arrivare alla negazione. Ma glielo impedisce il presupposto del mondo-senza-male.

1) Si afferma l’onnipotenza, ma si parla di un Dio “sofferente”: posizione rispettosa e corretta, quando nega l’impassibilità divina; ma inconsistente, quando cerca di giustificare il male, includendo Dio in esso. Poiché, in tal caso, o si trascendentalizza ed eternizza il male in Dio, come è stato argomentato contro Moltmann, oppure si include Dio nella nostra miseria, rendendolo incapace di salvarci, come hanno evidenziato Rahner e Metz. Il ricorso, così antico, alla kénosis incorre nella stessa ambiguità (se è funzionale, implicherebbe “non vuole”; se ontologica, porterebbe al “non può”). Lo stesso avviene quando si argomenta con la croce (non sempre distinguendo dovutamente tra Gesù e Dio), esponendosi all’accusa cinica che non ha senso condividere il dolore che era possibile evitare in precedenza.

2) Mettere in discussione la bontà risulta più difficile; ma, con un certo sostegno fondamentalista, si può arrivare a parlare del “lato oscuro” di Dio o a mantenere categorie come “ira” o “castigo”; come pure si cerca un equilibrio impossibile, affermando energicamente la bontà e l’onnipotenza nel momento in cui, prendendo alla lettera determinati testi biblici, si attribuisce a Dio anche causalità diretta nel male.

3) La incomprensibilità è un argomento frequente e molte volte giustificato, ma non sempre sfugge al rischio di coprire con il “mistero” divino contraddizioni logiche molto umane. Inoltre, permane latente l’influenza di un biblicismo diffuso che, basato soprattutto sul libro di Giobbe, tratta con lo stesso valore testi di epoche diverse. Talvolta serve da argomento per delegittimare la teodicea, interpretando come definitivo il “silenzio” finale di un libro che si sviluppa negando certamente il retribuzionismo deuteronomico, ma che non raggiunge ancora la pienezza evangelica.

Forse però niente spiega l’enorme influsso del pregiudizio meglio di due esempi che, provenendo da grandi teologi come reazioni profondamente rispettose, risultano dei sintomi molto rivelatori. Il primo, citatissimo, è di Romano Guardini, che sul proprio letto di morte confidò a un amico: «Sono pronto a presentarmi al cospetto del Giudice divino e a rispondere alle sue dornande sulla mia vita; ma anch’io avrei da porre alcune domande al Giudice: domande sul dolore dei bambini innocenti». Il secondo è di Karl Rahner che, ponendo espressamente la domanda: «Perché Dio permette (lässt) che soffriamo?», finiva col rispondere che la bontà divina «non può essere dichiarata innocente davanti al nostro tribunale».

IV/ ATTUALIZZARE LA TEODICEA

Partire dall’impossibilità di un mondo-senza-male non solo chiarisce le difficoltà, ma ci permette anche di rinnovare l’impostazione.

Prima di tutto, situa la domanda al suo giusto livello, eliminando il falso problema (Ogden) di porla immediatamente all’interno della religione. Ripeto: sarebbe come mettere in discussione la bontà o l’onnipotenza di Dio perché non vuole o non può fabbricare ferri-di-legno. L’unica dornanda sensata non è: perché Dio non elimina il male? Bensì: perché crea il mondo nonostante il male inevitabile? Detto più concretamente: vale la pena esistere? Hanno senso la storia e il mondo? Come si vede, è una domanda pre-religiosa, radicalmente umana, perché il male – fisico o morale, attivo o passivo – costituisce una sfida per tutti, credenti o non credenti.

Questo ci obbliga a compiere un ulteriore passo, che ristruttura l’intero approccio: prima della teodicea propriamente detta, tutti dobbiamo affrontare la sfida comune. Allora ogni posizione appare come risposta particolare a una domanda universale. Il discorso teodiceico esige così una triplice struttura.

1) La ponerologia (dal greco ponerós, “male”), una trattazione sull’origine del male, che elabora sistematicamente la conclusione, qui solo indicata: la finitudine rende impossibile un mondo-senza-male, svelando il carattere inevitabile della sua apparizione, come sfida per tutte le risposte.

2) La pistodicea (da pístis, “fede” in senso ampio, e dikein, “giustificare”) è il riconoscimento della comunità generica di tutte le posizioni, trasformate in risposte specifiche, che devono “rendere ragione” di se stesse (…). Tutte sono discutibili e “misteriose”; propriamente chiamate ad affrontare insieme la sfida comune, sostituendo lo spirito di polemica con quello di dialogo, critica e collaborazione.

3) La teodicea tradizionale appare nella sua specificità di “pistodicea cristiana”: una tra le altre, con uguale onere di prova e identico diritto di difesa. Ritengo che allora, debitamente attualizzata, non solo può negare il “fallimento” sentenziato ed evitare il marasma reale; ma può anche garantire la sua logica, senza rinunciare al mistero, e può ripensare la tradizione, recuperandone i valori.

V/ LA LOGICA DELLA TEODICEA

Nel constatare la fattualità assoluta del male come possibilità inerente alla finitudine, essendo la condizione (…) della stessa esistenza, l’interrogativo posto alla religione non può essere perché Dio non elimina il male – significherebbe negare il mondo -, ma come Dio lo affronta e lo combatte. Si chiariscono così questioni estremamente decisive.

1) Si ristabiliscono nella loro piena luce tutti gli attributi divini: lungi dal metterli in discussione, il male – smascherato come inevitabile – sottolinea la tenerezza infinita della bontà divina, basata sulla fedeltà incrollabile della sua onnipotenza. Poiché, creando per amore, Dio crea esclusivamente cercando il nostro bene, qualunque nostro male si oppone parimenti a lui. Ancor di più, prioritariarnente a lui, poiché anche una madre può sentire come più propri i dolori che colpiscono il figlio. Sostenuta dall’onnipotenza, la creazione smentisce l’obiezione superficiale di una qualche “irresponsabilità” divina, poiché fonda una speranza realista la quale, rispettando l’autonomia creaturale e supportando il lavoro della storia, assicura che Dio ha l’ultima parola: la stessa morte è vinta… (1Cor 15,26). (…).

Ciò non significa che il ristabilimento della coerenza dispensi la pistodicea cristiana – come pure quella atea o agnostica! – dall’affrontare le sue difficoltà specifiche. (…). Come (…) l’obiezione radicale: se la liberazione piena risulta possibile escatologicamente, perché non ora? (…). La fede deve affrontarla. E io credo che possa farlo mostrando come, dopo la rottura della “finitudine-storica” dopo la morte, si possa realizzare pienamente la dialettica dell’amore, dove il “tuo” di Dio si fa “mio” della creatura. La teodicea trova qui – come tutta la teologia – il mistero della pienezza escatologica.

2) Quando l’impossibilità del mondo-senza-male viene presa realmente sul serio, si produce una specie di kehre o capovolgimento di tutta la questione. Di fronte alla “logica-per”, si instaura una rigorosa “logica-nonostante”: nonostante le apparenze, Dio è presente; nonostante il male, il mondo vale la pena. Segnaliamo tre conseguenze di particolare rilievo.

a) Permette di eliminare la tenace “contaminazione teleologica” che tocca anche le teodicee che, come quella “ireneana”, pur riconoscendo la inevitabilità del male, tendono a ricadere nella logica-per: per rendere possibile la libertà o la realizzazione umana (…).

b) Risponde all’obiezione dei mali “orrendi” o senza-senso (grandi catastrofi, morte di bambini innocenti). La sua umanissima forza emotiva è indubitabile, ma essa poggia su un’occulta congiunzione tra il presupposto del mondo-senza-male e la contaminazione teleologica. (…). Ogni male è ingiustificabile e privo di senso, non per questo o quell’aspetto, ma in se stesso, semplicemente come male: una crepa nella creazione (Büchner), alla stregua di un genocidio. Se fosse possibile, nessun male dovrebbe esistere; e certamente Dio non potrebbe volerlo. Dio vuole il mondo per se stesso, unicamente per il suo bene e nonostante il male. Il male, qualunque male, è pura fattualità senza giustificazione esterna; compare solo perché la sua possibilità coincide con la possibilità stessa del mondo. Creare o non creare: questa è l’unica questione. Poiché ha creato per amore, ogni azione di Dio è salvifica, di lotta contro il male. E se ha deciso di creare, è perché – nonostante Epicuro – vuole e può finalmente vincerlo.

c) Chiarisce il fenomeno particolarmente grave della denuncia contro Dio. Partendo dal giustissimo principio che nella preghiera si può esprimere di tutto, esiste – a volte quasi come una moda teologica – una diffusa tendenza a giustificare la denuncia e la protesta, non solo “di fronte” a Dio, ma anche “contro” Dio. La giustezza dell’indignazione, però, non deve nascondere – per quanto si invochi Giobbe – la sua profonda ambiguità, non solo perché logicamente svia e spreca contro “Dio” l’energia della protesta contro il male, ma soprattutto perché sul piano teologico risulta insopportabilmente ingiusta di fronte all’infinito amore divino. Protesta il bambino contro la madre che passa notti al suo capezzale o l’adulto ammalato contro il medico che si sacrifica cercando di curarlo? L’espressione con cui Karl Barth, per temi meno delicati, deplorò in Silesius alcune «pie insolenze (frommen Unverschämtheiten)», rappresenta un sano avvertimento di fronte a espressioni che possono oscurare l’unica certezza: che Dio è sempre al nostro fianco contro qualsiasi tipo di male. La liturgia del Venerdì santo contiene la migliore teologia: «Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta!».

VI/ RECUPERARE I VALORI DELLA BIBBIA E LA TRADIZIONE

I rinnovamenti possono essere visti come negazione o sottovalutazione del passato. Non è sempre così, e certamente non lo è in questo caso. Al contrario: quanto da noi proposto permette di recuperare valori che, essendo, propriamente evidenti nella Bibbia e nella tradizione, sono rimasti nascosti a causa di fattori culturali.

1) Anzitutto,  fa risplendere l’intenzione più evidente ed elementare della Bibbia, il cui filo rosso è la compassione divina per le sofferenze umane, con l’appello – di Dio a noi, non di noi a Dio! – a collaborare contro il male: «Non è forse questo che significa conoscermi?» (Ger 22,16), dicono i profeti; «Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste» (Lc 6,36), dice Gesù. In effetti, l’ipotesi che Dio, se volesse, potrebbe eliminare il male, non risulta soltanto incongruente: è qualcosa di molto più grave, poiché priverebbe di senso il nucleo del messaggio biblico, puntandolo tutto su qualcosa che si sarebbe potuto conseguire semplicemente volendolo prima.

2) Precisa il significato autentico della croce, troppe volte interpretata “al rovescio”, isolando il destino di Gesù dal nostro, come se il suo fosse un mezzo per dimostrare la compassione divina. La verità è più semplice e più divinamente realista. In Gesù si rivela definitivamente il comune destino umano: per lui, come per noi, il male è risultato inevitabile; ma parimenti: per noi, come per lui, Dio ha l’ultima parola risuscitandolo/ci. Le teologie che parlano di “castigo”, “pagamento del riscatto” o di “conflitto tra Dio e Dio” dimostrano un’ambiguità pressoché teologicamente intollerabile.

3) Riscopre e legittima la logica implicita della tradizione quando confessa la bontà e l’onnipotenza, nonostante il dilemma irrisolto accompagni come un’ombra d’insoddisfazione logica la teodicea tradizionale. Lo ha potuto fare perché la (sub) coscienza di una logica più profonda perpetuava la certezza che “doveva pur esistere” una spiegazione. Questa logica esiste ed è rigorosa, poiché poggia sulla fiducia: se Dio è amore infinito, profondamente compassionevole verso la nostra sofferenza, il male “dev’essere” inevitabile, sebbene (ancora) non sappiamo spiegarlo. Vedere una madre curva sul suo bambino malato dimostra, con logica rigorosa, che lo curerebbe se solo fosse possibile. (…). Isaia lo ha intuito: anche se la madre dimenticasse il suo figlio, Dio no (Is 49,15). (…).

Ho chiamato tale processo “via corta della teodicea”. L’astrazione del ragionamento non dovrebbe dimenticare la sua umanissima profondità, che ha alimentato e continuerà ad alimentare le valli oscure della vita (Sal 22). Quando vengono meno i ragionamenti, rimane sempre lo sguardo verso la croce; quando l’angoscia o la colpa minacciano, vi è la fiducia, poiché (…) quando la sofferenza sembra prevalere, né morte né vita, né altezza né profondità… potranno separarci dall’amore di Dio (Rm 8,35-39). (…).

Confesso che questa via mi stupisce ogni giorno di più, e sicuramente sarà sempre l’ultima risorsa nelle grandi crisi. A differenza del passato, però, il crollo dell’evidenza socio-culturale e la comparsa dell’obiezione atea obbligano oggi a completarla con la “via lunga”. Questo lavoro è in corso, incoraggiando numerosi tentativi. (…).

4) Il recupero di valori non si limita a questo aspetto fondamentale, ma permette di rivisitare temi assai decisivi. Cominciando dalla struttura stessa della storia della salvezza. Tradizionalmente, suppone una cosa fondamentale: il male non viene da Dio. Ma la possibilità del “paradiso” svia l’interpretazione, (…) presentando il Dio del perdono come un giudice ingiustamente e smisuratamente implacabile, che castiga una mancanza umana con tutto l’orrore del male.

Avendo più spazio, si potrebbero riesaminare temi del tutto decisivi, come (…) il modo di interpretare la provvidenza, l’elezione, il miracolo, la preghiera di domanda. Quest’ultima, in particolare, proprio per i grandi valori a cui si associa, possiede un’efficacia terribile nell’alimentare l’immaginazione che Dio può, ma non sempre vuole; che abbiamo bisogno di ricordarglielo, di convincerlo, a volte con sacrifici e per mezzo di intercessori… e non sempre otteniamo. La conseguenza è un’immagine rimpicciolita di Dio e, spesso, culturalmente scandalosa (mentre scrivo queste righe, leggo di una convocazione di preghiera per chiedere la pioggia).

VII/ DIO CONTRO LA SOFFERENZA: DALLA “ROCCIA DELL’ATEISMO” AL DIO ANTI-MALE

(…). Dal momento che il grande volto del male è la sofferenza, una teodicea viva deve educare la sensibilità, plasmando le reazioni emotive e le abitudini linguistiche, per imprimere nelle coscienze e nella cultura il volto vero di Dio: sempre a nostro fianco contro la sofferenza. Deve eliminare i fantasmi blasfemi di un “dio” che determina la morte, manda o permette la malattia (ha senso dire che una madre “permette” la malattia di suo figlio?) o anche le catastrofi o i genocidi: non solo gli atei hanno domandato dov’era Dio ad Auschwitz e perché ha taciuto o consentito! Ricordare queste cose è ingiusto per molti credenti, e certamente duro per tutti; ma più duro e ingiusto sarebbe continuare senza affrontare tali questioni che toccano il cuore stesso della fede.

La teologia è oggi in condizioni di farlo. Interrotta l’ipoteca premoderna (…), è possibile una teodicea religiosamente autentica e culturalmente legittima. Dio è il go’el, l’avvocato della causa umana in un mondo tormentato dalla sofferenza individuale e dalla tragedia collettiva. La teodicea deve mostrare che la sofferenza, dall’essere “roccia dell’ateismo”, può trasformarsi in rivelazione di Dio come l’Anti-male.




il dialogo interreligioso

croce

 

Il dialogo interreligioso

di Andrés Torres Queiruga
in “Missione Oggi” n. 7 del agosto-settembre 2013

Dagli atti del convegno di Missione Oggi, su “Siamo gli ultimi cristiani? Alle soglie di un nuovo mondo”, riprendiamo l’intervento del teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga sulla missione in tempo di pluralismo religioso. Il problema del dialogo tra le religioni oggi si pone in modo nuovo e richiede un cambiamento di mentalità: vedere l’altro non più come un concorrente, ma come un compagno di ricerca. Ogni religione è vera, nel senso che tutte le religioni sono parzialmente vere e quindi non nella stessa misura, tutte hanno qualcosa da insegnare e da imparare. Il dialogo religioso è un vero processo. Accanto alla Bibbia (ritenuta dai cristiani la rivelazione più completa) altre rivelazioni. Gesù unico salvatore e volontà salvifica universale: una unicità non escludente. Oltre l’esclusivismo  (nessuna salvezza fuori della chiesa), oltre l’inclusivismo (tutta la verità delle altre religioni è già inclusa nel cristianesimo). Per l’universalismo asimmetrico (‘finesettimana’-rassegna stampa)

 

Il problema del dialogo tra le religioni è antico quanto l’umanità, poiché in un modo o nell’altro le diverse tradizioni religiose sono sempre state in contatto e si sono sempre influenzate reciprocamente. La stessa Bibbia, quanto più ne conosciamo la genesi e le complesse evoluzioni nella storia, appare un modello di questo dialogo interno: religioni molto più antiche, come quelle mesopotamiche ed egizie, ne accompagnarono la formazione, influenzando profondamente tanto i libri cosiddetti storici quanto quelli profetici, dei salmi e sapienziali. Ma indubbiamente il fenomeno acquista oggi un’intensità eccezionale, non solo per l’esponenziale intensificazione dei contatti, ma anche perché la necessità di un dialogo aperto e riflessivo tra le diverse religioni si è imposto con evidenza nel pensiero religioso attuale. In realtà il problema è divenuto così urgente che comporta un radicale cambiamento nel modo di affrontarlo, un autentico mutamento di paradigma. E questo implica la necessità di una profonda trasformazione non solo nei nuovi concetti, ma anche negli atteggiamenti e nei sentimenti. Un nuovo modo di avvicinarsi all’altro, in cui è opportuno vedere non più un concorrente, ma un compagno di ricerca; perciò davanti al Mistero comune risulta privo di senso insistere sul “tuo” e sul “mio”, giacché, essendo identica la ricerca e comune il Mistero, il mio è anche tuo come il tuo è ugualmente mio e tutto è di tutti.
ogni religione è vera Troppe volte ci è stato detto che Dio ci ha creato “per la sua gloria” o affinché “lo servissimo”; un’idea che — almeno in senso letterale — risulta chiaramente contraddittoria col suo Essere. Infatti, persino sul piano filosofico — Dio come Pienezza assoluta — e naturalmente in una concezione cristiana — Dio come amore (1Gv 2,4-8) — è ovvio che, se Dio crea, può essere solo per dare, per regalare. Nella creazione, ben intesa, l’unico interesse di Dio siamo noi: tutto in noi e tutti e tutte noi. Per questo la teologia attenta a questo dato fondamentale deve ripensare molto a fondo l’idea di rivelazione. Si deve capire che dall’inizio della creazione Dio, come Padre/Madre che crea per amore, cerca di manifestarsi nel modo migliore e più pieno possibile a ogni donna e a ogni uomo, a ogni razza e a ogni cultura. La creazione è già salvezza, sforzo amoroso di Dio per manifestarsi e salvarci. I limiti — che, per disgrazia, sono così certi, duri ed evidenti — non derivano dalla sua mancanza di generosità, ma dalla nostra piccolezza: finiti, non siamo capaci di comprendere l’infinito; mondani, ci è molto difficile cogliere in qualche modo il Trascendente; finitamente liberi, resistiamo spesso ad accoglierne la manifestazione. Però qualcosa Dio riesce a ottenere nella lunga pazienza storica della sua “lotta amorosa” coi nostri limiti e le nostre resistenze. Osservando bene, questo spiega la storia delle religioni, che, in definitiva, consiste nella lenta, difficile e tortuosa percezione umana di quanto Dio cerca da sempre di rivelare. Ogni religione è un modo di configurare in credenza, rito e prassi questa percezione nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo —varrebbe la pena dilungarsi su questo punto —non c’è privilegio né “elezione”: gli stessi profeti sono stati nella Bibbia molto critici su questa categoria e, contro le pretese elitarie, lo stesso Giovanni Battista avvisava che “Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre” (Mt 3,9; cfr. le parole di Gesù in Gv 8,33-40). Di conseguenza, e col massimo rigore, è opportuno porre come principio fondamentale: ogni religione è vera. In questo senso fondamentale ciò, infatti, equivale esattamente ad affermare che ogni religione è una percezione della presenza rivelatrice e salvatrice di Dio. Lo è, certo, in modo umano, cioè carente e limitato, con una mescolanza di errori e oscurità, progressi e passi indietro, deformazioni e persino perversioni molte volte terribili. Cosa che vale per tutte, compresa quella biblica nella sua storia reale, e non solo, come si potrebbe pensare, per le religioni più “arretrate” o “primitive”. In realtà, il principio deve, allora, essere riformulato: “Tutte le religioni sono
parzialmente vere”. Constatazione decisiva per tre fondamentali motivi. Prima di tutto, perché proprio per questo una riflessione realista comprende che, come succede in tutto ciò che è umano, pur essendo tutte vere, non lo sono nella stessa misura: per eliminare ogni dubbio è sufficiente uno sguardo alla storia delle religioni o alla stessa attualità, In secondo luogo, perché allora diventa evidente che, nessuna essendo perfetta e conclusa, tutte hanno qualcosa che alle altre manca e quindi in tutte e in ciascuna c’è sempre qualcosa che possono insegnare e qualcosa che devono apprendere. Il che, in terzo luogo, mostra qualcosa di decisivo: che il dialogo religioso, qualunque siano i partecipanti, può e deve essere un processo reale, che chiede al contempo apertura e umiltà, disponibilità a dare e a ricevere, atteggiamento critico e recettività autocritica.
fine del “bibliocentrismo” Riconoscere la nuova situazione e accettare gli atteggiamenti che essa comporta implica una disposizione esigente a non resistere al cambiamento e ad aprirsi al rinnovamento. In termini religiosi, implica una metanoia, cioè un “cambiamento di mente”, una conversione. Una cosa che non accade mai senza inevitabili rinunce, ma che, se ben condotta, è anche sempre carica di promesse. Questo coinvolge, come è logico, tutte le religioni, ma qui, per realismo e modestia, dobbiamo concentrarci sulla nostra. Al suo interno ci sono due punti che devono essere posti in primo piano. Il primo è l’inevitabile fine del “bibliocentrismo”. Se, come si è detto, tutte le religioni sono — nella propria, ma reale, misura — rivelate, risulta evidentemente impensabile che la Bibbia sia un libro assolutamente unico, per cui solo in esso sia adeguato parlare di rivelazione divina. Riconoscerlo implica situarla nel continuum dei diversi libri e delle diverse tradizioni sacre dell’umanità. Il che, in partenza, non le concede alcun privilegio; ma ha il grande vantaggio di rendere possibile il dialogo critico reale con tutte. In questo modo, senza pericolo di imposizione di alcun tipo, la tradizione biblica può dispiegare la propria profondità e ricchezza, offrendola alle altre religioni, mentre si lascia interrogare e, a sua volta, arricchire da loro. Perché allora, all’interno di questo dialogo e ormai a posteriori, ci sarà spazio per stabilire paragoni e rendere evidenti i motivi per cui noi cristiani crediamo che nella Bibbia si sia raggiunta una rivelazione che nel suo insieme — non in tutti i dettagli! — risulta la più completa e riveste addirittura carattere ultimo e definitivo.
significato della rivelazione in Cristo Si tratta, come si vede, di un tema delicato e decisivo. Però più delicato e decisivo risulta il secondo, peraltro intimamente collegato: il significato che noi cristiani attribuiamo al culminare della rivelazione in Cristo. Nel linguaggio della “confessione” gli Atti degli Apostoli arrivano ad affermare: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Però la riflessione più austera della “teo- logia” deve precisare l’intenzione oggettiva, cercandone il vero significato, in modo che non contraddica la volontà salvifica universale di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1 Tm 2,4) né, come ha detto il Concilio, neghi tutto quanto nelle altre religioni “c’è di vero e santo”. Da subito è opportuno riconoscere, allora, che non può trattarsi di una negazione che escluda gli altri, ma di un’affermazione cordiale ed entusiasta del proprio vissuto, così tipica del linguaggio dell’amore: “Tu sei unica o unico per me”. Per tanto non può mai indicare una dialettica intransigente del tutto o niente, del vero e falso, ma un dialogo cordiale del buono e migliore, del vero o più vero, nella consapevolezza che la conclusione non si può proclamare a priori né, tanto meno, imporre con la forza, ma deve essere frutto di analisi critica e discussione dialogante. Questo è peraltro quanto accade di fatto: chi sceglie di appartenere a una religione sta manifestando, con coscienza più o meno esplicita e rigorosa, che nel suo insieme la considera migliore, più completa e convincente delle altre. Il che succede anche in religioni che, come l’induismo o il buddhismo, paiono proclamare l’uguaglianza di tutte. “Coloro che adorano altri dei con fede e devozione, adorano anche me, anche quando non osservano le forme usuali. Io sono l’oggetto di ogni adorazione, il suo recettore e Signore”, dice Krishna (Bhagavad-Gita IX). Pericolosa non è la
scelta, ma il dogmatismo; non è la scelta, ma l’esclusivismo. Inoltre, com’è indicato all’inizio, un atteggiamento aperto e umile davanti al Mistero non cerca di appropriarsi di nulla, ma di condividere tutto, vedendo in ogni differenza non una minaccia, ma una promessa di progresso e completamento.
insufficienza delle categorie: esclusivismo, inclusivismo, universalismo Il cambiamento che tutto ciò presuppone fa sì che le categorie finora usate per affrontare il problema risultino oggi insufficienti. Alcune in modo così chiaro da esigere semplicemente un rifiuto. Altre, mostrandosi utili, chiedono di essere profondamente riformulate. Alle prime appartiene, senza dubbio, l’esclusivismo, il quale presupponeva — letteralmente —che tutte le persone collocate fuori dall’orbita cristiana fossero destinate alla condanna eterna: è il famoso “Nessuna salvezza fuori della Chiesa”. Francis A. Sullivan, che fa la storia dettagliata della “atroce formulazione di questa dottrina”, indica che su questo punto ancora “nell’ultimo quarto del XVIII secolo erano sostanzialmente d’accordo” cattolici e protestanti. Oggi la semplice formulazione suscita un rifiuto così istintivo che costituisce la migliore dimostrazione della sua falsità. Si capisce che di fronte a questa teoria sia nato l’ inclusivismo, che ha costituito un grande progresso. Il suo fondamento cordiale, che costituisce la sua verità incancellabile, si radica nel riconoscimento che salvezza e bontà non sono esclusive dei cristiani, ma sono anche lì dove qualcuno, a partire dalla propria religione, risponde all’appello profondo del Signore. Qualcosa che, in definitiva, è già stato detto da Gesù di Nazaret negli stessi Vangeli: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21); o, con maggior rigore, quando nella parabola del giudizio finale afferma che chi conosce davvero Dio è colui o colei che pratica l’amore reale, sebbene teoricamente non professi la fede. In questa linea si muoveva la teoria patristica dei logoi spermatikoi, che nelle verità dei filosofi vedeva i “semi di verità” che non venivano annullati, ma, al contrario, arrivavano alla loro pienezza nella rivelazione di Gesù. Karl Rahner, col suo “cristianesimo anonimo”, ha aperto strade e detto cose memorabili in materia. E a partire dal Vaticano II l’accettazione di questa visione di fondo è divenuta patrimonio praticamente unanime della teologia. Però il limite di questa categoria consiste in due punti importanti. Da una parte, nella mancanza di realismo storico, quando pretende che sia la “grazia cristiana” a operare in tutte le religioni. Dall’altra, nel fatto che, pretendendo che “tutta la verità” delle altre religioni sia già inclusa nel cristianesimo, rende impossibile un dialogo realista, che non si riduca a mera strategia retorica. Non possiamo dare l’impressione che tutte le religioni, per il fatto di essere vere e condurre a Dio, debbano passare per la fede cristiana, poiché la storia mostra che Dio, a seconda delle circostanze e delle possibilità, ha seguito e segue vie specifiche con ciascuna. L’alternativa all’inclusivismo è rappresentata dal pluralismo o universalismo, sostenuto principalmente da John Hick e, poi, da molti altri. Anche questa categoria riconosce qualcosa di fondamentale e indiscutibile: il fatto che la risposta a Dio è data sempre nel proprio tempo e nella propria cultura. Per questo dicevamo che tutte le religioni sono vere. E per questo non può stupire che questa posizione, per il superamento dell’etnocentrismo e per il suo spirito di rispetto e tolleranza, susciti oggi una spontanea simpatia. Tuttavia, se prima parlavamo di mancanza di realismo storico, adesso bisogna parlare anche di mancanza di realismo antropologico. Se da parte di Dio l’universalismo è totale e assoluto, senza favoritismi, “elezioni” o “preferenza di persone”, da parte umana le risposte non sono mai uguali né simmetriche. Da ciò deriva il fatto che perfino nello stesso ambito culturale esistano religioni diverse e addirittura contraddittorie in aspetti importanti. Ancor più decisivo: in ogni religione c’è sempre un’insoddisfazione, una necessità di cambiamento e purificazione, che si manifesta in movimenti profetici e di rinnovamento, quando non in conflitti e rotture (si pensi pure che quanto più si studia lo stesso Nuovo Testamento, tanto più si apprezzano le profonde differenze e contrapposizioni tra le diverse teologie contenutevi). Il fatto stesso che i più radicali sostenitori dell’universalismo debbano distinguere tra “grandi” e “piccole” religioni indica in modo incontrovertibile che esistono criteri di discriminazione per distinguere la maggiore o minore profondità, completezza o purezza; altrimenti il mero numero di adepti diventerebbe criterio
di verità.