celebrare la passione di Gesù in tempi di coronavirus

 

“la passione nei giorni del coronavirus”

nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non aver paura!». È quasi il «buongiorno» che Dio ripete a ogni alba. Lo ripete anche in questi giorni di terrore

il Dio cristiano è diverso dalle divinità antiche come Giove, relegate nel loro mondo olimpico dorato, apatici rispetto alle sofferenze umane. È, invece, un Dio che ha scelto di assumere la stessa nostra carta d’identità, fatta, sì, anche di gioia, ma soprattutto di limite, di dolore e di morte

una bella riflessione di Gianfranco Ravasi

Scrivo con imbarazzo queste righe. Mi pareva, infatti, di sentire la voce, roca per il troppo urlare, di Giobbe che rigettava le parole degli amici teologi venuti a confortarlo definendole «decotti di malva», incapaci di spegnere il suo dolore lacerante. Oppure, iniziando a scrivere qualche riga, sentivo risuonare nell’orecchio la frase aspra di un altro sapiente biblico, Qohelet, che mi ammoniva: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8).

Alla fine ho deciso di squarciare lo stesso il silenzio, come hanno fatto il Papa e tanti altri pastori con parole intense, solo per dire che tutti proviamo nell’anima gli stessi brividi dei tanti ammalati con la bocca incollata a un respiratore. E soprattutto per essere spalla a spalla con la folla di parenti, amici, vicini paralizzati dalla sofferenza dei loro cari, impossibilitati a dare una sola carezza su quei volti o persino ad accompagnarli alla fine con un rito di commiato.

Ma c’è un’altra ragione che invita tutti noi (per ora) sani a non tacere ed è proprio legata agli imminenti giorni della Settimana Santa, quando davanti a noi camminerà Cristo nelle sue ultime ore terrene. Lo immagino come nel film Andrej Rublëv del grande regista russo Andrej Tarkovskij, mentre avanza incespicando nella neve colorandola col sangue delle sue ferite, trascinando a fatica la croce, seguito dalla folla dei poveri contadini e degli ultimi di quelle terre.

Il Dio cristiano è diverso dalle divinità antiche come Giove, relegate nel loro mondo olimpico dorato, apatici rispetto alle sofferenze umane. È, invece, un Dio che ha scelto di assumere la stessa nostra carta d’identità, fatta, sì, anche di gioia, ma soprattutto di limite, di dolore e di morte. Anche se lontani dalle chiese deserte, sentiremo dalla voce del sacerdote solitario il racconto evangelico di quelle ore ultime di un Dio veramente fratello dell’umanità. E vedremo sfilare davanti agli occhi, vissute in lui, tutte le desolazioni di questi nostri giorni.

Anche lui ha paura e fin orrore della morte, il cui volto severo si presenta davanti a lui e a noi, nonostante l’avessimo prima esorcizzato e ignorato: «Padre, se è possibile, passi da me questo calice» avvelenato. Anche lui sperimenta l’isolamento degli amici, i discepoli, che rimangono lontani, o, come nel caso di tante persone sole malate, lo abbandonano. Anche lui ha la carne ferita dalle torture e prova persino la peggiore delle solitudini, il silenzio del Padre («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»).

Alla fine anche lui, a causa della crocifissione, muore come molti malati di coronavirus, per asfissia, dopo aver emesso un respiro estremo. Aveva ragione un teologo martire del nazismo, il tedesco Dietrich Bonhoeffer, quando nel suo diario in carcere scriveva: «Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in forza della sua impotenza». Sì, perché in quei momenti non si china su qualche malato per guarirlo, come aveva fatto durante la sua vita terrena, ma diventa lui stesso sofferente e mortale. Non ci libera dal male ma è con noi nel male fisico e interiore.

Eppure, anche quando è un cadavere sballottato qua e là, come accade oggi alle vittime del virus, egli è sempre il Figlio di Dio. È per questo che – sperimentando nella sua carne la nostra umanità misera, fragile e mortale – ha deposto in essa per sempre un seme di eternità e di speranza destinato a sbocciare. È questo il senso della Pasqua, «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come diceva il poeta austriaco Rainer M. Rilke.

Tante altre cose ha insegnato questo male a chi crede e anche a chi non crede. Ci ha, infatti, svelato la grandezza della scienza ma anche i suoi limiti; ha riscritto la scala dei valori che non ha al suo vertice il denaro o il potere; lo stare in casa insieme, padri e figli, giovani e anziani, ha riproposto fatiche e gioie delle relazioni non solo virtuali; ha semplificato il superfluo e ci ha insegnato l’essenzialità; ci ha costretti a fissare negli occhi dei nostri cari la stessa nostra morte; ci ha resi fratelli e sorelle dei tanti Giobbe, dandoci il diritto persino di protestare con Dio, di alzare le nostre domande e lamenti a lui.

Ma soprattutto ha rivelato un valore supremo, l’amore. Molti dei lettori conoscono il romanzo dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez, L’amore al tempo del colera (1982), un titolo che potrebbe essere trascritto per il coronavirus. Un titolo che è verità soprattutto nei tanti medici, infermieri, volontari, operatori vari, pronti ad andare oltre la legge dell’«amare il prossimo come se stessi», per seguire quella estrema di Gesù: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici».

Nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non aver paura!». È quasi il «buongiorno» che Dio ripete a ogni alba. Lo ripete anche in questi giorni di terrore. E per chi ha perso la fede proporrei, invece, la confessione dello stesso scrittore García Márquez: «Sfortunatamente, Dio non ha uno spazio nella mia vita. Nutro la speranza, se esiste, d’avere io uno spazio nella sua».




il messaggio biblico nei confronti dello straniero

e la bibbia accolse lo straniero

di Gianfranco Ravasi 

in “Avvenire” del 22 gennaio 2015

 

Ravasi

Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture. A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia. Ecco, anche questa festa è aperta allo straniero, se vuole partecipare. E come non ricordare il Terzo Isaia che al capitolo 56 arriva al punto di definire il tempio di Sion come «casa di preghiera per tutti i popoli»? La stessa direzione è percorsa anche dal Primo Isaia al capitolo 2, quando descrive la scena di un’immensa processione di popoli attratti dalla parola del Signore e pronti a ritrovare la pace e la fraternità, «a non alzare più la spada contro un altro popolo» (2,2-5). Un passo poco conosciuto del profeta Sofonia, più o meno contemporaneo o di poco precedente a Geremia, ci presenta in proposito in un solo versetto un sorprendente bozzetto del tempio di Gerusalemme e del suo culto. Potrebbe trattarsi forse di un sogno, e sicuramente lo è ancora per noi cristiani che non possiamo attuarlo nell’interno delle nostre chiese con tutte le diverse confessioni dei credenti in Cristo. Ecco il ritratto di Sofonia 3,9 con una traduzione italiana molto vicina all’originale ebraico: «Io – dice il Signore – darò a tutti i popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla». È bella quest’immagine del vedere gli uomini tutti uguali, non ce n’è uno che è più su, che sta sulla predella o nel recinto sacro, come avveniva nel tempio di Gerusalemme, perché più importante e più puro degli altri. Nessuno è inferiore all’altro quando si trova nel luogo di preghiera perché impuro o indegno, ma tutti sono spalla a spalla. Tutti aderiscono allo stesso Dio e tutti hanno il labbro puro quando pregano, anche se le loro invocazioni non sono forse formulate secondo i canoni necessari della ritualità. «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore – sarà ancora la voce del Terzo Isaia al capitolo 56,3 –: certo il Signore mi escluderà dal suo popolo». La seconda logica dell’accoglienza, dopo quella cultuale, è quella sociale; un tema, tra l’altro, che sentiamo attuale e che è continuamente all’ordine del giorno nella nostra società. Stiamo vivendo un’esperienza che per molti versi sarà epocale e che qualcuno definisce come qualcosa di simile a quando ci furono le grandi immigrazioni e migrazioni dei cosiddetti barbari. In fin dei conti quelle genti erano semplicemente altre popolazioni, con un differente tipo di società e di civiltà, che nello scontro venivano però concepite come diverse, come molto più primitive. Tra parentesi, ricordiamo che, se è vero che talvolta l’evoluzione registra diversità, tuttavia non dobbiamo dimenticare che spesso il concetto di progresso è veramente molto relativo. Ebbene già nell’Antico Testamento, in diversi passi, troviamo un’importante ammissione che si estende poi anche a livello sociale e politico: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi» (Es 12,49). Unica è la legislazione quindi per l’ebreo e per lo straniero. Si potrebbe obiettare che dal punto di vista storico Israele probabilmente non ha messo in pratica questa norma, ma questo è un altro discorso. Molti, ancora ai nostri giorni, chiedono di
evitare assolutamente di parlare di qualsiasi vaga idea di parità di diritti tra nativi e stranieri. E questo è segno di paura. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che la storia concreta ha il suo peso; la comprensione, quindi, è d’obbligo per capire meglio le ragioni dell’altro, sperando che ne abbia, e per giudicare le sue convinzioni non sempre e solo come primitive e istintive. Tuttavia, è necessario essere favorevoli e sostenitori di una cultura incline al dialogo e a uno stile multietnico, senza per questo scadere in una visione irenica che vede l’approccio tra i diversi popoli come una sorta di incontro facile, gioioso e danzato. Anche nel mondo biblico ci troviamo di fronte a culture che spesso tra loro si respingono e che pongono gravi problemi di tipo sociale. Il principio da cui partire e la meta da raggiungere rimangono, comunque e sempre, non l’esclusione e il rigetto, ma lo spirito di accoglienza, anche se le forze dei popoli nella storia, andando oltre i nostri desideri, premono e risultano essere incontrollabili nel loro flusso e nel loro confronto concreto. Nella Scrittura anche lo straniero ha diritto al rispetto, alla tutela, all’amore. In Lv 19,33-34, in un’opera che parla dei principi di purità, si legge: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». E quanto questo testo dovrebbe far ricordare agli italiani il loro essere stati emigranti nei secoli scorsi! In questi due versetti è profondamente sottolineato il fatto che occorre amare lo straniero come se stessi, perché anche Israele ha provato cosa vuol dire essere straniero. Certo, qui si distingue tra il forestiero che è residente rispetto agli stranieri di tutto il mondo, però si osserva che la persona pur «diversa» che abita nella tua stessa via deve aver assicurata la stessa legge, lo stesso trattamento e la stessa tutela e persino l’amore.




il card. Ravasi sul digiuno indetto dal papa

 

giglio rosso

le riflessioni del card. Ravasi a proposito del digiuno indetto da papa Francesco sabato prossimo per scongiurare la guerra in Siria:

«Guardi, c’è un’immagine suggestiva anche nella Grecia classica. Socrate frequentava l’agorà di Atene, passeggiava per il mercato, ascoltava le chiacchiere in piazza e osservava le merci, i beni materiali. Ai discepoli che gli chiedevano perché lo facesse rispose: “Perché così scopro tutte le cose di cui non ho bisogno”».
Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride, «non che c’entri direttamente col digiuno, però…», però il senso alla fine è lo stesso, almeno a un primo livello. Non è strano che papa Francesco abbia indetto per sabato una giornata «di digiuno e preghiera» per la pace, invitando ad «unirsi, nel modo che riterranno più opportuno» anche i cristiani non cattolici, i fedeli di altre religioni e pure «quei fratelli e sorelle» che non credono. «Il digiuno, anzitutto, è uno dei grandi archetipi universali. Non si tratta solo di astenersi dal cibo, non è una dieta. Il digiunare esprime un elemento simbolico attraverso la componente fondamentale con la quale comunichiamo, il corpo. Il nostro corpo è il grande segnale attraverso il quale mandiamo messaggi, esprimiamo sentimenti, mostriamo anche capacità di trascendenza e mistero…».
Lo stesso Gesù, nel Discorso della montagna, parla con sarcasmo degli «ipocriti» che assumono «un’aria malinconica» e «si sfigurano la faccia» per mostrare che digiunano. «Il digiuno significa entrare nell’essenzialità, spogliandoci di tutte le sovrastrutture. Per questo nella tradizione è spesso accompagnato dal silenzio, da pratiche simboliche esteriori come ritirarsi nel deserto che a sua volta è una metafora del digiuno: le necessità ridotte all’essenziale, alla sopravvivenza». In questo senso ha un valore «squisitamente antropologico e come tale universale».
Un primo segno di distacco dalle cose concrete, quindi anche dalla violenza del mondo. «Far cadere le spoglie inutili», soprattutto oggi: «L’ingordigia consumistica che sa di morte, come ne “La grande abbuffata” di Marco Ferreri», considera il «ministro» della Cultura vaticano. Ma questo è solo l’inizio. Il digiuno «apre a dimensioni di tipo religioso o più generalmente spirituale». La prima, «che troviamo anche nel Ramadan islamico», collega il digiuno a una dimensione sociale, alla generosità e alla carità: «Nel libro di Isaia, al capitolo 58, il profeta elenca ciò che il Signore vuole, il digiuno a lui gradito: “Sciogliere le catene inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne”». Un elemento «che diventerà fondamentale nel cristianesimo, anche se poi la pratica si perderà un po’, fino ad essere considerata autoafflittiva ».
La seconda dimensione «diverrà fondamentale nell’ascetica cristiana ma già la vediamo nell’immagine di Gesù nel deserto: il digiuno della mente, l’astensione da ogni forma di superficialità, dai rumori, dalle distrazioni. Una catarsi interiore, spirituale, culturale». Di qui si arriva al terzo elemento del digiuno: «È la trascendenza. Dopo aver operato la carità e cancellato le cose inutili e la chiacchiera, sei solo con la tua coscienza. Attraverso l’essenzialità del digiuno si cerca tutto ciò che è divino, mistero, trascendenza. È ciò che dice Gesù: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete…”. Il digiuno dell’anima crea il vuoto: per fare entrare il divino». E per i non credenti? «Si fa spazio alle grandi domande: come essere uomini di pace, di giustizia».
Ma il digiuno è rivolto agli uomini o a Dio? «Certo il punto di partenza è antropologico, ha a che fare con la libertà e la coscienza dell’uomo. Ma l’ultima dimensione che dicevo è quella in cui uno incontra Dio e la Sua volontà. Fai il vuoto per lasciare entrare Dio. Qui il digiuno si connette alla preghiera. Nella tradizione biblica c’è un altro elemento importante, che vediamo nel Kippur ebraico ma non solo: l’espiazione del peccato. Il digiuno come modo di implorare la liberazione dal male. Ed è qui che deve intervenire Dio: tu prepari il terreno all’irruzione del divino. Nel non credente, alla tensione verso l’oltre».
C’è chi dice: non fermerà la guerra, non è utile. Il grande biblista scuote il capo: «Il digiuno corale di milioni di persone ha un significato anche politico, nel senso alto del termine. Magari i politici decideranno altrimenti, ma non potranno ignorare il desiderio corale di pace che si esprime nel mondo. Per un cristiano, in particolare, si tratta anche di vivere la storia in maniera più autentica, di incidere nella tua coscienza e nell’azione del mondo». In che senso, eminenza? «Nel Vangelo Gesù dice quello è un momento di gioia, ma “verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”. Il lungo peregrinare nella storia esige questa sobrietà, questa vigilanza. Essere attenti ai segni dei tempi, specie in momenti come questi, nei quali sembra che Dio sia assente e che gli uomini impazziscano. Non una dieta, ma come un colpo di staffile. È il tempo della storia. Il momento della prova».