il commento al vangelo della domenica

Lazzaro siamo noi

risorgiamo perché amati

il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di Quaresima

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato»

La bellezza struggente dell’umanità di Gesù: lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Un Dio umanissimo, quello che ogni uomo cerca: non un Dio da adorare e venerare nell’alto dei cieli, ma un Dio coinvolto e coinvolgente, che ride e piange, gioca con i suoi figli nei caldi giochi del sole e del mare.

Di Lazzaro sappiamo poche cose, quelle che contano: la sua casa è aperta, è amato da molti, è amico speciale di Gesù: ospite, amico e fratello. Tre nomi per restare umani.

Se Tu fossi stato qui, nostro fratello non sarebbe morto. Le sorelle hanno visto le loro preghiere volare via come colombe, e nessuna che tornasse indietro a portare una risposta, una fogliolina di ulivo di risposta, come allora nell’arca. Ma Dio esaudisce le nostre preghiere? Sì, esaudisce sempre; ma non le nostre richieste, bensì le sue promesse. “Tuo fratello risorgerà”. Lei la sente come una frase fatta, parole formali che tutti sanno dire: “so bene che risorgerà. Ma quel giorno è così lontano da questo dolore”. Lei parla al futuro, Gesù al presente. E usa parole impressionanti: “Io sono la risurrezione e la vita”. Adesso. Prima la risurrezione e poi la vita. Prima la liberazione e poi la vita viva. Che è il risultato di molte risurrezioni: dalle vite spente, dalle ceneri, da vite senza sogno e senza fuoco. Io sono la risurrezione: una linfa potente e fresca che si dirama per tutto il cosmo e che non riposerà finché non avrà raggiunto e fatto fiorire l’ultimo ramo della creazione, l’ultimo angolo del cuore. Liberatelo e lasciatelo andare! Lazzaro esce, avvolto in bende come un neonato. Morirà una seconda volta, ma ormai gli si apre davanti una altissima speranza: Qualcuno lo ama, Qualcuno che è più forte della morte. Lasciatelo andare: Gesù è il Rabbi che libera e manda oltre senza legare a sé: dategli una stella polare per il viaggio, gli occhi di qualcuno che piangano d’amore per lui, la certezza di un approdo, e nessuno lo fermerà.

Dove sta il perché finale della risurrezione di Lazzaro? Sta nelle lacrime di Gesù, la sua dichiarazione d’amore fino al pianto. Piangere è amare con gli occhi. L’uomo risorge per le lacrime di Dio, risorgiamo perché amati.

Lazzaro sono io. Quante volte sono morto: era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di lottare e faticare, forse perfino la voglia di vivere. E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, non so perché. Una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole. Un grido d’amico ha spezzato il silenzio. Delle lacrime hanno bagnato le mie bende. Io sono Lazzaro, io sono Marta e Maria, sorelle a infiniti morti. Come loro santo solo d’amicizia, risorto solo perché amato.

(Letture: Ezechiele 37, 12-14; Salmo 129; Romani 8, 8-11; Giovanni 11, 1-45)

meglio morto che risorto?

meglio morto che risorto

sul senso profondo della Pasqua di Alberto Maggi


 di Alberto Maggi

Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”, afferma perentorio Paolo ai Corinti (1 Cor 15,14). Eppure nessun evangelista dà la descrizione del momento della risurrezione del Cristo. Questo fatto creò così tanto imbarazzo nelle comunità cristiane primitive che si rimediò a questa lacuna con un falso d’autore che ebbe un grande successo. Infatti, l’immagine tradizionale del Cristo Risorto, che esce trionfante dal sepolcro, con le guardie tramortite, non appartiene ai vangeli riconosciuti ispirati, ma a un testo apocrifo del secondo secolo, conosciuto come il Vangelo di Pietro: “Durante la notte nella quale spuntava la domenica, mentre i soldati montavano la guardia a turno, due a due, risuonò in cielo una gran voce, videro aprirsi i cieli e scendere di lassù due uomini, in un grande splendore, e avvicinarsi alla tomba. La pietra che era stata appoggiata alla porta rotolò via da sé e si pose a lato, si aprì il sepolcro e c’entrarono i due giovani” (Vang. Pietro 9,35-37).

Nessuno ha potuto descrivere la risurrezione del Cristo, perché neanche un solo discepolo era presente, nonostante Gesù avesse insistentemente affermato che sì, sarebbe stato ucciso, e nel modo più infamante, la crocifissione, ma poi dopo tre giorni sarebbe risuscitato (Mt 16,21; 17,22; 20,19). Ma nessuno ci ha creduto, perché nessuno desiderava veramente la sua risurrezione. La prova che il Messia era quello inviato da Dio, era che non poteva morire, perché “il Cristo rimane in eterno” (Gv 12,34). Pertanto, se Gesù era morto, e in quel modo infamante, con la morte dei maledetti da Dio (Dt 21,23; Gal 3,13), pazienza, voleva dire che si erano sbagliati, e c’era solo da attendere il vero Messia, quello che avrebbe sbaragliato i nemici, sottomesso i popoli pagani e inaugurato il regno d’Israele. Del resto non era la prima volta che qualche esaltato si era proclamato l’atteso liberatore, aveva iniziato la rivolta contro gli odiati Romani e il tutto era finito in un bagno di sangue, come insegnava il tragico epilogo delle insurrezioni capitanate dai vari Teuda e Giuda il Galileo, sedicenti Messia che convinsero la gente a seguirli, e quelli che lo fecero “furono dissolti e finirono nel nulla” (At 5,36-37). In fondo meglio morto che risuscitato. Perché se Gesù era morto, era segno che non era il Messia e bisognava attenderne un altro. Ma se era risuscitato, allora addio sogni di gloria, di restaurazione del defunto regno del re Davide, della supremazia sui popoli pagani, dell’accumulo delle ricchezze delle altre nazioni, come i profeti avevano vagheggiato (“Vi nutrirete delle ricchezze delle nazioni, vi vanterete dei loro beni”, Is 61,6).

Pertanto, morto Gesù, i suoi discepoli, delusi (“Speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…”, Lc 24,21), erano tornati alle due occupazioni di sempre, e il Risorto li deve andare a cercare uno a uno per far sperimentare loro che era veramente risorto, rimproverandoli “per la loro incredulità e durezza di cuore” (Mc 16,14; Lc 24,25). Inutilmente Gesù nella sua vita terrena aveva parlato ai suoi discepoli del regno di Dio, perché questi capivano regno di Israele. Gesù parlava di servizio e i discepoli pensavano al potere, il Maestro insegnava a mettersi a livello degli ultimi e i discepoli litigavano tra loro per assicurarsi il posto più importante, il Signore li invitava a scendere e essi pensavano solo a salire.
Per questo il Risorto, una volta riunito i suoi, tiene loro una sorta di corso intensivo durato ben quaranta giorni “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” (At 1,3). Ma niente da fare: quando l’ideologia religiosa è intrecciata con quella nazionalista, anche se si hanno orecchie per udire non si ode, e se si hanno occhi per vedere non si vede (Mc 8,18). Infatti, al quarantesimo giorno, i discepoli, che evidentemente non erano interessati a questo tema del regno di Dio, gli domandarono: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6). Scrive l’evangelista che a questo punto “una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9). Il Cristo non se n’è andato, ma sono i discepoli che sono incapaci di vederlo. Chi è mosso dal potere non può percepire l’Amore, chi pensa a sé non può riconoscere la presenza dell’Altro. Ci vorrà ancora del tempo, e quando finalmente i discepoli comprenderanno che il pane non va accumulato, ma solo spezzato e condiviso, allora si apriranno i loro occhi e riconosceranno il Cristo risorto (At 24,31) che li accompagnerà nella loro missione (Mc 16,20).

 (fonte: Il libraio)

“e se domani trovassero una tomba con le ossa di Gesù …?”

 

la risurrezione di Gesù e la salvezza degli uomini secondo Vito Mancuso

risurrezione.jpg “Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazaret, per i miei valori e la mia visione del mondo non cambierebbe molto”

La tesi di questo articolo consiste nel sostenere che occorre distinguere la risurrezione quale evento concreto accaduto a Gesù di Nazaret (un evento dotato di uno statuto storico del tutto particolare su cui mi soffermerò) dalla risurrezione quale evento salvifico. Occorre distinguere il significato della risurrezione per Gesù, dal significato della risurrezione per noi.

Io aderisco alla risurrezione quale evento accaduto a Gesù, ma nego che tale evento accaduto a lui abbia il valore salvifico assoluto per noi e per gli uomini di tutti i tempi che gli si attribuisce. Io penso che la vita eterna non dipenda dal fatto che Gesù è risorto, ma che il fatto che Gesù è risorto sia un segno della vita eterna nella sua effettiva realtà.

Perché sono cristiano

Io credo alla risurrezione di Gesù sulla base di quanto dicono i testi sacri e la predicazione della Chiesa. Credo alla risurrezione, ma non è su di essa che appoggio la “mia” fede, la mia fede “interiore”, viva, quella che ripeto a me stesso nella solitudine, in quei momenti nei quali ricerco un punto fermo su cui appoggiarmi per sussistere di fronte alle tempeste del mondo. La risurrezione non è il centro della mia fede personale. L’accetto, mi fido degli antichi testimoni evangelici che ne parlano e della Chiesa che mi ha messo in contatto con loro, e quando la domenica a Messa recito il Credo niceno-costantinopolitano non ho difficoltà a pronunciare “et resurrexit tertia die secundum scripturas”. Anzi, quando talora si canta il credo in latino e la musica sale, sento anche un fremito di gioia e penso “che bello, se è davvero così”. Però non lego la mia vita alla risurrezione, non strutturo la mia visione del mondo e il quadro dei miei valori morali a partire da essa. Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazaret, per i miei valori e la mia visione del mondo non cambierebbe molto. Continuerei a insegnare ai miei figli a basare la loro vita sul bene e sulla giustizia, continuerei a pensare che il bene e la giustizia sono immortali. Non è perché è risorto che Gesù è il mio maestro. Lo è per le cose che ha detto e per lo stile con cui ha vissuto, per la sua umanità, il suo senso di giustizia. Lo è per la sua maniera di parlare di Dio (“Abbà, Padre”) e per la sua maniera di parlare degli uomini (“vi ho chiamati amici”). Come disse Simon Pietro quel giorno, anch’io ripeto “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Io sono discepolo di Gesù, non perché Gesù è risorto, ma perché credo che le sue parole conducono alla vita eterna presso il Padre, della quale la sua risurrezione è un segno. Non mi piacciono quelle modalità di considerare Gesù solo in funzione del sangue che ha versato o della tomba che ha lasciato, senza assegnare un’adeguata importanza al suo messaggio e alle sue azioni, ritenendo che tutto si giochi solo nel fatto che è morto e risorto, agnello destinato all’immolazione prima ancora di essere nato. Non è così, Gesù non è un agnello, Gesù è Gesù.

Valore storico della risurrezione

Penso che non ci possano essere dubbi sul fatto che la risurrezione di Gesù costituisca l’inizio del cristianesimo storico. La crocifissione è un fatto storicamente accertato, l’attestano anche fonti extracristiane quali il Talmud Babilonese, lo storico ebreo Giuseppe Flavio e lo storico romano Tacito. L’espansione entusiasta e coraggiosa del cristianesimo primitivo è, a sua volta, un fatto storico. Occorre perciò un nesso che colleghi questi due eventi ben poco coordinabili tra loro, e questo nesso, secondo il Nuovo Testamento, è la risurrezione, ovvero, per stare a ciò che è storicamente accertabile, il fatto che i primi cristiani credessero all’evento inaudito della risurrezione del crocifisso. Questo ovviamente non prova che la risurrezione come evento sia realmente accaduto, questo prova solo che la fede dei primi cristiani era basata su qualcosa di inaudito. La risurrezione attribuita a Gesù costituisce l’evento generatore del cristianesimo storico, il big bang che l’ha portato a essere quel fenomeno mondiale destinato a mutare il mondo occidentale. Senza la fede dei discepoli in quell’evento inaudito, ultimo, risolutorio, non sarebbe sorto il cristianesimo storico. In questo senso va compreso il celebre passo di 1 Corinzi 15, 14: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione, vana la vostra fede”. L’inoppugnabile dato storico della fede dei discepoli non prova nulla, beninteso, ma è un fatto cui lo storico deve cercare una causa, e l’autosuggestione o il furto del cadavere non mi sembrano portare molto lontano. Tutti gli apostoli, salvo Giovanni, risultano essere morti martiri, ed è poco plausibile pensare che una decina di uomini diano la vita per una truffa da loro stessi ideata.

Ma ciò che i discepoli credevano, cioè l’evento della risurrezione di Cristo, era una loro auto-suggestione oppure un evento storicamente accaduto? A questa domanda, dal punto di vista storico, non è possibile dare una risposta. Dal punto di vista della storia, oltre la fede dei discepoli non è possibile andare. Poniamo che ci fosse stata una telecamera di fronte al sepolcro di Gesù nella notte di Pasqua. Essa non avrebbe registrato nulla, nessuna scena da potersi vedere sullo schermo. Nulla. Se è vero ciò che la risurrezione pretende di essere, cioè l’ingresso di Dio nella storia, essa non può essere un evento empirico. Questo non significa che non sia reale, anzi è reale al sommo grado, ma proprio per questo non è empirica, cioè soggetta ai sensi umani. Esattamente come Dio, che è reale ma non empirico. La risurrezione, se c’è stata, va considerata un evento escatologico, che cioè supera la dimensione del tempo e dello spazio e che immette nella dimensione ultima dell’eterno.

Del resto prove storiche della risurrezione non ce ne sono. Nessuno dei primi testimoni ha mai detto: il sepolcro è vuoto, quindi Gesù è risorto. Il sepolcro avrebbe potuto risultare vuoto anche per sottrazione del cadavere o per un caso di morte apparente. Dal sepolcro vuoto non consegue che Gesù è risorto. Forse per questo il sepolcro vuoto non è mai menzionato da san Paolo e dai primitivi compendi della predicazione apostolica riportati dal libro degli Atti degli apostoli. D’altro lato è probabile che, se il sepolcro non fosse risultato effettivamente vuoto, l’annuncio dei discepoli sarebbe stato screditato facilmente dagli abitanti di Gerusalemme.

Per quanto concerne le apparizioni, è decisivo notare che tutti i destinatari erano già credenti. Non credevano nella risurrezione, è ovvio, perché non sapevano che era avvenuta, ma credevano nel messaggio di Gesù, erano suoi discepoli. Ne viene che la fede si mostra come la condizione a priori dell’apparizione. Senza fede, nessuna apparizione. Quindi neppure le apparizioni sono una prova. Se Gesù avesse voluto dare una prova, avrebbe dovuto apparire pubblicamente a coloro che l’avevano crocifisso.

Non c’è nessuna prova della risurrezione. Se del resto ve ne fossero, si tratterebbe di un evento storico, non escatologico, e la risurrezione non sarebbe ciò che è, ma una delle varie rianimazioni di cadaveri conosciute nel mondo antico (comprese le tre attribuite a Gesù di Nazaret). Io penso che molti si raffigurino la risurrezione come rianimazione del cadavere. Ma non è così: la risurrezione di Lazzaro è stata una rianimazione del cadavere, quella di Gesù no. La risurrezione di Gesù non è rianimazione del cadavere, e però il cadavere non c’è più, perché il sepolcro è vuoto. Che fine ha fatto il cadavere di Gesù?

Il cristiano si trova tra Scilla e Cariddi, perché da un lato deve ritenere che la risurrezione non è un evento puramente spirituale senza tracce nella storia (non è l’immortalità dell’anima, ha a che fare con un corpo materiale), e dall’altro lato deve ritenere che la risurrezione non è un evento storico come un altro, empiricamente constatabile, come per esempio la risurrezione di Lazzaro.

Io non vedo altra via per chiarirsi le idee se non pensare che il cadavere sia stato per così dire “assorbito” in una dimensione dell’essere di cui non abbiamo idea che è quella divina, avendo ricevuto una specie di decomposizione istantanea nella nostra dimensione per poi venire ricomposto in modo del tutto diverso e del tutto nuovo nella dimensione dell’eterno. Quando il suo “corpo spirituale” (espressione contraddittoria per dire la novità indicibile del fenomeno) si è mostrato di nuovo in questo mondo, ha mostrato la sua singolarissima peculiarità apparendo e disparendo. Ma una cosa è sicura: nella dimensione senza tempo e senza spazio che è propria dell’eternità di Dio, non può sussistere nulla di materiale. Il corpo in carne e ossa di Gesù “in cielo” non esiste. Gesù risorto mantiene la sua individualità personale (e per questo è lecito parlare di “corpo”), ma non la sua materialità carnale (e per questo il NT parla di corpo “spirituale”).

Valore teologico e soteriologico della risurrezione

La questione decisiva però a mio avviso non riguarda la risurrezione in quanto evento accaduto a Gesù, ma piuttosto il significato di tale evento per noi. Come uomo legato alla sorte degli uomini prima e dopo di me, rifletto sul senso di quell’evento particolare per la storia e il destino di tutti e non attribuisco ad esso un valore salvifico assoluto. Nego cioè che per essere salvi di fronte a Dio occorra credere che quell’evento sia avvenuto (aspetto soggettivo) oppure che Dio a seguito di quell’evento abbia mutato il suo atteggiamento verso gli uomini o che sia mutato qualcosa nell’ordine del mondo che Dio non avrebbe potuto mutare prima e da sé (aspetto oggettivo).

Mi soffermo sulla dimensione oggettiva. Si dice che la risurrezione costituisce la vittoria sulla morte. Ma in che senso? Qui da noi, su questa terra, la morte non è vinta, anzi. Di là, nel regno dell’eterno, Dio non aveva bisogno di vincerla, perché lì egli regna da sempre e per sempre, lì c’è solo lui e il suo regno. L’aldilà, se esiste, è precisamente la dimensione escatologica, eterna, dove Dio è tutto in tutti. In che senso quindi si dice che la risurrezione ha vinto la morte? Qui non è vinta, e di là non c’era bisogno di vincerla. La risurrezione non costituisce la vittoria sulla morte, se non nel senso di manifestare al livello storico che questa vittoria al livello dell’eterno c’è sempre stata, perché Dio è sempre stato il signore della vita e della morte, e non aveva certo bisogno di un evento storico particolare per diventarlo. Il valore di quell’evento (in sé unico) è solo dimostrativo: è il segno della possibilità reale di una vita personale oltre la morte.

Se però quel segno non fosse avvenuto, non cambierebbe nulla da un punto di vista ontologico e assiologico. Certo, senza quel segno non ci sarebbe stato il cristianesimo storico e l’occidente sarebbe molto diverso, ritengo per lo più in peggio. Ma dal punto di vista del rapporto di Dio Padre con l’umanità nulla può mutare. E questo dimostra che non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Non è la religione che salva gli uomini, gli uomini non si salvano perché sono religiosi. Gli uomini si salvano (al di là di che cosa questa espressione possa significare) perché sono giusti. Ciò che salva è la vita buona e giusta, come ha insegnato Gesù (cf. Matteo 25) in perfetta continuità con la tradizione ebraica.

Pubblicato su “Il Foglio”, 23 marzo 2008.

image_pdfimage_print