equivoci sul cosiddetto ‘modello cristiano di famiglia’

 

la famiglia cristiana non esiste

neanche nel Vangelo

di E. Balducci


FAMILY DAY

 

  un “inedito” di Ernesto Balducci

si tratta di una Conferenza che tenne all’Isolotto nel Marzo del 1974, in occasione del referendum sul divorzio. Ho cercato di alleggerire il testo omettendone alcuni passi. Mi si perdoni la lunghezza ma i temi affrontati e gli stereotipi di un certo “cattolicesimo” che vengono puntualmente contestati meritano anche più che un po’ del nostro tempo!

Balducci

Svelare le mistificazioni e le menzogne

(Abbiamo l’occasione di) affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all’interno di certi principi suggestivi. Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l’ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze. La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell’ideologia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante. (…)

Non esiste un modello cristiano di famiglia

Che cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito no. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.

Non esiste la “famiglia cristiana”, essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù. Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall’ordinamento giuridico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.

Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l’ordinamento canonico, quello che per adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.

I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c’era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c’era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c’era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all’interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.

Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d’accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume. Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di “famiglia cristiana”. Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C’è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l’etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.

Come nasce il modello cristiano della famiglia

Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale. Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo. Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell’individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale sia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano. La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.

Caratteristiche superate della famiglia cristiana

Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l’unità della fami-glia cristiana usufruiva di un dato economico, era l’unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l’unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l’unica figura economica della famiglia. E quindi l’unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell’indivisibile unità patrimoniale. (…)

A reggere l’indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell’ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza. Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c’era-no spazi diversi per l’esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell’esperienza culturale. L’unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe, aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio. In terzo luogo c’era la subordinazione della donna all’autorità maritale, che era una norma assoluta. L’attività pastorale della Chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La “donna cristiana” è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l’essere l’angelo del focolare.

Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l’uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo. Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.

E alla fine c’era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto all’azione. Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un’etica del comportamento femminile che voi conoscete bene. La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l’uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.

Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro. Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi, di far quadrato attorno a un model-lo di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all’esigenza evangelica, interrogarsi di fronte ai Vangelo.

Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un invenzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l’aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.

Indicazioni evangeliche

Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l’amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio. A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell’amore, la vita familiare. Innanzi tutto, è sicuramente un’affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c’è nessuna differenza fra l’uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c’è né maschio né femmina. (…)

In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un’espressione dell’amore. Un’altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l’altro uno strumento di se. Espressioni bibliche quali “la persona umana è fatta a immagine di Dio”, “amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo”, “amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa”, per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell’altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.

Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c’è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l’altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di legge.

La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche

Siamo all’ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all’esperienza spirituale. Ogni espressione dell’uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali genera-li, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.

Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l’esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l’insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c’è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.

La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c’è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l’ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che sono invece relative anch’esse. Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell’immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? È quel di più di libertà che l’uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l’esistenza dell’uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.

Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell’esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.

E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia. In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti. Come credenti ci compete l’onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fonda-mentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.

Rodotà

 

 “La discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose”
così Stefano Rodotà inizia il suo articolo su Repubblica a proposito del dibattito in atto

la ‘Bossi-Fini’ da abolire

migranti-tuttacronaca

non basta piangere o dirsi rattristati per quanto succede nei nostri mari che si trasformano sempre più in cimiteri per disperati, occorre rimuovere le condizioni strutturali e legislative che favoriscono o causano queste tragedie

utilissima la lettura di questa riflessione che S. Rodotà da par suo fa quest’oggi su ‘la Repubblica’:
Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini

(Stefano Rodotà).

Le terribili  tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

Da La Repubblica del 08/10/2013.

Rodotà e la costituzione

 

presentazione del volume 'Pubblico, privato, comune. Lezioni dalla crisi globale'

RODOTA’: “CONSERVATORI? SULLA COSTITUZIONE SI”
«Né una zattera per naufraghi né un onorato rifugio per reduci di battaglie perse».

Stefano Rodotà lo mette in chiaro da subito: davanti a 300 persone stipate in una sala congressi romana a metà strada tra la stazione Termini e l’università La Sapienza, il giurista battezza così l’assemblea “aperta” convocata insieme al presidente di Libertà e Giustizia, Gustavo Zagrebelsky, al leader della Fiom, Maurizio Landini, alla costituzionalista Lorenza Carlassare e al fondatore di Libera, don Luigi Ciotti.

E se il Professore sa bene come non dovrà concludersi il percorso tracciato ieri, più difficile è immaginare l’approdo finale. Quel che è certo, per ora, è che la bussola sarà la Costituzione e la prima tappa è già fissata: appuntamento il 12 ottobre a Roma per una manifestazione. Per adesso c’è un documento, “La via maestra”, che nel frattempo verrà dibattuto in varie città mentre si apre la discussione in Parlamento sulle riforme costituzionali. Un disegno di legge che preoccupa i 5 firmatari del manifesto,convinti che la Carta vada «applicata e non modificata». E pazienza se si passa per «conservatori», come ieri Enrico Letta ha definito quelli che non vogliono mettere mano al bicameralismo o al numero di deputati e senatori.

«L’argomento del premier è capzioso — contrattacca Rodotà — perché si poteva iniziare da lì, senza puntare alla tortuosa modifica del 138 (l’articolo che determina le possibili revisioni della Carta, ndr). Ma se si tratta di difendere i principi della Costituzione allora sì, siamo assolutamente conservatori». Ad ascoltarlo, in platea, c’è soprattutto la sinistra rimasta fuori dal Parlamento. C’è il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero e il leader di Azione Civile Antonio Ingroia. In due punti distanti della sala ci sono anche gli ex portavoce del Genoa Social Forum per il G8 del 2001, Vittorio Agnoletto e Luca Casarini. Passa Nichi Vendola che, però, resta defilato e non interviene.

Per il Pd si vedono Corradino Mineo e Vincenzo Vita. Quando tocca a quest’ultimo spiega di essere ancora «iscritto al Pd» e in tanti rumoreggiano. «Un errore — dirà poi Rodotà — non dobbiamo chiuderci nella nostra autoreferenzialità ». Al contrario, si applaude quando Landini avverte: «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche. Metteremo in campo gesti di difesa totale dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche».

L’altro applauso fragoroso lo incassa Paolo Flores D’Arcais, fondatore di Micromega: «Se fra qualche mese l’unica alternativa elettorale si chiamerà Matteo Renzi, allora vorrà dire che Berlusconi avrà vinto». Nella sala si vedono molti capelli bianchi, diversi trentenni, qualche maglietta di Che Guevara e tanti che 2 anni fa hanno partecipato alla vittoria dei referendum sull’acqua. «È da lì che bisogna ripartire — ricorda Rodotà — per fare “massa critica”. Parlare adesso di struttura organizzativa sarebbe letale e intempestivo. Sinistra Arcobaleno e Rivoluzione civile sono stati due fallimenti. Noi ci proponiamo di incidere sulla politica in modo diverso ». In platea sono avvisati

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