un’altra rottamazione di … rom

 

 

rottamazione rom

Torino: il maxi sgombero forzato di 200 rom

 

“dacci oggi la nostra rottaamazione quotidiana di rom”

dal sito ’21 luglio’ la puntuale relazione documentata sul posto in diretta dello sgombero forzato di 51 famiglie, che l’Associazione stessa definisce “illegale secondo il diritto internazionale e non rispettosa degli standard e delle garanzie procedurali previste dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite”

Da questa mattina è in corso lo sgombero forzato di 51 famiglie rom dal Settore 1 dell’insediamento informale Lungo Stura Lazio a Torino. Per l’Associazione 21 luglio – da alcuni giorni presente sul posto con un osservatore – lo sgombero forzato si configura come un’azione illegale secondo il diritto internazionale e non rispettosa degli standard e delle garanzie procedurali previste dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite.

L’azione, inoltre, si pone in aperto contrasto con quanto affermato proprio nei giorni scorsi dalla Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (ECRI), che aveva sottolineato come l’Italia stia continuando a realizzare sgomberi senza offrire le necessarie garanzie alle persone interessate.

Le operazioni di sgombero sono iniziate alle ore 7 di stamane e sono condotte da polizia locale e polizia di Stato con l’ausilio della Croce Rossa. Sul posto sono presenti due ruspe meccaniche che dalle ore 9 hanno dato inizio all’abbattimento delle abitazioni. Le operazioni coinvolgeranno nelle prossime ore 199 persone di cittadinanza rumena, pari a 51 nuclei familiari. Tra di loro 5 donne in stato di gravidanza e 62 minori, di cui 16 frequentanti la scuola dell’obbligo e uno la scuola dell’infanzia.

L’insediamento informale Lungo Stura Lazio è presente da diversi anni e al suo interno si sta organizzando il progetto del Comune di Torino denominato “La Città possibile”. L’obiettivo del progetto è realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza per circa un migliaio di persone rom selezionate, di comune accordo con i servizi della Città di Torino e con la Questura di Torino. Tale progetto include solo i soggetti beneficiari mentre per le famiglie classificate dalle autorità come “non beneficiarie” non è previsto alcun tipo di intervento volto all’inclusione.

Nelle settimane passate, alcuni rappresentanti della Polizia Municipale avevano comunicato verbalmente, in assenza di notifica scritta, l’imminente sgombero alle famiglie residenti non beneficiarie del progetto. Lo sgombero di oggi, oltre a comportare la distruzione delle abitazioni e l’allontanamento delle persone che le abitavano, avrà come conseguenza anche la probabile interruzione scolastica per i minori frequentanti la scuola dell’obbligo.

Lo sgombero, così così come pianificato e realizzato, si pone in violazione delle garanzie procedurali che devono essere rispettate nel condurre gli sgomberi, indicate dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite. Il suddetto Comitato stabilisce, tra i vari criteri, la necessità che lo sgombero sia accompagnato da una genuina consultazione con gli interessati e dalla valutazione di possibili alternative allo sgombero e che sia offerta agli interessati la possibilità di fare ricorso legale; che lo sgombero non abbia l’esito di rendere senza tetto le persone coinvolte, né di renderle vulnerabili a ulteriori violazioni di altri diritti umani; che qualora le persone coinvolte non siano in grado di provvedere a se stesse, a queste vengano offerte alternative abitative adeguate.

Il 23 febbraio 2015 l’Associazione 21 luglio – in una lettera inviata alle autorità torinesi – aveva scritto che «in assenza delle suddette garanzie l’operazione di sgombero forzato delle famiglie rom residenti nel Settore 1 dell’insediamento di Lungo Stura Lazio, oltre a comportare di per sé una grave violazione dei diritti umani, avrebbe l’esito non di risolvere l’attuale oggettiva inadeguatezza dell’alloggio, ma di reiterarla altrove esacerbando ulteriormente la condizione di vita e rendendo ulteriormente vulnerabili le famiglie coinvolte».

Nella missiva veniva chiesto un intervento urgente «volto a ricondurre tale operazione di sgombero entro un ambito di legalità, attraverso l’apertura di un dialogo con le famiglie rom coinvolte e attraverso l’identificazione preventiva all’operazione di sgombero dell’offerta di soluzioni abitative alternative adeguate rivolta a coloro che non siano in grado di provvedere a loro stessi».

Malgrado l’appello, nella giornata odierna le autorità locali hanno optato per lo sgombero forzato che, secondo l’Associazione 21 luglio oltre a rappresentare una grave violazione dei diritti umani, costituisce un innegabile passo indietro rispetto ai contenuti espressi all’interno della Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti adottata dal governo italiano in attuazione della Comunicazione della Commissione europea n.173/2011.

ma, intanto:

Corte Europea, stop a sgombero campo Rom

I giudici hanno accolto ricorso di cinque famiglie

 TORINO, 19 MAR – La Corte europea per i diritti dell’uomo ha sospeso lo sgombero del campo nomadi di Lungostura Lazio a Torino, abitato da rom di origine romena. I giudici, accogliendo un ricorso di cinque famiglie, ha bloccato le procedure fino al 26 marzo, ordinando al governo italiano di fornire informazioni sulla sistemazione degli occupanti.

le tragedie lette con gli occhi della discriminazione

 

 

 colpevole di essere rom: da Nashville a Roma

due tragedie: due misure

le tragedie sono tragedie, ma se capitano a dei rom sembra che valgano il doppio e da leggere con una severità discriminante:

una analisi di Danilo Giannese in merito a quanto successo in un campo rom nella periferia di Roma, dove un bimbo ha trovato un coltello e ha ferito gravemente la sua amichetta di poco più grande:

 

 

Una settimana fa a Nashville, capitale del Tennessee, Stati Uniti, un bambino di tre anni ha trovato una pistola automatica in casa e ha sparato al fratellino di 18 mesi. Il piccolo, colpito alla testa, è morto sul colpo. Si è trattato di una tragedia. L’ennesima tragedia, negli Stati Uniti, legata alla diffusione delle armi.

Qualche giorno fa, in un campo rom nella periferia di Roma, un bimbo ha trovato un coltello e ha ferito gravemente la sua amichetta poco più grande. Le condizioni della piccola restano gravi ma nelle ultime ore sono stati segnalati dei miglioramenti.

Stesse dinamiche, da Nashville a Roma – con conseguenze differenti, per fortuna. Una tragedia a Nashville, una tragedia – sfiorata – a Roma. Eppure, di fronte a quanto accaduto nel campo rom nella Capitale, in molti, soprattutto sul web, non si sono soffermati sull’aspetto tragico della vicenda ma hanno automaticamente collegato la tragedia alla caratteristica di essere rom della piccola.

Gli utenti del web, nei loro commenti sui siti e social network di riviste e quotidiani on line, non si sono lasciati scappare l’occasione di sputare odio, rabbia, ferocia, cattiveria su un’intera comunità, un intero gruppo di persone. La tragedia che vede un bambino ferire gravemente la sua amichetta con un coltello diventa colpa e responsabilità da addossare “ai rom”, “agli zingari”. Un buon motivo in più per gridar loro contro e auspicarne la cacciata dall’Italia.

«Dovrebbero togliere i figli a sta gente che non li merita!!!!».

«Sempre con questo immaginario del bambino innocente. .il bambino è solo il “prima” dell adulto, e non sempre la precoce età ti rende immacolato.. io la morte non la auguro a nessuno, ma riguardo i rom, sono estremamente razzista».

La bambina è colpevole di essere rom, dunque. E commentare la notizia diventa pretesto per esternare odio e rancore. E addirittura augurarsi la morte della bambina rom.

«Fosse per me…una in meno», recita uno dei commenti, e non è di certo il solo.

Tutto ciò fa riflettere ulteriormente sul livello di antiziganismo – l’intolleranza nei confronti di persone rom e sinte – presente nel nostro Paese.

L’Italia, secondo un rapporto dell’autorevole istituto di ricerca americano PeW Research Center, si pone al primo posto tra i Paesi europei per livello di antiziganismo. L’85% degli intervistati ha espresso una opinione indistintamente negativa verso rom e sinti, contro il 66% in Francia e il 41 % in Spagna, Paesi peraltro in cui i rom sono ben più numerosi che da noi (solamente in Spagna, ad esempio, vivono 800 mila rom).

Nel nostro Paese, poi, si registra più di un caso al giorno di incitamento all’odio e alla discriminazione verso rom e sinti, nella gran parte dei casi riconducibile a frasi e dichiarazioni di esponenti politici. I dati, va da sé, non tengono conto di commenti e esternazioni degli utenti del web, che farebbero schizzare alle stelle questi numeri.

Lo scorso gennaio, in occasione della Giornata della Memoria – giorno in cui si ricordano tutte le vittime delle persecuzioni nazi-fasciste, tra cui oltre 500 mila rom e sinti sterminati nei campi di concentramento – l’Associazione 21 luglio ha presentato il rapporto “Vietato l’ingresso”, curato dal ricercatore Roberto Mazzoli.

La pubblicazione – che si apre con l’analisi dell’episodio del cartello recante la scritta “È severamente vietato l’ingresso agli Zingari”, comparso sulla vetrina di un esercizio commerciale di Roma nel marzo 2014 – ha messo a confronto, attraverso il dialogo, la comunità rom e la comunità ebraica a Roma, due comunità entrambe vittime, nel corso della storia, di discriminazioni, violenza e razzismo. Analizzando e riflettendo sugli stereotipi e i pregiudizi negativi che attanagliano, oggi più di ieri, rom e sinti in Italia.

Sono pregiudizi che continuano a dipingere i rom come autori di azioni illegali e criminali, quando in realtà manca quella sfera che porta in luce realtà totalmente diverse. In Italia ci sono circa 180.000 rom e sinti, di cui tre quarti vivono una vita come quella di qualsiasi cittadino, hanno un lavoro e studiano.

Invece un quarto vive nei ‘campi’ ed è di loro che si parla esclusivamente senza approfondire le cause del disagio all’interno di questi campi, che come ha portato alla luce l’inchiesta ‘Mafia capitale’ sono luoghi di segregazione sui quali ci sono anche interessi economici.

Tutto questo si trasforma in pregiudizio negativo. Tutto questo – unito al fatto che il 99% dei commenti negativi nei confronti di rom e sinti viene da chi un rom o un sinto non l’ha mai conosciuto in vita sua (già, perché l’incontro e il dialogo i pregiudizi li sciolgono come neve al sole) – si trasforma nell’augurar la morte a quella bimba rom in quel campo alla periferia della Capitale.

Mentre a Nashville è avvenuta una tragedia…

 

sempre più xenofobia e odio verso i rom

arriva una famiglia rom, insulti razzisti

la presenza di una coppia con otto bambini scatena la rivolta su Facebook. Il Comune: frasi vergognose, faremo denuncia

 

 In Sardegna, a Sorso, una famiglia di etnia rom si insedia nell’agro e sul web scoppia la rivolta. Marito e moglie si sono stabiliti in un oliveto fra le località “La Pauledda” e “Badde Caddoggia” assieme ai loro otto figlioletti, con tanto di roulotte e forti del loro contratto preliminare d’acquisto del terreno. Ma non avevano fatto i conti con i pregiudizi degli abitanti di Sorso. Le richieste di sgombero immediato sono centinaia, così come il fiume di commenti a sfondo razzista che scorre in un gruppo Facebook cittadino: l’amministrazione comunale denuncerà i fondatori per danno d’immagine.

Protestano anche i residenti dell’agro, a loro dire intimoriti dalla presenza degli stranieri. Quando vigili urbani e carabinieri si sono addentrati nell’agro sorsense – allertati da un considerevole numero di segnalazioni – hanno appreso che quel terreno di poche migliaia di metri sarebbe in realtà un prossimo acquisto. Infatti, la famiglia di etnia rom ha esibito un contratto preliminare di vendita (la cui attendibilità sarà accertata). In città si mormorava da tempo circa l’arrivo di nuovi “ospiti”. Il recente sgombero del campo nomadi di Alghero ha infatti messo preoccupazione a molti. I più fantasiosi avevano sentenziato che il Comune di Sorso fosse pronto a installare un campo nomadi in un lotto vicino al campo sportivo “Piramide”, lungo la via Puggioni. «Abbiamo le prove, le casette saranno installate qui», recita la didascalia di una foto postata sulla rete. Salvo poi scoprire che si tratta di una zona destinata alla costruzione delle case popolari dell’Ex Area.

La linea di demarcazione fra timore e disprezzo non è mai stata così sottile. Il pregiudizio ha covato sotto la cenere per qualche settimana per poi esplodere nelle ultime ore in un odio soltanto all’apparenza “telematico”. Il gruppo Facebook “No all’accampamento degli zingari a Sorso” (già il nome la dice lunga sui toni sprezzanti utilizzati nei post interni) è stato fondato pochissimi giorni fa. Impressionante l’affluenza degli utenti, arrivati a quasi 1200 in circa 48 ore.

La valanga di proteste e improperi ha costretto l’amministrazione comunale a intervenire per placare gli animi, soprattutto per evitare un danno d’immagine ormai irrimediabilmente consumato. Il commento più gettonato è un condensato di bestemmie dialettali e incitamento all’odio razziale: «in qualsiasi luogo siano che vengano bruciati», con tanto di like da parte di politici locali: pessima idea. E più sotto una, due, tre foto di baracche e passeggini in fiamme fra gli apprezzamenti degli altri convenuti. C’è poi chi ha pensato addirittura di organizzare vere e proprie squadriglie di ricognitori per accertarsi della situazione «di persona».

I primi a coglierne i segnali di pericolo di queste affermazioni sono proprio le forze dell’ordine, consce che la bomba sociale andrebbe disinnescata. «A Sorso non potrà essere installato un campo rom». A dirlo è l’assessore alla Cultura, tranquillizzando i concittadini attraverso un blog. «Questa famiglia non usufruisce di alcun servizio del Comune di Sorso, scuolabus compreso», scrive l’assessore Angelo Agostino Spanu, che aggiunge: «non hanno ricevuto alcun contributo dal Comune o dai servizi sociali». Il primo cittadino, Giuseppe Morghen, nei prossimi giorni incontrerà il prefetto di Sassari per chiarire la road map di un possibile intervento. Lo scenario è in evoluzione e le decisioni finali dell’amministrazione verranno rese note nei prossimi giorni.

“l’Italia discrimina i rom” : parola del Consiglio d’Europa

 

Consiglio d’Europa: Italia ancora discriminatoria con i rom

(da Radio Vaticana)

campo rom alla periferia di Napoli

  
l’Italia non garantisce pieni diritti ai Rom. E’ la denuncia che oggi arriva dall’Ecri, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa, nel suo ultimo rapporto sull’Italia
Francesca Sabatinelli:

Non sono sufficienti, e soprattutto sono lenti, i passi compiuti dall’Italia verso la tutela dei diritti dei i Rom. L’Ecri punta il dito contro la Penisola che, nonostante i progressi compiuti negli ultimi tre anni, non ha ancora introdotto misure misure per assicurare ai Rom colpiti da ordini di sgombero i diritti garantiti agli altri cittadini, ossia la possibilità di contestare l’ordine di sgombero, di sfratto, davanti a un tribunale e la possibilità di accedere a un luogo dove poter abitare, ciò che si sarebbe verificato in occasione degli sgomberi del luglio scorso. Gianni Rufini, direttore di Amnesty International Italia:

 Strasburgo richiama l’Italia. Roma risponde: “Stiamo smantellando i campi”

Il rapporto del Consiglio d’Europa critica l’Italia per la mancata integrazione dei Rom nonostante i fondi investiti. La capitale reagisce annunciando il superamento definitivo dei sette villaggi della solidarietà e dei quattro centri di raccolta dei nomadi nel triennio 2015-2018. Ma cosa accadrà a chi non avrà più il campo dove vivere?
 così Flavia Amabile su ‘La Stampa’:

Ancora una volta da Strasburgo arriva un forte richiamo nei confronti dell’Italia e delle sue politiche molto lontane dall’integrazione per i Rom nonostante i fondi investiti. Lo denuncia l’Ecri, la commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, del Consiglio d’Europa, nel suo ultimo rapporto sull’Italia. 

 

Ci sono stati alcuni passi avanti ammette la commissione – ma il processo che dovrebbe portare al pieno rispetto dei diritti dei Rom «è lento». Più di ogni altro aspetto, l’Ecri sottolinea che le autorità italiane non hanno ancora introdotto misure per assicurare ai Rom colpiti da ordini di sgombero i diritti garantiti agli altri cittadini, vale a dire la possibilità di contestare l’ordine di sgombero, di sfratto, davanti a un tribunale, e la possibilità di accedere a un luogo dove poter abitare. 

 

Non è il primo richiamo nei confronti dell’Italia da parte di Strasburgo. Il Campidoglio assicura che sarà uno degli ultimi se non proprio l’ultimo. Roma ha avviato un percorso di superamento dei campi rom, assicura l’assessore alle Politiche Sociali Francesca Danese. Nel corso degli anni hanno assorbito investimenti davvero notevoli senza risolvere alcun problema anzi: hanno ghettizzato ancora di più chi era all’interno e permesso la sedimentazione del malaffare, spiega l’assessore. Il sistema sarà superato promette e altrettanto fa il sindaco Ignazio Marino. Se le promesse verranno mantenute si procederà per gradi, partendo dai campi di via Salvini e il Residence Rom e proseguendo con gli altri. Nel lungo termine si dovrebbe arrivare al superamento definitivo dei sette villaggi della solidarietà e dei quattro centri di raccolta dei nomadi, nel triennio 2015-2018 si vorrebbe arrivare alla chiusura di due insediamenti e di due centri provvisori.  

 

Che cosa accadrà a chi non avrà più il campo dove vivere non è chiaro. Per chi è nei residence ci saranno dei buoni casa per gli altri si sta tentando di capire se si potrà pensare a dei “percorsi personalizzati”. Tutto è possibile anche se le cifre del problema impongono molta cautela. Ci sono circa 40mila rom e sinti su più di 100mila che abitano in insediamenti formali ma anche del tutto improvvisati nelle periferie di tutt’Italia. A Roma ad abitare nei campi veri e propri sono 4.391 rom (dai circa mille di Castel Romano, fino agli appena 150 di Lombroso), altri 680 vivono nei centri di raccolta. A non avere una casa è una percentuale molto bassa della popolazione Rom e Sinti . 

 

Cifre e costi sono contenuti in un rapporto del consigliere Riccardo Magi, presidente dei Radicali italiani, e dall’associazione 21 Luglio su richiesta dello stesso sindaco Marino. Solamente nel 2013, oltre sedici milioni di euro, cui circa il 60% rappresentato dai soli costi di gestione. Per il mantenimento di ogni famiglia all’interno, si va dagli 11 mila del Villaggio di Lombroso (con 30 famiglie presenti), agli oltre 27 mila del villaggio di Castel Romano (con 198 famiglie presenti). E non è tutto. Nei tre Centri di raccolta Rom il costo annuo per famiglia è quasi doppio, per un totale di oltre sei milioni di euro, nonché le spese sostenute ogni ano dal Comune di Roma per gli sgomberi, superano il milione e mezzo. Soldi investiti in un’operazione che ha ottenuto in questi anni la bocciatura del Tar, del Consiglio di Stato e, nel 2013, della Cassazione hanno portato almeno al superamento dell’emergenza.  

 

 

 

il prete che fa a gara con gli islamisti incendiari

 

 

 


il prete chok: “arrivano i rom, avete un fiammifero?”

Il sacerdote prova a giustificarsi: “Ho scritto quel post per invitare i fedeli a non aggiungere benzina sul fuoco. E in chiesa mancano fiammiferi”
una frase choc, che ha lasciato di sasso tutti i fedeli. A un post su Facebook in cui si annunciava la presenza di “due o tre famiglie di rom“, un sacerdote della parrocchia di San Francesco in Tirrenia, in Toscana, ha risposto con un un incauto “avete un fiammifero?”.

Una frase a cui un altro utente ha risposto “Per la benzina offro io”. Nonostante sul social network non siano mancati commenti anche violenti nei confronti dei nomadi, la comunità parocchiale ha preso le distanze dal religioso. Il commento incriminato, racconta La Nazione, è stato segnalato alla polizia municipale, che ha contattato il sacerdote.

E proprio al quotidiano fiorentino il prete ha spiegato le ragioni di quel commento, che ha peraltro cancellato e modificato in poche ore: “Ho scritto quel post perché nella nostra chiesa mancano i fiammiferi nei candelieri e anche per invitare a stare attenti i miei parrocchiani a non aggiungere benzina sul fuoco – diceva ieri il sacerdote che otto anni fa è arrivato dalla Romania e conosce molto bene le difficilisituazioni legate alla convivenza con gli zingari –. I nostri frati, nel mio Paese, lavorano nei centri di accoglienza e accanto agli zingari. Non ho scritto niente di male, né di razzista. Ognuno capisce quello che vuole e può fraintendere. Nella mia coscienza non ho niente contro alcuno. Ho solo voluto dare un messaggio.”

Nel frattempo in paese monta la polemica per le segnalazioni della presenza dei nomadi nell’area abbandonata di Ciclilandia. Dopo il ritrovamento di alcuni buchi nella rete del parco, la polizia municipale di Tirrenia ha portato a termine un sopralluogo, dal quale non è emersa però alcuna presenza anomala.

quale speranza dalle macerie?

 

 “chiudere i campi e avviare percorsi di inclusione sociale si può
ad#‎Alghero‬ è appena successo. Grazie al dialogo e alla collaborazione tra i ‪#‎rom‬, l’associazione ASCE ROM e le istituzioni locali
dopo oltre 30 anni il campo dell’Arenosu è stato sgomberato e per le famiglie ora inizia una nuova vita in cui dar voce ai propri sogni e speranze”

 SPERIAMO!

 

 

 

 

 

 

al di là degli stereotipi

 

 

 

‘Sette Donne Rom’: un libro contro gli stereotipi

una testimonianza ‘dentro il campo’

sette donne

gli stereotipi sono difficili da contrastare, vivono di odio sottile e carsico, s’infilano nella nostra quotidianità e si basano spesso sull’ignoranza di entrambe le parti coinvolte. La paura “dell’altro” e “dello straniero” è vecchia come il mondo e in un mondo globalizzato come il nostro diventa sempre più difficile capire tutto ciò che richiede uno sforzo maggiore della semplice “visione di superficie”. Il libro “Sette donne rom” di Cristina Mattiello, con la prefazione di Moni Ovadia e le illustrazioni di Lorenzo Terranera, della casa editrice Cambiaunavirgola, prova a compiere questo percorso: andare oltre “il campo rom”, raccogliendo le testimonianze di sette donne che hanno partecipato al programma “Or.Me.” (Orientamento Mediatori), promosso dall’Arci Solidarietà Onlus per facilitare il legame tra la loro popolazione e le strutture socio-sanitarie del territorio. Un percorso a tappe che prevede un corso di alfabetizzazione della lingua italiana e di formazione sulle tematiche sanitarie, seguito da un tirocinio in strutture pubbliche e laboratori della Croce Rossa e, infine, la ricerca di un impiego. Abbiamo intervistato l’autrice per capire meglio alcuni punti critici di questo viaggio dentro una cultura “altra”, con le sue peculiarità, i suoi limiti ma anche le sue speranze.

 
 

Quali difficoltà avete incontrato nel parlare e nel relazionarvi con le donne di cui avete raccontato le storie?

Tutte le donne avevano già un rapporto personale molto stretto e “caldo” con Alessia Damiani, operatrice sociale nel campo della maggior parte delle protagoniste e coordinatrice del progetto di formazione di cui si racconta la storia. La fiducia era data per scontata e io sono facilmente entrata emotivamente in contatto con tutte loro, come dentro a un cerchio affettivo, ponendomi in una situazione “vera” di ascolto e comunicazione fra donne. Non ho gestito le interviste pensando alle “regole” precostituite del giornalismo o della ricerca socio-antropologica, o anche della storia orale. Ho cercato di essere “autentica” nel rapporto, il più informale possibile. Ho semplicemente detto loro: “Raccontatemi quello che è successo e vi aiuto a scriverlo: lo fate voi il libro! Perché è importante farlo!”. Il resto è venuto da sè. Il livello emozionale è stato sempre in primo piano. Spesso io e Alessia quasi ci commuovevamo per la corrente empatica che si veniva a creare. E’ successo anche nella prima presentazione. Lo scambio andava sempre ben al di là dell’intervista per il libro: entravano in gioco i loro problemi, i loro stati d’animo e io, noi, ci mettevamo veramente in gioco, pur mantenendo in qualche modo anche i nostri ruoli professionali. Ma le interviste erano sempre soprattutto un momento di scambio personale reale.

Nel libro molte di loro descrivono la vita del campo “come una gabbia”, uno spazio che le protegge ma che le rende anche isolate dal resto del mondo. È una condizione che avete riscontrato anche in altre occasioni e con altre donne rom?

Sì, è una condizione molto diffusa, in genere, però è il desiderio di una vita nuova che prevale. Ma che si scontra inevitabilmente con l’impossibilità di pensare davvero a “uscire”: manca il lavoro, la casa, tutto … Il “campo”, contrariamente a quanto si crede, è un’invenzione italiana, assolutamente non un modo di vivere tradizionale. E’ di fatto un ghetto etnico, un microcosmo chiuso che non può che alimentare la spirale del degrado, dell’emarginazione e della passività. Oggi le associazioni solidali chiedono con forza il superamento di tutti i campi e la riconversione dei fondi – molti, che l’Europa continua a darci – in progetti di vera inclusione. Sarebbe possibile, basta volerlo! .

Uscire dal campo per molte è anche un modo “per sentirsi utili” o per “svegliarsi e avere qualcosa da fare” come affermano alcune di loro (molte dichiarano “voglio fare qualcosa anch’io per i miei figli”). Quali sono le resistenze che avete incontrato da parte della loro comunità e da parte di quella “ospitante” (in questo caso italiana)?

Le donne hanno parlato con sincerità delle difficoltà incontrate a volte in famiglia per gli spazi anomali di libertà dai doveri domestici che il progetto comportava. Ma hanno anche raccontato come i mariti alla fine hanno accettato di aiutarle, gestendo loro i bambini quando era necessario. C’è da dire che tutti i componenti delle famiglie hanno un rapporto stretto con gli operatori del campo e questo credo che abbia giovato. All’esterno, invece, è stato del tutto positivo il rapporto non solo con i formatori, ma anche con tutte le persone incontrate durante i tirocini in ambiente sanitario, inclusi i pazienti stessi – cosa che non era scontata! Il servizio sanitario pubblico in particolare si è dimostrato molto accogliente. Le donne si trovavano bene, si sentivano accettate: è un aspetto che mi interessava molto e ho insistito con le domande per esplorarlo a fondo. Invece il libro mette in luce efficacemente, secondo me, le difficoltà con cui sempre i rom e le romnì si scontrano nella ricerca di un lavoro. E’ questo il momento in cui la discriminazione e gli stereotipi sono un ostacolo spesso insormontabile. Nel caso delle protagoniste del libro, però, per fortuna, ci sono stati anche risultati positivi e assunzioni.

Ci sono stati casi in cui il percorso di “ponte” tra le due comunità è stato traumatico e non ha portato a nulla e quali volete indicare invece come brillanti e pieni di speranza?

Un operatore della CRI ha raccontato il suo sgomento e la sua indignazione quando, accompagnando una delle donne a conclusione del percorso formativo ad un colloquio di lavoro, l’ha vista rifiutare, esplicitamente “perché rom”, nonostante lei avesse una “borsa lavoro” istituzionale (sarebbe stato quindi lavoro gratis per loro!). Credo che questo episodio dia un buon argomento per rispondere a tutti quelli che dicono che i rom non vogliono lavorare. Segnali di speranza, momenti di luce: molti, davvero molti. Penso a Doina, che ha il coraggio di andare a un colloquio senza “mimetizzarsi”, senza cioè nascondere l’identità di rom, e, bellissima nel suo abito bianco con la gonna a balze, viene assunta. A Elvira che alla ASL aiuta una ragazza poverissima e del tutto inesperta e le insegna come tenere il bambino, fuori da ogni protocollo. O a Mara, capace di parlare a tutte noi emozionandoci con la sua saggezza e sensibilità. O al coraggio di Simona, che, dopo mesi di ospedale, mentre lottava per riprendersi da una malattia che poi purtroppo l’ha sopraffatta, mi diceva: “Il sorriso resta sempre”. E faceva battute: “Mi fai sempre ridere e piangere quando facciamo le interviste”, dicevo io … E tanti altri episodi, tanti. E’ un libro di speranza, sicuramente.

Non solo essere rom ma essere una donna quali problematiche aggiuntive può avere nel percorso di avvicinamento alla comunità che li dovrebbe accogliere? Ci sono casi particolari che volete segnalare?

Essere donna comporta difficoltà in più per la resistenza che può fare la comunità rom rispetto a un percorso di emancipazione, o per i condizionamenti soggettivi, quelli che la donna vive dentro di sé a prescindere dalle pressioni esterne, i sensi di colpa, i legami affettivi familiari, ecc. Ma una volta che si sia reso possibile l’andare “fuori”, credo che l’essere donna aiuti invece molto nella comunicazione. Le donne sanno stabilire ponti e legami soprattutto attraverso il canale emotivo. Una volta aperto il contatto, è facile per le donne romnì renderlo intenso. E in genere sono molto coinvolgenti. Come dice Moni Ovadia nella prefazione, sono “donne che ascoltano il cuore” e la riposta quasi sempre arriva. Il libro è un libro al femminile, e sono tanti i casi in cui queste dinamiche positive fra donne sono evidenti: nella fase preparatoria, nel percorso di formazione, nei tirocini, nelle esperienze che le donne raccontano, e anche nelle interviste con me, arrivata da poco fra loro. Come il rapporto tra Elvira e l’anziana signora da cui lavorava, o il confronto sui temi della maternità e della contraccezione. Molto bella è anche la figura della d.ssa Leotta, che lavora alla ASL nel servizio per gli stranieri e le fasce a rischio: “più che un medico, un’amica, la madre di tutte noi”, la definiscono le donne del campo di Candoni, è un loro punto di riferimento costante, anche sul piano emotivo.

Quali sono i programmi messi in atto che hanno portato i maggiori benefici per la comunità? (nel libro si parla spesso di molti miti legati alla salute che vengono sfatati, aspetti legati alla gravidanza e all’assistenza di persone invalide). Quali sono invece quelli che andrebbero fatti con maggiore convinzione?

Tutto il contesto sociale crea e alimenta l’emarginazione di queste comunità, tutto “rema contro”. Un percorso di crescita come quello descritto, quindi, è di per sè molto positivo per tutti, perché dimostra che si può uscire dalla condizione passiva a cui spinge la vita nel campo. E che anche i rom, se se ne dà loro l’occasione, possono farcela ad esser qualcosa di diverso dall’immagine negativa che si trovano buttata addosso costantemente. Sono questi i progetti che andrebbero incentivati, generalizzati. Basta con i ghetti: bisogna aiutare le comunità rom a vivere una vita dignitosa, nel rispetto della loro specificità culturale, ma come tutti gli altri in quanto a diritti e condizioni sociali. L’esperienza descritta nel libro è stata una goccia nel mare, ma importantissima, perché può – dovrebbe – dare spunti per tante altre esperienze simili. Per quanto riguarda la salute, certo è emersa un distanza forte tra quello che le donne hanno imparato fuori e il modello tradizionale, soprattutto nel campo della contraccezione, e anche nella gestione del neonato. Ma l’obiettivo generale, che era quello di avvicinare la comunità alla sanità pubblica e ai servizi, e di fornire al campo figure interne di mediatrici che possano facilitare questo rapporto, mi sembra che sia stato raggiunto. Anche in questo caso, però: a mio avviso la formazione andrebbe offerta a tutti, molto più di quanto si fa.

Quali sono stati gli stereotipi che avete visto privi di fondamento nell’avvicinarvi alla loro comunità?

Tra tutti gli stereotipi, quello più ingiusto è quello terribile della “zingara rapitrice” di bambini. Secondo tutte le ricerche, non c’è un solo caso dimostrato! Ci sono stati nel tempo anche diversi processi, tutti conclusi con un’assoluzione. E entrando in contatto con queste comunità, davvero ci si chiede come sia possibile lanciare loro addosso un’immagine così pesante e infondata. Quando si entra in contatto con loro, ci si rende subito conto che sono persone come tutti noi, con pregi e difetti individuali, con personalità diverse fra loro, come tutti, insomma, cosa che gli stereotipi e la discriminazione ci vorrebbero far dimenticare. E si diventa facilmente loro amici. Sono però persone che vivono in condizioni disumane – anche senza acqua e senza luce, molte volte – condizioni che spesso rendono impossibile, ad esempio, non essere “sporchi”. Ma questo non vuol dire che i rom siano tutti “sporchi” per scelta o, peggio, per “natura”. Anzi, ci si sorprende di quanto curino la loro casa e la loro immagine, quando possono: alcuni ce la fanno anche in condizioni davvero difficili, dovremmo chiederci che cosa faremmo noi al posto loro. Vale per tutti gli stereotipi, ma nel caso dei rom, davvero, lo stereotipo è rafforzato dalle condizioni in cui li facciamo vivere: è un circolo vizioso. Più sono emarginati, più vengono loro negati i diritti minimi, più si rafforza l’immagine negativa, più vengono emarginati, ecc. E il campo da questo punto di vista, sì, è veramente una gabbia. Come ho già detto, bisogna dare loro l’opportunità di percorsi di formazione, una situazione abitativa decente, bisogna aiutarli a costruirsi occasioni di lavoro. In quei pochi casi in cui ciò si verifica, gli stereotipi si smontano da soli.

quando i rom erano gli italiani

 

“La zingarata della verginella di via Ormea”

quando i rom erano gli italiani

di Elisa Murgese |

15 gennaio 2015

si tratta dell’ultimo romanzo dell’algerino Amara Lakhous. Il giallo parte da un fatto di cronaca – una 15enne torinese inventa di essere stata stuprata da due zingari – per attraversare le radici degli italiani, popolo di migranti, e le leggende sui gitani

algerino

 

 

  •  ”Rovistano tra i rifiuti nelle nostre strade, i loro bambini crescono in luridi scantinati e poi vengono spediti nelle strade a fare soldi”. Non è una frase tratta da un giornale italiano e riferita ai rom, ma un articolo del New York Times del 1882 in cui un giornalista descrive gli italiani d’America. Questa l’epigrafe di La zingarata della verginella di via Ormea, ultimo romanzo di Amara Lakhous (edizioni e/o). Nato ad Algeri nel 1970 e fuggito in Italia all’età di 25 anni, Lakhous è una delle voci che meglio ha saputo rappresentare il rapporto degli italiani con i nuovi italiani e gli anti-italiani. Il romanzo, metà commedia all’italiana e metà giallo, si basa su un fatto di cronaca: una 15enne del quartiere torinese di San Salvario finge di essere stata violentata da due rom. Pochi giorni dopo un campo nomadi è dato alle fiamme, ferendo anche una donna e il suo bambino. Sarà il giornalista di cronaca nera Enzo Laganà a dover chiarire se lo stupro è avvenuto davvero. E la cronaca farà giustizia: la ragazza si era inventata tutto.
  • Quando è stato il suo primo incontro con i rom? In una leggenda di mia madre. Sono il sesto di nove figlie e i miei genitori non potevano controllare tutti. Per metterci in guardia, i miei genitori hanno inventato la storia di una giovane donna era andata in ospedale con il suo bambino. Dovendo andare in bagno, ha chiesto ad una vecchia di curare suo figlio. Ma quando è tornata la vecchia e il bambino erano spariti. La giovane donna non si era accorta che la vecchia fosse una zingara.
  • Quindi? Non sono d’accordo sul bisogno di insistere sulla moralità dei giornalisti e sul fatto che debbano essere. Loro rispecchiano la società in cui lavorano. E comunque, i danni fatti dai giornali sono sempre minori di quelli della tv. Pensiamo ai danni fatti da Emilio Fede e Bruno Vespa: sono incalcolabili.
  • Cosa l’ha spinta a scrivere sui rom e sull’Italia? Ho scritto questo libro partendo da due assurdità. La prima è che nonostante i rom siano arrivati in Piemonte nel Medioevo, ci troviamo ancora a parlare della paura che hanno gli italiani nei loro confronti. La seconda è una domanda: fa più danno un rom che ruba un portafogli o le banche che mi hanno cercato di vendere le azioni Parmalat?
  • Cosa intende? Il vostro immaginario è turbato dalla storia. Non esiste un altro popolo che è emigrato tanto in tutto il mondo come gli italiani. A questo si aggiunge chi dal meridione è venuto al nord. Questo passato per voi è ancora una ferita. Invece l’Italia dovrebbe guardare al passato dei suoi cittadini e ricordarsi che c’è una differenza tra il povero e il poveraccio.
  • Da qualche mese dall’Italia si è trasferito a New York. Perché? Mia moglie sta facendo un dottorato e l’ho seguita. Sto facendo l’immigrato. La vita è sempre fatta di sfide. Non si può crescere senza sfide e a me piace giocare in attacco.
  • Cioè? I migranti che arrivano oggi in Italia non sono poveracci, sono persone coraggiose e spesso istruite. I vigliacchi non emigrano. E questo gli italiani dovrebbero saperlo bene. L’immigrazione è una grande sfida ma come tutte le sfide se non sei attrezzato non vinci. E in questo l’Italia sta perdendo. Basti pensare agli immigrati di seconda generazione a cui non viene neppure riconosciuta la cittadinanza.
  • E’ il quarto romanzo sull’Italia. E’ la chiusura di un ciclo? Si, proprio così. Ho voluto scrivere tanto su questo Paese che mi ha accolto quando sono scappato dall’Algeria nel 1995. Ho cercato di lavorare sulla memoria italiana e di tranquillizzarne l’immaginario.
  • Crede che l’Italia sai un Paese accogliente? L’Italia non lo so, alcuni italiani di certo. C’è poi un grande paradosso tutto vostro: avete una grande diffidenza nei confronti degli immigrati e allo stesso tempo affidate i vostri genitori a donne straniere.
  • Quali sono secondo lei le origini di questo racconto? Siamo spaventati da povertà e malattia. E vediamo nei rom quello che non vogliamo essere. Sei anni fa ho collaborato a Barbari, un programma su La7. Volevamo raccontare la vita delle comunità straniere in Italia. Siamo anche entrati nei campi rom. La loro è una vita molto dura. Non so quante persone sarebbero in grado di vivere in quelle condizioni.

le bufale di internet contro i rom

«Il tesoro dei Rom trovato a Grosseto». Ma è una bufala

falsa notizia circola sul web e sui social: smascherata e rimossa, ha comunque seminato odio a sfondo razzista:

la ricostruzione giornalistica  di Gabriele Baldanzi

 Grosseto, negli ultimi giorni, è stata al centro di una delle tante bufale che imperversano sul web, sui social. Ha ottenuto infatti centinaia di like, visualizzazioni e rilanci la storia _ assolutamente falsa _ dei 6 milioni di euro in contanti ritrovati in un campo Rom, proprio a Grosseto. Tutto inventato, tutto costruito ad hoc per viralizzare, creare dibattito, rinfocolare odio. E infatti si contano centinaia di commenti alla notizia in cui si offende questa etnia e si getta discredito su una parte politica.

Il lancio della notizia è avvenuto su Gsn, acronimo di Generazione Social Network, poi alcuni quotidiani on line hanno ripreso la storia dandole ulteriore risalto. Riportiamo integralmente l’articolo, falso dalla prima all’ultima riga.

«Grosseto, 1° dicembre 2014. Il tutto ha avuto inizio questa mattina a seguito di una denuncia per aggressione presentata da una donna anziana che sosteneva di essere stata aggredita durante la notte da un gruppo di persone con l’accento dell’Est, quasi certamente provenienti dal campo Rom nelle vicinanze della sua casa. All’alba i Carabinieri hanno così data il via a una serie di interrogatori e perquisizioni, non gradite però dalle famiglie Rom che sin da subito si sarebbero scagliate contro gli agenti con l’ausilio di spranghe e sassi. A seguito dell’arresto di alcuni giovani e all’allontanamento dei minori, avrebbero avuto inizio le perquisizioni che hanno portato alla luce un fucile, una pistola e circa 6 milioni di euro in contanti; il tutto occultato all’interno di un materasso messo a terra e utilizzato per dormire da due bambine di 7 ed 8 anni, quasi sicuramente ignare della fortuna posseduta all’interno del loro “letto” e le quali ogni giorno venivano sfruttate e inviate dai loro genitori a chiedere l’elemosina nel parcheggio di un supermercato non molto distante. Il tutto ha inizialmente destato molti sospetti, viste le condizioni igieniche e le presunte condizioni economiche della famiglia, la quale, sin dal loro arrivo in Italia ha sempre ottenuto un sostegno economico dal Comune, addirittura recandosi per circa due volte al mese alla sede provinciale per il ritiro dei buoni pasto e la consegna delle bollette per richiedere il pagamento da parte del Comune».

Qualcuno però, per fortuna, ancora si interroga su ciò che è vero e ciò che non lo è. E così sono stati subito colti ed evidenziati errori e anomalie nell’articolo. Il sito Bufale.net, per esempio, raccogliendo la segnalazione di alcuni lettori grossetani, ha ricostruito la filiera del presunto scoop. In primo luogo risulta farlocca la data riportata: “1° dicembre 2014”? In realtà questo testo è la riproposizione di un pezzo identico che lo stesso portale aveva pubblicato sui social il 28 novembre, rimettendolo in circolo tre giorni dopo, con il mutamento di data. Probabilmente per riaccenderne la viralità. Non solo. Anche le immagini della notizia risultano riciclate. L’articolo è stato sicuramente redatto con l’aiutino di Google Immagini. Interpellato, infatti, con alcune parole chiave come “Milioni di euro” ecco che appare l’hyperlink corretto alla prima immagine utilizzata. Proviene da un articolo del quotidiano la Repubblica, relativo al sequestro, ad opera della gendarmeria francese, di un’ingente somma di denaro nascosta in un’Audi. Fatto avvenuto a Strasburgo. Insomma nulla a che vedere con i Rom e con Grosseto.

E infatti martedì la notizia è stata rimossa. Nel frattempo si è capitalizzato sul diffuso sentimento contro i nomadi, collezionando in un unico testo tutti i pregiudizi più in voga: zingari violenti, sfruttatori dell’infanzia, fino al “tesoro segreto” che si vorrebbe custodito in baraccopoli e tendopoli.

“fare dei rom cibo per maiali” e “termovalorizzare i rom”: risate indecenti al programma radiofonico ‘la Zanzara’

 

Zanzara shock:  Fare dei rom cibo per maiali

Alla trasmissione di Radio 24 si dà spazio alle tesi che invitano a  termovalorizzare i rom  e allo  sterminio completo degli zingari, donne, uomini e bambini  e citano le intuizioni in materia di Adolf Hitler. Esagerato? Ma no, secondo il conduttore Cruciani  uno può dire quello che vuole 

 

Cruciani

  • Sintonizzandosi sulla trasmissione di punta della radio di Confindustria, si possono ascoltare inviti allo sterminio dei rom, con tanto di citazioni dell’illustre predecessore Adolf Hitler.

Il sindaco leghista di Concamarise, Cristiano Zuliani, commentando l’invito della Presidente del Parlamento Boldrini a «valorizzare i rom», scrive su Facebook: «La ga rason… i rom i va termovalorizzati…». Per l’autore si tratta «di un profilo ironico», per i conduttori della Zanzara un’occasione da non farsi sfuggire. Ieri, 20 novembre, Cruciani e Parenzo l’hanno subito chiamato e, tra i racconti della gesta del nonno in camicia nera, hanno dato ampio risalto alle sue tesi.Del resto, alla trasmissione di Radio 24 le sparate scorrette vanno alla grande. Solo l’altro ieri Cruciani definiva «noiose» le parole della presidente della Camera Laura Boldrini contro il sessismo e la violenza sulle donne, precisando che bisogna «smetterla con questi discorsi», «evviva le donne nude in pubblicità», concludeva il conduttore della Zanzara. «Diciamolo: un bel c…. di donna fa vendere il prodotto» (naturalmente, non volendo usare il linguaggio di Cruciani facciamo fatica a citarne anche solo una frase, perché nella sua trasmissione il turpiloquio è elevato a sistema).Il peggio però era andato in onda mercoledì 12 dicembre, quando i due noti giornalisti hanno ospitato le tesi genocidarie sui rom, nella sostanziale indifferenza generale. Tal Giorgio da Genova telefona al conduttore Cruciani, che conosce il contenuto del suo intervento e assapora lo scoop, iniziando ad auspicare «lo sterminio completo degli zingari, donne, uomini e bambini». Alla domanda interessata del giornalista «se veramente vuol fare dei rom mangime per gli animali», risponde come si organizzerebbe: «Un campo di concentramento, un autocompattatore, da una parte entrano zingari, dall’altra esce mangime per maiali».In realtà, Cruciani non ha fatto alcuno scoop, l’idea non è così originale. E infatti, nei suoi cinque minuti di gloria concessagli da Radio 24, Giorgio da Genova spiega l’illustre riferimento teorico: «Il Mein Kampf se non sbaglio, dice: un animale se lo addestri cambia, uno zingaro non cambia». Adolf Hitler dixit, insomma.Bastava interrompere il collegamento telefonico – anzi, non dargli proprio spazio, dato che il contenuto era ben noto – e invece, a questo punto, va in onda uno scambio di battute tra i due conduttori con un’abile e furba modalità di prendere le distanze, continuando a far parlare il tal Giorgio e fregandosi le mani per l’audience presumibilmente in crescita.Nel gioco delle parti tra i due giornalisti, Parenzo interpreta quella dello “scandalizzato”, mentre il collega fa “il paladino della libertà d’espressione”. Solo presunta libertà d’espressione, essendo più nel campo dell’apologia di genocidio e dell’incitamento pubblico all’odio razziale. Spiega Cruciani: «Uno può dire quello che vuole».È una tesi che fa più male dei riferimenti al Mein Kampf di Hitler e che dimostra come l’Italia non abbia fatto ancora i conti con quella pagina della sua storia in cui, durante il regime fascista, famiglie rom e sinti subivano il rastrellamento – l’ospite di Cruciani e Parenzo direbbe «completo: donne, uomini e bambini» – e l’internamento in campi di concentramento in località italiane (Boiano, Prignano, Gonars, Agnone, Pedasdefogu…) rimosse dalla nostra memoria nazionale.Da qui erano inviati ad Auschwitz e nei lager nazisti, dove venivano mandati al lavoro forzato, poi gasati e passati nei forni crematori. Rita Prigmore, sinta tedesca sopravvissuta agli esperimenti nazisti del dottor Mengele ad Auschwitz, ha raccontato come morì bambina sua sorella gemella Rolanda: «I medici le avevano fatto delle iniezioni di inchiostro negli occhi per tentare di cambiarle colore».Furono tra 500 mila e il milione i rom e sinti uccisi dal piano genocidario nazifascista, proprio secondo le tesi ospitate da Radio 24 e rilanciate da Cruciani con rivendicazione vanitosa e compiaciuta del “politicamente scorretto”.Il tutto veniva trasmesso da Milano, nelle stesse ore in cui i fiumi della città esondavano e, ancora una volta, i rom erano tra coloro che pagavano il conto più salato. Il Lambro straripava e travolgeva tutti gli averi di alcune famiglie che avevano costruito le loro baracche sul greto del fiume. Ma la radio di Confindustria non se ne accorgeva, faceva più notizia (e audience) discettare di come trasformare i rom in cibo per animali.Davvero si “può dire quel che si vuole”? Se così fosse, ha ancora un senso che nel giornalismo si parli di deontologia professionale? E ancora, l’Ordine dei giornalisti non ha nulla da dire? Merita ricordare che i responsabili dell’emittente ruandese “Radio Mille Colline”, che durante il genocidio del 1994 incitavano ad andare fino in fondo con lo sterminio, sono stati condannati dal Tribunale speciale internazionale per il Ruanda a una decina d’anni di carcere. In Italia è reato incitare all’odio e propagandare xenofobia e razzismo?

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