straparlare di integrazione e mettere continuamente bastoni fra le ruote

Donne Rom

Milano

caro Tar, così i Rom non si integreranno mai

respinto il ricorso di una cittadina rom che aveva chiesto l’equiparazione del provvedimento di sgombero, con cui aveva dovuto abbandonare il campo regolare in cui risiedeva, a uno sfratto. Avrebbe così aumentato le chance di ottenere una casa popolare. La protesta delle associazioni: «La sentenza è uno stop all’effettivo superamento dei campi»

Una battaglia giudiziaria da continuare, per sostenere il diritto dei rom alla casa. Così Fondazione Casa della carità e Sicet si sono espresse in merito alla recente sentenza con cui il Tar della Lombardia ha rigettato il ricorso presentato da N.H., ex residente del campo di via Idro, la quale chiedeva che il provvedimento di sgombero dell’insediamento, dove abitava regolarmente dal 1996, fosse equiparato allo sfratto in termini di punteggio per l’assegnazione della casa popolare.

Secondo Casa della carità e Sicet, che insieme a European Roma Rights Centre hanno supportato il ricorso, la sentenza rappresenta infatti uno stop all’effettivo superamento dei campi e a una reale inclusione sociale e abitativa dei rom, sancita anche dalle Linee guida Rom, Sinti e Caminanti approvate nel 2012 dall’allora Giunta Pisapia. “Rispettiamo la sentenza del Tar, ma non ne condividiamo le valutazioni nel merito. Riconoscere per le famiglie sgomberate solo il punteggio di “sistemazione abitativa impropria” è l’interpretazione, restrittiva ed ideologica, che il Comune ha adottato fino ad ora. Invece, equiparare lo sgombero di un campo a un provvedimento amministrativo diretto al rilascio dell’alloggio non è illegittimo, visto che le famiglie di via Idro sono state forzosamente allontanate dalle loro abitazioni in base a una ordinanza sindacale”, è la posizione del Sicet.

La chiusura di via Idro, un campo comunale autorizzato, dove dal 1989 erano regolarmente residenti decine di famiglie, era stata decisa alla fine del 2015 proprio in attuazione di quelle linee guida che, tra le altre cose, prevedevano “l’accesso ordinario all’edilizia residenziale pubblica, secondo le regole in vigore” per raggiungere l’obiettivo di superare “i campi come soluzione abitativa a tempo indeterminato, attraverso percorsi di inclusione e convivenza”. Proprio in virtù di questi principi e dal momento che le famiglie sgomberate dal campo di via Idro non erano lì abusivamente, ma erano regolarmente residenti, Casa della carità e Sicet hanno ritenuto legittimo il ricorso di N.H., scegliendo di sostenerla insieme a European Roma Rights Centre.

“Il superamento dei campi, sostenuto sia a livello comunale che nazionale, non è in discussione. Esso però richiede un accompagnamento delle famiglie verso soluzioni abitative stabili, altrimenti la chiusura dei campi significa far diventare nomadi persone che non lo erano o rendere permanenti soluzioni che invece dovrebbero essere temporanee”, dice in proposito don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità. Secondo la Fondazione, in un momento in cui tanti sono tornati a parlare della chiusura dei campi, dare una reale alternativa significherebbe, per esempio, l’inserimento nel regime delle case popolari di quei nuclei a cui, come nel caso di via Idro, un Comune aveva assegnato a tempo indeterminato un’area ad uso abitativo. In casi come questo, l’equiparazione dello sgombero di un campo regolare allo sfratto rappresenterebbe uno strumento importante per promuovere l’inclusione abitativa delle famiglie che lì avevano una vera e propria casa.

p. Zanotelli chiede dove sono finiti circa 700 rom sgomberati senza alternative

i nostri fratelli rom
di Alex Zanotelli

 

In Italia i rom che vivono nelle baraccopoli sono 28mila. La presenza complessiva in Italia è stimata tra le 120.000 e le 180.000 unità. Sono dati che emergono dal Rapporto Annuale sulla condizione di rom e sinti in emergenza abitativa in Italia, effettuato dalla Associazione 21 luglio e presentato in Senato l’8 aprile in occasione della Giornata internazionale dei rom e dei sinti.
I 28.000 rom in emergenza abitativa rappresentano lo 0,05% della popolazione italiana e sono dislocati in 149 baraccopoli istituzionali, gestite dalle autorità pubbliche e presenti in 66 comuni; in 3 centri di raccolta; in insediamenti informali con 10mila persone, per il 90% di nazionalità rumena.
Le condizioni di vita dei rom che vivono in questi insediamenti sono nettamente al di sotto degli standard igienico-sanitari e l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore rispetto alla media della popolazione italiana.
Lo scorso aprile abbiamo fatto memoria della crocefissione di Gesù. Spesso, anche senza accorgerci, continuiamo a crocifiggere il povero Cristo degli impoveriti, degli emarginati, di quegli scarti che papa Francesco ama chiamare «la carne di Cristo».
Tra questi scarti in Italia ci sono senza dubbio i rom. Come Comitato campano con i rom, siamo impegnati da anni a denunciare le situazioni degradanti. L’ultima è quella relativa allo sgombero del campo rom di via Sant’Erasmo alle Brecce, nel quartiere Gianturco di Napoli. Vi vivevano circa 1500 persone in un contesto disumanizzante. Ho visto situazioni simili solo nelle baraccopoli in Kenya.
Lo scorso anno la Procura di Napoli ha deciso lo sgombero del campo di Gianturco perché ha valutato che sia un’area inquinata e non adatta per viverci. L’amministrazione comunale ha continuato a chiedere proroghe per guadagnare tempo e trovare soluzioni alternative. Nel frattempo, però, ha messo in atto una sorta di mobbing comunale, inviando al campo poliziotti e vigili urbani per sollecitare i rom ad andarsene. E in effetti non pochi rom se ne sono andati e hanno cercato altri spazi dove collocarsi.
Infine il comune ha aperto un campo attrezzato in via del Riposo, a fianco al grande cimitero di Poggioreale. Un campo che Amnesty International definisce «un lager», si tratta infatti di container allineati uno dietro l’altro… Comunque il 7 di aprile il comune ha accompagnato 130 persone rom in questo nuovo campo, annunciando che l’11 aprile avrebbe demolito quello di Sant’Erasmo alle Brecce. Invece la demolizione è avvenuta il 7 aprile stesso.
Per noi è stato un pugno allo stomaco. Anche per il silenzio che ha circondato l’intera vicenda, in particolare della regione, alla quale chiediamo da tempo la convocazione di un Tavolo per studiare soluzioni serie per i rom.
Per questo noi del Comitato campano con i rom e altre realtà della regione abbiamo deciso di manifestare l’11 aprile davanti al municipio di Napoli. Abbiamo portato alcune gigantografie della demolizione del campo, le abbiamo circondate di filo spinato e collocato una grande scritta “le ruspe del comune”. Abbiamo detto al sindaco Luigi de Magistris, che si vanta di una Napoli accogliente, che quella delle ruspe non si può definire accoglienza!
Ad oggi non sappiamo dove si trovino almeno 700 persone che erano nel campo di Sant’Erasmo alle Brecce. È chiaro che andranno a rimpinguare i ghetti che già ci sono o a formarne di nuovi.
Di questa vicenda voglio sottolineare un episodio. Quando ancora il campo rom di Gianturco era funzionante sono entrato con altri del Comitato e una donna ci ha urlato in faccia per dieci minuti: “Ci trattate come animali, ci schiacciate, ci disprezzate. Noi non siamo animali”.
Non dimenticherò questa voce. Nemmeno la celebrazione che della Pasqua che abbiamo fatto, insieme alla Chiesa valdese, il 15 aprile Sabato Santo, come segno di speranza, di resurrezione e di solidarietà con un popolo che non patria, non ha esercito, non ha mai fatto una guerra.
Possiamo stare certi che, se continuiamo a trattare i rom come stiamo facendo, siamo destinati a sbranarci a vicenda. O ci trattiamo tutti come fratelli o non c’è futuro.

sgomberi da morire

diventa un caso la rom morta a seguito di uno sgombero del campo rom all’insaputa dell’amministrazione milanese
 morire a Milano, sdraiata su un materasso sotto le stelle, perche’ non si ha altro. Ne’ una baracca, ne’ una tenda. E’ la tragica e dolorosa fine di M., donna rom di 42 anni, malata di cuore. Un cuore che ha smesso di battere pochi minuti dopo la mezzanotte del 28 maggio.
Due giorni prima, insieme ad una decina di altre famiglie (in tutto una settantina di persone), era stata sgomberata dall’accampamento di fortuna, che in questi mesi si era creato nel boschetto attiguo al Centro di emergenza sociale (Ces) del Comune di Milano di via Sacile. Centro nel quale vivono altri rom, circa 220 su una capienza di 140, tra i quali anche la sorella di M.
Secondo la Rete rom (alla quale aderiscono Associazione ApertaMente di Buccinasco, Associazione Upre Roma, Associazione di Promozione sociale Fabrizio Casavola, GRT e Naga), si e’ trattato di uno sgombero “senza preavviso, senza assistenti sociali e senza proposte alternative”.  Per il diritto internazionale, le persone sgomberate dovrebbero ricevere subito un’alternativa valida e lo sgombero dovrebbe essere notificato in maniera scritta. Ma venerdi’ scorso l’assessorato alla sicurezza, guidato dall’assessore Carmela Rozza, non ha avvisato quello alle Politiche sociali di Pierfrancesco Majorino. “Venerdi’ ero all’assessorato alle politiche sociali per un appuntamento e mi hanno chiamato alcune famiglie rom per dirmi dello sgombero- racconta Djana Pavlovic, portavoce della Rete Rom- E li’ in assessorato non ne sapevano nulla”.
Tra le persone sgomberate, oltre a M. cardiopatica, c’erano anche una ragazza appena dimessa dall’ospedale e una donna incinta. Oltre ad alcuni bambini.
“Sono rimasti senza nulla, visto che la polizia locale ha distrutto tutto, anche le tende- aggiunge- Ho fatto presente che c’erano situazioni particolarmente delicate”.
L’assessorato alle Politiche sociali, vista la situazione, ha allora dato appuntamento a queste famiglie piu’ a rischio per mercoledi’ 31 maggio. Troppo tardi per M. La morte di M. rivela, pero’, che c’e’ una Milano nascosta, con poveri piu’ emarginati di altri poveri.
Con la giunta di Giuliano Pisapia, la competenza sui rom, sugli sgomberi e sui centri di emergenza sociale era dell’assessorato alla Sicurezza e coesione sociale, guidato da Marco Granelli. Con l’elezione di Sala, si e’ creato un vuoto, con gli assessori Rozza e Majorino che non hanno fatto certo a gara per assumersi l’onere di occuparsene. Tanto che anche chi gestisce il Ces, ossia Casa della Carita’ e Padri Somaschi, in un comunicato stampa di ieri pomeriggio, sottolinea che “risulta necessario ripristinare un’efficace collaborazione tra istituzioni e terzo settore affinche’ le persone vengano accolte nel centro nel miglior modo possibile e vengano trovate soluzioni positive anche per chi non aveva trovato in questi ultimi mesi un posto al suo interno, rimanendo per strada”. “Abbiamo piu’ volte chiesto un incontro con l’assessorato alla sicurezza, senza ricevere risposta”, aggiungono interpellati da Redattore sociale.
La situazione dentro e fuori il Ces stava infatti peggiorando di mese in mese. “Il 24 maggio siamo andati con il nostro camper e il nostro medico in via Sacile- raccolta Nerina Vitali, volontaria del Naga, associazione che offre assistenza sanitaria a senza dimora e nelle baraccopoli- Ci avevano chiamato alcune famiglie ospiti del Ces, disperate. E la situazione che abbiamo trovato era allucinante”.
“C’erano circa 200 persone, in condizioni igieniche molto precarie. Siamo riuscite a visitarne una quarantina: chi aveva mal di denti, oppure mal di testa o lamentava altri tipi di malanni. In piu’ c’erano quelle accampate fuori, nel boschetto. E’ chiaro che li’ mancava una qualsiasi forma di assistenza sanitaria da tempo“.
Il Centro di emergenza sociale di via Sacile
Il Centro di emergenza sociale di via Sacile e’ stato costruito nella primavera del 2015. E’ costato 1,5 milioni di euro. Nelle intenzioni dell’allora assessore Marco Granelli andava a sostituire il Ces di via Lombroso e avrebbe dovuto “accogliere in un anno 600 persone appartenenti a famiglie con minori, di cui 350 provenienti da sgomberi di aree ed edifici occupati abusivamente”.
Il problema e’ che con la chiusura di via Lombroso e l’incendio dell’altro Ces, in via Quarenghi, via Sacile e’ rimasto l’unico centro. E di fatto il Comune non sa piu’ dove mettere chi viene sgomberato dai campi rom irregolari o dagli appartamenti occupati abusivamente.
Come sono andate le cose, quella notte?
La morte di M. non ha solo implicazioni sociali e politiche, ma potrebbe averne anche di carattere penale. I rom presenti la notte del 28 maggio, infatti, sostengono che l’ambulanza sia giunta “solo dopo oltre mezz’ora perche’ chi in quel momento era responsabile del Centro non si peritava di rispondere alle richieste di aiuto”, come si legge nel comunicato stampa della Rete Rom. L’azienda regionale (Areu) che gestisce il 118 replica che la prima telefonata di richiesta di soccorso e’ arriva alla mezzanotte e un minuto e che l’ambulanza sia giunta in via Sacile a mezzanotte e nove minuti.
“I rom mi hanno raccontato che hanno provato a chiamare anche prima di mezzanotte, ma non sapevano dare l’indirizzo- precisa Djana Pavlovic-. Per questo hanno cercato aiuto chiedendo al custode del Ces, che solo dopo tante insistenze ha aperto il cancello e chiamato il 118”. Ma Casa della Carita’ nega questa ricostruzione dei fatti. “Il custode del centro in turno ha risposto prontamente alle richieste di aiuto- precisa- chiamando i soccorsi dal telefono di servizio, che ha effettuato la chiamata dopo che altre persone vicine alla donna avevano gia’ a loro volta chiamato i soccorsi quando questa si era sentita male e proprio perche’ i soccorsi stessi non erano ancora arrivati”. Tre versioni dei fatti, che solo un’autorita’ giudiziaria potra’ eventualmente chiarire.
fonte: Redattore Sociale

le tre bambine rom bruciate vive ancora fanno riflettere

morire ai margini nell’Italia di oggi

traccia bruciante


Marco Impagliazzo

La tragica morte delle tre ragazzine rom, Francesca, Angelica ed Elisabeth, non è stata causata soltanto da quella scia di liquido infiammabile che gli inquirenti hanno trovato sulla strada vicino al camper dove vivevano. Seguendo a ritroso quella traccia, infatti, si arriva molto più lontano. Bisogna attraversare le fiamme della baracca in cui persero la vita quattro bambini rom in Via Appia Nuova a Roma nel 2011 e quelle che hanno bruciato Marius, tre anni, alla Magliana, nel 2010. Si deve passare per i roghi nei quali hanno perso la vita quattro bambini rom nelle baracche di Livorno nel 2007 e pochi mesi prima due giovani sposi a via Gordiani, a Roma. Una strage degli innocenti che ha colpito i piccoli di questa etnia: più di cento morti in una ventina di anni. Bisogna camminare all’indietro nel tempo, nello spazio e nel dolore per capire perché undici persone, di cui solo tre adulti, cittadini romani come noi, dormono ammucchiati in una scatola di lamiera ferma in un parcheggio di periferia, senza corrente elettrica, né acqua, in una città ricca e confortevole.
La famiglia colpita da questo tragico evento discende da parenti giunti in Italia dalla Jugoslavia, all’inizio degli anni Settanta in cerca di lavoro come artigiani e mai più tornati nella loro terra d’origine a causa delle guerre che hanno dilaniato quel Paese plurale negli anni Novanta. Ancora più indietro, i loro avi hanno conosciuto la persecuzione nazionalsocialista che ha strappato la vita a mezzo milione di rom uccisi nei campi di sterminio, tra i quali bambini vittime di crudeli esperimenti medici. Prima della guerra e dei nazionalismi, però, li si incontrerebbe tra impiegati, ufficiali, artigiani, giostrai e musicisti in tutta Europa. Li si vedrebbe vivere in case e quartieri normali. Ma ci si perderebbe anche tra le carovane che giravano i paesini del continente, sopravvivendo con mestieri ormai scomparsi. Solo la loro lingua, il romanès, un coacervo di tanti idiomi, dallo slavo al sanscrito, ci condurrebbe sicuri fino alle pianure dell’India.
Per compiere questo lungo viaggio non serve un passaporto. Muri, ghetti e fili spinati non li hanno mai fermati, solo umiliati e impoveriti. Basta uscire dai pregiudizi che ci fanno oscillare tra due sentimenti opposti: la repulsione ancestrale, dovuta a leggende nere, e il fascino folkloristico, l’idea che i loro figli non debbano andare a scuola, ma vagare liberi e scalzi. I rom rappresentano la più grande minoranza etnica in Europa, in Italia circa centocinquantamila, di cui la metà italiani. Non hanno mai reclamato un territorio o dichiarato guerra.
Quelli che vivono nei cosiddetti campi nomadi non si spostano più da decenni, ma continuano a vivere nella marginalità. La speranza di vita è di dieci-quindici anni inferiore ai non rom. La metà di chi vive nei “campi” ha meno di diciotto anni, di questi il 40% addirittura meno di quattordici. Dunque un popolo giovanissimo: ci si sposa presto – senza tanti calcoli sulla sussistenza o sulla casa – e si hanno molti figli, dettagli che colpiscono in un’Italia invecchiata e senza nascite. Non mancano i problemi di convivenza e di rispetto delle leggi: talvolta le cronache di furti o altri reati predatori vedono alcuni di loro come protagonisti. Altre volte non è facile accompagnarli in un percorso positivo. L’illusione della ricchezza senza sforzo ha risucchiato alcuni di loro verso la criminalità organizzata.
Eppure davanti alla morte dei bambini dobbiamo rimanere umani. La morte di un bambino deve suscitare il pianto e tante domande. Dobbiamo capire le cause che hanno provocato tragedie come quella della scorsa notte e agire perché più nessuno – rom, sinto o no – debba crescere stipato in una roulotte e morire in un incendio. Chi è credente può pregare per le vittime. A livello istituzionale, implementando la strategia nazionale di inclusione dei rom, per uscire dall’emergenza continua, basata su quattro diritti elementari per tutti: una soluzione abitativa vera e definitiva (non più campi, ma case), l’accesso alle cure mediche, un serio percorso di scolarizzazione e di inserimento al lavoro con incentivi, ma anche con un controllo capillare. Non solo alloggi, ma anche sanità, educazione e lavoro possono evitare tragedie e finalmente condurre da una scarsa tolleranza, un radicato pregiudizio e un reciproco sospetto a una piena inclusione.

Il musicista e professore rom a proposito della morte delle tre bambine rom bruciate vive

“strage figlia della segregazione. Raggi come gli altri sindaci”

intervista a

Alexian Santino Spinelli

a cura di Angelo Mastrandrea
in “il manifesto” del 11 maggio 2017

«È inutile che Virginia Raggi sia andata sul luogo della strage dopo che questa era avvenuta. Sarebbe dovuta intervenire prima, facendola finita con la politica della segregazione che da anni a Roma viene portata avanti contro i rom».

A botta calda dopo la morte delle tre sorelle nel rogo della loro roulotte a Centocelle, Alexian Santino Spinelli, musicista e docente universitario, autore di libri come Rom, questi sconosciuti (Mimesis editore), non si dice «meravigliato» dell’efferato fatto di sangue. Poteva accadere ed è accaduto, in una città (e un Paese come l’Italia) in cui i rom sono vittime di una «segregazione razziale» che, a suo parere, non è molto diversa da quella patita durante il nazifascismo. Parole nette e dure, anche se il movente dell’omicidio non è ancora chiaro e gli inquirenti tenderebbero a smentire la pista xenofoba.

Quello che è accaduto è mostruoso. Mi chiedo: che colpa potevano avere due bambini? Cose del genere non possono succedere in una società democratica. Invece avvengono perché i rom sono discriminati su base etnica. Qui stiamo parlando di cittadini italiani come tutti gli altri, la democrazia o vale per tutti o non è democrazia, e allo stesso modo la giustizia e l’uguaglianza. Quello che è accaduto a Roma è una grande sconfitta per la società democratica.

Lei chiede da anni la chiusura dei campi e denuncia il business a loro collegato. Le sembra che sia cambiato qualcosa con i 5 Stelle al Campidoglio?

Quando denunciavo la Tziganopoli romana mi consideravano come un pazzo, un personaggio sopra le righe. Invece i fatti mi hanno dato ragione. Mafia Capitale però non è finita: le associazioni che si occupano dei rom sono sempre le stesse. Se in quarant’anni hanno dimostrato di non essere all’altezza, perché sono ancora lì? Io sono un musicista e non un politico, ho sempre organizzato eventi culturali e artistici, ho portato la nostra cultura dove non era mai arrivata, ma non ho voluto mai partecipare a progetti sui rom, perché sapevo che servivano a mantenere lo status quo.

Perché i 5 Stelle non hanno pensato di cambiare qualcosa?

Raggi dovrebbe farla finita con le politiche di segregazione portate avanti dai sindaci che l’hanno preceduta. Dal questo punto di vista, non ci sono distinzioni tra destra e sinistra. Lo hanno fatto tutti.

Cosa si potrebbe fare in concreto, secondo lei?

Ad esempio, creare una Consulta romanì che affianchi le istituzioni sulle grandi questioni che riguardano i rom. A partire dal superamento dei campi, appunto. I rom non sono nomadi per cultura. Siamo stati deportati dall’India, questo non si chiama nomadismo ma mobilità coatta. Quelli che sono arrivati in Italia sono stati cacciati dalle loro case nell’ex Jugoslavia e in Romania. Colpisce che, a commento di un omicidio così efferato, si ascoltino lamentele sui furti ad opera dei rom invece che cordoglio per le giovani vite spezzate. È colpa di quei media che hanno instillato l’odio razziale nei cittadini. Ci sono trasmissioni televisive che non fanno altro. La responsabilità morale è loro e pure dei politici che da tempo dicono le stesse cose. È la stessa propaganda che si sentiva ai tempi del nazismo, quando si bruciavano le sinagoghe e le autorità se la ridevano e stavano a guardare. Non possiamo meravigliarci se poi accadono cose del genere, chiunque le abbia compiute. I centri di propaganda razzista andrebbero chiusi, le autorità dovrebbero intervenire. Oggi avviene come ai tempi del fascismo: alle vittime viene addossata pure la colpa dell’accaduto. Difficile sostenerlo, quando a morire sono due bambine innocenti e una ragazza. La lista dei bambini rom morti in tempo di pace è un bollettino di guerra. Non lo dico io bensì l’Unicef. Il nostro porrajmos (lo sterminio nazista dei rom e sinti, ndr) non è mai terminato. Non si può tacere di fronte a tanta disumanità. È una battaglia da combattere quotidianamente e nella quale, da patriota rom, sono impegnato. Mi sento per questo di rivolgere un appello a papa Francesco, per il quale ho avuto l’onore di suonare in un paio di occasioni: intervenga, abbiamo bisogno della sua solidarietà. Lui può fare più delle istituzioni, che tra l’altro rimangono in silenzio e non fanno nulla. È l’unica persona che può davvero aiutarci

a proposito della orribile morte delle tre sorelline rom

 

l’orribile morte di Francesca, Angelica ed Elisabeth Halinovich apre a interrogativi inquietanti sul ruolo della propaganda razzista nel discorso pubblico

Sarebbe meglio preoccuparsi. E stare attenti

Francesca, Angelica ed Elisabeth Halinovich. Due bambine piccole e una ragazza bruciate vive dentro una roulotte parcheggiata sul piazzale del supermercato Primavera, quartiere Centocelle, Roma. Le videocamere mostrano l’immagine di un uomo, forse a volto scoperto, che lancia una molotov e poi scappa. La polizia al termine di una giornata confusa smentisce la possibilità di una pista xenofoba, intuendone i disastrosi risvolti: più probabile, dicono, una faida tra rom. I fatti nudi e crudi sono questi, ma intorno ai fatti c’è molto di più. Ci sono, ad esempio, migliaia di commenti in rete – sui siti del Giornale e di Libero i più violenti – che apologizzano il rogo al grido di “tre di meno”. C’è uno stupefacente sfogo di odio collettivo. C’è la consapevolezza che, stavolta, questa roba non sia attribuibile al web: chi scrive (firmando con nome e cognome) «Io mi auguro ke tutti i rom facciano la stessa fine» non fa che echeggiare la violenza verbale con cui la politica e la tv si esprimono da anni sulla questione nomadi, sicurezza, microcriminalità.

Questo irresponsabile, martellante tam tam, negli ultimi due mesi ha subito un ulteriore salto di qualità, approdando dalle ruspe, dai lanciafiamme, dalle bombe da sganciare sui barconi con tutte le analoghe evocazioni di misure di forza estreme ma pur sempre “di Stato”, alla categoria del “facciamo da soli”. Il dibattito sulla legittima difesa, l’elogio dell’armarsi, dello sparare, del risolvere da se’ quel che le istituzioni non risolvono, del diritto a tutelare con le armi in pugno se stessi, la propria famiglia e per esteso la propria comunità, ha portato un elemento aggiuntivo al degrado di un dibattito già irresponsabile, caotico, evocatore di rancori oscuri e incontrollati. E non stupisce che gli inquirenti abbiano così velocemente escluso il raid xenofobo e annunciato la prevalenza di una “pista interna”: sono probabilmente consapevoli del carattere esplosivo della situazione, e della necessità di tamponarla in qualche modo prima che deflagri in mano alle autorità cittadine e alla politica tutta.

Il Far West che ogni giorno viene evocato da una parte della politica e della comunicazione, è lì, dietro l’angolo. Potrebbe succedere, non è impensabile che succeda. Le frasi d’odio con cui ci martellano certe trasmissioni radiofoniche o televisive, la caccia ai voti e agli ascolti fatta rimescolando i rancori

E però, davanti alla consapevolezza che per dodici ore, nella tollerante e disincantata città di Roma, tutti noi abbiamo ritenuto possibile l’ipotesi di una strage dettata da odio razziale, una riflessione collettiva andrebbe fatta. Il Far West che ogni giorno viene evocato da una parte della politica e della comunicazione, è lì, dietro l’angolo. Potrebbe succedere, non è impensabile che succeda. Le frasi d’odio con cui ci martellano certe trasmissioni radiofoniche o televisive, la caccia ai voti e agli ascolti fatta rimescolando i rancori, propagandando il diritto/dovere alla violenza difensiva, screditando il ricorso allo Stato – “Tanto non serve a niente” – e catalogando come “buonismo” ogni appello ai principi di umanità e ogni riferimento al diritto, sono gocce che scavano la pietra. Persino la pietra millenaria della Capitale, dove i sentimenti xenofobi sono rimasti sconosciuti per millenni.

Deve essersene accorta anche Giorgia Meloni, che ieri è stata la prima – quando ancora sembrava prevalente la tesi di un raid punitivo – a tagliar netto con ogni distinguo: «Orrore e profondo dolore – ha scritto – Mi auguro che i responsabili siano presto arrestati e che marciscano in galera per sempre». Chissà se aveva presenti altre stagioni di irresponsabile odio alimentate dalla politica “ufficiale”, per altri motivi, sotto il manto di giustificazioni ideologiche apparentemente più nobili e alte. Un altro rogo di un ragazzo e di un bambino, che chiunque provenga da destra non può dimenticare, e altre parole di disprezzo “razziale” pronunciate contro le vittime prima e dopo i fatti. Non sul web, che non esisteva, ma sui muri cittadini. La parola “Primavalle” è dura da pronunciare in questo contesto, e probabilmente fuori luogo: ma in questa città il solo precedente che viene alla memoria è quello, un’orribile e indimenticabile ferita.

La speranza è che la consapevolezza si allarghi, che si comincino a giudicare impronunciabili e impresentabili certe espressioni, non della Rete – che è solo una risonanza sguaiata di messaggi nati altrove – ma del discorso pubblico. A isolare chi le pronuncia. A demolire l’idea balzana che lo Stato sia impotente davanti al crimine e al degrado. Lo Stato ha poteri colossali, e se li non li utilizza bisogna contestare chi lo gestisce, incalzare i ministri incapaci, i sindaci imbelli, i capi della polizia inefficienti, smettere di votare chi li esprime e li nomina, usare le armi della democrazia e abbandonare l’idea che il fai-da-te ci renda più sicuri, più liberi, perchè è vero il contrario: nel Far West, di solito, sono i miti a soccombere, gli innocenti a morire.

la musica e la festa rivelano meglio di ogni altra cosa l’identità rom – il C.C.I.T. 2017 a Madrid

se vuoi conoscere nel profondo il cuore rom lasciati accompagnare dalla sua musica

 

 

 

 

Si è svolto nei giorni scorsi, 21-23 aprile, a GADARRAMA, ridente località appena fuori di MADRID, il C.C.I.T. 2017 (Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale rom), che, per meglio capire il vero cuore rom, non poteva che avere come focus:

“LA MUSICA NELLA VITA TRA FESTA E LEGAME SOCIALE”

La distanza geografica rispetto soprattutto ai paesi dell’est europeo ha comportato una leggera flessione di partecipazione rispetto alle altre edizioni in luoghi più ravvicinati, ma la qualità ha rispettato le attese.

La prima serata ha visto la tradizionale accoglienza con la cena comune e la preghiera introduttiva animata dai membri della pastorale spagnola tra i rom e dal momento conviviale di un buon bicchiere di ‘vino dell’amicizia’.

Il sabato ci ha visti impegnati in vari significativi momenti:

   1. i saluti ufficiali del gruppo spagnolo della pastorale rom 

   2. ascolto del messaggio Vaticano al C.C.I.T.

   3. l’introduzione al C.C.I.T. 2017 da parte di CLAUDE DUMAS, il prete rom attuale animatore del C.C.I.T.

La proiezione di alcuni stralci del film ‘LACIO DROM’ di Tony Galtif ci ha evidenziato modalità diverse del canto e della musica rom capace di veicolare con estrema efficacia di volta in volta messaggi di festa, gioia, lamento, protesta …

Ciò è stato motivo di dialogo e riflessione nei ‘gruppi di studio’ guidati da domande precise in merito alle nostre reazioni immediate ma anche, scendendo più in profondità nel cuore della cultura rom, ci si è chiesti se il nostro incontrare e incrociare il cammino dei rom-sinti ha lasciato in noi segni e tracce che ci hanno cambiato donandoci uno sguardo nuovo su di loro attraverso suoni, riti, feste … e se in questo cammino sia mutata in noi la stessa immagine di Dio che come ‘evangelizzatori’ siamo portati a ‘preconfezionare’ in base ai nostri bisogni  e parametri culturali e ad ‘esportare’ in modo scontato e acritico senza accorgerci di altre ‘immagini di Dio’ diverse dalle nostre provenienti da minoranze etnico-culturali capaci di arricchire e purificare le nostre.

E’ il pomeriggio che ha visto il momento fondamentale del C.C.I.T. con la conferenza della teologa

CRISTINA SIMONELLI:

“IL CANTO DI TUTTI: LA COLONNA SONORA DELLA VITA”

La musica e il canto hanno una valenza incommensurabile per la capacità di incontro che offre e la capacità di convertire  occhi e cuore allo sguardo e alla persona dell’ ‘altro’:

“La musica … può partecipare a questa conversione e diventare soglia (threshold english; seuil; umbral) per molti accessi. Consente infatti di affacciarsi all’esperienza della gioia e del dolore, della festa e del lutto. Consente di stare sulla soglia della casa e della festa dell’Altro, imparando da questo spostamento a esprimere i propri sentimenti, a pronunciare le proprie lodi, a cambiare la propria vita. Consente ancora di stare sulla soglia delle interazioni culturali: certo evitandogli ostacoli delle maschere che possono nasconderci gli uni agli altri, ma aprendo vie inedite di incontro, proprio là magari dove i conflitti sono più aspri. Come si esprime infatti mettendo in relazione contesti e elementi diversi, così può aprire vie di incontro e benedizione, senza moralismi ma con profonda eticità” (dalla relazione di C. Simonelli).

L’intensità di tale relazione è diventata ovviamente motivo di dialogo e approfondimento nei gruppi di riflessione dialogata

La celebrazione eucaristica in diverse lingue con l’omelia di Clade Dumas ha portato a termine la giornata con un messaggio e una sollecitazione forte ed efficace ad ‘accordarci’ ai progetti di Dio per noi e per la storia.

“Accordarci ai progetti di Dio significa accordarsi alla vita come si presenta a noi. Accordarsi come ci si accorda alla musica in una danza. Come in una danza bisogna accordarsi anche con il suo partner. Da sempre Dio si fa alleanza con noi e sposa la nostra umanità per farci entrare nella danza del suo amore … E se con Dio noi ci lasciamo guidare, non saremo capaci di ballare? … Lui conosce la musica. L’Ha scritta Lui. Conosce i passi. Allora accettiamo di lasciarci guidare per entrare nella danza della vita” (dall’omelia di Dumas).

La serata ha visto la tradizionale ‘cena condivisa’ con tante tavole di cibi diversificati quante i paesi presenti al C.C.I.T. (ci sono stati a volte ben ventitré paesi presenti) mettendo in mostra e in condivisione fraterna il meglio della propria cucina del paese di provenienza; ovviamente non è mancata musica e balli a rendere davvero una festa ala serata.

La domenica mattina ha visto la descrizione della

“SITUAZIONE SOCIALE E LA PASTORALE DEI GITANI IN SPAGNA”

dell’animatore pastorale FERNANDO JORDAN PERMAN della pastorale rom spagnola, col preciso e ribadito invito ad “ascoltare la vita interiore del gitano”, ad “andare loro incontro”, “incoraggiare il dialogo”, “cercare la comunione”. Indubbiamente atteggiamenti molto apprezzabili perché:

“la diversità ci fa crescere, ci stimola. E’ la ricchezza della nostra Chiesa. Il Vangelo nel mondo degli zingari è l’interesse per l’altro e il desiderio di avvicinarsi all’altro con simpatia. E’ fondamentale per crescere nel dialogo, non come tecnica pastorale con intenzione di arrivare a convincere l’altro ma come un mezzo per celebrare la verità e condividerla. Possiamo evangelizzare solo partendo dalla reciprocità. Evangelizzare è un’interazione: annuncio una buona novella e ottengo una buona novella” (dalla relazione di Perman).

Peccato che a volte il linguaggio sembra contraddirsi nella velata, ma non troppo, intenzionalità di trasformare l’ “ambiguità dell’immagine del cristiano Zingaro” in “un nuovo gitano cristiano” (e perché no anche ‘cattolico’?).

La celebrazione eucaristica e una visita turistica all’Escorial e alla ‘Valle de los caidos’ ha concluso il C.C.I.T. 2017 dandoci appuntamento tra un anno in Belgio per il C.C.I.T.2018.

nota personale:

Il recarmi al C.C.I.T. 2017 a Madrid con il camper dell’amico p. Agostino Rota Martir ha rappresentato un percorso lungo che ci ha imposto necessariamente delle soste all’andata e al ritorno; la noia e pesantezza del viaggio è stata largamente compensata dell’accoglienza gentilissima, festosissima, gioiosissima di una famigliola rom con i suoi cinque bambini che dall’Italia, che non offriva niente di umano e positivo per la loro situazione di profughi (che anzi minacciava di toglierle i bambini a causa della povertà più totale fino alla vera e propria fame!) ha dovuto affrontare avventurosamente un viaggio’ abramitico’ verso la Francia che ha loro messo a disposizione fin da subito le prime strutture di accoglienza umana in attesa dei tempi necessari per il vaglio della loro richiesta di stato di profughi; richiesta che proprio negli ultimi giorni è stata felicemente accettata con la gioia di tutti che ha compensato l’infinita sofferenza della lunga ‘via crucis’ percorsa da questa famigliola, sofferenza arrecata dalla durezza e crudeltà di strutture pubbliche del nostro paese, perfino dei servizi sociali …

Un’esperienza di accoglienza, festa, generosità, desiderio di farci contenti e a nostro agio nella loro casa

(ho ancora davanti agli occhi il bel vassoio di cous cous coi gamberi che il papà con cura ci ha preparato, ma anche il buon risotto allo scoglio cucinatoci dalla mamma, oltre al resto …) che credo sia stata la migliore preparazione al C.C.I.T. e la migliore conclusione di esso. Un’esperienza difficilmente dimenticabile. Grazie infinite!

messaggio del Vaticano al CCIT 2017 a Madrid

CCIT 2017 Madrid

 

Dal Vaticano. 10 aprile 2017

DICASTERIUM AD INTEGRAM HUMANAM PROGRESS1ONEM FOVENDAM

Messaggio di S.Em. Cardinale Peter K. A. Turkson Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ai Partecipanti all’Incontro Annuale del Comite Catholique International pour les Tsiganes (CCIT) (Guadarrama, Spagna, 21-23 aprile 2017)

Reverendo e caro Padre Dumas,

Cari fratelli e sorelle,
Mi è  gradito rivolgere cordiale saluto a tutti voi riuniti net consueto Incontro annuale del Comitato Cattolico Internazionale per gli Zingari. Esprimo parole di stima e di riconoscenza per la generosity e l’impegno con cui vi dedicate al servizio delle popolazioni rom, sinti e altri gruppi gitani. Nel corso della riunione vi dedicherete alto studio del tema La musica nella vita, tra festa e legame sociale. Questo argomento si riferisce a uno degli aspetti essenziali della vita dei rom, la musica. Il tema invita anche a una riflessione sul ruolo che la musica ricopre nel processo d’integrazione del popolo gitano.

Voi, cari amici, che condividete lo stile di vita dei rom sperimentate quotidianamente come la musica perinea la loro esistenza e plasma la loro identity. Attraverso la musica le varie etnie gitane raccontano momenti importanti della loro vita, narrano la bellezza della natura e, soprattutto, svelano ii desiderio di amare e di essere amati. Considerando la loro storia, sarebbe interessante vedere come la musica gitana si a evoluta nel corso degli anni, in che modo ha influenzato la vita dei popoli gitani e come ha modellato le loro relazioni con altri popoli ed etnie. Una cosa e certa: nelle sue varie manifestazioni, la musica gitana e stata sempre apprezzata e ammirata per la ricchezza delle espressioni sonore e per le melodie, e non ha mai trovato barriere culturali, linguistiche o religiose. Nel tempo, ha detto loro Papa Benedetto XVI, ricevendo i rom in udienza privata l’undici giugno 2011. “avete creato una cultura dalle espressioni significative, come la musica e il canto, che hanno arricchito l’Europa”. Infatti, la musica gitana e penetrata nel folklore dei popoli ospitali, contribuendo allo sviluppo di gruppi strumentali e di alcune forme musicali come it flamenco spagnolo. Musica, canti, danze e costumi gitani hanno marcato le feste popolari di tutti i tempi. Per quasi mille anni, le etnie gitane che vivono in Europa hanno ispirato non soltanto grandi compositors quali Brahms, Liszt o Bizet, pittori e poeti, ma soprattutto l’arte popolare. II flamenco, il violino e la fisarmonica sono diventati simboli distintivi del popolo gitano. ma si deve evitare che popolo rom venga identificato soltanto con musica e danza. La musica gitana porta in se valori fondamentali dell’essere gitano: l’amore per la famiglia, per gli anziani, la difesa della vita.

La musica è un fattore importante nello sviluppo integrale della personalità, aiuta a sviluppare i sentimenti e l’immaginazione, è creatrice di gioia e bellezza. E necessario sfruttare tutte le possibilità della musica gitana per potenziare il protagonismo del popolo rom nella sua promozione umana, sociale, culturale e religiosa, ma soprattutto nello sviluppo integrale di ogni membro della comunità gitana, cominciando dai bambini e dai giovani, fino agli adulti. Finché subirà discriminazione e oppressione, fino a quando non avrà accesso ai fondamentali servizi sociali, finché sarà calpestata la dignità anche soltanto di uno di loro, non si potrà parlare di sviluppo integrale. Tutto questo esige anche un serio impegno del popolo gitano, la volontà di avvicinare le nuove generazioni all’istruzione e all’educazione professionale. La musica è uno dei mezzi di educazione che favorisce creazione di una convivenza pacifica e solidale. Se a volte le popolazioni rom sono emarginate e rigettate dalla società, al contrario la loro arte di far festa è molto apprezzata; anche se molti di loro vivono il dramma di accoglienza negata e di rigetto, la loro musica e la loro arte sono dei fattori che diminuiscono tensioni sociali.
Momenti particolari di integrazione sociale e di omaggio alla cultura e arte gitana, sono i Festiva! di Musica e di Cultura Rom organizzati in vari Paesi europei. Mentre da una parte assecondano l’integrazione all’interno della minoranza rom, rendendola consapevole del proprio valore culturale e della propria originalità specifica, dall’altra, questi offrono occasioni per intrecciare relazioni interpersonali e sociali che aiutano a prevenire i conflitti e a promuovere la tolleranza e il rispetto nello spirito dei valori della democrazia e della libertà. La musica gitana è una musica della collettività; nasce nella comunità, la definisce e ne determina le tradizioni, l’identità e la cultura. Come parte integrante dell’esistenza, la musica ricopre un ruolo fondamentale nel dialogo intergenerazionale. Il canto e le ballate trasmettono alle nuove generazioni la storia e il patrimonio culturale della propria etnia. Nel pensiero teologico di Papa Benedetto XVI, tre sono i luoghi in cui scaturisce la musica: l’esperienza dell’amore, l’esperienza della tristezza e del dolore, e l’incontro con il divino, con Dio stesso¹. La musica e il canto trovano le sue fondamenta nella Sacra Scrittura e sin dall’inizio hanno accompagnato la preghiera della Chiesa. I Salmi, cantati in ogni liturgia, esprimono i vari sentimenti delle creature verso il Creatore e sono veri inni di lode al Signore. Con essi pregava Gesù e la sua Madre. Il “Magnificat” è un inno per eccellenza di esaltazione e di gratitudine al Dio Creatore. Con Salmi anche la Chiesa canta e prega, come insegnava Sant’Agostino “Il cantare è proprio di chi ama” (Sermo 336,1: PL 38,1472). Spetta a voi, cari operatori pastorali, scoprire modi affinché la musica gitana trovi spazio nella liturgia e sia un’espressione sincera del vero incontro tra l’uomo e il suo Creatore.
Cari amici, voi che accompagnate le varie etnie gitane nel loro percorso verso la partecipazione legittima e doverosa nei diritti e nei doveri della società e della Chiesa, siate come una madre con cuore aperto², siate una Chiesa “in uscita” che giunge le periferie umane. Questi giorni vi serviranno per rallentare il passo e mettervi in atteggiamento di ascolto e di contemplazione dei valori, delle gioie e dei dolori dei nostri fratelli e sorelle gitani. Auspico per tutti voi la pienezza dello Spirito Santo e imploro la benedizione di Dio per tutti voi, le vostre comunità e le vostre famiglie.


1.BENEDETTO XVI, Discorso in occasione della Consegna di Dottorato honoris causa dalla Pontificia Università “Giovanni Paolo II” e dall’Accademia Musicale di Cracovia, Castel Gandolfo, 4 luglio 2015.

2 Cfr. PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudiztm, V, 46.

CCIT 2017 a Madrid: la situazione sociale spagnola dei rom e la pastorale nei loro confronti

CCIT – Guadarrama 2017

LA SITUATIONE SOCIALE E LA PASTORALE DEI GITANI

IN SPAGNA

Fernando Jordán Pemán

INTRODUZIONE

L’attuale situazione è complessa e numerose tensioni e contraddizioni marcano la comunità gitana : non è facile fare una sola e unica analisi, gli esperti ne fanno diverse letture ma sopratutto una parola riviene sempre : crisi.

Mi hanno chiesto di riflettere sulla situazione sociale e pastorale dei Gitani di Spagna e voglio partire, per questa riflessione, dall’inizio della nostra democrazia ed arrivare fino a oggi, perché negli ultimi 40 anni ci sono state più trasformazioni nel mondo che dal 1425, anno dell’arrivo dei Gitani in Spagna1.

1 – LA SITUATIONE SOCIALE

1.1 – UNA STORIA DI SOFFERENZE

Quando studiamo la storia dei Gitani, ci risulta difficile credere a quanto leggiamo : come è stata dura e ingiusta con loro la società ! Persecuzioni, fame, espulsione dalle città… quasi tutto era loro vietato !

Recentemente, mi riferisco agli anni 60 dell’ultimo secolo, qualche luce di speranza ha cominciato a brillare e la Chiesa è apparsa come una mamma che accoglie i suoi figli Gitani, specialmente con la celebrazione di sacramenti e riti religiosi come il battesimo e i funerali ma anche l’accoglienza fraterna in missioni amministrative con distribuzione di alimenti e vestiti ai Gitani.

In quest’epoca e in particolare a partire dal 26 settembre 1965, storica data alla quale Papa Paolo VI ha detto a Pomezia che « i Gitani erano nel cuore della Chiesa », la Chiesa spagnola ha preso coscienza del suo ingaggio sociale e pastorale verso l’etnia Gitana. Questo fu l’inizio della struttura della pastorale gitana.

IL NUOVO VISO DEI GITANI

C’è algiorno d’oggi una diversità della quale la Chiesa deve tenere conto nell’evangelizazione. Possiamo dire :

  1. al primo posto, i gitani che hanno aquisito una promozione sociale.

  2. al secondo posto i gitani che hanno una propmozione sociale in corso.

  3. al terzo posto i gitani esclusi e marginalizzati, senza possibilità d’integrazione e « poveri » a tutti i livelli.

1.3 – I GITANI IN UN MONDO IN MUTAZIONE

E’ importante che la Chiesa prenda coscienza di queste nuove condizioni con le quali realizzare oggi la sua missione con i Gitani.

Tra le cause, le più influenti che hanno prodotto questo cambiamento di vita e di attitudini nel comportamento dei Gitani, possiamo rilevare :

  • La scolarizzazione dei bambini nelle « scuole-ponte »

  • L’aumento dei matrimoni misti

  • I mezzi di communicazione

  • Il cambiamento delle zone di residenza per molti di loro

  • Nel campo della religione, indipendentemente da quella d’appartenenza, si constata una perdita della fede e una certa indifferenza al momento di affrontare fatti religiosi

  • La valorizzazione della donna Gitana

  • Nella società attualeci sono nuove forme di schiavismo delle quali i Gitani sono spesso vittime. Le « carenze sociali » stanno distruggendo le virtù tradizionali come il rispetto della familia, la libertà e anche la loro propria vita.2

2 – LA SITUAZIONE PASTORALE

2.1- ASCOLTARE LA VITA INTERIORE DEL GITANO

Abbiamo bisogno, a mio avviso, d’una riflessione che ci aiuti a capire e a vivere, a partire dal Vangelo, la situazione attuale dei Gitani e le risposte che la Chiesa deve portare.

L’aspetto più evidente d’un movimento religioso puo’ far pensare che « Dio ritorna ».

Non è il caso. La parte di Gitani praticante è sempre più minoritaria. Quello che si osserva ora è che la fede occupa un posto sempre più piccolo nella vita quotidiana delle persone.

La fede è sostituita da altre convinzioni che sono intorno ai valori della democrazia intesa come un sistema diffuso di credenze, principi e valori (diritti umani, libertà, tolleranza, sicurezza, rispetto della Costituzione, etc) che possono contribuire a una migliore coabitazione e consolidare i legami sociali.

    1. UN NOUVO GITANO CRISTIANO

S’impone anche di tener conto dei cambiamenti che si producono tra quelli che, in mezzo a questa crisi religiosa, si dicono cristiani. E’ importante ricordare qualche tendenza di base :

a) In primo luogo, si rafforza l’ambiguità dell’immagine del cristiano Zingaro, anche se ci sono molte e lodevoli eccezioni.

b) Inoltre, gli zingari non formano un insieme omogeneo. Non tutti derivano dalla fede alle stesse conclusioni sulle loro scelte e comportamenti.

c) Quindi, in questo modo il modo di credere cambia notevolmente.

d) I settori che percepiscono la Chiesa come “dispensa” diventanno sempre di più .

2.3 – LA PASTORALE GITANA DI CUI ABBIAMO BISOGNO OGGI

2.3.1 – ANDARE LORO INCONTRO


Le nostre “Chiese locali” devono essere i primi a sentirsi preoccupate di riunire di gitani.

2.3.2- FACILITARE E RAFFORZARE


Di fronte a questa realtà a volte confusa ma sempre ricca e sorprendente, s’impone una sfida, certamente non sempre facile da soddisfare; potremmo definirla dicendo : facilitare e rafforzare.

Ciò richiede :

  • Benvenuti nello stile del Buon Samaritano

  • Lavorare nella formazione di piccoli gruppi.

  • Creare spazi di incontro.

  • Prestare particolare interesse per i gruppi zingari.

  • Scoprire il mondo degli zingari loro esigenze e aspirazioni.

  • Credere alla promozione di ciò che unisce culture diverse.

2.3.3 – PARTENDO DAL VANGELO

Parlando della Pastorale Gitana, bisogna situarsi sul piano dell’arrichimento reciproco e la reil faut aussi se situer sur le plan de l’enrichissement mutuel et de la relativisazione de ses propres absolus.

a) La priorità alla povertà.

b) L’apertura alla compassione.

c) L’inculturatione.

2.3.4 – ENCOURAGER LE DIALOGUE

Per dare una seria dimensione e « inculturatrice » alla pastorale Gitana, crediamo che la conclusione del V Congresso Mondiale della Pastorale Gitana dell’anno 2003 in Ungheria, possa orientarci :

“Più volte durante il Congresso, abbiamo visto la necessità di affrontare seriamente la sfida pastorale fatta dall’adattamento legittimo della sacra Liturgia, l’Omelia e anche della Catechesi, della mentalità, dagli usi e costumi alla religiosità popolare, la tendenza alla festa e il pellegrinaggio, ecc .., degli zingari. Senza chiudere la porta a soluzioni a lungo termine, in comunione con la Santa Sede e la gerarchia locale, il Congresso raccomanda di procedere negli spazi che vengono lasciati alla creatività e al carattere popolare e culturale di ogni popolo, anche all’interno del Rito latino, senza trascurare il patrimonio delle Chiese cattoliche orientali. Questo vale per la celebrazione eucaristica e per l’amministrazione dei Sacramenti “3.

Dobbiamo prendere in considerazione diversi criteri per questo dialogo :

a) Conoscere la realtà Gitana

b) Parlare in nome di Gesù-Cristo

c) Da una organizzazione

2.3.5 – CHERCHER LA COMMUNION

Speriamo che prossimamente tutti noi possiamo cantare il salmo: “Guarda come è buono e quanto sia piacevole che i fratelli vivano insieme uniti” (Sal 133). Questa desiderio è ripreso anche dal V Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari di Budapest in una delle conclusioni :

Il Congresso raccomanda che si proceda al dialogo ecumenico e interreligioso anche nel mondo gitano, secondo le linee guida emanate in materia dalla Santa Sede. Denuncia il processo settario di alcuni gruppi che si dicono cristiani e si basano sul pentecostalismo, esorta gli operatori pastorali cattolici di prendere in considerazione questo pericolo e in particolare a un richiamo che la propria azione apostolica sia adatta alle necessità del gitano, alla participazione attiva alla fede profonda dei Gitani, alla Liturgia e all ‘azione di vangelizzazione e valorizzazione umana. Tutto questo segue la linea di communicazione spirituale di amicizia e della comunità che constituisce il soggetto fondamentale di questo Congresso »4

3 – CONCLUSIONE

Con speranza e realismo, noi dobbiamo affrontare il futuro della pastorale Gitana convinti che non è qualcosa che realizziamo solo con il nostro lavoro e il nostro impegno. Lo Spirito di Gesù anima il nostro compito e mette vita la dove gli occhi del mondo vedono solamente diversità e discriminazione. Di fronte alla sfida che ci è lanciata, dobbiamo, come evangelizzatori, continuare a vivere l’esperienza dell’Incarnazione mettendoci dietro, accompagnando e soffrendo con la gioia e la con la certezza che il Signore manderà Gitani evangelizzatori al loro popolo.

Non possiamo dimenticare che :

  • Abbiamo bisogno di rinforzare il gusto della diversità. Si parla di “gusto” e non di valori. Dobbiamo venire a trovare un “sapore” al di là della nostra ascesi personale e porta ad aprirsi a qualcuno che è diverso.

  • La diversità ci fa crescere, ci stimola. È la ricchezza della nostra Chiesa.
    Il Vangelo nel mondo degli zingari è l’interesse per l’altro e il desiderio di avvicinarsi a l’altro con simpatia.

  • È fondamentale per crescere nel dialogo, non come un tecnica pastorale con intenzione di arrivare a convincere l’altro ma come un mezzo per celebrare la verità e condividerla.

  • Possiamo evangelizzare solo partendo dalla reciprocità.

  • Evangelizzare è un’interazione: annuncio una buona novella e ottengo una buona novella.

  • Evangelizzare è attraverso il gesto, e non possiamo essere delusi quando la parola non lo fa ; è un modo per essere vicini.

  • Evangelizzare implica generare spazi di vita.

  • La chiave della pastorale, non è nei risultati, ma nel fatto di fare un cammino insieme con zingari, con ciascuno di loro, con la loro comunità.


Affidiamo questo compito di evangelizzazione all’intercessione materna della Majari, la Madre del Redentore. Sarà per noi la stella che guiderà i nostri passi per incontrare il Signore.

1 LÓPEZ MENESES, A. “El documento más antiguo relativo a la inmigración gitana en España”, Rev. Pomezia, 6 (1967), p. 90

2Ibidem, pp.23-37

3Dal 30 jugno al 7 luglio 2003, si celebró, nella sede della Università Cattolica Péter Pázmány di Budapest (Unghería), il V Congresso Mondiale della Pastorale dei Gitani, sul tema La chiesa e i Gitani per una spiritualità di Comunione, promosso dal Pontificio Conciglio per la Pastorale degli Emigranti e Itineranti, en collaborazione con la Conferenza Episcopale dell’Ungheria. Presenti 203 congressisti di 26 paesi, specialmente europei ma anche d’Africa e Asia, Fu particolarmente importante la partecipazione per la prima volta di un consistente gruppo di sacerdoti, religiose e laici Gitani.Conclusione nº 3.

4 Dal 30 jugno al 7 luglio 2003, si celebró, nella sede della Università Cattolica Péter Pázmány di Budapest (Unghería), il V Congresso Mondiale della Pastorale dei Gitani, sul tema La chiesa e i Gitani per una spiritualità di Comunione, promosso dal Pontificio Conciglio per la Pastorale degli Emigranti e Itineranti, en collaborazione con la Conferenza Episcopale dell’Ungheria. Presenti 203 congressisti di 26 paesi, specialmente europei ma anche d’Africa e Asia, Fu particolarmente importante la partecipazione per la prima volta di un consistente gruppo di sacerdoti, religiose e laici Gitani.Conclusione nº 5.

giustamente licenziati i sequestratori ‘per scherzo’ di due rom in una gabbia per rifiuti

chiusero in gabbia due donne rom
licenziati dipendenti della Lidl

avevano filmato le grida disperate delle nomadi e poi avevano pubblicato il video su Internet

erano stati indagati per sequestro di persona

Chiusero due donne rom in una gabbiotto dei rifiuti, ripresero le loro urla disperate con lo smartphone e pubblicarono il video su Internet. Due mesi dopo, due dipendenti del supermercato di Lidl di Follonica, in provincia di Grosseto, dopo essere stati sospesi dalla direzione, hanno perso il lavoro. Uno di loro, 35 anni, che era stato assunto a tempo indeterminato, è stato licenziato in tronco. Al compagno di lavoro di 25 anni, invece, il supermercato non ha rinnovato il contratto.

Il video contestato

«Valuteremo se ricorrere davanti al giudice del lavoro contro queste decisioni», ha annunciato ieri l’avvocato dei due ex dipendenti, Roberto Cerboni. L’episodio, accaduto a febbraio, aveva fatto molto scalpore e non solo in Maremma. «Era solo uno scherzo», si erano giustificati i due dipendenti, ma nel video postato sui social si vedevano le due nomadi terrorizzate urlare e chiedere disperatamente d’essere liberate. Il video aveva avuto centinaia di migliaia di visualizzazioni con una raffica di commenti a sfondo razzista. I due dipendenti, dopo essere stati sospesi dalla Lidl, ed espulsi dal sindacato, erano stati indagati dalla procura di Grosseto per sequestro di persona. L’episodio aveva creato anche polemiche politiche nazionali.

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