un pogrom culturale ingiustificato contro i rom

i rom sono antipatici a quasi tutti

«ed è indubbio che una parte di essi vive nella illegalità»

dice una lettera di Luigi Manconi e altri che chiede:

«questo giustifica un pogrom culturale?»

BULGARIA-MINORITY-ROMA-MARRIAGE-CUSTOMS

Luigi Manconi, sociologo, esperto di diritti umani e parlamentare del Partito Democratico, ha scritto (con altri) una lettera preoccupata sul livello che il razzismo e l’insofferenza nei confronti dei cittadini rom stanno raggiungendo in Italia, per raccogliere adesioni intorno a questa preoccupazione.

I rom sono antipatici a (quasi) tutti: ed è indubbio che una parte di essi vive nella illegalità, commette reati e induce i propri figli all’accattonaggio. Per molti italiani i rom costituiscono il primo motivo di allarme sociale. Tutto ciò può giustificare l’aggressiva mobilitazione anti-zingari oggi in corso nel nostro paese? Una sorta di pogrom culturale ai loro danni? Una minoranza di circa 180mila persone per metà cittadini italiani e per il 60% residenti in abitazioni rischia di rappresentare il capro espiatorio delle ansie collettive, delle frustrazioni sociali e dell’inquietudine per la propria sicurezza.
Oggi i rom, quelli buoni e quelli cattivi, sono tragicamente soli: nessuno sta dalla loro parte e nessuno sembra ricordare che i diritti sono indivisibili. E che negare ai rom le garanzie e le risorse della cittadinanza vuol dire accettare che quelle stesse garanzie e quelle stesse risorse possano venire limitate e compresse nei confronti di noi tutti. Consentire che i rom diventino l’oggetto dell’ostilità sociale e il bersaglio di un vero e proprio meccanismo di degradazione morale significa contribuire a far sì che la nostra società sia sempre più cattiva e ingiusta. Assistere in silenzio a questa mobilitazione dell’odio equivale alla resa verso chi vuole criminalizzare tutta una minoranza per poterla mettere al bando.

Luigi Manconi , Alessandro Bergonzoni, Anna Foa, Gad Lerner, Ermanno Olmi, Moni Ovadia, Santino Spinelli
Per aderire abuondiritto@abuondiritto.it

(Foto: NIKOLAY DOYCHINOV/AFP/Getty Images)

prima di tutto … contro il decreto Minniti

prima di tutto vennero a prendere gli zingari…

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.”

Pensavo a questa drammatica espressione di Brecht, oggi, allorché aprendo il giornale leggevo dell’approvazione del decreto Minniti. Probabilmente molti non ci faranno caso, la deriva securitaria che stiamo vivendo farà pensare che sia giusto; che, anzi, bisognava pensarci prima; e che fa bene “la sinistra” a rispondere “alla destra” sulla sicurezza; questi, tanti, si esprimeranno in questo modo senza nemmeno leggere il testo, senza nemmeno sapere di cosa stiamo parlando.         Ma il problema è di natura politica: Minniti, figlio di quel partito fondamentalmente anti europeista e certamente poco propenso alla contaminazione multi etnica che fu il PCI, si gioca sull’immigrazione una importante battaglia politica, la sua, e di una vasta fascia del suo partito per il controllo delle poltrone nel paese. Mai espressione fu più felice a proposito del suo partito, Poltrone e Divani, parafrasando il nome di un famoso marchio di arredamento. E si gioca la sua partita sapendo che su questo stesso campo altri giocatori, di etnia padana, fanno sfaceli e sbancano nei sondaggi. Una “bella” lotta a chi la dice più grossa sugli immigrati. Che poi queste porcherie, che chiamano leggi, calpestino quel foglio di carta che è diventata la nostra Costituzione, poco importa. Bisogna dimostrare al paese che noi non abbiamo paura e che con ogni mezzo fermeremo l’invasione; anche con dati falsi, con leggi farlocche e con il rischio di creare macerie, odio sociale e politico; la definirei la strada italiana al nuovo fascismo quella coniata dal ministro della paura.

Questo da un lato; dall’altro, e lo dico da avvocato che da almeno vent’anni si occupa di diritto dell’immigrazione, facendo fatica a districarsi tra una serie incredibile di leggi, decreti e circolari che giocano con la pelle dei migranti, assistendo ad una sorta di diritto creativo senza precedenti, l’approvazione del decreto minniti sancisce la nascita di un altro diritto, quello per i poveri e per gli oppressi, che oggi sono i migranti, ma che domani saranno ampi strati della nostra società; minniti sta facendo le prove, alla pari di quei dottori che provano sui topi (perché questa è la considerazione che il nostro governo ha di loro) i farmaci che domani sperano di poter dare agli uomini; ecco perché quando un giorno verranno a prendere anche me non potrò dire nulla, perché non ci sarà rimasto nessuno a protestare…. L’abolizione di un grado di giudizio, ossia del reclamo in Corte d’Appello, che fa rabbrividire Arci e Caritas, che fa gridare ad una “pericolosa compressione delle garanzie” al CSM, di fatto introduce nel nostro ordinamento, introduce nella patria del diritto, in Italia, una sorta di diritto differenziato, che si fonda sul censo, sul colore della pelle; altro che la legge è uguale per tutti, la legge non esiste più se riesce a coniare simili aberrazioni.

E si badi bene, il decreto interviene in un ambito già molto ristretto: il richiedente asilo che arriva in Italia ha i suoi diritti ridotti al lumicino: non fatevi ingannare da gente ignorante come Salvini e Minniti, da speculatori seriali; l’intervista al richiedente asilo innanzi le commissioni territoriali è per il migrante una corsa ad ostacoli dove spesso anche l’interprete rema contro di lui; introdurre la video registrazione significa togliere allo stesso ogni garanzia: in un clima di intimidazione generale non dirà una parola, per paura di ritorsioni, per vergogna, immaginate una donna vittima di tratta che dovrà parlare di uno stupro, o di una mutilazione genitale; immaginate un omosessuale nigeriano, che è perseguitato nel suo paese per il suo status sessuale; lasciatevelo dire da chi ha esperienza di “sportello”, dove solo dopo due o tre incontri, quando va bene, si riesce a comprendere cosa è accaduto.

Dicevamo che interviene in un ambito già ristretto, perché il migrante cui viene negato il diritto di asilo può si ricorrere al Tribunale, ma attraverso un procedimento sommario che gli garantisce poco o nulla, l’art. 702 bis del Codice di Procedura Civile; non una causa vera e propria, che è concessa a tutti, anche ai soci fondatori dell’azione cattolica come Totò Riina, ma un procedimento che si definisce in una sola udienza dove tutto è lasciato alla competenza ed alla conoscenza socio-politica del Giudice, che legge il ricorso dell’avvocato, le fonti e, se lo ritiene, ascolta il ricorrente-migrante, poi decide, il più delle volte alla stessa udienza.

Parlando di tribunali calabresi, ad esempio, a Catanzaro, dove dovrebbe nascere la sezione specializzata del nuovo Tribunale secondo il nuovo decreto, poche volte vengono sentiti i migranti; a Reggio Calabria, dove ad oggi si svolgono molti giudizi, attesa la presenza di una commissione che ha li la sede, quasi sempre. Eliminare la comparizione del ricorrente significa calpestare il Codice e la Costituzione; significa adottare  una legge speciale, che evoca passati remoti tragici per l’Italia. Lo comprendiamo questo? Abolire, come è stato fatto,  il secondo grado del giudizio, ossia il reclamo alla Corte d’Appello, significa tutto quello che ho detto fino ad ora, ma anche di più; significa attuare un colpo di stato giudiziario, un vulnus senza precedenti, nella nostra storia giudiziaria.

Protesteremo in ogni modo, in ogni ambito; prima di tutto nei confronti di quanti lo hanno votato: sono nostri nemici, sono nemici del Popolo; con loro non possiamo fare nessun tipo di alleanza; poi nelle aule giudiziarie, ove faremo fioccare i ricorsi alla Corte Costituzionale avverso il decreto del novello Kossiga, il decretuncolo del ministro della paura. Così, quando verranno a prenderci, se ci riusciranno, non lo potranno fare, perché ci saranno altri insieme a noi, bianchi, neri, rossi, gialli e saranno mazzate….

Avv. Adriano D’Amico

(Rifondazione Comunista – Comitato Politico Provinciale)

p, Zanotelli a Napoli manifesta a favore dei rom

Napoli

manifestazione contro lo sgombero dei Rom:

«non sono animali»

di Melina Chiapparino

Rom:  ‘noi non siamo animali’
La scritta a caratteri cubitali si legge sui cartelloni indossati da Padre Alex Zanotelli ed i manifestanti riunitosi oggi sotto Palazzo San Giacomo. Dalle 11 del mattino è cominciata la protesta del ‘Comitato Campano con i Rom’ e del ‘Comitato di solidarietà dei cittadini di via S. Erasmo alle Brecce’ contro lo sgombero dei campi rom in via Brecce Sant’Erasmo a Poggioreale, avvenuto lo scorso 7 aprile su provvedimento della Procura di Napoli. Ad affiancare i manifestanti, oltre a Zanotelli che ha parlato di «una vera e propria deportazione a cui non è stata affiancata alcuna soluzione abitativa per più di 700 persone lasciate in mezzo alla strade», erano presenti il gesuita Padre Domenico Pizzuti, la pastora Valdese These Mueller e Cathrine Molok di Amnesty International.   
«L’unica cosa che il Comune di Napoli ha fatto è la costruzione di un campo attrezzato in via del Riposo, un lager così è definito da Amnesty International – si legge nel volantino diffuso durante la manifestazione dai Comitati – troviamo incredibile che né il Comune né la Regione trovino case o appartamenti per le famiglie rom come prevede la politica dell’Unione Europea ed è ancora più incredibile che la Prefettura abbia 16milioni di euro da destinare ai rom che nessuno sta utilizzando».
 

Temi centrali della protesta sono stati due filoni: la destinazione di una sola porzione dei 1300 Rom dei campi nell’attrezzatura in via del Riposo, con la conseguente problematica di non avere una sistemazione per le altre famiglie e la questione dei minori. «Tanti bambini sono stati portati via dall’oggi al domani trovandosi costretti a vivere in strada e arrangiarsi – insiste Zanotelli – si tratta di minori scolarizzati che frequentavano le classi delle scuole nei pressi dei campi e a cui si sta negando il diritto allo studio». Durante la manifestazione hanno partecipato anche alcuni rappresentati della comunità Rom come Patrick che ha dichiarato di vivere in auto con la famiglia da 4 giorni. «Non vogliamo creare problemi- ha spiegato- vogliamo solo un posto dove vivere tranquilli». Una delegazione dei manifestanti, inclusa la rappresentante di Amnesty International è stata ricevuta durante la mattinata dalla dirigenza dell’assessorato al Welfare di Roberta Gaeta, che non era presente, ma nessun risultato è stato portato a casa dai Comitati. «Al momento non ci sono spazi alternativi da offrire» hanno dichiarato dopo la riunione i rappresentati delle comunità Rom.

a Torino la consulta per idiritti dei rom conculcati

Torino

i rom formano una Consulta per i diritti

“dal Pd ai fascisti record di manifestazioni contro di noi”

“In città è in atto una caccia alle streghe: nessuno si preoccupa delle soluzioni abitative per superare i campi”

di JACOPO RICCA

I rom torinesi fondano una Consulta per rappresentare le loro istanze e denunciano: “La politica continua a organizzare manifestazioni contro gli insediamenti presenti in città”. Hanno scelto l’8 aprile, data fondamentale per la cultura nomade dove si ricorda il primo congresso mondiale svoltosi a Londra nel 1971 e si celebra il “Romano Dives”, la Giornata Internazionale del popolo rom, per lanciare la prima consulta torinese che riunirà i rappresentanti degli insediamenti e delle tante comunità rom e sinte presenti in città.

L’organo politico sarà ospitato nella sede dell’associazione Idea Rom, presieduta da Vesna Vuletic, che in questi anni ha portato avanti le battaglie anche legali, come la costituzione di parte civile nel processo contro gli autori del rogo della Continassa, del popolo rom. Gli organizzatori però raccontano una situazione difficile in città, con la politica, da destra a sinistra, che continua a battersi contro di loro: “La Consulta Rom di Torino nasce in un clima da caccia alle streghe – attaccano – Proprio nella settimana in cui ricorre il primo atto politico mai messo in atto dalle comunità Rom, è stato raggiunto un record tutto particolare e cioè ben cinque manifestazioni politiche contro di noi. Si è iniziato con un incontro del Movimento 5 Stelle sul tema dei roghi tossici e della sicurezza sul bus 69, per poi passare a un convegno del Partito democratico sull’inquinamento ambientale prodotto dai rom, poi un presidio dei comitati contro l’insediamento di via Germagnano, quindi una conferenza stampa di Alemanno all’interno di un campo nomadi, fino a concludere la settimana con una manifestazione fascista nuovamente a ridosso di un insediamento”.

Parole dure che denunciano un clima di ostilità diffusa: “Nessuno o quasi che affronti il tema delle tante risorse in questi anni gettate al vento anziché utilizzate per affrontare i problemi – continuano gli animatori della Consulta – Pochi a sfiorare il tema delle soluzioni abitative e del lavoro come possibile via d’uscita per il superamento dei campi nomadi e degli annessi problemi”.

Secondo la stima della consulta, che si è definisce “un organismo politico di auto-rappresentanza che darà voce a chi non viene mai ascoltato, smascherando gli interessi che finora hanno impedito la vera soluzione dei problemi”, a Torino le persone di origine rom e Sinte sono circa 2.800 persone, che salgono a 5mila nella provincia e arrivano a 7mila se si considera tutto il Piemonte. “Anche Torino è una delle tante città italiane in cui migliaia di rom vivono ammassati nelle baraccopoli, istituzionali e non, che ne punteggiano le aree più marginali e degradate – concludono – Si tratta di persone a cui in pochi riconoscono la dignità di esseri umani, percepiti e trattati piuttosto come problema o corpo estraneo da espellere”.

ricordando una giornata importante per il popolo rom

Rom

Paolo VI e quella svolta a Pomezia nel ‘65

ma l’inclusione resta lontana

Paolo VI riceve dei fiori da una bambina rom durante la visita Pomezia del ‘65

marco roncalli

«Vorrei che anche per il vostro popolo si desse inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo, della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri. Avete l’esempio del beato Zefirino, figlio del vostro popolo, che si distinse per le sue virtù, per umiltà e onestà e per la grande devozione alla Madonna, che lo portò al martirio … Più volte anche da parte di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vi è stato assicurato l’affetto e l’incoraggiamento della Chiesa. Vorrei concludere con le parole del Beato Paolo VI … Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore» . 

Sono le parole che il 26 ottobre 2015, Papa Francesco ha pronunciato davanti a oltre 7mila Rom – provenienti da una ventina di nazioni del mondo, quasi duemila da 9 regioni e 26 diocesi italiane – giunti a Roma per ricordare il cinquantesimo anniversario dell’incontro di Paolo VI con il loro popolo a Pomezia, il 26 settembre del 1965. Un appello, quello di Francesco, sempre attuale. Certamente non solo oggi, 8 aprile, Giornata internazionale dei Rom e Sinti indetta dall’Onu, considerando che la presenza in Italia di circa 170 mila Rom di cui attorno ai quasi 40 mila vivono nei campi (oltre la metà composta da bambini di cui soltanto il 20% frequenta la scuola), resta sempre percepita solo come un problema di sicurezza

«Continuiamo, infatti, ad assistere ancora a troppa retorica politica e comunicativa razzista, xenofoba e antiziganista, con azioni conseguenti che portano a creare conflittualità e reazioni sociali, annullando gli aspetti positivi di percorsi di inclusione e partecipazione sociale. Manca, troppo spesso, il rispetto per il popolo rom, che vive nelle nostre periferie…»,

afferma monsignor Gian Carlo Perego oggi vescovo di Ferrara. Sono parole tratte da uno dei suoi ultimi scritti come direttore generale Fondazione Migrantes, la prefazione al volume di Susanna Placidi “Una giornata particolare” (Tau editore), che ricorda l’incontro di Papa Montini, alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II: il primo, ufficiale, tra la Chiesa e il popolo “zingaro”. Un incontro che inizialmente prevedeva un incontro nella Basilica di San Pietro, mentre poi Paolo VI stesso decise di recarsi a visitarli nel loro accampamento di Pomezia, che quella giornata piovosa aveva trasformato in una palude. Un appuntamento storico che consacrava una svolta e vedeva l’abbraccio del Papa con una minoranza da sempre ai margini della società e associata a pregiudizi atavici come il furto o il rapimento dei bambini; una minoranza perseguitata nei secoli, ritenuta pericolosa, da cancellare dalla faccia della terra, impresa in cui si diedero molto da fare i nazisti durante la Seconda guerra mondiale (mezzo milione – secondo le statistiche più accreditate – i Rom che morirono nelle camere a gas e nei forni crematori dei lager, dopo aver subito trattamenti di particolare crudeltà).

Ma torniamo a quella “giornata particolare”. Anche padre Renè Voillaume e la piccola sorella Magdeleine in quell’occasione, lo ricorda monsignor Matteo Maria Zuppi, presentando lo stesso libro di Susanna Placidi, «accompagnarono un febbricitante Paolo VI, visibilmente felice per sanare una frattura secolare, che tanta sofferenza ha generato». «Egli, che aveva conosciuto il popolo zingaro –prosegue l’arcivescovo di Bologna – li chiamò “cari” e offrì a loro e a noi definizioni così diverse da quelle cui erano e sono abituati, frutto di sentimento poetico e di finezza letteraria: “pellegrini perpetui”, “esuli volontari”, “profughi sempre in cammino”, “viandanti senza riposo’”…». «Voi siete al centro, voi siete nel cuore”, affermò solennemente Papa Montini. In quella “giornata particolare” che a Pomezia aveva ascoltato la lettura del Vangelo in cinque idiomi diversi aprì davvero il suo cuore di Pastore e festeggiò il suo compleanno.

Da allora fino a Papa Francesco non sono mancate tappe importanti di questo legame tra il popolo Rom e la Chiesa. Certo molto resta da fare, ma occorre dar conto anche di esperienze che, benché poco diffuse, si collocano nel solco aperto da Paolo VI, capaci di far rivivere lo spirito di quella “giornata particolare” . Uno spirito già soffiato a ben guardare in tante pagine di storia della Chiesa dal tempo in cui Filippo Neri e altri santi erano pronti ad opporsi al decreto di Pio V che reclutava forzatamente gli zingari come rematori nelle galere pontificie, pronte per la battaglia di Lepanto, sino all’ultimo secolo che ha visto tante figure di precursori dell’apostolato fra i gitani un po’ in tutta Europa. Religiosi, parroci, vescovi capaci nei modi più diversi di «farsi zingari». Solo per fare qualche esempio fra i molti si pensi al gesuita Jean-Marie Fleury o all’arcivescovo di Utrecht, Johannes de Jong, negli anni ’40; a padre André Barthelemy negli anni ’50; al gesuita Luis Artigues, negli anni Sessanta; al futuro cardinale Roger Etchegaray, a Sorella Magdeleine o a padre Renè Voillaume, sempre restando in quegli anni. 

In Italia è stato don Dino Torreggiani il primo ad occuparsi sistematicamente dei Rom proponendo – anche con un memoriale inviato alla Sacra Congregazione Concistoriale già il 25 giugno 1957 – un piano in grado di affrontare la loro situazione e quella dei lavoratori dello spettacolo viaggiante, attraverso un coordinamento delle attività dei cappellani, d’intesa con il clero diocesano , base di una futura “prelatura dei nomadi”, di fatto presto realizzatasi con la nascita dell’Opera Assistenza Spirituale ai Nomadi in Italia (poi collocata all’interno degli organismi della Cei, nella Commissione Emigrazione e Turismo). Sulla scia dell’opera di Torreggiani si mossero diverse figure “storiche” della pastorale tra i Rom. Ne ricordiamo qui due. Don Bruno Nicolini, di Bolzano: un “convertito “ alla causa dei Rom, poi tra gli organizzatori del pellegrinaggio internazionale a Pomezia nell’incontro con Paolo VI, a fine anni ’70 chiamato a Roma dal cardinal vicario Ugo Poletti a seguire in diocesi la pastorale del mondo zingaro trovando come utile alleata la Comunità di Sant’Egidio. E don Mario Riboldi, lombardo: fu lui, insieme a don Torreggiani, a convincere l’allora arcivescovo di Milano a visitare i “circensi” di un Luna Park, alla periferia della città. Da Pontefice, Montini l’avrebbe ricordato in una udienza ad un gruppo di Rom nell’Anno Santo del 1975: «Voi mi domanderete: ma la Chiesa ci vuol bene? Sì che vi vuol bene e farà quel che può per aiutarvi… A Milano ho potuto incontrare parecchi dei vostri accampamenti, un po’ ovunque nella periferia e anche altrove i nostri passi si sono incrociati con i vostri. È stato don Riboldi che ci ha svelato la vostra vita…».

Una vita che decenni dopo non pare cambiata per i Rom. Giornate come quella dell’8 aprile – il “Romanò Dives” – servono almeno a rialzare il riflettore su un’emarginazione indiscutibile, favorita da tanti motivi che finiscono comunque per calpestare la dignità umana di un popolo . E ci si augura possano servire a dare il via a iniziative capaci di nuovi percorsi con le piccole comunità Rom e Sinti presenti tra noi. Alcuni cammini sono già stati avviati. Qualche traguardo raggiunto: ad esempio a Torino, dove i Rom hanno messo in piedi un progetto di housing sociale; a Milano, dove la Casa della Carità e il Centro Ambrosiano di Solidarietà hanno tolto dai campi una novantina di famiglie e fatto diplomare una trentina di ragazzi; a Roma, dove laboratori di sartoria frequentati da donne Rom con finalità di inclusione sociale sono nati su progetti promossi da Caritas, Migrantes e di Sant’Egidio, quest’ultima particolarmente attiva in varie città italiane anche sul fronte sanitario e scolastico. Senza dimenticare, al Nord come al Sud, da Brugherio alla Sicilia, lungo l’Italia “Paese dei campi Rom”, preti sconosciuti alle cronache che hanno scelto di vivere tra le roulottes. 

Ma sono casi poco frequenti, esperienze di testimonianza in un quadro dove restano ancora aperti troppi fronti che attendono soluzioni politiche: dalla scolarizzazione al superamento della segregazione abitativa. Né pare raccolga eccessivi entusiasmi la celebrazione di questo 8 aprile 2017, considerando le poche occasioni di festa promosse oggi da istituzioni religiose come ad esempio quella a Rimini voluta dalla Consulta delle Aggregazioni Laicali della Diocesi insieme alle famiglie. Lo stesso discorso per le istituzioni civili: anzi, proprio ieri – alla vigilia della ricorrenza – a Napoli sono accaduti due episodi in contemporanea che fotografano la situazione reale: l’inaugurazione di un nuovo grande campo (nell’Italia impegnatasi entro il 2020 a superare i megacampi monoetnici) e lo sgombero forzato di un altro campo a colpi di ruspe lasciando senza alloggio centinaia di Rom (compresi bambini e anziani). L’ inclusione? Ancora lontana.

«Nonostante la preoccupazione espressa dagli organi internazionali nulla è cambiato e in Italia continuano ad essere perpetrate politiche discriminatorie nei confronti delle popolazioni Rom…»: questa l’accusa ripetuta in Senato dall’Associazione 21 luglio, alla vigilia della Giornata internazionale. L’ennesima protesta dentro un “Rapporto annuale” costretto a rilevare «pesanti ritardi»

superare i ‘campi-ghetto’ per i rom: ma come nel rispetto delle singole persone?

 rom

torna la stagione dei campi-ghetto

anzi, non si è mai fermata

 
Rom, torna la stagione dei campi-ghetto. Anzi, non si è mai fermata
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presidente Associazione 21 luglio
Il ritorno alla triste stagione dei campi rom è dietro l’angolo e diverse amministrazioni – le stesse che in campagna elettorale sulla questione avevano promesso una discontinuità con il passato – stanno cedendo alla tentazione di continuare a investire sui ghetti etnici.Secondo una mappatura che prossimamente verrà resa pubblica da Associazione 21 luglio, sono 149 in Italia, gli insediamenti per soli rom progettati, realizzati e gestiti dalle amministrazioni locali. Espressione architettonica di una politica fondata sulla discriminazione e sul disprezzo, rappresentano, per numero e diffusione, la stortura di un Paese definito, a partire dal 2000, “Campland”, il Paese dei campi. Sono dappertutto, da Nord a Sud e al loro interno sono concentrati cittadini italiani e stranieri, extracomunitari e rumeni, tutti accomunati dalla stessa origine rom.   

L’Europa dei diritti umani li ha chiamati “spazi di segregazione istituzionale”; noi preferiamo forme più colorite e bizzarre: “villaggi attrezzati”, “campi sosta”, “villaggi della solidarietà”, “aree sosta”, “campeggi”. Termini bucolici che addolciscono immagini di vite alienate di generazioni che hanno visto le loro esistenze consumarsi dentro non-luoghi. Buchi neri senza fondo che per anni hanno incanalano risorse pubbliche fuori controllo, frequentati da quanti hanno barattato illeciti guadagni con la violazione dei diritti umani.

La loro massima diffusione è avvenuta nel periodo della cosiddetta “Emergenza nomadi” quando, nel 2008, il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni paragonò la presenza di 12.000 rom in 5 regioni italiane a una catastrofe naturale e 100 milioni furono destinati a costruire nuovi ghetti dove concentrare esseri umani in nome della sicurezza nazionale. Quel triennium horribile finì sotto la scure della Consiglio di Stato che ne decretò l’illegittimità. L’Italia doveva uscire da quella vergogna e nel 2012, presentando la Strategia nazionale per l’inclusione dei Rom, si impegnò davanti all’Europa a raggiungere entro il 2020 il definitivo “superamento dei mega insediamenti monoetnici”. Ma da quel giorno si è assistito, in 22 Comuni italiani, alla costruzione di nuovi campi per una spesa complessiva di quasi 32 milioni di euro: circa 30.000 euro per ogni famiglia interessata. Invano l’Onu anche lo scorso anno, ha esplicitamente richiamato l’Italia, intimando la “cessazione di qualsiasi piano volto a predisporre nuovi campi segregati che separino i rom dal resto della società”.  

La Capitale, con i suoi sette “villaggi” e undici “campi tollerati” detiene il triste primato di città con il più alto numero di insediamenti. Nessuna giunta si è sottratta a mantenere in vita il perverso sistema. E’ dei giorni scorsi la notizia che l’amministrazione pentastellata realizzerà un nuovo insediamento per soli rom nel XV Municipio: un milione e mezzo di euro di soldi pubblici per discriminare. Perché questo sono i “villaggi romani”: luoghi di discriminazione istituzionale. Non lo dichiarano le associazioni per i diritti umani ma lo ha sentenziato un giudice del Tribunale Civile nel 2015. Anche il Comune di Napoli non è da meno e tra poche settimane inaugurerà l’insediamento in via del Riposo realizzato con una spesa superiore al mezzo milione di euro.

Nell’ultimo mese ho incontrato gli assessori alle politiche sociali delle due metropoli. “Non si tratta di nuovi campi – hanno tenuto a precisare all’unisono – perché la loro apertura comporterà la chiusura di altri. E poi, si tratta di campi provvisori fatti per evitare di buttare famiglie per strada”. Considerazione banale e ingenua perché dimentica del fatto che è sempre stato così: è la storia di un nomadismo forzato da un campo all’altro. Prima lo si faceva in nome della sicurezza, oggi si ha l’ipocrisia di invocare i diritti delle persone. E’ in fondo questa la discontinuità di amministrazioni governate da movimenti e liste civiche dalle quali ci si aspettava ben altro. Non è un caso che altre città, come Torino e Cagliari, anch’esse governate da forze politiche di rottura rispetto al passato, stiano seriamente prendendo in esame l’opzione di ripartire da nuovi campi per soli rom.

E’ questa l’altra faccia di un razzismo di Stato con cui dobbiamo abituarci a fare i conti. Non quello prevedibile che invoca sgomberi e promette ruspe, ma quello strisciante che costruisce gabbie per senso di bontà e solidarietà, che promette che sarà l’ultima volta perché i rom vanno inclusi ma gradualmente e senza fretta, perché “noi mica siamo come gli altri”. Di questo, purtroppo, ce ne siamo accorti.

esperimento rom – razzismo fifty fifty in un simpatico scherzo

ESPERIMENTO A TORINO

“abbracciami, sono un Rom”

Un ragazzo con i capelli rasati ai lati e il ciuffo lungo e nero. Come va di moda. Ha 18 anni e si chiama Yonut. Se ne sta in piedi in mezzo alla strada nel centro pedonale di Torino, via Garibaldi. Al collo ha appeso un cartello con su scritto: “Io sono Rom. Abbracciami!“. Sta lì a braccia aperte e aspetta, nel via vai dello shopping del sabato.

Da un balcone, una telecamera nascosta riprende tutto. I ragazzi che si avvicinano e lo abbracciano. La sua faccia allegra e un po’ guascona quando qualcuno si avvicina. Riprende anche il papà che allontana i figlioletti: “Venite via….”.

E’ stato un esperimento sociale ideato da Martina Steinwurzel della cooperativa sociale Babel, realtà che lavora con migranti e richiedenti asilo.

“Mi sono ispirata – racconta – all’esperienza fatta anni fa da un ragazzo che, in mezzo alla strada, si era messo al collo il cartello “Ho l’Hiv, ti azzarderesti a toccarmi?”. Per abbattere il pregiudizio servono anche azioni di questo tipo”. E così ha “arruolato” Yonut che, con la sua famiglia, vive in un Centro gestito dalla cooperativa a Settimo torinese. Un interessante esprimento di housing sociale, attento all’integrazione di migranti e Rom.

“Sui social la gente scrive di tutto – dice Martina –  non sembra responsabile di ciò che scrive. Ma in un contatto reale con un essere umano, devi essere davvero molto razzista per non guardarlo negli occhi e accorgerti che è uguale a te”.

Lui, Yonut, adesso è contento. Quando lo raggiungiamo al telefono sembra anche un po’ stupito che un giornalista gli voglia parlare. Fa un po’ il timido. Ma poi racconta di sé. E degli abbracci.

“Ho 18 anni, sono in Italia da quasi 11 anni. Ho studiato​ qua, ho una qualifica di meccanico professionale. Sono qui con la mia famiglia: i miei genitori e quattro fratelli”.

Allora, Yonut, raccontaci degli abbracci….

Avevo un po’ paura all’inizio, avevo paura che nessuno mi venisse ad abbracciare. Poi è andata bene.

Ma ti abbracciavano?

Sì, sì, soprattutto le ragazze giovani.

Sì vabbè, perché sei un bel ragazzo!

(ride) Forse, non lo so!

Cosa ti dicevano quando vedevano quella scritta sul cartello?

Alcuni la leggevano, si giravano e andavano via.  Altri invece dopo averla letta, ci pensavano un po’, poi tornavano e mi abbracciavano. Mi dicevano: “Vai così, bravo, un abbraccio ci sta!”.

Secondo te c’era qualcuno che quando vedeva la scritta “Sono Rom” se ne andava per quello?

Secondo me sì. A un certo punto dei bambini si sono avvicinati e hanno chiesto al papà di cosa si trattava. E il papà li ha tirati via, venite via, venite via… Due ragazzi invece si sono avvicinati è mi hanno detto: “Sì al razzismo”. Proprio così: “Sì al razzismo”.

A fine giornata quanti abbracci hai portato a casa?

Tanti, una quarantina. E’ stato bellissimo, non me lo aspettavo.

Cosa pensi quanto senti dire “I Rom rubano tutti”?

Ti senti male. Ti senti diverso.

Tu non hai mai rubato…

No! (ride)

Epure sei Rom…

Eh, sì!

Come va con il lavoro?

E’ un casino, sono due anni che lo cerco. Ma niente. Ho fatto dei colloqui ma è andata male.

Allora magari diciamo a qualcuno che ti ha dato un abbraccio che ti dia anche un lavoro!

Magari, sì! (ride) Sarebbe una gran bella cosa per me.

i diritti sono sacri tranne che per i bambini rom

prendo atto che ci sono persone che valgono meno

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Non avevo mai avuto un alunno andato via perché con una ruspa gli hanno buttato giù il luogo in cui abitava, oggi è successo.

La cosa più dura da mandar giù è che è successo nel silenzio più totale, col plauso dei cittadini, il silenzio di chi, a mio avviso, ma io non conto nulla, avrebbe dovuto parlare, uno sgombero efficiente, rapido, inodore.

Oggi, a Cornigliano, dove hanno sgomberato un campo rom che, intendiamoci, avrebbe dovuto essere sgomberato da anni, mancavano le nobili associazioni che si occupano di diritti civili e libertà, che chiedono a gran voce legalità e rispetto della costituzione.

No, non volevo che difendessero i rom, io e i miei colleghi dell’Istituto comprensivo di Cornigliano, Genova, Italia, Europa, avremmo voluto che spendessero una parola per tutelare il diritto allo studio dei bambini che vivevano in quel campo e frequentavano la nostra scuola. Una parola per chiedere che i progetti avviati su quei bambini continuassero, che le ore di formazione fatte dagli insegnanti fuori dall’orario di lavoro per imparare come gestirli, come avviare un difficile processo di integrazione, per spiegargli che un’altra vita era possibile non andassero persi, come l’impegno di quello stesso comune che li ha sgomberati, che aveva avviato un progetto  che aveva dato frutti ed è stato annullato quest’anno.

Viene da pensare che difendere i rom, anche i bambini rom sia una scelta politicamente infelice, che spendere una parola per loro possa costare tessere, sovvenzioni, favore popolare, e allora è meglio tacere e far parlare solo insegnanti e maestre che, tanto, non contano niente, non danno fastidio e possono tenersi insulti e sopportare l’ironia greve sui forum dei giornali o sui social network.

Viene da pensarlo ma io non lo penso: credo che quelle associazioni, la società civile, siano nobili e necessarie, ma, forse, un po’ distratte.

E comunque il Comune ha offerto ai rom sfrattati tre giorni in albergo per quelli senza figli e una settimana per quelle con i figli, cosa chiedere di più?

E poi? Poi la notizia si stempererà, poi di quelli non importerà più nulla a nessuno, poi sarà silenzio.

Complimenti anche i redattori del giornale cittadino, che casualmente, guarda tu le coincidenze, il giorno prima dello sgombero pubblicano una notizia sull’arresto di Sinti milionari. Senza spiegare alla gente che i Sinti non sono Rom, naturalmente, ma facendo in modo che lo sgombero venga applaudito.

I Rom rubano, certo, anzi, alcuni rom rubano, per essere onesti, io credo, ma non sono nessuno e non capisco niente, che se gli togliamo la scuola, l’educazione, se non li integriamo, i rom continueranno a rubare e continueremo a sgomberare campi con piccoli rom che non saranno scolarizzati e integrati, che ruberanno e allora sgombereremo altri campi con.,..

Prendo atto

che i diritti sono sacri tranne che per i bambini rom,

che la Costituzione è sacra tranne che per i bambini Rom,

che possiamo sdegnarci per tutto, scandalizzarci di tutto, ma non per i bambini rom,

prendo atto che la legge è uguale per tutti ma non per i bambini rom

Non ne prendono atto, per fortuna, i miei alunni, turbati e sdegnati dalla notizia.

“E adesso cosa ne sarà di loro?” Mi chiedono confusi. perché loro sono consapevoli che “loro” sono compagni, bambini come loro che con loro giocavano, ridevano, scherzavano, lavoravano in gruppo, etc.

Un compagno che va via è sempre un dolore per una classe, se poi al compagno hanno buttato giù il posto dove abita con una ruspa ed è stato portato via con un pulmino, per una destinazione sconosciuta, al dolore si accompagna anche un turbamento profondo, la sensazione di assistere a una incomprensibile ingiustizia.

Non avevo mai avuto un alunno andato via perché con una ruspa gli hanno buttato giù il luogo in cui abitava, oggi è successo.

Io lavoro per lo Stato, uno Stato che offre opportunità, che dà la possibilità di migliorarsi, di imparare a decodificare il mondo, di interagire e solidarizzare con chi ti sta vicino.

Non per uno Stato che, con un atto violento, toglie a dei bambini la possibilità di tornare, domattina, a ridere e scherzare con i loro compagni.

Ma, probabilmente,ha ragione la società civile, le persone nobili sempre in prima fila per difendere diritti, legalità, etc.

Una piccola storia ignobile come lo sgombero di un campo rom non merita considerazione, sono io che, non contando niente, non capisco niente.

Allego un piccolo filmato, l’ho fatto vedere ai miei alunni: loro hanno capito:

http://www.raiplay.it/video/2016/10/Aisa-e-Zamira—quotNoi-ragazzine-romquot-ff4118c8-4605-46c0-ae48-47353547f7a3.html

a proposito delle donne rom rinchiuse in una gabbia

operatori nella pastorale tra i rom e amici dei rom di fronte alla inumana violenza operata a due donne rom rinchiuse in un gabbiotto e apostrofate e umiliate con cinici sghignazzi moltiplicati viralmente on line

 

 

 

La vicende delle 2 donne Rom rinchiuse in una gabbia per la raccolta di cartone e di materiale buttato tra i rifiuti di un supermercato a Follonica, ha suscitato contrastanti reazioni, moltissime sui social media, meno sui quotidiani. Ammirevoli alcune prese di posizioni, come quella del sindaco della stessa Follonica che ha condannato senza alcuna riserva il gesto, le parole di un sacerdote intervistato (di Follonica?) che ha manifestato il suo sbigottimento per quel gesto, come pure l’immediata presa di posizione della direzione del Supermercato. Ma non si contano quanti hanno applaudito i sequestratori, andando ben oltre un semplice commento di irrisione. A distanza di pochi giorni la notizia è scomparsa, già rimossa.

Gli autori di questo gesto hanno anche voluto filmare la scena con le grida disperate delle due povere donne in trappola, mentre i dipendenti si divertivano e ridevano soddisfatti e hanno postato il filmato su Facebook come fosse un “trofeo di vittoria” , di disprezzo e intolleranza da immortalare e sventolare. Anche facendo le debite differenze , la spettacolarizzazione e l’esibizione delle sofferenze e dell’umiliazione di queste due donne rom, richiama l’esposizione e l’esecuzione pubblica dei loro ostaggi da parte di gruppi e movimenti che hanno fatto della disumanizzazione di chi non è come loro, uno strumento di minacciosa propaganda e violenze. Certo, i tre giovani dipendenti di Follonica non avevano l’intenzione di giustiziare nessuno, ma i commenti di approvazione del loro operato, apparsi sul Social, erano messaggi di incitamento esplicito alla violenza, ad usare il fuoco per eliminare i rom, e di esaltazione del razzismo. La barbarie sembra attraversare impunemente i nostri confini, non solo quelli geografici, fino ad annidarsi fin dentro i nostri cuori e menti. Fino a far ritenere la cosa, come normale, legittima.

C’è materia su cui riflettere molto..

La dignità di 2 povere donne è stata umiliata, calpestata, derisa… e non sono molti i movimenti e le associazione in difesa della donna che abbiano sentito il bisogno di fare sentire la loro voce, contro un maschilismo così becero, arrogante e xenofobo.
Anche lo scarto, la spazzatura di un Centro commerciale, hanno più importanza delle persone e della loro dignità, soprattutto se si tratta di due donne Rom. Gli scarti di un centro commerciale vanno tutelati, più degli “scarti umani” che la nostra società produce.

“Non potete servire Dio e la ricchezza.” (Mt. 6,24)

Domenica scorsa abbiamo ascoltato nel vangelo questa affermazione perentoria di Gesù. Per la comunità cristiana, servire Dio porta a sentirci custodi dei nostri fratelli e alla luce del Vangelo di Gesù, soprattutto dei più deboli, dei poveri, degli ultimi. Servire Dio nell’umanità. Fingere di servire Dio, porta facilmente un “credente” a sostituire la cura del fratello, con la custodia di altre “cose”. Invece di custodire i fratelli, rischiamo di fare spazio solo a cose, oggetti, proprietà. E i poveri, i migranti, i rom diventano, in questa prospettiva, dei concorrenti anche per la spazzatura, degli intralci al nostro benessere e dominio, al nostro stile di vita da salvaguardare, costi quello che costi, per cui si arriva a considerare normale le “trappole per i rom”.

Dio sempre include, abbraccia, rialza chi è caduto, libera i prigionieri, ascolta i deboli. Mammona (la ricchezza), invece esclude, divide, ingabbia, crea disparità e produce persone indifferenti e incapaci di ascoltare il grido di sofferenza e di disperazione che oggi, soprattutto è quello dei migranti, ingabbiati nei centri di accoglienza, a causa delle nostre paure e di un sistema che produce poveri e ne mortifica la speranza, abbandonandoli alla mercé degli interessi economici subdoli, a volte camuffati di servizio sociale.

È lo stesso grido di aiuto e disperazione di tanti Rom quando vengono sgomberati dalle loro povere baracche, abbattute senza pietà e vengono espulsi dalle città in nome degli idoli della sicurezza, del decoro dell’arredo urbano, dell’ordine disumano che vi regnano. Le stesse politiche sociali, nazionali e locali, che dovrebbero integrare i Rom, si rivelano, per lo più, come ulteriore gabbia non meno violente e progettate solo per controllare, opprimere ed escludere un mondo visto con gli occhi dell’intolleranza a della diffidenza.

Come rispondere a questa deriva di pregiudizi, di intolleranza, di negazione di chi appare diverso?

Non ci sono ricette precostituite, né soluzioni facili specie oggi che comportamenti come questi del supermercato di Follonica contro le due donne rom, sembrano trovare l’approvazione di tanti. Deve restare però come punto di partenza fermo, la scelta di campo: la scelta di stare dalla parte dei poveri, dei deboli, degli scartati, di quelli che per vivere, hanno persino bisogno di rovistare, rischiando aggressioni e violenze, tra la spazzatura di un supermercato.

Domani la comunità cristiana inizia il cammino quaresimale con l’imposizioni della cenere sulla nostra testa, ci auguriamo che sia una possibilità concreta per riconoscere le nostre colpe, anche del silenzio ecclesiale, che in questa vicenda ha mancato di far sentire la sua voce chiara, forte e autorevole. Che siano i poveri, gli scarti, “gli ingabbiati” a mettere sul nostro capo la cenere e pronunciare ai nostri cuori: “Convertitevi, e credete al Vangelo!”

28 Febbraio 2017

don Agostino Rota Martir – Pisa


Marcello Palagi e Franca Felici – Carrara

 

P. Luciano Meli – Lucca

 

 

per l’ONU l’Italia discrimina i rom

ora lo dice anche l’Onu

‘le comunità rom in Italia sono discriminate’

Ora lo dice anche l’Onu: ‘Le comunità rom in Italia sono discriminate’
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Presidente Associazione 21 luglio
In Italia continua le segregazione abitativa dei rom: non solo si registrano sgomberi illegali, ma le autorità proseguono nella costruzione di aree isolate e realizzate su base etnica. Insomma, la Strategia nazionale per l’inclusione dei Rom è solo un elenco di belle intenzioni. A dirlo non sono organizzazioni di settore, centri sociali o attivisti vicini alla sinistra. Lo certifica piuttosto il più antico e autorevole Comitato della Nazioni unite quando, “tirando le orecchie” al governo denuncia a chiare lettere: le comunità rom in Italia sono discriminate.E’ proprio in materia di discriminazione verso le comunità rom che il Palazzo di Vetro esprime la sua più profonda preoccupazione e condanna nei confronti delle azioni promosse dal governo italiano e dalle amministrazioni locali chiedendo con urgenza interventi concreti volti a ricondurle all’interno dei valori fondamentali riportati nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale redatta il 21 dicembre 1965.

 

Gli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione, 177 tra i quali l’Italia, si sono infatti formalmente impegnati a perseguire con tutti i mezzi adeguati una politica nazionale tesa a eliminare ogni forma di discriminazione fondata sull’etnia e, come organismo di sorveglianza, le Nazioni unite hanno creato il Cerd, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale (Committee on the elimination of racial discrimination) che da quasi 40 anni vigila sull’osservanza della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale.

Periodicamente gli Stati firmatari devono rendere conto ai loro cittadini e all’opinione pubblica mondiale in merito alla concretizzazione, all’interno del proprio Paese, dei valori fondamentali della Convenzione e sottoporsi a un esame critico. Ogni Stato è tenuto a presentare rapporti all’interno dei quali dettagliare i provvedimenti legislativi, giudiziari, amministrativi presi illustrando la situazione del Paese in materia di discriminazione. Il Comitato esamina periodicamente i rapporti presentati accogliendo anche i “rapporti ombra” di organizzazioni indipendenti che spesso presentano quadri e descrivono scenari sensibilmente difformi da quelli illustrati dai governi nazionali.

 

Quest’anno è stata la volta dell’Italia e il Comitato, riguardo la cosiddetta “questione rom” non ha fatto sconti, recependo buona parte delle informazioni inviate dalle diverse organizzazioni, in primis quelle di Associazione 21 luglio.

Le preoccupazioni del Comitato investono tre ambiti fondamentali: la pratica degli sgomberi forzati che ha un impatto particolarmente negativo sulla continuità scolastica dei bambini; il fatto che molte comunità rom continuino a vivere in baraccopoli segreganti e in spazi abitativi distanti dai servizi essenziali e al di sotto degli standard; la volontà espressa da alcune amministrazioni locali interessate a progettare e creare nuovi insediamenti per soli rom.

Non è una novità che gli sgomberi forzati registrati negli ultimi tre anni nelle città di Milano e Roma – azioni di “bonifica” preparatorie ai grandi eventi di Expo e del Giubileo della Misericordia – abbiano raggiunto, per intensità e modalità operative gli stessi picchi segnalati durante il triennio della cosiddetta “emergenza nomadi”.

Non lo è neanche che in Italia siano almeno 20.000 i rom presenti negli insediamenti istituzionali, realizzati e gestiti con denaro pubblico. Stupisce invece come, anche dopo le inchieste di Mafia Capitale, alcune città, prima fra tutte la Capitale, continuino a perseverare nella costruzione di nuovi ghetti etnici (chiamati nelle forme più bucoliche e soft), ormai certificati come “buchi neri” dove le risorse economiche, così come i diritti fondamentali, vengono inghiottiti nella vergognosa macchina messa su dalle amministrazioni.

Ma il Cerd non si limita a formulare preoccupazioni. Questa volta va oltre indicando precise linee guida alle quali il governo italiano dovrà dare conto fra 12 mesi: fermare subito gli sgomberi forzati, arrestare ogni costruzione di nuovi “campi per soli rom”, assicurare ai minori rom un’istruzione di qualità e un’accessibilità all’istituzione scolastica, rivitalizzare la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom.

La strada è tracciata. Si tratta solo di seguirla. Del resto si sa, volenti o nolenti il trattamento che le istituzioni riservano alle comunità rom in condizione di povertà, rappresenta – insieme ad altri – il termometro che misura il nostro livello di democrazia e civiltà.

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