il commento al vangelo della domenica

E TANTO BASTA
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di Avvento di Avvento
Sof 3, 14-18 – Fil 4, 4-7 – Lc 3, 10-18
​Solo ogni tre anni, purtroppo, ritornano le parole straordinarie del piccolo e sconosciuto profeta Sofonia: Dio è felice. Felice per te.
Ogni volta la stessa emozione: esulterà di gioia per te! Esultare è il verbo della danza. Il profeta intuisce la danza dei cieli, come quella di Davide davanti all’Arca, come Miram col tamburello al mar Rosso; come Giovanni nel grembo di Elisabetta, come Maria nel Magnificat. Tutt’intorno a te, la danza di Dio. Che crea.
Ma subito dopo, il vangelo ci mette i piedi ben piantati per terra e ci riporta diritto dentro il quotidiano, con Giovanni, il ruvido profeta, prosciugato dal sole.
Va da lui tanta gente: da Gerusalemme ci volevano giorni di cammino. Cosa cercano? Le loro domande sono precise, serie: che cosa dobbiamo fare? A quale gancio concreto appendere la vita?
E le risposte sono chiare e serene; indicano piccole scelte possibili a tutti.
La prima: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare ne dia a chi ne è privo.
L’economia dell’accumulo sostituita dall’economia del dono, lo shopping convertito in condivisione. “La conversione passa per le tasche” (Papa Francesco).
Ed entrano in scena i più amati da Luca, i poveri, quelli “che non hanno”.
Il vero problema del mondo non sono i poveri, ma i ricchi. Da loro viene il disordine: c’è abbastanza pane per tutti sulla terra, e manca per l’avidità di pochi.
A tutti il profeta ripete: hai un capitale, sono i poveri! Hai un tesoro, non sono BOT o Fondi, ma “quelli che non hanno”. Investi in relazioni, sono il tuo patrimonio.
La seconda: Non esigete nulla più di quanto vi è stato fissato.
Allora, applicherò semplicemente l’onestà. Non quella degli altri, ma la mia, l’unica in mio potere.
E a chi ha ruoli di autorità: non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non approfittate della posizione per umiliare; non abusate della vostra forza per maltrattare o per far piangere.
Giovanni, mangiatore di insetti, di una ascesi quasi feroce, non chiede niente di straordinario agli altri, non dice “lascia tutto e seguimi nel deserto”, ma indica cose fattibili, a chiunque:
non tenere tutto per te; non stringere le mani ad artiglio su ciò che hai;
non rubare, non passare nel mondo da predatore e abusatore.
La conclusione è potente: Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Lui “voce come rombo che grida nel deserto” fa un passo di lato, indica un Gesù più forte, e non perché si impone, ma perché parla al cuore. Sussurra, e tu lo segui.
E’ il più forte perché è l’unico che “battezza nel fuoco”, uno che ha acceso milioni di vite e le ha rese felici. Questo fa di lui il più forte. E il più amato.
In questi pochi giorni che mancano al Natale, alziamo lo sguardo!
A testa alta, per vedete il sorriso e la danza di Dio.
Per saperci amati, da quel fuoco, e tanto ci basta.



il commento al vangelo della domenica

VANGELO DI SENSI IN ASCOLTO
Mc 7,31-37
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario
Ancora un miracolo. Uno dei tanti.
Portano da Gesù un uomo prigioniero del silenzio, mentre la parola era murata dentro di lui.
Una vita senza musica e senza voce, un sordomuto come noi che non ci si capisce, che non si sa ascoltare, sordi come lui.
Siamo invasi da social che ci fanno comunicare con tutti, anche quando nessuno ci ascolta; ci piace essere conosciuti da un mucchio di sconosciuti.
Quel sordomuto è fortunato e non per la guarigione, ma perché attorniato da amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù.
La guarigione inizia quando nel volto di qualcuno vediamo spuntare un germoglio di amore compassionevole.
‘E lo pregarono di imporgli la mano’. Ma Gesù fa molto di più: lo prende in disparte, lontano dalla folla: Io e te soli, per questo tempo niente conta più di te.
Non importa se è santo o peccatore. Soffre e basta.
E noi? Quando invece di dire: sei malato, sei nevrotico, si dirà: vieni a cena da me, al riparo della mia amicizia?
Li immagino occhi negli occhi, con Gesù che prende quel volto fra le mani, con poche parole e gesti molto intimi.
Lo tocca, e pone le dita sugli orecchi del sordo. Come lo scultore sulla creta che sta plasmando, come in una carezza. A parlare è la tenerezza dei gesti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Spirito e parola condensati, in un vangelo di contatti, di odori, di sapori.
Gesù opera la guarigione dei sensi, e per farlo li usa tutti; mani, occhi, orecchi, bocca, per ricondurci all’essenza della vita, perché è attraverso i sensi che percepiamo il mondo.
Guardando verso il cielo, emise un sospiro, e gli disse: Effatà! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici.
Apriti e non “apritevi”, si rivolge così all’uomo intero, e non ai suoi orecchi. Apriti, come si apre una porta all’ospite, come le braccia all’amore.
Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra.
Una vita guarita è quella che si apre sul mondo: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. In realtà non è l’organo fisico dell’orecchio, in realtà è scritto che si aprirono ‘gli ascolti’. Si aprì la comprensione, non gli orecchi.
Se non sai ascoltare, perdi la parola. E sa parlare solo chi sa ascoltare. Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi:
donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9).
Allora nasceranno pensieri e parole che ci faranno uscire dall’assurdo di parole non dette e non ascoltate, dall’assurdo che è l’uomo chiuso.
Che l’unica nostra parola sia: ‘apriti’.
Se apri la tua porta, vita viene (Jaki Petrovic).



il commento al vangelo della domenica

DISARMATO AMORE
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua
Gv 10,11-18
Io sono il pastore buono: il titolo più disarmante e disarmato che Gesù dà a se stesso. Eppure pieno di coraggio, contro lupi e predatori.
In che cosa consiste la sua bontà? Nell’essere pastore mite, gentile, paziente, delicato? No, per ben 5 volte il vangelo oggi lo spiega con il gesto di dare, offrire, donare, porre in gioco la propria vita.
Il lavoro di Dio è offrire vita, alimentare la vita del gregge. Un Dio pastore che non chiede, ma offre; che non prende niente e dona tutto; non toglie vita, offre la sua anche a coloro che gliela tolgono. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre. Non un comando ma “il” comando, l’unico, l’essenziale.
Io sono il pastore bello, dice il testo originario. E noi capiamo che ‘bellezza’ è un nome di Dio; non estetica ma forza di seduzione; forza che crea ogni comunione.
«Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore».
Al pecoraio salariato Gesù oppone parole che amo e che sorreggono la mia fede: “a me, pastore vero, le pecore importano, tutte, l’una e le novantanove”.
A ciascuno ripete: tu mi importi. Verbo bellissimo: importare, essere importanti per Dio!
Signore, non ti importa che moriamo? Gridano li apostoli spaventati dalla tempesta. E il Signore risponde placando il mare, sgridando il vento, per dire: Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Non temere!
Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo ma tu vali di più. Mi importano i gigli del campo ma tu conti più di tutti i gigli del mondo.
Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che ti oscura il cuore.
Per te do la mia vita. E non so domandare migliore avventura.
A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, soffrendo per l’assenza di Dio, o turbati per il suo silenzio.
Il comandamento che impariamo dal pastore bello è che la vita è dono. “Dare vita” significa contagiare d’amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.
Se non dai vita attorno a te, entri nella malattia. Se non dai amore, un’ombra invecchia il cuore.
Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. E di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino, mi metto nelle sue mani e gli affido tutti gli agnellini del mondo.
Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi, pastori tutti di un pur minimo gregge, siamo chiamati a diventare racconto della tenerezza di Dio, della sua combattiva tenerezza.



il commento al vangelo della domenica

la vergine e l’amore di Dio che ci precede


La Vergine e l’amore di Dio che ci precede

 il commento di Ermes Ronchi  al vangelo della quarta domenica di avvento Anno B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.

Entrando da lei, disse: “Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. […]»

L’angelo Gabriele vola via dal tempio, dall’anziano sacerdote senza parola, verso una giovane laica, dalla Città Santa a un villaggio senza storia, da un maschio a una donna, dall’unico tempio a una casa come tante, dove «arde in appartata fiamma la vita» (L. Borges) che diventa finestra di cielo. Così inizia il Vangelo: Dio esce dai recinti del sacro e si immerge nella normalità della vita; non fra incensi e candelabri, ma pentole e telai.

L’angelo migratore parla in modo chiaro e nuovo.

Gioia è la prima parola, Xaire, rallegrati, gioisci, sii felice Maria, apriti alla gioia come una porta al sole.

Non le ordina: inginocchiati, obbedisci, prega, vai al tempio. Gabriele brucia le distanze tra Dio e l’umano: tra i due poli scocca la prima scintilla, quella di ogni “in principio”, quella della felicità. Che sarà anche il primo tema del Maestro nella sua prima lezione sul monte (Mt 5). Dio è legittimato a proporsi all’uomo perché sa parlare il linguaggio della gioia. Nella seconda parola, il perché della gioia: sei piena di grazia, riempita, intrisa di Dio. La grazia di Dio è la vita stessa di Dio, il suo amore. Dio è innamorato di te, Maria, il tuo nome è “amata per sempre”, senza rimpianti, teneramente amata. Dio ha detto sì a Maria prima ancora che Maria dicesse sì a Dio, prima di ogni sua risposta. E questo è anche il nostro nome: come lei, tutti amati per sempre, di amore asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Per come siamo, per quello che siamo. Il Signore è con te.

Quando nella Bibbia Dio dice a qualcuno “Io sono con te” gli sta offrendo un futuro bello e arduo (R. Virgili), un compito alto e difficile: tuo figlio sarà figlio di Dio. Maria è sbalordita: come è possibile? Questo angelo dice eresie. Dio è uno, non ha figli. Ma nel Vangelo gli angeli vengono proprio per dire questo: che l’impossibile è diventato possibile. Non aver paura Maria, se l’infinito si nasconde in un pugno di carne, in una perla di sangue nel tuo grembo. Non aver paura delle nuove, sconosciute vie di Dio che diventa bambino, vagito, fame di latte, occhi spalancati, mano piccola che si protende. Non temere questo Dio bambino, che vivrà perché tu lo amerai.

Lo nutrirai di latte, di carezze, di sogni. E lo farai felice. Ragazza pratica, concreta, Maria vuole sapere: come è possibile, non conosco uomo? Sarai umile tenda mossa solo dal vento dello Spirito. E Maria con gioia, con slancio, si butta sulle vie di Dio: eccomi, io ci sono, ci metto la mia fede, il mio corpo, il mio futuro, la mia femminilità, tutto. Oggi quell’annunciazione continua: anche intorno alla tua casa volteggiano angeli, e un Dio sempre in cerca di madri.

(Letture: 2 Samuele 7,1-5.8-12.14.16; Salmo 88; Romani 16,25-27; Luca 1,26-38)



il commento al vangelo della domenica

le bilance del Signore sono tarate solo sul bene

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentaquattresima domenica del Tempo ordinario, anno A : Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. (…)

Una scena potente, drammatica, detta del “giudizio universale”, ma che in realtà è la rivelazione della verità ultima sull’uomo e sulla vita, su ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore. Perché il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita. La scena risponde a una domanda antica quanto l’uomo: cosa hai fatto di tuo fratello? La Parola offre in risposta sei opere ordinarie, poi apre una feritoia straordinaria: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da giungere a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, è corpo e carne di Dio. Il cielo che il Padre abita sono i suoi figli. E capisco che a Dio manca qualcosa: all’amore manca di essere amato. È lì nell’ultimo della fila, mendicante di pane e di casa per i suoi amati: li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, consolati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui. Davanti a questo Dio resto incantato, con lui mi sento al sicuro. E così farò anch’io, mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore. Mi è d’immenso conforto sentire che il tema del giudizio non sarà il male ma il bene; non peccati, debolezze, difetti, ma gesti buoni, briciole gentili. Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona di essa. In principio e nel profondo, non è il male che revoca il bene, è invece il bene che revoca il male delle nostre vite. Sulle bilance del Signore una spiga di buon grano pesa più di tutta la zizzania del campo. Gesù mostra così che il “giudizio” è divinamente truccato, è chiaramente parziale, perché sono ammesse sole le prove a discarico. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (Giovanni della Croce), non su colpe o pratiche religiose, ma sul laico, umanissimo addossarci il dolore dell’uomo. La via cristiana non si riduce però a compiere delle buone azioni, deve restare scandalosa, più alta, provocatoria, ripetere che il povero è casa di Dio! Un Dio innamorato che canta per ogni figlio il canto esultante di Adamo per la sua donna: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”. Poi ci sono anche quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati o derisi, semplicemente non hanno fatto niente. Omissione di fraternità. Isolamento da paura perché “l’inferno sono gli altri” (J.P. Sartre). Invece no, il vangelo risponde: “mai senza l’altro”. Il Signore non guarderà a me, guarderà attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura. Senza, non c’è paradiso.

(Letture: Ezechiele 34,11-12.15-17; Salmo 22; Prima Corinzi 15,20-26.28; Matteo 25,31-46)




il commento al vangelo della domenica

la parabola dei talenti “scossa” al nostro Io


La parabola dei talenti “scossa” al nostro Io

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario – anno A

«(…) A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. (…) Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (…)».
La parabola dei talenti mette in scena la sfida tra il patrimonio economico e il patrimonio relazionale, il molto denaro di un ricco signore e il suo grande progetto sui servitori: affida loro il suo tesoro e parte. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia. Anziché tenere per sé, il padrone rilancia: «bene, servo buono, ti darò potere su molto». E senti l’eco del profeta: così per te gioirà il tuo Dio (Is 62,5). Felice di ciò che vede, non solo dona ai servi l’investimento e il guadagno, ma aggiunge un di più: «entra nella gioia del tuo signore». Signore e servi sono entrati in sintonia di vita, nell’esperienza che «il Regno viene con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (Giovanni Vannucci). I primi due hanno capito e osato, il terzo ha avuto paura e ha seppellito la sua vita: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato, raccogli dove non hai sparso… ho avuto paura. Ecco qui ciò che è tuo. Non l’ha mai considerato suo, quel talento. «Ho avuto paura». La madre di tutte le paure è la paura di Dio. Il terzo servo ha una immagine di Dio triste, predatoria, che sa di morte. Lo sente duro, nemico e ingiusto. E chi non avrebbe paura di un Dio così? Tutta la parabola invece disegna una immagine opposta di Dio, che non è il mietitore severo di quanto ha seminato, ma lascia gioiosamente tutto il buon grano alla tua tavola, anzi lo raddoppia ancora (datelo a chi ha già dieci talenti). Non siamo al mondo per fare i conti con Dio, ma per condividere tesori di bontà, di gioia, di bellezza, di legami. Verso il servo che non è stato capace, la reazione ci sembra sproporzionata. Ma Gesù usa un linguaggio apocalittico, paradossale, per dire che un’immagine sbagliata di Dio può provocare disastri, può farci davvero fallire la vita. Ed è ciò che dobbiamo temere. La Evangelii Gaudium 49 ha una offerta di solare creatività quando ci esorta ad aver più paura di restare immobili e spenti che non di sbagliare. A noi, formati nell’idea che il peggio è sbagliare, dentro lo schema delitto/castigo, questo vangelo ricorda che il peggio che ci può capitare è di rimanere immobili, seppelliti, sterili, dei falliti, se dopo di noi, dietro di noi non lasciamo più vita. Il mondo è una realtà germinante, e lo è ogni creatura, e noi siamo al mondo «per la fioritura dell’essere» (Romano Guardini), per fare avanzare, anche solo di un piccolo passo, il bene, i talenti buoni, la storia della gioia. C’è una vita che preme alle nostre frontiere, non un tribunale. Allora a chi ha sarà dato. Dio regala vita a chi produce amore. Dio è la primavera instancabile del cosmo, il nostro compito è diventarne l’estate profumata di frutti.
(Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1Tessalonicesi
5,1-6; Matteo 25,14-30)



il commento al vangelo della domenica

impariamo a restituire a Dio ciò che è suo

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario – anno A

(…) Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?  Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Abbiamo sempre bisogno di appartenere a qualcuno. Siamo tutti come la moneta romana che mostrano a Gesù: «Divo Tiberio» , «sono del divino Tiberio, figlio di Augusto». E io a chi appartengo? Forse alle cose, ai poteri forti, al pensiero dominante, oppure ai miei sogni, ai legami vitali, all’amore che provo e che, mi assicura la Bibbia (cf 1Gv 4,16), è «Dio che ama in me»? I filoimperiali di Erode e gli indipendentisti del sinedrio pongono a Gesù una di quelle domande taglienti che fanno impennare l’audience e dividono gli spettatori: maestro, tu che sei libero e dici le cose come stanno, che relazione hai con Cesare, con il potere? La risposta di Gesù è acuta: come al suo solito, davanti a domande maliziose o capziose, porta gli uditori su di un altro piano, spiazzandoli con un doppio cambio di prospettiva. Primo cambio: sostituisce il verbo «pagare» con «restituire»: rendete, restituite a Cesare ciò che è di Cesare. Un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che dà un’anima nuova alle relazioni: restituite il molto ricevuto, date indietro, guardate alla sorgente. Vivere è restituire vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.

Viviamo per restituire amore a chi con l’amore ci ha fatto e ci fa vivere. Come il respiro: accogli e restituisci, non lo puoi trattenere, è puro dono. «Ricevimi, donami, donandomi mi otterrai di nuovo», scrive l’antico libro dei Rig Veda. Secondo cambio di prospettiva: Gesù fa entrare in gioco la sua visione e la sua

forza profetica recidendo di netto il legame tra le due parole incise sul denaro: divino Tiberio. Cesare non è Dio, Tiberio non è divino. Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. A questo punto Gesù si ferma, non si sostituisce a noi, non ci esenta dalla responsabilità di usare la nostra intelligenza per valutare, scegliere, decidere cosa sia di Cesare, cosa di Dio. Restituite a Dio quello che è di Dio: di Dio è la terra e quanto essa contiene (Dt 10,14). Anche Cesare appartiene a Dio.

Ogni persona porta incisa l’iscrizione profetica: «io appartengo al mio Signore», «ha scritto sulla mano: del Signore!» (Isaia 44,5). Ognuno una piccola moneta d’oro con, in altorilievo, l’immagine e la somiglianza con Dio, sormontata da una dedica sacra: «sono di Dio». Ognuno un talento inviato al mondo, da far fruttare e poi restituire al bene comune. Ma non in perdita: «donandomi, mi otterrai di nuovo». Entrando così nel circuito del dono che Gesù instaura invece del possesso. Non l’accumulo, ma la restituzione; non le porte blindate sui miei averi, ma la loro circolazione nelle vene del mondo. L’uomo vive di vita donata.

Prima ricevuta e poi restituita.

(Letture: Isaia 45,1.4-6; Salmo 95; 1 Tessalonicesi 1,1-5; Matteo 22,15-21)




il commento al vangelo della domenica

credere è una festa Dobbiamo essere pronti

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario – anno A

(…) (Il re) mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. (…)

Molti credenti, prigionieri di una religiosità pre evangelica, mettono la chiave di volta del rapporto tra uomo e Dio nel peccato da espiare, e alla base di tutto il peccato originale. Invece il Vangelo a dire e ridire che l’asse portante della fede è il dono, e alla base il dono originale: “Se tu conoscessi il dono di Dio!”.

La parabola di oggi lo racconta bene: c’è una festa in città, la più importante delle feste, si sposa il figlio del re. La religione respira aria di festa, si fonda sul dono. Il racconto si muove attorno a tre immagini: una stanza vuota; la ricerca per le strade; un abito sbagliato. Comincia bene, ma presto sbanda verso la tristezza. La sala vuota certifica un fallimento, come in certe nostre chiese tristi e semivuote, con il pane e vino che nessuno vuole, nessuno cerca, nessuno gusta; con la nostra afasia circa la Parola. E allora la sorpresa: il rifiuto non revoca il dono. Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, l’inatteso Signore apre incontri altrove. Come ha dato la vigna ad altri contadini, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati. I servi sono mandati con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. “Non chiedete niente, voi invitate”. È bello questo Dio che, rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano, ha tanta gioia da regalare. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dai notabili della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni. E io che pensavo che a fianco di Dio ci fosse posto solo per i buoni, i migliori, i bravi ragazzi: invece “la sala si riempì!” e non solo di gente per bene… Quando il re scende nella calca festosa della sala, io godo l’immagine di un Dio che entra nel cuore della vita. Noi lo pensiamo lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro questa sala del mondo, dentro la vita, qui con noi, come uno cui sta a cuore la gioia, e se ne prende cura. Ha invitato mendicanti e straccioni e si meraviglia che uno sia vestito male. Ma non per ciò che indossa sulla pelle, per ciò che gli veste l’anima. L’uomo “senza abito di festa” è cacciato fuori non perché peggiore degli altri, ma perché spento dentro, senza festa nel cuore. Ascoltando questa parabola mi prende una fitta allo stomaco: sono ancora così pochi i cristiani che sentono Dio come un vino di gioia, un flauto da oltre. Sono così pochi quelli per i quali credere è una festa, bellezza del vivere, capitale di forza e di sorrisi.

(Letture: Isaia 25,6-10a; Salmo 22; Filippesi 4,12-14.19-20; Matteo 22,1-14) 




il commento al vangelo della domenica

la vigna del Signore a un popolo che dà frutti

la parabola dei contadini della vigna che uccidono i servi del Padrone

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario – anno A«Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. (…) Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” (…)

La parabola è insieme cupa e trasparente: la vigna è Israele, il mondo, sono io. Vigna che produce uva selvatica, in Isaia; una vendemmia di sangue, in Matteo. Io sono vigna e delusione di Dio. La parabola è dura, e corre verso un epilogo sanguinoso, già evidente nelle prime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “ Costui è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!” Ma è anche una fessura sul cuore di Dio: Gesù amava le vigne, come già i profeti, lo si capisce fin dalle prime battute: un uomo, con grande cura, piantò, circondò, scavò, costruì. Gesù osserva l’uomo dei campi, il nostro Dio contadino: lo vede mentre guarda la sua vigna con gli occhi dell’innamorato e la circonda di cure. Poi i due profeti intonano il lamento dell’amore deluso: “il custode si è fatto predatore” ( Laudato si’), ma al tempo stesso raccontano la passione indomita del Dio delle vigne, che non si arrende, che non è mai a corto di meraviglie, che per tre volte, dopo ogni delusione, fa ripartire il suo assedio al cuore, con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio figlio. Che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Parole di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La risposta dei capi è tragica: continuare nella stessa logica, uccidere, eliminare gli omicidi, mettere in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, ancora sangue. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio. La parabola non si conclude nel disamore o nella vendetta, ma su di una fiducia immotivata, unilaterale, asimmetrica perché tra Dio e l’uomo le sconfitte servono solo a far risaltare di più l’amore. La vigna di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. E allora inizierà da capo la conta, e il rischio, della speranza. Così è il nostro Dio: in Lui il lamento non prevale mai sul futuro. Un popolo c’è, un uomo c’è, di certo sta nascendo, forse è già all’opera, chi sa farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, in mille piccole vigne segrete, dei coltivatori bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che mettono il proprio io a servizio dell’umanità, anziché gli altri a servizio della propria vita. Sono i custodi del nostro futuro. Sanno produrre quei frutti buoni che Isaia elenca: aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue. Il profeta sogna una storia che non sia guerra di possessi e battaglia di potere, ma sia vendemmia di giustizia e pace, il volto dei figli di Dio non più umiliato. Il Regno comincia con questi acini di Dio, come piccoli grappoli di Dio fra noi.(Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43)




il commento al vangelo della domenica

la guerra del cuore per renderlo «unificato»

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». (…)

«Un uomo aveva due figli». E dal seguito della parabola capiamo che «ogni figlio aveva due cuori». Esperienza di tutti: abbiamo in noi un cuore che dice sì e uno che dice no. Non esiste un terzo figlio dal cuore unificato, il figlio ideale che incarna la perfetta coerenza tra il dire e il fare. Siamo persone incompiute, contradditorie: non capisco me stesso, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7,15.19). Ma tutti in cammino verso il cuore unificato. Antonio del deserto diceva che anche nel monaco nascosto nella più sperduta grotta del monte, c’è una guerra che rimane fino alla fine: «la guerra del cuore». Il conflitto di scelte contradditorie, il misurarsi con la forza selvatica del desiderio. La parabola prende avvio da un triangolo di relazioni, padre-figli, non esemplari. La prima azione riportata è un ordine: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna». Il racconto che segue è la reazione a un comando percepito da entrambi i figli come una imposizione, un peso da scrollarsi di dosso, o a parole o coi fatti. Se portiamo la parabola sul piano della nostra vita personale, anche noi ci sentiamo spesso esecutori di ordini di un Dio sovrano che si impone come un padre-padrone; viviamo la religione come un insieme di regole e divieti, dove quasi tutto è proibito e il resto obbligatorio.Ma Dio non è un dovere, è uno stupore: in principio alla fede c’è il Vangelo, una bella, gioiosa, lieta notizia. Dio è venuto ed ha fatto risplendere la vita; è venuto ed ha messo sogni e canzoni nuove nel cuore; è venuto, maestro di orizzonti; non ha piantato ulteriori paletti, ma ci ha dato ulteriori ali. Per volare più lontano, più sicuri, per giungere più veloci alla felicità, cioè alla vita buona, bella e beata di Gesù. In principio c’è regno di Dio, ma come un vino di festa, un banchetto di condivisione; non un campo amaro di sudore ma una vigna profumata di grappoli. Nella parabola è in gioco il fondamento del nostro rapporto con Dio. Infatti: il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Letteralmente il Vangelo dice: si convertì, cambiò mentalità, trasformò il suo modo di vedere le cose. Il tema grande non è etico, la disubbidienza iniziale diventata ubbidienza, che è poca cosa, ma teologico: il cambio di sguardo su Dio, scoprire con stupore il senso della storia. Il primo figlio ha capito che la vigna di famiglia produce un vino che è simbolo di festa e di gioia per tutta la casa. Non un campo di lavori forzati, ma un luogo dove il mondo diventa più fecondo e più bello. Allora ha fretta di andarvi, anche se nessuno lo vedrà, perché va a rendere meno arida la terra, meno sterile la storia.

(Letture: Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo21,28-32)