Dio non si manifesta solo nell’amore eterosessuale ma in tutto ciò che è vero amore
“La relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa al plurale . Nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.“
una riflessione della pastora valdese Lidia Maggi:
Che cosa distingue il legame che unisce una coppia sposata da una che sceglie di convivere? Oltre al rapporto giuridico che tutela l’una invece dell’altra, confesso che, qualche volta, fatico a cogliere la differenza sostanziale nella qualità della relazione, soprattutto sui lunghi tempi.
E’ la mancanza del contratto matrimoniale a rendere meno sacro quel legame? La convivenza è una forma di amore di seconda scelta?
Ho incontrato coppie di sposi e di conviventi che vivono il loro rapporto d’amore nella dedizione più profonda. Difficile distinguere. E se non sono in grado di comprendere appieno la differenza del legame, come spiegarla a chi legge e, soprattutto, alle generazioni future, ai miei stessi figli?
Non sono la persona giusta per fare un’apologia del matrimonio, nonostante sia ministro di una chiesa. Un tempo non la pensavo così, ero convinta che, attraverso quel rito celebrato davanti a Dio e alla comunità riunita, si stabilisse un legame unico, irripetibile, che nessuna altra forma di unione poteva eguagliare. Sentivo la differenza tra sposati e conviventi non solo legata all’aspetto giuridico dell’unione.
La vita e l’esperienza mi hanno resa più cauta nei facili distinguo. Mi capita di sposare giovani coppie, di accompagnarle nella preparazione alla celebrazione, così come ascolto fatiche e gioie di coppie che non sono legalmente sposate.
L’amore è amore
E’ proprio nell’ascolto delle storie più diverse che inizio a maturare la convinzione che l’amore è amore, che ci piaccia o no, anche se questo si esprime in una modalità diversa da quella convenzionale. Questo significa pure che può essere considerato vero amore anche quello che unisce due persone dello stesso sesso, l’amore omosessuale.
Mi rendo conto che rifletto su questo tema leggendo la realtà con le mie lenti protestanti: nelle chiese luterane e riformate il matrimonio non è un sacramento. Ciò non significa che non sia sacro l’amore che unisce due persone. Sacra è infatti la relazione, perché questa è metafora del legame che unisce Dio all’umanità.
Il Dio biblico si rivela come un TU che chiama, che si lega ad una storia particolare. E’ sempre il Dio di qualcuno: il Dio di Abramo e di Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe e di Lia e Rachele, il Dio di Gesù: il mio e il tuo Dio. Il rapporto con Dio può essere molto intimo, ma non può mai diventare fusionale, altrimenti Dio si riduce a un idolo.
Dio è l’Altro che cammina con l’umanità senza (con)fondersi in essa. Questo gioco di intimità e alterità noi lo conosciamo in modo particolare nella relazione affettiva.
Il sacramento dell’amore
In questo senso la relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa “al plurale”. Il “singolare” della scelta matrimoniale finora è stato difeso in quanto scelta definitiva, legame indissolubile. Ma nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.
Non sono una sociologa; ma dal mio limitato osservatorio pastorale vedo che la tenuta del legame di coppia, come pure la sua rottura, si verifica sia per gli sposati che per i conviventi.
La definitività non appare più prerogativa esclusiva del matrimonio. Si dice anche che solo il matrimonio sarebbe in grado di esprimere il risvolto pubblico della scelta di coppia, non relegandolo a faccenda privata. Il problema è reale e, a mio giudizio, va inquadrato nella questione di più ampio respiro che oggi non abbiamo più momenti simbolici che dicano i passaggi decisivi dell’esistenza.
Sono venuti meno nella nostra società i cosiddetti riti di iniziazione. Ma anche in questo caso, non è detto che il matrimonio sia in grado di assolvere a questa funzione. O meglio, che sia l’unico modo per esprimere il momento pubblico della vita di coppia.
Chissà se le chiese, in futuro, saranno in grado di proporre un gesto che conferisca senso “iniziatico” e valore pubblico alla relazione amorosa della coppia, non necessariamente col linguaggio giuridico del “io prendo te, io mi impegno per sempre”, ma anche con quello differente del “io inizio con te un cammino”.
Dai frutti vi riconosceranno
In fondo, anche per le coppie vale il doppio sguardo che i credenti accendono sull’esperienza della fede cristiana. Ovvero: osservandola dalle “radici” oppure dai “frutti”.
Se finora la preoccupazione delle chiese si è concentrata sulle radici, sul porre un gesto pubblico, ufficiale, sacramentale quale la celebrazione del matrimonio, perché non provare a guardare anche ai frutti?
Ci sono persone sposate che hanno trasformato la loro unione in una prigione eppure continuano a rimanere assieme; coppie che, invece, hanno trovato nel matrimonio il terreno fertile per far crescere la relazione d’amore. Lo stesso vale anche nelle convivenze. Ho incontrato persone che, pur non essendo legalmente sposate, non riescono a separarsi anche quando ormai la convivenza è usurata e l’antico terreno fertile dell’amore è diventato un campo di battaglia. Da questo punto di vista lo sguardo si posa sia su convivenze riuscite che su quelle malate, sia sui matrimoni di interesse che su matrimoni che tengono e testimoniano una ricca relazione affettiva.
Ogni storia d’amore è originale
Tutto ciò per affermare: le storie sono singolari e difficilmente giudicabili a priori. Alla scuola delle Scritture impariamo non il giudizio sui principi ma l’ascolto attento e non giudicante, capace di discernere ogni singola storia, evitando le semplificazioni generiche.
Su questo tema ho molto apprezzato gli interventi comparsi su queste pagine di coloro che mi hanno preceduto. Mi interpella l’acutezza di Battista Borsato che ci propone, in controtendenza, una possibile lettura positiva della convivenza come “segno dei tempi”. Egli vede in questo fenomeno la possibilità che la Chiesa si interroghi su come ha gestito la ministerialità degli sposi, considerandoli di fatto persone immature, da governare con istruzioni chiare su come gestire la sessualità, la procreazione, l’educazione dei figli.
Chi sceglie di convivere, consapevolmente o meno, si sottrae a questo controllo rivendicando totale autonomia su scelte così intime come la gestione della sessualità.
Ho trovato poi stimolante la riflessione di Luisa Malesani Benciolini sul rapporto tra matrimonio e sessualità. Le convivenze mettono a nudo le debolezze di alcuni automatismi legati all’immaginario religioso sul matrimonio, come l’indissolubilità e il sesso. Mi riconosco pienamente nelle riflessioni e nelle domande che i due articoli sollevano.
Convivenze sì, convivenze no
Ciò che più ho apprezzato di questi due autori è il tentativo di uscire fuori dai grandi modelli interpretativi del fenomeno delle convivenze per proporre i necessari distinguo e mettersi in ascolto delle singole storie.
Esiste ancora oggi una campagna negativa sulle convivenze che tende a semplificare colpevolizzando i giovani, accusati di non essere in grado di fare scelte per la vita. Tale propaganda viene arginata da chi prova a cogliere il positivo in chi convive, mettendo in luce quei cambiamenti dei modelli sociali e culturali (come l’emancipazione della donna) che hanno portato a mutamenti nella struttura familiare, fino alla necessità di parlare di famiglie al plurale.
Convivenze sì, convivenze no. Ciò che trovo stretto in questo gioco di schieramenti è che, in fondo, i modelli interpretativi affrontano la questione in modo generico, non riuscendo ad essere validi per tutti. Ogni convivenza ha una sua motivazione.
Oltre ai modelli interpretativi ci sono le singole storie.
Le crociate etiche delle chiese
In Italia, su temi etici, sulle questioni fondamentali della vita, quelle su cui dovremmo muoverci con estrema cautela, richiamando innanzitutto ad un ascolto prolungato (come recita il sottotitolo della rivista), le chiese hanno ingaggiato una battaglia sui principi, dove l’ascolto viene giudicato quale giustificazione di un pericoloso atteggiamento relativista.
Queste chiese, portatrici di una sapienza delle relazioni d’amore, secondo la quale la fede si esprime col linguaggio della relazione d’amore, rischiano di non saperla più dire. E i giovani, che non odono più un discorso sapienziale ma solo divieti e lacci, si ritrovano a staccare l’audio di fronte ad una parola giudicante, che pretende di controllare ed incasellare la relazione amorosa.
Di fatto, le chiese, preoccupate di definire lo status della coppia, di catalogarla sotto una precisa voce del registro parrocchiale, si dimostrano succubi dell’attuale clima culturale, dove tutto è messo in discussione e alle agenzie etiche religiose viene assegnato il compito di fornire punti fermi. La presunta fedeltà all’evangelo si riduce così alla reazione emotiva di fronte ad uno scenario nuovo e sfuggente.
Come cambierebbe il discorso se le chiese sapessero dire: ti ascolto, per me tu sei un volto, un nome, la tua storia è singolare; invece che preoccuparsi di iscrivere in una categoria (sposati/conviventi) le diverse storie affettive!
Guarda e ascolta: noi siamo storie!
Oggi, in Italia, assistiamo ad uno scontro ideologico sulla pelle delle coppie. Ma la Scrittura ci insegna a smarcarci da queste semplificazioni, non prive di secondi fini, e a guardare in faccia le persone. Il pastore di cui parla l’evangelo chiama per nome le sue pecore; non le divide per categorie.
L’evangelo può tornare a risuonare per le coppie solo se chi l’annuncia recupera uno sguardo non giudicante ed è capace di un ascolto prolungato. E’ lo sguardo che Gesù posa sul giovane ricco: “fissatolo lo amò”; è l’ascolto in profondità che ha segnato il dialogo con la samaritana e con i tanti che si sono sentiti interpellare da parole di vita.
Forse, alla luce di un serio riconoscimento delle forme di amore al di fuori del matrimonio, è tempo di interrogarci su come parliamo del matrimonio, di fare i conti con l’ambiguità di un “sacramento” troppo spesso celebrato da una religione civile.
Le persone oggi possono scegliere di vivere l’amore attraverso un gesto iniziale pubblico, solenne, sacramentale oppure no, perché le alternative al matrimonio esistono e sono percorribili.
Questa nuova libertà, invece di paralizzarci e allarmarci, può spingere a maturare una maggiore consapevolezza nella forza simbolica e nella pluralità delle forme espressive con cui si sceglie di accogliere e amare l’altro davanti a Dio, alla società e alla comunità riunita.
Segni che non rendono immuni dai possibili fallimenti; ma, pur nella fatica, possono dare vigore e offrirsi come memoriale, soprattutto quando le motivazioni iniziali vengono meno e l’alba di un nuovo giorno sembra troppo lontana.
tratto da “Matrimonio” (15/06/2011)