dal chiedere l’elemosina sulla strada alla scalata per diventare la prima senatrice rom

aspirante avvocato, 27 anni

Anina vuole essere la prima senatrice rom

arrivata in Francia dalla Romania, dopo la caduta del comunismo, ha costruito la sua vita sullo studio, dopo avere anche mendicato per strada. Poche possibilità d’essere eletta, ma si è candidata per aprire la strada a molti altri

Anina Ciuciu

Anina Ciuciu

Il suo è un sogno ambizioso, ma se dovesse diventare realtà, la renderebbe orgogliosa. Per se stessa e per la sua gente. Perché Anina Ciuciu, 27 anni, aspirante avvocato, sogna di diventare la prima senatrice di Francia di origini rom. Passare dalle baraccopoli agli ori del Senato di Parigi per “aprire la strada” e “ripristinare l’orgoglio per coloro che sono costretti a abbassare la testa”.
E’ candidata per la lista ”Il nostro futuro” e sa benissimo che le possibilità d’essere eletta per sostituire la dimissionaria Aline Archimbaud, ambientalista che pure la sostiene nel collegio di Seine-Saint-Denis, sono minime perchè si scontra con candidati che hanno alle spalle partiti ricchi ed organizzati.  Ma la lotta non la spaventa. Come potrebbe, d’altra parte, per una che è stata anche per strada a mendicare e che ha conosciuto, con  le due sorelline, la fame, quella vera?
In Romania, Paese natale della famiglia Ciuciu, il padre era contabile, la madre infermiera. La caduta del comunismo è anche il crollo di alcune certezze. La famiglia allora parte verso l’Occidente,quando Anina ha appena sette anni. Attraversano i campi minati dell’ex Jugoslavia e raggiungono Roma, “a rischio della loro vita, come i migranti di oggi”. Dopo sei mesi di “vita inumana” in un campo nomadi gigantesco (il Casilino 900), la famiglia parte per la Francia, ”il Paese dei diritti umani”.
Ma la Francia dei ”diritti umani” non ha molto cuore e per la famiglia rom cominciano i problemi. Sino a quando, casualmente, incontrano una persona che cambia la loro storia, Jacqueline de la Fontaine, una insegnante. Jacqueline vedendo Anina in braccio alla madre, tra i banchi di un mercato, prende a cuore le sorti di quella famiglia, convincendoli però dell’importanza dell’istruzione. Anina comincia allora il suo cammino che la porta a percorrere, dopo avere imparato il francese, tutta la trafila scolastica sino agli studi giuridici alla Sorbone e la prospettiva di diventare avvocato.
Nel 2013 ha ottenuto la cittadinanza francese (è l’unica della sua famiglia) dopo la pubblicazione di un libro ( ”Sono una rom e ne sono fiera. Dalle baracche rmane alla Sorbone”, nell’edizione italiana)
Se eletta l’attivista della comunità (collabora con il periodico La voce dei rom) non vorrà essere considerata una ‘zingara di riferimento’. Ma un simbolo: “Sarebbe un fatto storico per una donna francese di origine rom essere eletta. Soprattutto in un Senato prevalentemente di sesso maschile e dove l’età media è di 64 anni”
Anina Ciuciu nella sua agenda ha molte battaglie da fare su giustizia ed ecologia, ma soprattutto per l’accesso all’istruzione, ricordando come nel collegio d Seine-Saint-Denis l’80 per cento dei bambini roma non vanno a scuola.
Ma vuole ”aprire una strada. perchè dopo di me ce ne saranno molte altre”, scommette.

“Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” Dt 10,19; 24,17

“io sono stato straniero”

di Enzo BianchiBianchi

in “la Repubblica” del 2 ottobre 2016

un estratto del discorso che Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, pronuncerà in Senato in occasione della Giornata nazionale per la memoria delle vittime dell’immigrazione

Il titolo assegnato a questo mio intervento riecheggia una parola indirizzata a più riprese nella Bibbia al popolo di Israele: “Ricorda che sei stato straniero nel paese di Egitto”, oppure: “Tu agirai così perché anche tu sei stato straniero!”. Parole che sono un invito a sentirsi stranieri e assumere la responsabilità verso gli stranieri che giungono a noi nella loro irriducibile e di primo acchito insondabile diversità.

Per questo risuona il comandamento: “Amate il gher (lo straniero) perché foste gherim, stranieri!” (Dt 10,19; 24,17; Esodo 22,20; 23,9; Lev 19,34). Ecco il paradigma: ciascuno di noi è straniero rispetto ad altri e proprio per questo può comportarsi rispetto allo straniero come lui vorrebbe che altri si comportassero nei suoi confronti. Ma vorrei affrontare questo tema usando come chiave interpretativa il testo attribuito a Shakespeare che ci invita a “vedere gli stranieri”. Rievocando la minaccia di espulsione dal paese di persone “diverse” per religione e nazionalità, il Bardo invita a interrogarsi sui motivi di questa migrazione, poi esorta a immedesimarsi nei fuggiaschi per trarne le conseguenze a livello di comportamento etico. “Vedere gli stranieri” può allora declinarsi in diverse modalità — vederli da lontano, vedere se stessi, vederli da vicino, vederli come concittadini — e sfociare in una dimensione inattesa: gli stranieri come dono.

1. Vedere gli stranieri da lontano: la lungimiranza. Di fronte al fenomeno migratorio — antico quanto il mondo — e alla connotazione assunta in Italia appare fuorviante definirlo “emergenza”. Sarebbe più sensato considerarlo un’inevitabile conseguenza di fattori legati ai nostri comportamenti, a cominciare da guerre, sete di potere e sfruttamento iniquo delle risorse del pianeta. Da sempre è la fame che va verso il pane, non viceversa, e non ci sono né muri né mari capaci di fermare chi è talmente disperato da considerare un viaggio senza speranza preferibile alla certezza di una morte atroce nella propria terra. O pensiamo che se uno avesse un’aspettativa di sopravvivenza “a casa sua”, metterebbe a repentaglio la vita in un’avventura bestiale? “Vedere gli stranieri” da lontano significa lungimiranza sulle cause che li muovono. Significa capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, dai trafficanti di armi a quelli di esseri umani.

2. Vedere se stessi negli stranieri: immedesimazione e identità. Non dovrebbe essere difficile per noi applicare questo paradigma, la nostra “stranierità” è ancor oggi riscontrabile e vissuta. Lo straniero è lo specchio della stranierità che ci abita, è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendo la stranierità in noi, possiamo compiere un cammino che non rimuove, non teme, non demonizza il forestiero. Scrive Julia Kristeva: “Lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità. Riconoscendo lo straniero in noi, possiamo non detestarlo in lui”. E Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”. Questo atteggiamento eviterebbe il rischio di assolutizzare la propria identità, con arroccamenti difensivi dei valori. L’identità, sia personale che comunitaria, si costruisce attraverso l’incontro e la relazione con gli altri, diversi e stranieri. L’identità non è statica ma un divenire, non è monolitica ma plurale. I risorgenti localismi generano spinte xenofobe e razziste, tendono all’esclusione dell’altro. Lo straniero invece è portatore di una relazione che riguarda il nostro essere più profondo e ci fa cogliere il significato del monito biblico: “Ama lo straniero perché tu sei stato straniero” e continui ad esserlo rispetto a un orizzonte che non hai ancora attraversato.

3. Vedere gli stranieri da vicino: vincere le paure. Giunto da lontano, lo straniero è radicalmente altro. È altro da me: era lontano e ora mi è vicino. Ora compete a me farmi suo prossimo, avvicinarmi a lui. Ma proprio in questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure: la mia paura e quella dello straniero. Innanzitutto la sua paura, quella di chi è venuto in un mondo a lui estraneo, dove non è di casa e non ha casa. La mia paura, invece, è quella di ritrovarmi di fronte a uno sconosciuto entrato nella “mia” terra. Due paure a confronto. La paura va superata, ma per farlo è necessario affrontarla e non rimuoverla. Lasciata nelle mani degli imprenditori della paura, essa lievita fino a paralizzare ogni azione e a sprigionare mostri. Se la si nega, si rischia di idealizzare la differenza dello straniero. La paura va razionalizzata, assunta, così da trasformarla in stimolo e in ingrediente per soluzioni.

4. Vedere gli stranieri come concittadini. La razionalizzazione delle paure richiede che ci si interroghi su quali modelli di incontro tra stranieri e italiani attuare. Potremmo identificare quattro modelli: assimilazione, inserimento, integrazione, cittadinanza. Con una domanda di fondo: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale, anche se infante, e lo rimane per tutta la vita? La con-cittadinanza è lo spazio comune in cui diviene impossibile continuare a parlare di “noi” e “loro” e in cui la logica dell’uguaglianza attiva diviene abito mentale e culturale dell’insieme della società.

5. Vedere gli stranieri per quello che portano in dono: la relazione. Ogni essere umano è razionale e relazionale, ed è grazie alle relazioni che può costruire se stesso e diventare un soggetto. Ma la relazione con gli altri non va da sé: si tratta di assumere comportamenti che rendano possibile l’incontro nel riconoscimento della dignità dell’altro. Il cammino è esigente e faticoso, ma senza l’altro non è possibile avanzare nella propria umanizzazione. Riconoscere l’altro nella sua differenza significa ammetterlo e, quindi, accettarlo. Il dialogo non può avere come fine l’uniformità, ma il fare cammino insieme, il ricercare un “consenso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. Nel dialogo si modificano i pregiudizi che abbiamo degli altri e di noi stessi. Senza affermare e vivere in primo luogo la fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza sono fragili. Vedere gli stranieri come compagni di umanità restituisce pienezza al meglio di noi stessi e della società. Conclusione. In uno splendido libro sui lavoratori immigrati in Europa uscito negli anni ‘70, John Berger afferma: “Per mostrare la vita dei lavoratori ci occorrevano soprattutto le fotografie”. La fotografia è un mezzo potente per metterci di fronte al dolore degli altri. Ricordo una foto del 2009 su Paris Match: un immigrato respinto in Libia, inginocchiato, afferra implorante con le mani nude la mano coperta da un guanto azzurro di chi lo sta riportando là da dove lui voleva andarsene, foto che contiene più verità di ogni ragionamento. Ecco la verità che non andrebbe mai dimenticata, ecco il momento applicativo di una politica di respingimento colto nella fisicità del “no” a un disperato. Le affermazioni di principio devono confrontarsi con un volto preciso, entrare in un faccia a faccia con una persona che chiede asilo, futuro, accoglienza. Dietro alle decisioni sull’immigrazione vi è la sfida che il corpo del povero porta con sé: e la nostra risposta non può essere un piede che schiaccia la mano appesa a un barcone. La fotografia coglie l’elementare verità che sta dietro a ogni decisione: che interferirà con il corpo di un uomo, con il suo volto, dunque con la sua anima, la sua storia, la sua famiglia. Fino al punto di aiutare la vita o di farsi complice della morte. Scrive Edmond Jabès: “Avvicìnati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che io sono”. Stiamo parlando di vedere gli stranieri, ma l’unica cosa seria è incontrarli nel faccia a faccia, ascoltare direttamente le loro storie, vederli nell’occhio contro occhio.

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