ciò che un teologo si attende dal sinodo

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Sinodo. Cosa vorrei che alla fine dicesse il papa

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 cosa vorrei che alla fine il papa dicesse

 

mentre il Sinodo entra nell’ultima settimana di lavori, il teologo basco José Arregui mette nero su bianco quello che vorrebbe il papa dicesse nell’Esortazione apostolica post sinodale. Di seguito il testo immaginato da Arregui, apparso sul portale di informazione religiosa Atrio (19/10)


prosegue a Roma il Sinodo sulla famiglia, sebbene l’interesse mediatico, sempre così volubile, sia già notevolmente calato. Rimane ancora una settimana di lavori, la terza, e poi toccherà al papa elaborare e pubblicare la sua Esortazione apostolica post sinodale. Ci vorrà ancora qualche mese, ma l’altro giorno ho sognato che diceva così:

“Da papa Francesco,

alle mie sorelle e ai miei fratelli cattolici del mondo intero.

Vi auguro la pace di Gesù. Essa ci unisce nella diversità dello spirito come una famiglia.

Non vi nascondo il disagio che provo a rivolgermi a voi come papa, perché non mi avete eletto né direttamente né indirettamente, tanto meno avete eletto coloro che mi hanno eletto. Sono cose della storia, non del Vangelo. Speriamo che questo cambi presto, che la Chiesa smetta di essere gerarchica e piramidale, e sia segno dell’umanità fraterna sognata da Gesù! Nel frattempo, vi parlo da fratello, senza altra autorità che quella che volete riconoscermi.

Mi son sentito a disagio anche con il Sinodo sulla famiglia, che io stesso ho convocato e che ha riunito a Roma tanti vescovi che non conoscono le gioie e le angosce delle famiglie di oggi, famiglie in carne ed ossa, reali, diverse. Così diverse che non rientrano negli schemi del Catechismo che continuiamo a insegnare, né nei canoni del freddo Diritto Canonico che continuiamo a imporre in nome di Dio. Perdonateci.

Capisco molto bene il vostro stupore e la vostra protesta nel vedere che, mentre le vostre famiglie soffrono per tante penurie, da tutti gli angoli della terra si riuniscono qui per tre settimane 400 persone, comodamente ospitate, fra le quali 270 cardinali, vescovi e religiosi, i soli fra tutti i partecipanti ad aver diritto di voce e di voto. Perdonateci. Forse aveva ragione la vignetta firmata nei giorni passati da “El Roto” su una rivista spagnola: “Resuscitare i morti è facile. Il difficile è resuscitare la Chiesa”. Suppongo lo dicesse perché guarda alla Chiesa come a un morto che non vuole resuscitare, che preferisce continuare ad essere pezzo da museo, fossile della vita che un tempo ispirò forme vive che non vivono più né fanno vivere.

Non so se dovevo convocare questo Sinodo. Vi confesso la mia delusione alla vista delle proposte finali. Tanto fasto e tanto costo, tanta voce solo per questo! Ma non voglio guardare indietro. Voglio rivolgere lo sguardo in avanti e fare un passo verso il futuro. Voglio rischiare tutto, e soprattutto il potere assoluto che il Diritto Canonico e i vescovi mi riconoscono ancora. Lo faccio giustamente perché non mi sembra un potere evangelico e non credo più in esso. Credo nella vita. Amo Gesù. Mi sento libero, non ho paura e non ho niente da perdere.

Ho meditato molto sui due temi che più interesse e dibattito hanno suscitato fra i padri sinodali e sui mezzi di comunicazione: l’unione di gay e lesbiche e la comunione dei divorziati risposati. Io stesso ne ho promosso la discussione. Con la migliore volontà, ho proposto alla Chiesa di manifestare pubblicamente misericordia e rispetto verso gli omosessuali, perché non siamo noi a doverli giudicare, e verso i divorziati perché possano comunicarsi alla mensa di Gesù a tre condizioni: pentimento, confessione al proprio vescovo e proposito di non ricadere nel peccato.

Oggi mi pento di aver parlato in questi termini offensivi ed umilianti per gli omosessuali e per i divorziati, perché è equivalso a trattarli come colpevoli. È ingiusto, è contrario al Vangelo. Chiedo loro perdono. Non dobbiamo loro parole di commiserazione, né di solo rispetto, ma pieno riconoscimento.

Per questo, nel nome di Gesù e della Chiesa, dichiaro che l’amore omosessuale è santo e benedetto quanto quello eterosessuale, e lo benedico di tutto cuore come sacramento dell’Amore e di Dio. E dichiaro che l’amore umano vorrebbe essere pieno ed eterno, sì, ma è fragile; e che, quando per qualche motivo, un matrimonio si rompe senza rimedio, smette di essere un matrimonio; e che cercare allora di provare la nullità canonica per salvare l’indissolubilità teorica è un artificio indegno; e che un nuovo matrimonio fra divorziati, se ispirato dall’amore, è ugualmente santo, sacramento di Dio e dell’Amore, e io lo benedico.

Sorelle, fratelli, basta così. Cominciamo di nuovo. Vi benedico tutti e chiedo la vostra benedizione. Vivete in pace.

Vostro fratello Francesco, ancora papa, per ora




anche la grande teologia ha qualcosa da dire …

Solo il Vangelo è definitivo. 18 teologi scrivono al Sinodo

solo il Vangelo è definitivo

18 teologi scrivono al Sinodo

 
Tratto da: Adista Notizie n° 36 del 24/10/2015

«Il Sinodo è già in corso e assistiamo alla reazione di un settore ecclesiale contrario a qualsiasi intenzione di apertura, come se il rinnovamento mettesse in discussione non solo alcuni presupposti dell’insegnamento tradizionale, quanto la fedeltà e la dottrina autentica della Chiesa, nonché lo stesso Vangelo. In questo senso, con rispetto e dopo aver riflettuto, il presente documento intende fondamentalmente presentare la legittimità di un cambiamento»

Nasce da questa esigenza un lungo e argomentato documento inviato al Sinodo, nella persona del card. Oscar Maradiaga, e all’Osservatore Romano, da un gruppo di 18 teologi: Ariel Alvarez, Raul Lugo, Xabier Alegre, Juan Masia, José Arregi, Antonio Monclus, Fernando Bermudez, Guillermo Mugica, Frei Betto, Jesús Pelaez, Nicolás Castellanos, Xabier Pikaza, Benjamín Forcano, Manuel Reyes Mate, Manuel Fraijo, Julián Ruiz Diaz, Joan Godayol e Manuel Suances. Per questioni di urgenza – il Sinodo è, appunto, in corso – prima di diffondere il documento (intitolato “Gruppo teologico pastorale appoggia papa Francesco nella sua apertura e nelle soluzioni dei problemi urgenti”) non si sono attese le adesioni di altri teologi e, spiegano i firmatari, anche il confronto con alcune teologhe non è stato possibile.

Le premesse

Due le premesse da cui parte il documento-appello: in primo luogo, il fatto che, come si legge nell’Instrumentum laboris, «il fondamento dell’annuncio della Chiesa sulla famiglia è radicato nella predicazione e nella vita di Gesù». La sequela di Gesù, «norma semplice e universale, porta con sé valori propri che però oggi si sono diluiti nella marea ingovernabile di un neoliberismo consumista. Tale sequela presuppone l’adesione al progetto di Gesù, che è quello della fratellanza, del servizio agli altri, della dignità e della priorità degli “ultimi” rispetto ai “primi”. In secondo luogo, la sequela di Gesù comprende «l’etica umana fondata sulla dignità della persona, che «ci permette di camminare uniti condividendo valori, criteri e comportamenti vincolanti per tutti». In particolare, il fatto «innegabile della famiglia umana», fondata sul rispetto della «persona totale umana». Questa unità, tuttavia, «non nega le differenze tra i popoli», senza peraltro che si sovrappongano al valore fondamentale della dignità della persona.

Quello sfasamento tra dottrina e mondo

Come coniugare queste due premesse di fronte alle sfide poste dai problemi della famiglia di oggi è il passo successivo della ricerca dei teologi. Nel corso dei secoli, infatti, si sono aggiunte ad esse numerose altre norme, elaborate «a partire da circostanze e ragioni storiche concrete», molte delle quali, però, «divenute obsolete e impugnate perché ormai controcorrente, al margine della scienza, del sentire della gente, delle nuove proposte di teologi e moralisti e soprattutto del Vangelo». Cambiati i paradigmi culturali, la Chiesa ha il dovere di «condividere la verità del Vangelo sulla famiglia con la verità della scienza e della ricerca biblico-teologica». Invece, questa collaborazione non c’è stata, portando la Chiesa a «idolatrare spesso il proprio magistero pensando di avere il possesso di ogni verità». Da questo punto di vista, largamente disattese sono state le acquisizioni del Concilio Vaticano II e ampiamente sottovalutato il compito dei teologi, tanto da creare uno sfasamento tra dottrine e norme da un lato e relazione con il mondo attuale. Alla luce di tutto ciò, i teologi ritengono che si possano «trovare soluzioni a problemi finora ritenuti risolti in virtù di norme tradizionali inamovibili senza tenere in considerazione l’apporto delle scienze né i cambiamenti richiesti dal progresso dell’esegesi e della teologia (omosessualità, aborto, celibato opzionale per i preti, ordinazione sacerdotale femminile, divorziati nella Chiesa)». Papa Francesco «si muove in questo atteggiamento di rispetto, collaborazione e integrazione del sapere».

Omosessualità

È a partire dal XIII secolo che l’omosessualità «va rivestendo un carattere di vizio, orribile (nefandum, innominabile)», quale non è riconosciuto a delitti come il matricidio, il genocidio o l’incesto. La «costruzione biblico-teologica morale che giustifica la gravità di questo peccato», sostengono i teologi, «oggi si è dimostrata prescientifica e opposta al contesto e al senso dei testi biblici». L’Organizzazione mondiale della Sanità ha ormai depennato l’omosessualità dalle malattie e il Consiglio d’Europa ha sollecitato i governi a combattere le discriminazioni sessuali: non si può contrapporre a queste indicazioni «l’esistenza di un’etica cristiana che le contraddice e qualificherebbe l’omosessualità come disordinata e intrinsecamente perversa». Da un punto di vista teologico, «è ben fondata la posizione di coloro che sostengono che la sessualità umana non ha come modello naturale esclusivo l’eterosessualità ma che l’omosessualità esiste come variante naturale legittima, minoritaria». E se è positivo raccomandare rispetto per le persone omosessuali, tale raccomandazione «è carente laddove continua a ritenere che l’omosessualità e la relazione tra omosessuali siano deviate, intrinsecamente perverse».

Aborto

Benché sia un tema estremamente complesso, sull’aborto «riteniamo possibile un accordo comune su punti etici di valore universale», affermano i 18 teologi. In primo luogo: il diritto di ogni essere umano alla vita. Attenzione, però: «Difendere il diritto alla vita non significa difendere il processo embrionale dal suo inizio». Si tratta infatti di una questione aperta, scientificamente parlando. Se nella tradizione cristiana sono sempre esistite posizioni diverse sulla questione (San Tommaso, Sant’Alberto Magno, fino alla teologia postridentina), le teorie più moderne affermano «che l’embrione non è propriamente individuo umano se non dopo alcune settimane dal concepimento»: che i geni non siano una persona in miniatura, lo ha dimostrato la biologia molecolare. Dunque, «chi segue tale teoria può sostenere ragionevolmente che l’interruzione dell’embrione prima dell’ottava settimana non può essere considerata attentato alla vita umana, né possono essere considerati abortivi i metodi che impediscono lo sviluppo embrionale prima di quella data». Questa teoria, che «modifica notevolmente molti punti di vista e stabilisce un punto di partenza comune per capirci, per orientare la coscienza dei cittadini, per fissare il momento del diritto alla vita prima della nascita e per legiferare con un minimo di intelligenza, consenso e obbligatorietà per tutti di fronte al conflitto posto da una situazione concreta», pone le basi di un cammino comune, di una convivenza che nasce dall’accordo «tra il meglio e il più etico».

Celibato opzionale 

Perché tanta acrimonia verso i preti sposati? Secondo la dottrina cattolica, il celibato non è una legge divina ma disciplinare della quale solo a partire dal XII secolo si stabilisce l’obbligatorietà. La sua continuità non è una prova di un carattere valido in assoluto e immutabile. Oggi si assiste alla crisi di questa forma storica perché, se il celibato continua a essere ritenuto uno stile di vita cui dedicarsi completamente, «legittimo e persino umanizzante», è e deve essere «un’opzione libera, assolutamente volontaria, che non parte da alcuna carenza, coazione o impotenza fisica, ma da una decisione morale, cosciente e gratuita». Oggi ad essere in discussione non è infatti il celibato in sé quanto la sua obbligatorietà, fondata su ragioni che oggi sono superate: la minore dignità della vita fisica e sessuale, ragioni «prettamente maschili e maschiliste», ma soprattutto l’ansia di «dominio e potere» che si esprime attraverso un sacerdozio maschile e celibe. Ma qui ci si allontana dal Vangelo: ciò che è fondamentale è seguire Gesù nel dono totale della vita, che prescinde dal celibato o meno dei suoi discepoli.

Ordinazione femminile 

La “porta chiusa” alle donne per quanto riguarda il sacerdozio è un dato di fatto. E lo è da più di 20 secoli. Tuttavia, oggi «è il momento di chiedersi perché è chiusa e continua a esserlo». «Le differenze tra uomo e donna – scrivono i teologi – non sono ragioni per giustificare la sottomissione della donna al dominio maschile e per la sua esclusione da alcuni compiti ecclesiali». La lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II del 1994 «non porta nulla di nuovo» e quindi «non ha potuto essere proposta come una verità di fede né di magistero infallibile o ex cathedra». I suoi argomenti «sono più che deboli: il fatto che Gesù abbia scelto a quel tempo solo maschi non vuol dire che lo abbia fatto in modo esclusivo e per sempre. Questa esclusione perpetua non può essere inclusa nell’azione di Gesù. Molte teologhe e molti teologi hanno dimostrato che non ci sono obiezioni dogmatiche per l’ammissione della donna all’ordinazione sacerdotale». I teologi concludono la loro riflessione sul tema citando il teologo Domiciano Fernández, cui non fu permesso di pubblicare un libro sull’argomento, e che pervenne a queste stesse conclusioni: «Molti anni di studio non sono riusciti a convincere né i teologi né i biblisti che sia espressa volontà di Cristo escludere le donne dal ministero ordinato. I ministeri li ha creati la Chiesa secondo le necessità dei tempi e secondo la cultura dell’epoca. Che sono cambiate e stanno cambiando».

Divorziati nella Chiesa

Il tema dei divorziati risposati è forse quello che più di altri sta riscaldando il dibattito nel Sinodo in corso. Il matrimonio, osservano i teologi dal canto loro, «come realtà umana, esistenziale, può presentare difficoltà, crisi, incompatibilità, fino alla rottura». Gesù propone «il progetto del matrimonio indissolubile, come progetto ideale, una meta da raggiungere, la migliore. Ma senza perdere di vista la condizione umana che, per la sua fragilità e incorreggibilità, può in certi casi rendere impossibile il raggiungimento di questo ideale». «In tal caso, non si può continuare ad affermare – così i teologi – che l’indissolubilità è una norme sempre inderogabile. La situazione di migliaia e migliaia di cattolici divorziati e risposati civilmente, è un grido contro certe norme che li condanna a vivere fuori dalla Chiesa. La connaturale libertà e il rischio che accompagnano ogni matrimonio fanno sì che non lo si possa considerare assolutamente indissolubile e che, nel caso di un fallimento serio, lo si possa correggere iniziando un nuovo cammino». È un diritto «ovvio, benché relativo e condizionato. E, in questo caso, la Chiesa non può limitarsi a fornire una soluzione eccezionale per esseri eccezionali».

Già nel 1980 nove teologi spagnoli (tra cui alcuni dei firmatari dell’attuale documento) elaborarono un testo intitolato “Domande di alcuni teologi ai loro vescovi”, in risposta alle “Istruzioni” sul divorzio civile pubblicate dall’episcopato spagnolo, in cui affrontavano anche il tema dei divorziati risposati. In esso, ricordano i 18 teologi, osservavano che i vescovi «non avevano tenuto in considerazione il sentire reale della comunità cattolica; si erano preoccupati solo del divorzio come se si trattasse di una legge meramente politica e civile; avevano dato a intendere che per i cattolici non vi è nessuna possibilità di divorzio e che si trattava di una dottrina che doveva restare immutabile». E aggiungevano di non mettere in dubbio la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio proposta da Gesù, sottolineando però che «tale dottrina deve proporre un ideale e una meta verso la quale ogni coppia deve avvicinarsi, senza escludere rischi, equivoci e fallimenti e non come legge assoluta con cui ogni coppia, per il fatto stesso di sposarsi, si identifica automaticamente, senza possibilità di vivere rotture o incompatibilità o almeno incompatibilità che rendano impercorribile questa legge». Di qui le domande, ancora attualissime, che i teologi si ponevano già 35 anni fa: «Credete personalmente, ognuno di voi, che l’attuale disciplina della Chiesa su questo punto sia proprio quella del Vangelo, quella che risponde alla vita e all’insegnamento di Gesù? Non vi pare che la Chiesa dovrebbe qui fare i conti radicalmente con se stessa?». «Dobbiamo guardare – concludevano i nove teologi, ma anche i 18 di oggi – a ciò che accade nella nostra Chiesa, con la realtà di tanti matrimoni falliti, senza speranza di recupero, e perciò già passati attraverso il divorzio nella pratica, ma condannati dal punto di vista canonico».




il bimbo e l’ostia a papà e mamma

un vescovo racconta al Papa:

“un bimbo spezzò l’ostia per darne ai genitori risposati”

l’intervento in aula commuove l’assemblea del sinodo che entra nel vivo del dibattito sui sacramenti ai divorziati: “Nella Chiesa non siamo ‘ufficiali di immigrazione’, che devono controllare perennemente l’integrità di chi si avvicina”. Il Papa: “Guardarsi dai dottori della legge”

di ANDREA GUALTIERI

 La storia, raccontata davanti al Papa durante l’assemblea plenaria del Sinodo, ha commosso molti dei presuli impegnati nel dibattito sulla famiglia. È stato proprio un vescovo, del quale non è stato riportato il nome, a riferire l’esperienza vissuta: stava celebrando la messa delle prime comunioni in una parrocchia e un bambino, arrivato all’altare per ricevere sulla mano l’ostia consacrata, l’ha spezzata e ne ha dato un pezzetto ciascuno ai due genitori che, essendo entrambi divorziati risposati, non avrebbero potuto riceverla.
Il racconto è stato rivelato durante la conferenza stampa quotidiana sui lavori del sinodo da don Manuel Dorantesed, collaboratore per la lingua spagnola di padre Federico Lombardi, ed è significativo delle istanze portate da chi chiede una riforma della norma che impedisce l’accesso alla comunione a coloro che hanno divorziato e avviato una nuova relazione. Dopo i primi dieci giorni, il dibattito del sinodo è arrivato proprio ad affrontare la terza parte dell’Instrumentum laboris, quella relativa alle ferite della famiglia. E il tema dei risposati è uno dei cardini più difficili della discussione, insieme a quella dell’accoglienza degli omosessuali e alla contraccezione.

Tra le ipotesi di lavoro che saranno affrontate nei prossimi giorni per superare la prassi attuale, c’è quella del “cammino di discernimento” e di una “via penitenziale”. Percorso, quest’ultimo, che è del resto un prerequisito fondamentale per l’accesso di chiunque alla comunione e che, si è evidenziato, richiede di ribadire l’insegnamento sul peccato. La strada più battuta da chi sostiene le tesi della riammissione dei risposati sembra essere quella di “valutare storia per storia”, ponendo limitazioni per i casi particolarmente significativi.

IL PAPA: “GUARDARSI DAI DOTTORI DELLA LEGGE”

Esclusa invece l’ipotesi di soluzioni diverse a seconda del contesto geografico: “Io vengo dalla lontana Australia, come viviamo noi la nostra fede è ben diverso dalla Chiesa in Africa, in Sud America e in Asia. Ma sui punti essenziali della dottrina e sui sacramenti, specialmente la comunione, ovviamente l’unità, dal punto di vista dell’insegnamento, è essenziale”, ha dichiarato in un’intervista alla Radio Vaticana il cardinale  George Pell, prefetto della segreteria per l’Economia e considerato uno degli artefici della lettera consegnata al Papa in apertura del Sinodo per contestare le procedure. Nelle sue parole c’è una sottolineatura: “È ovvio che il Santo Padre dica che la dottrina non sarà toccata. Siccome noi parliamo della dottrina morale, sacramentale, in questa ovviamente c’è un elemento essenziale della prassi, della disciplina”. Dagli stessi microfoni, però, monsignor Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo, fa notare: “Credo che una via pastorale molto concreta sia quella che si articola anzitutto nello stile dell’accompagnamento, che significa accoglienza di tutti, compagnia della vita e della fede, dunque vicinanza, ascolto, condivisione”. E spiega che la “via” lungo la quale trovare una risposta è quella di “camminare in profonda comunione con papa Francesco” e con “la gradualità dell’accompagnamento e dell’integrazione”. In mattinata, tra l’altro, il pontefice celebrando la messa nella cappelladi Casa Santa Marta aveva ammonito di “guardarsi dai dottori della legge che accorciano gli orizzonti di Dio e rendono piccolo il suo amore”.

UNA “RICCHEZZA DI PROPOSTE CONCRETE”

Per il resto, in assemblea si è auspicato un cambio di mentalità delle comunità ecclesiali, con una riorganizzazione delle parrocchie attorno alla pastorale familiare e con la creazione di piccole comunità stabili di famiglie locali che accompagnino altre famiglie aiutandole anche nei momenti di difficoltà. Su tutto, sembra prevalere la richiesta unanime di una maggiore formazione nella preparazione al matrimonio e nell’accompagnamento agli sposi e di nuove metodologie di catechesi, per le quali qualcuno ha chiesto di abbandonare il linguaggio attuale, ritenuto troppo “scolastico”. “C’è una grande ricchezza di proposte pastorali concrete”, ha rilevato padre Lombardi.




lettera al papa di sapore golpista?

tredici cardinali hanno scritto al papa

ecco la lettera

ma Francesco ha respinto in blocco le loro richieste 

e intanto dal programma del sinodo è sparita la “Relatio finalis”

di Sandro Magister


lunedì 5 ottobre, all’inizio dei lavori del sinodo sulla famiglia, il cardinale George Pell ha consegnato a papa Francesco una lettera, firmata da lui e da altri dodici cardinali, tutti presenti in quella stessa aula sinodale.

i tredici firmatari ricoprono ruoli di prima grandezza nella gerarchia della Chiesa. Tra di essi vi sono, in ordine alfabetico:

– Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, Italia, teologo, già primo presidente del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia;
– Thomas C. Collins, arcivescovo di Toronto, Canada;
– Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, Stati Uniti;
– Willem J. Eijk, arcivescovo di Utrecht, Olanda;
– Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, Germania, dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della fede;
– Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, Sudafrica, presidente delegato del sinodo in corso come già della precedente sessione dell’ottobre 2014;
– George Pell, arcivescovo emerito di Sydney, Australia, dal 2014 prefetto in Vaticano della segreteria per l’economia;
– Robert Sarah, già arcivescovo di Konakry, Guinea, dal 2014 prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti;
– Jorge L. Urosa Savino, arcivescovo di Caracas, Venezuela.

nella lettera, concisa e chiarissima, i tredici cardinali sottoponevano all’attenzione del papa le serie “preoccupazioni” loro e di altri padri sinodali circa le procedure del sinodo, a loro giudizio “configurate per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse”, e riguardo all'”Instrumentum laboris”, ritenuto inadeguato come “testo guida e fondamento di un documento finale”

ecco qui di seguito il testo della lettera, tradotto dalla stesura originale in inglese:

 

Santità,

mentre ha inizio il sinodo sulla famiglia, e con il desiderio di vederlo fruttuosamente servire la Chiesa e il Suo ministero, rispettosamente Le chiediamo di prendere in considerazione una serie di preoccupazioni che abbiamo raccolto da altri padri sinodali, e che noi condividiamo.

Il documento preparatorio del sinodo, l'”Instrumentum laboris”, che pure ha degli spunti ammirevoli, ha anche sezioni che trarrebbero vantaggio da una sostanziale riflessione e rielaborazione. Le nuove procedure che guidano il sinodo sembrano assicurare un’influenza eccessiva sulle deliberazioni del sinodo e sul documento sinodale finale. Così com’è, e poste le preoccupazioni che abbiamo già raccolto da molti dei padri sulle sue varie sezioni problematiche, l'”Instrumentum” non può adeguatamente servire da testo guida o da fondamento di un documento finale.

Le nuove procedure sinodali saranno viste in alcuni ambienti come mancanti d’apertura e di genuina collegialità. Nel passato, il processo di presentare proposizioni e di votarle serviva allo scopo prezioso di misurare gli orientamenti dei padri sinodali. L’assenza di proposizioni e delle relative discussioni e votazioni sembra scoraggiare un dibattito aperto e confinare la discussione ai circoli minori; quindi ci sembra urgente che la redazione di proposizioni da votare dall’intero sinodo dovrebbe essere ripristinata. Il voto su un documento finale arriva troppo tardi nel processo di completa revisione e di aggiustamento del testo.

Inoltre, la mancanza di una partecipazione dai padri sinodali alla composizione della commissione di redazione ha creato un notevole disagio. I suoi membri sono stati nominati, non eletti, senza consultazione. Allo stesso modo, chiunque farà parte della redazione di qualsiasi testo a livello dei circoli minori dovrebbe essere eletto, non nominato.

A loro volta, questi fatti hanno creato il timore che le nuove procedure non siano aderenti al tradizionale spirito e finalità di un sinodo. Non si capisce perché questi cambiamenti procedurali siano necessari. A un certo numero di padri il nuovo processo sembra configurato per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse.

Infine, e forse con più urgenza, vari padri hanno espresso la preoccupazione che un sinodo progettato per affrontare una questione pastorale vitale – rafforzare la dignità del matrimonio e della famiglia – possa arrivare ad essere dominato dal problema teologico/dottrinale della comunione per i divorziati risposati civilmente. Se così avverrà, ciò solleverà inevitabilmente questioni ancora più fondamentali su come la Chiesa, nel suo cammino, dovrebbe interpretare e applicare la Parola di Dio, le sue dottrine e le sue discipline ai cambiamenti nella cultura. Il collasso delle chiese protestanti liberali nell’epoca moderna, accelerato dal loro abbandono di elementi chiave della fede e della pratica cristiana in nome dell’adattamento pastorale, giustifica una grande cautela nelle nostre discussioni sinodali.

Santità, offriamo questi pensieri in uno spirito di fedeltà, e La ringraziamo per la loro presa in considerazione.

Fedelmente suoi in Gesù Cristo.

 

un attacco di sapore golpista

commenti sulla lettera dei cardinali al papa

«Con il desiderio di vedere fruttuosamente il Sinodo sulla famiglia servire la Chiesa, rispettosamente le chiediamo di prendere in considerazione una serie di preoccupazioni». Così recita la lettera di alcuni cardinali consegnata a papa Francesco, il 5 ottobre scorso, il giorno di inizio del Sinodo, secondo quanto riportato dal giornalista Sandro Magister sul suo blog il 12 ottobre, che ne ha pubblicato la trascrizione del testo. La lettera, che suscita dubbi di vario genere – dei firmatari originari cinque si sono dissociati – e che sarebbe stata consegnata dal card. George Pell, uno dei sottoscrittori, esprime gravi dubbi circa la correttezza delle procedure sinodali, sospettate di essere «configurate per facilitare dei risultati predeterminati su importanti questioni controverse», e riguardo all’Instrumentum laboris, giudicato «inadeguato come testo guida e fondamento di un documento finale».

I misteri sulla lettera non sono pochi, riguardano in primo luogo i firmatari, ma anche le circostanze in cui è stata redatta. Come osserva lo storico Massimo Faggioli sull’Huffington Post (13/10), «al momento la lista dei firmatari oscilla: quella pubblicata lunedì sera (ora americana) dal settimanale dei gesuiti statunitensi America riportava i nomi di Caffarra (Bologna), Collins (Toronto), DiNardo (Houston), Dolan (New York), Eijk (Utrecht), Müller (prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede in Vaticano), Napier (Durban, Sudafrica), Njue (Nairobi, Kenia), Pell (prefetto del Segretariato per l’economia in Vaticano), Rivera Carrera (Città del Messico), Sarah (prefetto della Congregazione per la liturgia e i sacramenti in Vaticano), Sgreccia (già prefetto della Pontificia Accademia per la vita in Vaticano), e Urosa Savino (Caracas, Venezuela). Ma è possibile che vi siano lettere in parte diverse o versioni diverse della stessa lettera, altri firmatari, e perfino (non è da escludere) firmatari a loro insaputa (quattro altri firmatari – i cardinali Erdö, Scola, Piacenza, e Vingt-Trois – hanno smentito ieri)» e un quinto si è sfilato oggi, il card. Rivera Carrera, affermando di non aver mai sottoscritto la missiva.

Tuttavia, a prescindere dai suoi contenuti, la lettera, commenta Faggioli, «va considerata per quello che è. Non è una questione di merito o di metodo circa i lavori del Sinodo, ma un attacco alla legittimità della direzione impressa alla Chiesa da papa Francesco e quindi un attacco al papa stesso»: «Il fatto che la lettera sia stata consegnata al papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo – spiega lo storico – è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita negli Usa, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i “sinodi per finta” di Wojtyla e Ratzinger». Il problema più grave, insomma, è che i cardinali in questione accusino il papa «di manipolare l’assemblea di vescovi».

Ma la lettera, continua Faggioli, svela le «ipocrisie dei firmatari»: «La critica a un Sinodo già predeterminato si poteva rivolgere ai Sinodi precedenti, quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma non a quello di Francesco. La vera critica della lettera è in realtà a una teologia che su alcuni punti è legittimamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ai quali i firmatari della lettera riconoscono legittimità teologica al contrario di quello che fanno per papa Francesco». In secondo luogo, la critica alle regole del Sinodo di papa Francesco fa finta di ignorare che il Sinodo dei Vescovi ha «degli elementi fissi (per esempio, il tipo di membership del Sinodo) e degli elementi che possono cambiare (in particolare, circa i documenti finali). Infatti il Sinodo è per definizione, dalla sua fondazione nel 1965 ad oggi, uno strumento del primato pontificio, in cui la collegialità dei vescovi si esprime ma senza mai varcare la funzione consultiva (almeno fino ad oggi: in futuro potrebbe cambiare)». Insomma, la lettera non sarebbe altro che «un pronunciamento di vago tenore golpista che vorrebbe mettere sotto ipoteca il primato papale», su temi che quest’ultimo ha riaperto quando i conservatori speravano fossero ormai archiviati.

«I nemici del papa, e ve ne sono a vari livelli nella Chiesa e nei media – scrive il vaticanista Robert Mickens sul settimanale statunitense National Catholic Reporter (12/10) – hanno colto al volo l’isteria reale e presunta dei vescovi per creare la narrazione secondo cui il pontificato di Francesco, al suo trentunesimo mese, corre ora il rischio di andare completamente in rovina. Ma c’è un altro intreccio che riguarda ciò che sta emergendo in questi primi giorni» del sinodo, ossia, spiega Mickens, «per la prima volta in cinquant’anni di esistenza del Sinodo c’è un papa che, sempre più chiaramente, sembra intenzionato a sviluppare, finalmente, il potenziale di questo organismo permanente e di renderlo un elemento costitutivo del governo della Chiesa universale». Ciò, evidentemente, «allarma molti vescovi e spaventare a morte la vecchia guardia nella Curia romana. Almeno quelli che sono stati attenti».




il sinodo secondo p. Alberto Maggi

chiesa, omosessuali e coppie di fatto

il sinodo secondo p. Alberto Maggi

 Alberto Maggi     p. Maggi

Alberto Maggi analizza i temi scottanti che si stanno discutendo all’interno del Sinodo e suggerisce un ritorno alle fondamenta della religione cattolica perché

“l’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia…”


Nel Sinodo in corso la Chiesa di papa Francesco vuole trattare importanti temi riguardanti la famiglia. L’iniziativa è ottima, sempre che le gerarchie ecclesiastiche riconoscano con tutta umiltà e sincerità di non essere competenti in materia. Una Chiesa dove ci sono voluti due millenni per ammettere che nel matrimonio oltre la procreazione dei figli è importante anche il mutuo amore dei coniugi (Gaudium et Spes 50), dovrebbe con tutta umiltà tacere su temi verso i quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo e che, quando li ha voluti trattare, ha causato tremendi danni. Seguendo le indicazioni di papa Francesco, di vedere la Chiesa come un ospedale da campo, si spera che i Padri sinodali seguano il cuore e il buon senso, canali preferiti dallo Spirito santo, e adoperino l’unico linguaggio universalmente riconosciuto, quello dell’amore misericordioso.

Per questo i Padri dovrebbero tornare alle sorgenti cristalline della Scrittura, troppo spesso ignorata o strumentalizzata per essere di supporto a strampalate dottrine tanto assurde quanto disumane (come quella di imporre ai divorziati risposati di vivere come fratello e sorella). La conversione della Chiesa al Vangelo di Gesù farebbe emergere che il problema, così aspramente dibattuto, della comunione da concedere ai divorziati risposati, semplicemente non esiste. La difficoltà non riguarda infatti il secondo matrimonio, ma il significato stesso dell’eucaristia. Nei vangeli appare chiaramente che l’eucaristia non è un premio concesso a quanti lo meritano, ma un dono per i bisogni delle persone: meriti non tutti li possono avere, ma tutti sono bisognosi. Gesù ha cercato di far comprendere ai duri teologi del suo tempo che la medicina e il medico sono per i malati e non per i sani, e che non occorre purificarsi per accogliere il Signore, ma è accoglierlo nella propria vita quel che purifica.

Altro tema scottante, finora sempre evitato, è quello delle unioni omosessuali. Su questo argomento era più logico e comprensibile l’atteggiamento della Chiesa pre-conciliare: gli omosessuali erano tutti peccatori e quando morivano finivano all’inferno per omnia sæcula sæculorum. Le cose si sono complicate con la morale post-conciliare: no, non sono peccatori per il fatto di essere omosessuali, ma per il manifestarlo (come dire a una pianta che può crescere, ma non può fiorire). La soluzione? Anche in questo caso la castità (gira e rigira si finisce sempre lì, sui genitali). La castità, scelta che la Chiesa riconosce essere un carisma, ovvero un dono del Signore per quanti liberamente e volontariamente la scelgono, diventa un obbligo imposto. Il rifiuto dell’omosessualità si basa sul fatto che nella Bibbia si legge che Dio maschio e femmina li creò (Gen 1,27). Nessuno mette in dubbio quest’ asserzione: gli omosessuali non sono un altro sesso, bensì maschi e femmine che orientano la propria affettività su persone dello stesso sesso. I mali della società non sono causati da chi si ama, ma da chi si detesta.

L’AUTORE

maggi Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.




che cosa può fare a questo punto il papa …

una proposta per il Sinodo

le indicazioni del teologo José Maria Castillo

 All’inizio del Sinodo della Famiglia, crescono e salgono di tono nella Chiesa le voci allarmate che parlano di “scisma bianco”, “scisma rosso” (Jorge Costadoat). O chi, come è il caso del cardinale Kasper, arriva ad insinuare che stiamo entrando in uno “scisma pratico”, ossia (se ho capito bene) uno scisma che nessuno formula in teoria, ma che nella pratica quotidiana della vita funziona dividendo i cattolici e spaccando la Chiesa. 

Per questo, ora più che mai, è il momento di chiedersi: cosa può fare il papa in questa questione, poiché le cose stanno così?

Castillo

Come è logico, si dovrà aspettare e vedere come si svolgerà il Sinodo e soprattutto dovremo sapere quello che, dopo il Sinodo, dice e decide il papa. Ma è proprio per questo, per segnalare quello che, secondo la mia modesta opinione, considero come la cosa più opportuna che il papa potrebbe – e forse dovrebbe – fare nella situazione che stiamo vivendo nella Chiesa in questo momento. Per questo oso presentare la proposta seguente.
Prima di tutto, considero che è fondamentale avere molto chiaro il fatto che sul tema della famiglia non siamo di fronte ad una questione di Fede. Per la semplice ragione che, se pensiamo e parliamo della famiglia a partire dalla Fede dogmatica professata dalla Chiesa, non esiste alcuna definizione dogmatica nel Magistero della Chiesa su questa problematica. 
E, se qualcuno trova un documento magisteriale definitorio sul modello di famiglia o persino sull’indissolubilità del matrimonio, lo dica. 
Inoltre, i testi biblici di Mt 19,1-9 e di Mc 10,1-12, ampiamente studiati e discussi dall’esegesi meglio documentata, hanno dimostrato abbondantemente che non si riferiscono alla problematica attuale se il matrimonio sia o no indissolubile. In questi testi, Gesú si oppone al diritto unilaterale che (secondo Dt 24,1), aveva l’uomo per ripudiare la donna, soprattutto se faceva tale cosa “per qualsiasi motivo” (Mt 19,3). Questo indica chiaramente che Gesú non si riferisce all’indissolubilità del matrimonio, ma al diritto unilaterale dell’uomo nei confronti della donna che, secondo la legge di Mosé, non aveva questo diritto. Una mancanza di protezione della donna, che si aggravava a causa degli insegnamenti della scuola di rabbi Hillel, che arrivava a permettere il ripudio della sposa “per qualsiasi motivo” (Mt 19, 3).
D’altra parte, il fatto che per secoli si erano conservate tra i cristiani alcune pratiche ed alcune determinate abitudini su questa questione, non è (né può essere) un argomento determinante per obbligare il papa a conservare, in maniera irrevocabile, alcuni determinati usi o pratiche, per quanto queste pratiche e questi costumi si considerino inamovibili e per quanto rispettabili siano le persone che hanno la pretesa di conservare un determinato modello di famiglia. 
Coloro che affermano che la Chiesa non può in nessun caso ammettere il divorzio, dimostrano un’ignoranza incomprensibile, poiché, nel dire questo, ignorano che la Chiesa per secoli ha ammesso il divorzio in determinati casi. 
Per esempio, nella risposta che il papa Gregorio II, nell’anno 726, invió al vescovo san Bonifacio (PL 89, 525). Così come nella risposta del papa Innocenzo I a Probo (PL 20, 602-603). Dottrina che fu raccolta nel Decretum Gratiani nel secolo XI (R. Metz – J. Schlick, “Matrimonio y divorcio”, Salamanca 1974, 102-103; M. Sotomayor, “Tradición de la Iglesia con respecto al divorcio. Notas históricas”: Proyección 28 (1981) 55). 
Stando cosí le cose, la cosa più ragionevole che si possa suggerire in questo momento, è che il papa debba sentirsi libero per prendere una decisone pastorale che aiuti la Chiesa intera e nel suo insieme a far maturare la dottrina teologica da seguire. E, soprattutto, la pratica pastorale che si deve adottare, almeno finché le cose non si vedano con più chiarezza e precisione. 
Detto ciò e ammesso il confronto che di fatto esiste nella Chiesa su questo problema, mi pare che la cosa più ragionevole da suggerire al papa sarebbe – al momento, almeno – di lasciare i pastori ed i fedeli nella Chiesa nella libertà di procedere secondo la propria coscienza. In maniera tale che nessuno si senta, né possa sentirsi con il diritto ed il dovere di imporre il proprio punto di vista in una questione sulla quale non esiste un insegnamento biblico, né una dottrina magisteriale che lo possano imporre a partire dalla Fede. Così come non esiste nella storia della Chiesa un insegnamento o una pratica uniforme, chiara e ferma con riferimento alla difesa dell’indissolubilità del matrimonio, come ora hanno la pretesa di imporre alcuni vescovi ed altre cariche ecclesiastiche. 
Siamo, quindi, di fronte ad una questione sulla quale sappiamo che esiste un notevole pluralismo tra i credenti in Gesù Cristo, in maniera tale che, esistendo tale pluralismo, il papa non potrebbe prendere la decisione di pronunciare una definizione dogmatica su di un tema sul quale la “Fede della Chiesa” non è uniforme e non ha le condizioni necessarie per il pronunciamento di una definizione dogmatica, come è stato detto nella definizione dell’infallibilità pontificia del concilio Vaticano I (DH 3074) e nella precisazione che su questo punto capitale ha fatto il Vaticano II (LG n. 25).
 
(*) traduzione dallo spagnolo di Lorenzo Tommaselli



parola di vescovo vecchio e pur giovanissimo, dall’animo dei ‘puri di cuore’, peccato che non sia chiamato al sinodo!

monsignor Casale: «l’omosessualità è ricchezza»

l’amore gay «non è peccato» Proibirlo «è un errore»

anche se Charamsa «ha sbagliato»

l’arcivescovo di Foggia Casale a L43 su Sinodo, sesso e orgasmi

di

papa Francesco ha chiesto ai vescovi, riuniti a Roma per il Sinodo sulla famiglia, di parlare con sincerità, schiettezza e onestà
Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia, non se lo è lasciato ripetere due volte
Lettera43.it lo ha raggiunto a Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, dove si è trasferito da qualche tempo

«LA SESSUALITÀ È LA BELLEZZA DI DIO IN NOI»

sessualità, omosessualità, celibato, comunione ai divorziati risposati, il coming out di Krzysztof Charamsa: monsignor Casale, classe 1923, laureato in teologia, ha risposto su tutto con freschezza e lucidità: «Le dico volentieri come la penso e mi auguro che le cose che le dirò possano diffondersi. Perché bisogna creare una mentalità nuova in un mondo cattolico chiuso, retrogrado, che commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa ‘di naso fine’ quando si entra nel campo della sessualità, che è la bellezza di Dio in noi»

 

  • Monsignor Giuseppe Casale

 

DOMANDA. Come considera l’atteggiamento di papa Francesco rispetto all’accoglienza delle coppie omosessuali da parte della Chiesa?
RISPOSTA. L’atteggiamento del papa è stato molto chiaro. Ha dato dei segnali, pur senza entrare specificatamente nel merito della questione. E ha lasciato al Sinodo la libertà di esaminare il tema, sia a ottobre 2014 sia adesso.
D. Francesco è un riformatore, ma il tema appare particolarmente delicato.
R. Direi che è uno dei più delicati, perché una gran parte del mondo cattolico, dei vescovi e dei preti, non riesce a concepire una sessualità staccata dalla genitalità.
D. Cosa intende?
R. Il Concilio Vaticano II aveva già aperto la strada, dicendo che il fine primario del matrimonio non è la generazione. C’è un fine unico del matrimonio, che è il completamento delle due persone, da cui nasce la generazione.
D. Sta dicendo che il fine del matrimonio non è la procreazione?
R. Dico che la genitalità entra nel complesso della vita matrimoniale, ma non la esaurisce. Si tratta di un concetto che purtroppo non è penetrato nel mondo cattolico. Buona parte di esso è rimasta ferma all’amore genitale, non riesce a concepire l’amore come una relazione interpersonale più vasta, più aperta all’incontro. Ci sono tanti matrimoni senza figli e sono matrimoni validi. Questa concezione di una sessualità unidirezionale, che vede la genitalità come il suo scopo, è una mentalità che non si riesce a superare.
D. Il ragionamento che lei fa vale anche per l’omosessualità?
R. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, per l’esattezza ai paragrafi 2358 e 2359, l’omosessualità non è indicata come un male, come un peccato, bensì come una realtà che bisogna accettare. Però, allo stesso tempo, è considerata una tendenza che non va esercitata. Il Catechismo è rimasto fermo su questa posizione e secondo me qui c’è una contraddizione evidente.
D. In cosa consiste?
R. Nel dire che l’omosessualità è una situazione che riguarda molte persone, che bisogna rispettarla, ma che gli omosessuali sono chiamati alla castità. Se non si tratta di una malattia, se siamo d’accordo che non è un peccato, perché chi non è chiamato per sua scelta al celibato o alla castità deve essere obbligato a evitare l’esercizio della sua sessualità? La sessualità non è solo genitale, finalizzata alla procreazione. È fatta di relazioni, di amicizie, di amplessi. Lo spettro della sessualità è molto più ampio di chi lo riduce solo alla genitalità.
D. Secondo lei, su questo punto, come la pensa davvero papa Francesco?
R. Papa Francesco non vuole procedere con un diktat. Non vuole ripetere, in senso opposto, l’esempio di Paolo VI, che con l’enciclica Humanae Vitae condannò la contraccezione. Un esempio lampante, perché quel diktat, di fatto, è stato ignorato dal mondo cattolico. Il papa non vuole procedere allo stesso modo. Piuttosto, vuole muovere il Sinodo verso una posizione aperta, che non venga assunta come un’imposizione.
D. Quanto forti sono le resistenze all’interno della Chiesa?
R. Se osserviamo lo svolgimento del Sinodo straordinario notiamo chiaramente come l’iniziale apertura dell’Instrumentum laboris, e poi i contenuti della Relatio post disceptationem, abbiano creato un vero e proprio scompiglio.
D. Cosa è accaduto?
R. L’Instrumentum, cioè il documento di partenza, affermava al paragrafo 117 la necessità di approfondire il senso antropologico e teologico della sessualità umana e delle differenze sessuali tra uomo e donna. Già questo apriva la discussione. Poi è seguito un fatto nuovo. La Relatio post disceptationem, ai paragrafi 50 e 51, affermava che le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana. E ci si domandava se la Chiesa fosse in grado di accoglierle, garantendo loro spazio e fraternità. Ma il documento andava anche oltre.
D. Cioè?
R. Affermava in maniera ancora più impegnativa che occorreva elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica che integrassero la dimensione sessuale. Tutto questo, nella Relatio conclusiva, è caduto. Siamo tornati alla vecchia posizione. L’omosessualità è una tendenza che si riscontra in alcune persone, non è un peccato, non è una malattia, però non si può esercitare. Si è tornati alla posizione del Catechismo, secondo cui chi è omosessuale deve essere casto.

Il coming out di Charamsa? Una scelta non positiva

D. Cosa prevede che deciderà, adesso, il Sinodo ordinario?
R. Prevedo un’uscita morbida, che non risolverà il problema, ma in sostanza dirà: «È una questione da approfondire, lasciamo aperto l’approfondimento». Purtroppo, nel mondo cattolico, quando si parla di omosessualità in molti reagiscono male. L’omosessualità viene vista come il diavolo.
D. Che cos’è invece l’omosessualità, secondo lei?
R. Un diverso orientamento sessuale che mette in evidenza un rapporto affettivo, di stima, tendenzialmente duraturo nel tempo. Un rapporto che consente di affrontare in comune i problemi della vita e che spesso riesce a non cadere in quella sessualità esasperata che oggi colpisce tanti matrimoni eterosessuali, che purtroppo falliscono.
D. Ma il mondo cattolico è pronto per una concezione del genere?
R. Vedo l’apertura di orizzonti nuovi per una sessualità relazionale, che esalti la bellezza di un rapporto fra due persone – anche due maschi o due femmine – che vivono insieme e mettono insieme le loro scelte, i loro problemi. La Chiesa non deve mettere il naso tra le lenzuola delle persone. Lasciamo che le persone vivano la loro sessualità come credono, nell’affetto, nello scambio di un abbraccio, di un bacio, di quello che vogliono. Anche questo è sessualità.
D. È immaginabile una legittimazione dell’omosessualità da parte dei padri sinodali?
R. Mi auguro che al Sinodo prevalga una linea media, che almeno apra delle prospettive, ma non credo che i vescovi arriveranno a legittimare l’omosessualità. Anche se al Sinodo straordinario si è manifestata una forte corrente in tal senso.
D. Sono possibili dei passi in avanti?
R. Per me sarebbe una ricchezza se la Chiesa riuscisse ad acquisire le positività dell’omosessualità in una visione più ampia e più completa della sessualità. Mi auguro che sotto la guida sapiente del papa, con la luce dello Spirito Santo, si possa fare qualche passo avanti per uscire dalla terribile contraddizione in cui si trova oggi la dottrina cattolica. 
D. Il cardinale Kasper ha dichiarato che «gay si nasce». È d’accordo?
R. Non è che gay si nasce, gay si diventa, anche. È un fatto psicologico, sociologico, culturale, ambientale. Non tutto dipende dalla biologia. L’omosessualità è una realtà che secondo me fa parte della ricchezza della sessualità umana, che va aperta all’incontro relazionale e va liberata dalla schiavitù del legame con la genitalità, che diventa talvolta brutale e addirittura controproducente.
D. È favorevole alla comunione per i divorziati risposati?
R. Sono favorevole alla riammissione dopo un itinerario penitenziale. Quando ci sono dei figli, una nuova famiglia, dire che un divorziato è in stato di peccato per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Ho incontrato molte persone che piangevano per la loro situazione, perché non potevano accostarsi all’eucarestia, che è un sacramento costitutivo del cammino penitenziale dell’uomo. Privare un cristiano dell’eucarestia significa privarlo di tutta la sua ricchezza.
D. Cosa pensa del coming out di monsignor Charamsa?
R. Fare coming out alla vigilia del Sinodo, secondo me, non è stata una scelta positiva. È evidente la volontà di sfruttare il momento. E poi monsignor Charamsa, come prete, era tenuto a osservare il celibato. Lo aveva scelto e quindi, indipendentemente dal suo orientamento, non avrebbe potuto vivere una vita sessuale normale. Detto questo, io non giudico la persona. Dico solo che si è presentato come un prete che ha mancato a un impegno che aveva assunto, mi auguro io, liberamente.
D. Monsignor Charamsa ha sostenuto che l’astinenza totale dalla vita d’amore sia disumana. Non è quello che pensa anche lei?
R. C’è una differenza. Io penso che sia sbagliato vietare la sessualità a chi può legittimamente esercitarla. Vale a dire, a un omosessuale che non ha promesso il celibato, che non ha fatto voto di castità, e che oggi se volesse potrebbe sposarsi.
D. In Italia, per la verità, non potrebbe.
R. Oggi non è consentito, ma speriamo che si arrivi a dare una legittimazione civile alle unioni omosessuali. E chissà, magari più in là… non dico un sacramento, ma almeno una benedizione del Signore, a due persone dello stesso sesso che vogliono stare insieme, che si vogliono bene e vogliono vivere insieme con stabilità. Mi auguro che la Chiesa arrivi a invocare la benedizione di Dio su due omosessuali che vogliono stare insieme e vivere una vita di dedizione reciproca. Questo tirerebbe fuori dalla clandestinità tante persone, forse anche tanti preti che vivono il celibato di malavoglia e chiederebbero di essere liberati dal peso che grava sulla loro coscienza.
D. Nella sua esperienza di vescovo, le è mai capitato di raccogliere la confessione di un prete omosessuale?
R. Sì, ci sono stati alcuni casi. Io ho cercato di aiutare i sacerdoti che si sono confidati con me a recuperare con pazienza la fedeltà al celibato. La situazione del resto non era compromessa, si trattava di sbandate che possono capitare. D’altra parte, oggi si pone il problema: l’omosessuale può essere accolto come prete? Attualmente la Chiesa risponde di no. Anche su questo, però, noi vescovi dovremmo riflettere.
D. In che senso?
R. La castità riguarda in maniera analoga eterosessuali e omosessuali. Il giovane che vuole diventare prete, indipendentemente dall’orientamento sessuale, deve avere la forza, il coraggio, l’aiuto di Dio per vivere la castità. Un impegno che noi vescovi dovremmo esaminare attentamente, con l’aiuto di psicologi e pedagogisti, per valutare se il soggetto è in condizione di assumerlo oppure no.
D. Il celibato per i preti, quindi, rimane un punto fermo anche per lei?
R. Il celibato è un dono e una norma giuridica, ma va ripensato e va vissuto in un clima nuovo, un clima di comunità. Perché un prete solo è un prete che vive di stanchezza, di inquietudine, di solitudine. Dovrebbe vivere in una comunità lieta, fatta non solo di altri preti, ma di uomini e donne insieme. Il prete dovrebbe saper vivere con le famiglie, aprirsi all’amore, avere anche lui degli affetti e delle amicizie, perché non si può chiudere il cuore. Un prete con il cuore chiuso non è capace di fare il padre, di comprendere e accogliere gli altri. Chi ha il cuore duro non sa far altro che sentenziare, e manda via la gente. Diventa una persona anchilosata, incapace di capire gli altri.
D. Quante sono nella Chiesa le persone che condividono i suoi orientamenti?
R. Credo siano in molti, però è necessario che queste idee emergano non come forme di rifiuto di una tradizione millenaria, ma come forme di arricchimento. Occorre conservare quello che c’è di bello nel celibato, ma aprirlo contemporaneamente alla condivisione, alla vita in comune. Infine, a mio parere, sarebbe necessario spostare la scelta del celibato a un’età più matura. C’è un’età in cui i sentimenti e i sensi scoppiano: bisogna superarla per poter dire un ‘sì’ a occhi aperti e con il cuore sereno.

 




verso nuovi paradigmi nella comprensione della sessualità

Omosessualità e Sinodo 2015

psicoanalisi e teologia in dialogo verso nuovi paradigmi

Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini [1] autori del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi ( Cittadella, Assisi 2014) fanno questa belle puntualizzazione su Micromega:

1. Una stagione culturale nuova

La stagione culturale aperta dal Sinodo Straordinario dell’ottobre 2014 non può che condurci a esplorare nuovamente la realtà dell’omosessualità, sulla quale pesano ancora fraintendimenti e posizioni contrapposte. La Relatio post disceptationem ha dato slancio a questo momento di ascolto e di parresia, laddove si spinge a considerare che «il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partner [omosessuali]» (n. 52). Aperture che, come sappiamo, sono state poi ridimensionate nella Relatio Synodi. Tuttavia, ciò che è emerso nel dibattito sinodale – i numeri nelle votazioni finali lasciano a intendere la pluralità delle posizioni emerse nella discussione tra i vescovi – ha continuato a dare i suoi frutti. In questa fase inter-sinodale, infatti, teologi, vescovi, sacerdoti[2] e Conferenze Episcopali[3] si sono espressi con più libertà, mostrando come le posizioni interne alla Chiesa siano molto variegate. Con prese di posizione anche piuttosto dure, da parte di esponenti di rilievo della cultura cattolica: posizioni che – inutile nasconderlo – lasciano un po’ di amaro in bocca per il loro stile.

Indagini demoscopiche, del resto, confermano che la situazione è la stessa anche tra i fedeli[4]. Non da ultima, anche la società civile ha mandato alla Chiesa dei segnali piuttosto forti, dato che il numero di Stati in cui il riconoscimento delle relazioni d’amore omosessuali è ufficiale si sta progressivamente allargando (ricordiamo le recenti approvazioni in Slovenia ed Estonia). La vittoria del sì nel referendum della “cattolica” Irlanda ha solo certificato quel che era chiaro da tempo: si è creata una distanza notevole tra la maggioranza dei cattolici e le indicazioni (ufficiali) della Chiesa in materia di morale sessuale.

Questa «rivoluzione sociale», ha affermato l’arcivescovo Martin, chiede anche alla Chiesa e alle sue istituzioni culturali di «fare i conti con la realtà»[5]. Per farlo, però, sono necessari dei paradigmi nuovi: bisogna cercare di capire quali sono le convinzioni profonde delle nuove generazioni, che le muovono a dissentire così profondamente dalla dottrina ufficiale. La richiesta del riconoscimento di un ‘amore forte’, del totale dono di sé per un’altra persona, non sembra avere a che fare con l’individualismo, e sembra poter essere un fattore di coesione sociale, di promozione umana, di sana libertà, anche se non contribuisce a generare biologicamente un figlio. La distanza culturale tra la Chiesa e i suoi fedeli (non solo i più giovani), forse, sta proprio qui. Senza dimenticare, come già ci hanno suggerito molti saggi di storia[6], che nelle fasi storiche di tolleranza – non di relativismo – le ragioni filosofiche e teologiche di chi si oppone al riconoscimento dell’amore omosessuale perdono di efficacia, perché esse traggono buona parte della loro forza dall’intolleranza generalizzata e dai pregiudizi consolidati.

La Chiesa quindi, sostenuta dalla novità «metodologica» introdotta da papa Francesco, è spinta a interrogarsi in modo nuovo, sforzandosi di comprendere le ragioni di chi vede nell’amore omosessuale una forma lecita di affettività, realizzante, umana, promuovente anche l’amore eterosessuale nella sua forma cristiana. In accordo, non in contrapposizione; a sostegno, non come pericolosa minaccia. In questo cammino di ascolto, di fondamentale importanza è la disponibilità a lasciarsi provocare da una realtà evidente per molti: tra persone dello stesso sesso vi può essere un’autentica relazione d’amore. È proprio il considerare «amore» l’esperienza affettiva delle persone omosessuali, infatti, il cuore del problema in teologia, la prospettiva con cui può essere affrontato, e allo stesso tempo la chiave di volta di una possibile soluzione alle varie impasse, quelle teoretiche e quelle pastorali.

Perché, dunque, un cattolico dovrebbe spingersi a chiamarlo amore? Può farlo, sia dal punto di vista scientifico, sia da quello etico-teologico?

2. Indicazioni dalla psicoanalisi

La psicoanalisi è la scienza che, più di ogni altra, può contribuire a rispondere a questi interrogativi. Un’analisi scientifica priva di pregiudizi metodologici, epistemici e sociali mostra che l’amore omosessuale può essere una forma di relazione affettiva sana e umanizzante. L’amore omosessuale non è immaturo, né narcisistico (l’omosessuale non ritira gli investimenti libidici dagli oggetti, bensì ama l’altro nella sua interezza); le persone omosessuali non sono più promiscue o psicologicamente instabili delle persone eterosessuali. Vi possono essere delle difficoltà contingenti – dovute a fattori ambientali e sociali[7] – che tuttavia non sono determinate dall’omosessualità stessa della persona.

La formazione dell’orientamento omosessuale – inteso come fenomeno psichico e insieme di desideri e affetti – è molto precoce e determinata da elementi soggettivi primitivi a cui non abbiamo accesso immediato. Ciò significa, innanzitutto, che dell’omosessualità non si possa individuare una vera e propria causa, e tantomeno una colpa (dei genitori, della famiglia, dell’ambiente). Vi è un tale complesso intreccio di elementi – dalla possibile predisposizione genetica, a tutti i fattori ambientali, psicologici e relazionali che ne determinano l’espressione – da escludere la possibilità di risalire a una concatenazione causale univoca, né come teoria generale, né nell’applicazione al singolo caso. Tutte le presunte ‘teorie eziologiche’ (genetiche, ormonali, anatomiche, psicologiche) hanno infatti mostrato, nel tempo, la loro insufficienza[8].

L’orientamento omosessuale, e il mondo degli affetti e dell’erotismo che ne deriva, implica un’uscita dall’Edipo, non presenta particolari disturbi di personalità o forme perverse di vivere la propria sessualità[9]. Al netto di ciò, la plausibilità terapeutica e teorica delle ‘teorie riparative’ risulta del tutto compromessa, com’è stato ampiamente dimostrato[10].

La sofferenza che le persone omosessuali sono spesso costrette a vivere, quindi, non è necessariamente legata a particolari disturbi psichici o di personalità, a traumi, ad abusi; non nasce da famiglie conflittuali o da disturbi fisici di varia natura. Queste persone soffrono perché sono sole, chiuse, timorose di vivere pienamente e liberamente le relazioni sociali. Tale ritiro non è determinato da una loro ‘difettosa’ struttura psichica, ma è determinato dal forte pregiudizio sociale, che queste persone fanno proprio (è il fenomeno dello stigma – o pregiudizio – sociale interiorizzato) e nelle quali s’identificano, autodenigrandosi. Tale processo di interiorizzazione e, quindi, di identificazione avviene perché, durante lo sviluppo dell’identità di genere, tutti noi abbiamo bisogno di modelli sociali di riferimento. Nella fase adolescenziale, quando iniziamo a comprendere chi siamo, qual è il nostro orientamento sessuale, abbiamo bisogno di modelli stabili e precisi. Per tutti noi, quindi, è essenziale avere delle linee guida che la società ci può e ci deve dare. Perciò, piuttosto del nulla, assorbiamo modelli negativi, se sono gli unici punti di riferimento. Molte ragazze e ragazzi omosessuali che iniziano a vivere questo vero e proprio sconquasso, conducono una lotta interiore in completa solitudine[11]. Nella ricerca di modelli in cui identificarsi, trovano soltanto pregiudizi: valutazioni degradanti, parcellizzanti la loro persona, spesso legate solo al sesso e non all’interezza dell’individuo.

Piuttosto del vuoto identitario, interiorizzano questi modelli negativi. Spesso, il ragazzo o la ragazza omosessuale entra, quindi, in un circolo vizioso, dando credito ai pregiudizi sociali, iniziando ad avere comportamenti svalorizzanti. Ecco perché la rimozione del pregiudizio – che oggi è identificata, a torto o a ragione, con la locuzione «lotta all’omofobia» – è urgentissima e necessaria. Quando le persone sono accolte nella loro interezza, arrivano a vivere in maggiore armonia con se stessi, iniziando ad amarsi e a valorizzare l’interezza della loro persona. Lo sviluppo di un’immagine di sé positiva prelude all’affermazione positiva di sé. È una questione di autostima, non di orgoglio. Quando l’omosessuale riconosce il proprio valore, intraprende la strada del ‘venir fuori’, e le relazioni affettive fanno parte di questa affermazione, poiché l’identità omosessuale si completa in esse, in quanto promuoventi un’immagine di sé positiva. Da questo punto di vista, è incomprensibile la richiesta fatta agli omosessuali di vivere la propria affettività nel nascondimento o nell’astinenza perpetua: per una persona omosessuale ciò corrisponde a un’incarcerazione, alla negazione di ciò che di più bello può avere nella vita.

Le\i giovani omosessuali hanno poi bisogno di un modello positivo: dobbiamo parlare loro di amore, di fedeltà, di progetto di coppia, di dono, da realizzare a partire da ciò che sono, e rivolti a colui o colei che sentono essere il compimento del loro desiderio affettivo.

Un discorso sobrio, sereno e scientifico sull’omosessualità, infine, implica una presa di distanza dai contrapposti estremismi circa il gender. Premesso che una «teoria del gender» (al singolare) non esiste[12], è sempre più urgente sottolineare come gli assunti principali delle teorie sul genere – anche delle più moderate, che potrebbero ottenere positiva accoglienza nella Chiesa[13] – riguardino i ruoli di genere (e, solo in rari casi, l’identità di genere[14]) e non l’orientamento sessuale. Le persone omosessuali vivono in armonia la loro identità di genere, perché il loro sesso psichico coincide con il sesso biologico: l’omosessuale femmina, per capirci, si sente pienamente femmina, non desidera avere un corpo maschile. Dal momento che l’essere omosessuali non genera e non è d’impedimento alle capacità di giudizio, sociali, lavorative (adattamento e funzionamento), possiamo desumere che la persona omosessuale esce positivamente dall’Edipo. L’Edipo non “riesce” solo quando “produce” eterosessuali, ma quando “produce” persone capaci di positive relazioni sociali, affettive, intellettuali. Se l’Edipo è riuscito, dunque, si è risolta positivamente anche la relazione della persona omosessuale con l’altro sesso: le persone omosessuali non sono né misogine, né misandrogine. Anzi, proprio le profondissime relazioni di amicizia delle persone omosessuali con le persone di sesso opposto mostrano come l’accettazione della differenza sessuale avvenga in loro in un modo diverso, ma che non la nega affatto: al contrario, queste amicizie attestano come vi possa essere una relazione uomo-donna straordinaria – complice, di rispetto assoluto – anche laddove manchi l’attrazione sessuale.

Riconoscere il valore dell’amore omosessuale, dunque, non ha nulla a che vedere con la negazione della differenza sessuale, né con l’imposizione di una rivoluzione circa i ruoli di genere. Educare al rispetto di questo amore – parlarne, anche con i giovani, nelle sedi istituzionali e religiose – è un atto dovuto. Se poi vi fossero delle degenerazioni, è giusto segnalarle, ma senza generare dannose caccie alle streghe, complottismi[15], o demonizzare qualsiasi forma di educazione al rispetto della diversità. Iniziare a rimuovere alcuni stereotipi è indispensabile – siano essi riguardanti gli omosessuali o gli eterosessuali (troppo spesso schiacciati da alcuni stereotipi di genere) – e creare una cultura del rispetto e dell’accoglienza è fondamentale, e non può essere sacrificato sull’altare delle contrapposizioni ideologiche.

3. Prospettive teologiche

La teologia e le istituzioni religiose, dal canto loro, possono cooperare a questo processo di umanizzazione delle relazioni e di rimozione delle sofferenze. Purché abbiano la lucidità di andare al cuore pulsante della propria dottrina, sapendo trasmettere ciò che vi è di essenziale. La Chiesa afferma che perché una relazione affettiva si possa chiamare ‘amore’ sono necessarie la reciprocità, la passione, il rispetto, la magnanimità, la fedeltà, la donazione altruistica, la solidarietà, nonché il sacrificio.

Le caratteristiche elencate sono riscontrabili anche in una coppia omosessuale. I sacerdoti e i teologi spesso non ne sono consapevoli, perché è raro che giungano a contatto con coppie omosessuali che vivono il «per sempre» in senso cristiano. Eppure esistono. Certo, è precisamente compito di queste coppie di testimoniare alla Chiesa la loro esistenza, dare prova che esiste questo luogo teologico in cui si manifesta la grazia dell’amore di Dio. Ma è anche compito della Chiesa di cercarle, avere uno sguardo attento, che non allontani queste realtà cercandovi per forza qualcosa di perverso. E sarebbe dovere dei sacerdoti educare la coppia a vivere quelle caratteristiche, esattamente come le insegnerebbero alle coppie eterosessuali, che spesso giungono a implementarle solo al termine di un lungo percorso di maturazione umana e di fede.

Negli atti sessuali compiuti da una coppia omosessuale sono però assenti la finalità procreativa e la complementarietà (entrambe in senso biologico-riproduttivo), ed è ciò a costituire per la Chiesa il punto ermeneutico più critico. Dalla mancanza di queste caratteristiche fondamentali dell’oggettività della sessualità, nasce la parola ‘disordine’, o meglio la locuzione ‘oggettivo disordine morale’[16] con cui il magistero ordinario della Chiesa indica sinteticamente gli atti sessuali delle persone che vivono una relazione d’amore omosessuale.

La domanda che la Chiesa si è posta, in vista del Sinodo, è se tali categorie si possano aggiornare senza negarle o snaturarle, per implementare una pastorale più efficace e coerente. Non vi è, crediamo, una risposta univoca a questo interrogativo. Tuttavia, alcune proposte teologiche[17] sembrano mostrare che un’analisi più approfondita può portare a elaborare significati di ‘fecondità’ e ‘complementarietà’ più ampi e complessi, più inclusivi. Ampiezza che non è una forma di annacquamento o capovolgimento. Nelle stesse affermazioni della Chiesa è riscontrabile questa pluralità di significati, soprattutto quando si applicano alle situazioni umane in cui non vi è procreazione biologica (lo stato celibatario o verginale, o quello delle coppie sterili). Certo, l’allargamento del campo semantico di questi termini implica un complesso lavoro di ermeneutica della Scrittura, della Tradizione e della dottrina della legge morale naturale[18], che passa anche per l’indagine antropologica.

Tuttavia, proprio quest’ultima può riuscire a scorgere che riconoscere come leciti gli atti compiuti nel contesto di un amore omosessuale non significa mettere in discussione l’antropologia cristiana circa la differenziazione sessuale, ma solo prendere in considerazione il fatto che il riconoscimento dell’alterità sessuale – e di ogni alterità – non passa solo per la dinamica di attrazione sessuale. Il simbolismo sessuale coniugale eterosessuale presente nel testo biblico è sicuramente paradigmatico, ma non esclude che vi possano essere altre forme di relazione sessuale buone. La Bibbia conosce varie forme di alterità, e definisce l’uomo come l’essere capace di relazione e comunione tra alterità (nucleo antropologico fondamentale); tra queste vi è anche l’alterità sessuale, il riconoscimento della quale è essenziale per la persona, ma che non si attua solo nel desiderio carnale. Da questo punto di vista, il riconoscimento della liceità dell’amore omosessuale è il frutto maturo dell’antropologica personalista cattolica (prima che s’infilasse nelle strettoie argomentative dell’unità-duale[19]).

Se così fosse, riconoscendo le differenze e le somiglianze tra amore omosessuale e amore eterosessuale, è possibile – rimanendo nelle categorie già fissate e senza rinnegare del tutto una Tradizione – interpretare il termine ‘disordine’ in un’accezione positiva. Il disordine potrebbe essere, in alcuni casi, un ordine diverso, un ordine (il bene possibile) che nella nostra contemporaneità abbiamo iniziato a scoprire, e del quale dobbiamo cogliere gli aspetti postivi, facendoli prevalere e risplendere. Nell’amore omosessuale – e negli atti sessuali che ne derivano – si possono esprimere e realizzare alcuni beni fondamentali della persona, che lo rendono ordinabile a Dio secondo l’ordine naturale che gli è proprio. La necessità della presenza del fine unitivo in un atto sessuale, allora, è ciò che a pieno titolo rientra nelle norme universali della legge morale naturale, rispettandone le caratteristiche formali. E questa è precisamente la razionalità (oggettività) dell’amore che deve guidare il nostro agire.

Certo, proponendo di valorizzare anche gli atti sessuali in cui la procreatività biologica è preclusa[20] – negando cioè che vi sia sempre un’inscindibilità dei sensi unitivo e procreativo – ci si spinge a riconsiderare alcuni assunti della dottrina oggi in vigore[21]. Ha quindi ragione mons. Robinson quando sostiene che «Non c’è possibilità di cambiamento per l’insegnamento della Chiesa Cattolica riguardo agli atti omosessuali, a meno che e non prima che ci sia un cambiamento nel suo insegnamento riguardo gli atti eterosessuali»[22]. Il che corrisponde a chiedersi se nell’antropologia metafisica (biblica e tomistica) cattolica vi sia spazio per riconsiderare le finalità proprie dell’atto sessuale[23]. Personalmente riteniamo che vi sia, ma il discorso ci porterebbe lontano, fino a considerare i confini di un possibile ripensamento del magistero ordinario[24]. Non è un segreto, del resto, che lo ‘scisma sommerso’ tra dottrina e comportamento dei fedeli – quella distanza culturale di cui parlavamo all’inizio – trova alcune sue radici proprio in certe formulazioni dell’Humanae Vitae. Riconoscerlo apertamente – fosse anche per ribadire con più convinzione ciò che in quell’enciclica è stato affermato – è una forma positiva di autoconsapevolezza per la Chiesa, che su di essa potrà formulare le proprie strategie pastorali future.

Un cammino non facile, che può suscitare spaesamento e rifiuti, ma che la realtà c’impone di prendere almeno in considerazione. Dal nostro umile punto di vista, crediamo fortemente che gli spazi per l’aggiornamento ci siano, e si siano già formati proprio a partire da alcune problematiche legate alle coppie eterosessuali e la vita consacrata. Un’ipotesi è quella d’ampliare il campo semantico del termine ‘procreativo’, fino a includere alcune forme di fecondità spirituale che promanano direttamente dal significato unitivo. La vita di coppia è già feconda nel suo darsi, perché il dono di sé per l’altro – che si manifesta anche nel concreto degli atti sessuali – crea qualcosa di nuovo, fa entrare le persone in una nuova vita, genera valore aggiunto: il noi emerge dall’io-tu come qualcosa di nuovo e stupendo. In questo ampliamento non vi è alcun cedimento all’edonismo o all’individualismo, giacché si propongono anche alla coppia omosessuale gli stessi alti ed esigenti appelli alla castità coniugale. È un aggiornamento possibile che, tuttavia, è stato sovraccaricato d’importanza simbolica (circa la morale e le posizioni di egemonia culturale e sociale), rendendolo di fatto quasi impraticabile. E ciò a discapito della vita delle persone.

Ecco allora che aprirsi al mondo, in questo contesto, non significa acquisirne automaticamente le istanze. Sappiamo che il cristianesimo – sia nei testi del Vangelo, sia nella Tradizione – spinge sempre a superare le logiche del mondo, verso un orizzonte di senso più ampio, dove l’umano sfiora il divino. Aprirsi con fiducia – nello stile di papa Francesco e nel modello di sinodalità sognato nel Vaticano II e concretizzatosi nella discussione franca e libera di questo Sinodo – significa accettare di porsi in ascolto, senza demonizzare ciò che proviene ‘dal mondo’, ma sapendone riconoscere le dinamiche positive, portarle a compimento, depurarle da ciò che vi è di inumano, senza rinunciare al cuore della propria tradizione, ma allo stesso tempo senza porsi anacronisticamente fuori dalla realtà.

Questo è il compito della dottrina che si traduce in pastorale: proporre anche alle persone omosessuali che vivono una relazione d’amore con persone dello stesso sesso i caratteri fondamentali della spiritualità cristiana sulla sessualità. Ci sono delle intuizioni basilari – nella morale sessuale cattolica – che fanno parte di una saggezza laica e cristiana che costituisce l’oggettività della sessualità, e che pertanto non possono essere negate, seppur mediate dalla consapevolezza della gradualità d’ogni percorso di maturazione morale. Ad esempio l’idea che l’atto sessuale debba essere espressione del livello relazionale del rapporto e frutto di uno sguardo casto (nucleo dell’idea di castità coniugale).

Proporre queste indicazioni significa inserirsi in un percorso storico ormai avviato e irreversibile – quello del riconoscimento dell’integralità umana delle persone omosessuali e del loro amore di coppia – sapendolo governare, invece di opporvisi tenacemente; significa far primeggiare il bene che si esprime in questo percorso, senza doversi scusare tra qualche anno per non averlo saputo riconoscere.

Certo, resta aperta la questione di quale sia il modo migliore – sia a livello sacramentale sia a livello giuridico – per attuare concretamente questo riconoscimento[25]. E qui entra in gioco la creatività umana, che però non può usare paraventi linguistici che possono solo, alla lunga, risultare ipocriti.

In questo Sinodo forse la Chiesa non potrà procedere a un aggiornamento dottrinale sostanziale. Tuttavia, ha di fronte a sé molte opzioni per compiere qualche passo in avanti. Potrebbe, ad esempio, invitare i teologi, i vescovi e i laici a intraprendere un libero cammino di approfondimento di alcuni termini, della Tradizione e dell’esegesi; consentendo di sperimentare nuove ipotesi pastorali alle singole Conferenze Episcopali, le quali si trovano a confronto con sensibilità sociali, spirituali e culturali molto diverse, nelle differenti aeree del pianeta in cui si trovano a operare.

NOTE

[1] Autori del libro L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella, Assisi 2014.

[2] L’Association of U.S. Catholic priests ha inviato al Sinodo i risultati della consultazione di oltre 500 sacerdoti americani, attraverso una lettera che chiede forti innovazioni su tutti i temi affrontati dal Sinodo (cf. Adista Notizie 16 (2015), file originale in inglese scaricabile qui: http://www.uscatholicpriests.org/). Si sono pronunciati per delle aperture, anche se con sfumature differenti, il vescovo Johan Bonny, mons. Domenico Mogavero (intervista su Vatican Insider del 14\10\2014), il vescovo Juan Vicente Cordoba, il cardinale Reinhard Marx, il vescovo Bruno Forte (intervista su Vatican Insider del 13\10\2014), il vescovo Raul Vera, mons. Geoffrey Robinson, mons. Luigi Bettazzi.

[3] Hanno fatto scalpore le posizioni d’avanguardia dei fedeli svizzeri, sintetizzate nel documento «Rapporto della Chiesa cattolica in Svizzera sugli interrogativi sollevati nei Lineamenta in preparazione al Sinodo ordinario dei Vescovi 2015 a Roma» inviato dalla loro Conferenza Episcopale (si può trovare qui: http://www.ivescovi.ch/documenti /comunicati/dibattiti-presinodali- in-svizzera), e quelle dei fedeli tedeschi: «La maggioranza si aspetta dalla Chiesa una valutazione più differenziata basata sulla teologia morale, che tenga conto delle esperienze pastorali e delle conoscenze scientifiche. Quasi tutti i cattolici accettano rapporti omosessuali se i partner vivono valori come amore, fedeltà, responsabilità reciproca e affidabilità» (La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, risposta della Conferenza Episcopale Tedesca, tradotta in http://www.viandanti.org).

[4] Secondo il Public Religion Research Institute (PRRI), circa il 60% dei cattolici americani approverebbero il matrimonio gay (Attitudes on Same-sex Marriage by Religious Affiliation and Denominational Family, consultabile in http://publicreligion.org/2015/04/). Anche i dati, certamente più modesti, dai noi raccolti nelle parrocchie del vicentino circa l’accettazione positiva della realtà omosessuale, sembrano indicare un risultato analogo (cf. D. Migliorini, I fedeli cattolici e l’omosessualità: un’indagine in parrocchia, in http://vaticaninsider.lastampa.it/, 9/02/2015).

[5] «Nozze gay, l’arcivescovo di Dublino: “La Chiesa faccia i conti con la realtà”», articolo in ‘www.repubblica.it’ del 24/05/2015. L’interpretazione del dato e della direzione che deve prendere questa necessaria ‘riflessione’ è stata diversa all’interno della Chiesa, come testimoniano le differenti affermazioni del card. Parolin e del card. Kasper (entrambe in Corriere della Sera del 27/05/2015, p. 6).

[6] Ricordiamo l’insuperata opera di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, Leonardo, Milano 1989; a cui si possono aggiungere, per una prima ricognizione: E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, BUR, Milano 2010; M. P. Faggioni, L’atteggiamento e la prassi della Chiesa in epoca medievale e moderna sull’omosessualità, in Gregorianum 91 (2010) 3; L. Crompton, Homosexuality and civilization, Harvard University Press 2006; recentissima l’uscita di G. Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra, Il Saggiatore, 2015.

[7] Per un’introduzione ad alcune questioni sociologiche, tra cui la genesi e il significato del termine omofobia: L. Trappolin, Per una sociologia dell’omosessualità, Carocci, Roma 2009; C. Bertone, Le omosessualità, Carocci, Roma 2001; G. Herdt, Omosessualità, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 6, Roma 1996; A. Sullivan, Praticamente normali, Mondadori, Milano 1996; M. Graglia, Omofobia. Strumenti di analisi e di intervento, Carocci, Roma 2012; S. Argentieri, A qualcuno piace uguale, Einaudi, Torino 2010.

[8] M. L. Di Pietro, Il processo di sessualizzazione della persona. Il dato biologico, in Aa.Vv., Amare nella differenza, Cantagalli-Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 133-143.

[9] American Psychological Association, Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation (2009), in www.apa.org.

[10] Oltre al documento dell’Apa, ricordiamo il dettagliato volume P. Rigliano – J. Ciliberto – F. Ferrari, Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità, Cortina, Milano 2012; M. Graglia, Psicoterapia e omosessualità, Carocci, Roma 2009; V. Lingiardi – N. Nardelli, Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche gay bisessuali, Cortina, Milano 2014.

[11] M. Palomba, Essere e vivere la diversità, Kappa, Roma 1999.

[12] Solo all’interno del femminismo si possono riscontrare posizioni essenzialiste, decostruzioniste (tra cui le teorie queer), della differenza sessuale, e postmoderniste (o teoria delle differenze locali). Cf. E. Ruspini, Identità di genere, Carocci, Roma 2009, pp. 57-61.

[13] G. Piana, Sesso o gender. Davvero alternativi?, in Rocca 8 (2015), pp. 30-32; Aa.Vv., Identità di genere. Pensare la differenza tra scienze, filosofia e teologia, EDB, Bologna 2015; C. Simonelli, Teologia, differenza e gender: un dibattito aperto, in Studia Patavina 62 (2015), pp. 73-88; Per una panoramica sui gender studies rimandiamo a B. Gelli, Psicologia delle differenze di genere, Franco Angeli, 2014; R.W. Connell, Questioni di genere, Il Mulino, 2011; S. Zanardo, Gender e differenza sessuale. Un dibattito in corso, in Aggiornamenti Sociali 5 (2014).

[14] Sono i casi in cui si manifesta una disforia di genere, cioè i casi di transessualità. Secondo la teoria più accreditata, sono casi in cui la persona – per un’alterazione ormonale nelle prime fasi di vita – si trova con un corpo non corrispondente al sesso biologico del cervello. Non hanno, evidentemente, nulla a che vedere con l’omosessualità. Inoltre, non vi sono evidenze scientifiche che mostrano come un’eventuale maggiore flessibilità nei ruoli di genere possa generare più casi di omosessualità o di transessualismo.

[15] «La sociologia individua il ‘complottismo’ come il tentativo, per definizione minoritario, di conservare in diversi campi del sapere umano – ma principalmente la storia e la scienza – elementi della rejected knowledge (conoscenza scartata), cioè le ipotesi che la comunità accademica nella sua vasta maggioranza, dopo averle esaminate, ha respinto come spiegazioni false o inadeguate della realtà. Il complottista s’immagina che il rigetto della teoria cui è affezionato non sia avvenuto perché, seguendo i suoi normali e consueti modi di funzionamento, la comunità accademica è riuscita a ‘falsificarla’, nel senso di provarla come falsa, ma perché la maggioranza degli accademici – nonché dei media che riportano le loro conclusioni, e delle istituzioni politiche, professionali e religiose che ne tengono conto – partecipa a un vasto complotto dietro cui si celano ‘sette’ misteriose ma potentissime» (M. Introvigne, Nuove mitologie religiose, in Treccani, online su treccani.it).

[16] V. Tombolato, Omosessualità. Un oggettivo disordine morale?, Alberto Brigo, Rovigo 2008.

[17] Ricordiamo i più significativi, dall’apripista J. McNeil, La chiesa e l’omosessualità, Mondadori, Milano 1979, a: M. Vidal, Omosessualità, scienza e coscienza, Cittadella, Assisi 1983; X. Thevenot, Omosessualità maschile e morale cristiana, Leumann-Elledici, Torino 1991; J. Gafo, Omosessualità, un dibattito aperto, Cittadella, Assisi 2000; E. Chiavacci, Omosessualità. Cercare ancora, in Vivens Homo 11 (2000) pp. 423-457; J. Gramick – R. Nugent, Anime gay. Gli omosessuali e la chiesa cattolica, Ed. Riuniti, Roma 2003; J. Alison, Fede oltre il risentimento. Coscienza cattolica e coscienza gay: risorse per il dibattito, Transeuropa, Massa 2007; G. Piana, Omosessualità. Una proposta etica, Cittadella, Assisi 2010; P. Rigliano, Gesù e le persone omosessuali, La Meridiana, Molfetta 2014; P. Gamberini, Coppie omosessuali. Vivere, sentire e pensare da credenti, in Il Regno-attualità 2 (2015) pp. 129-136. Sul fronte pastorale, ricordiamo il numero 30 (1996) della rivista Presbyteri (contributi di L. Lorenzetti e L. Rossi). Rimandiamo anche alla raccolta di saggi in Concilium 1\2008 (Le omosessualità) e in CredereOggi 116\2000 (Persone omosessuali).

[18] Una legge imprescindibile, che tuttavia non può essere banalizzata. Rimandiamo al nostro testo, B. Brogliato – D. Migliorini, L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella, Assisi 2014, pp. 223-255.

[19] Riscontrabili, ad esempio in A. Scola, Il mistero nuziale. Uomo-donna, Marcianum Press, Venezia 2014.

[20] Come avviene nelle coppie sterili, oppure accettando l’atto sessuale nei periodi infecondi. Tali atti, infatti, pur mantenendo la ‘forma generativa’ hanno un’intrinseca intenzionalità contraccettiva.

[21] Quelli, com’è noto, codificati nell’Humanae Vitae.

[22] Omosessualità: occorre una nuova morale sessuale, intervento di Geoffrey James Robinson, vescovo emerito della diocesi cattolica di Sidney, tenuto alla conferenza Le strade dell’amore, riportato da L’Indice del Sinodo (http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/02/omosessualita-occorre-una-nuova-morale.html).

[23] In qualche modo, si tratta finalmente d’integrare nella riflessione antropologica la nozione di orientamento sessuale (sconosciuta alla tradizione cattolica più antica); è quest’ultima, infatti, a spingere a riconsiderare l’insegnamento sugli atti sessuali – come sostenuto da Robinson – poiché implica di ripensare la forma stessa (l’ordine) impressa da Dio negli atti sessuali derivanti da orientamenti diversi.

[24] Forse, per affrontare con più serenità le scelte dottrinali impegnative, sarebbe utile riscoprire alcune riflessioni – profonde e non poco provocatorie – di K. Rahner, raccolte nei Nuovi saggi, Paoline 1975, pp. 60-63, 362-379 e 405-422 (Discussioni attorno al magistero ecclesiastico).

[25] Se si debba trattare di un’equiparazione tout court al matrimonio oppure no. Per onestà nel procedere argomentativo, sarebbe importante, nei dibattiti su questa questione, cercare di tenere separate problematiche diverse, che necessitano di categorie differenti, come ad esempio la questione delle adozioni o dell’utero in affitto. Riconoscere la bontà dell’amore omosessuale non implica necessariamente queste ultime; sebbene siano frequentemente associate (soprattutto a livello giuridico), sarebbe opportuno distinguerle.

(2 ottobre 2015)




contraddizioni della nostra chiesa

 ‘chiesa contraddittoria, assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati!’

intervista al biblista Maggi

 

 

 

<la chiesa  assolve gli omicidi, ma non i divorziati risposati!>.

Il biblista Alberto Maggi affida a un’esclamazione il suo più totale disappunto per quella che considera <una lampante contraddizione> nell’insegnamento del popolo di Dio. Con il pensiero rivolto a Cristo, <che più che unire sfascia le famiglie>, pur se non è solito discorrere del Sinodo, il religioso dei Servi di Maria accetta di buon grado di rispondere ad alcune domande sull’assise ormai alle porte. <Non mi attendo molto dal Sinodo>, ma, in quest’anno di Giubileo della misericordia indetto dal Papa, <spero in gesti concreti a favore dei risposati, dei preti uxorati e degli omosessuali>. Tre categorie <umiliate ed emarginate dalla Chiesa>.  

fra’ Maggi, quanto l’appassiona il dibattito pre sinodale?                                  

<Non più di tanto. I cambiamenti nella Chiesa vengono sempre dalla base e non dai vertici. I mutamenti sono rifiutati, ostacolati e contrastati dalle gerarchie. Poi, dopo un lungo lasso di tempo, vengono accolti… Quando ormai è troppo tardi>.

Al Sinodo quali cambiamenti potrebbero passare?                                                

<In ogni situazione, in ogni controversia, bisogna tenere presente il comportamento di Cristo: lui, tutte le volte che si è trovato a dover scegliere tra l’obbedienza alla Legge divina e il bene concreto dell’uomo, senza esitare ha sempre scelto quest’ultimo. Facendo il bene dell’uomo si è certi di fare anche quello di Dio>.

Un principio pìù sulla carta che nei fatti? 

<Troppo spesso per l’onore di Dio si è disonorato l’uomo e per il bene di Dio si è causata sofferenza agli uomini>.

In una recente intervista sul Sinodo, Francesco ha parlato di attese <eccessive>. Condivide?  

<Se lo dice il Papa… Lui conosce bene l’ambiente, sente sulla pelle le resistenze curiali al suo impegno per un cambiamento evangelico, ogni giorno si trova di fronte a muri di gomma e a veri e propri dispetti>.

Che tra il Pontefice e parte della Curia non corra buon sangue è risaputo.

<Proprio per questo Bergoglio va sostenuto e non lasciato solo, perché la sola cosa che frena i suoi avversari, come ai tempi di Gesù i sommi sacerdoti, è che ‘temevano la folla…’>.

Dal punto di vista biblico, quale è il filo rosso che unisce Antico e Nuovo Testamento sulla famiglia?

<Non c’è alcuna continuità e il messaggio di Gesù è il meno adatto per sostenere la famiglia patriarcale. Cristo più che unire le famiglie le sfascia…>.

Ovvero?

<Lui viene da una triste esperienza e da brutti rapporti con i suoi che lo hanno creduto pazzo e hanno tentato di rapirlo. Giovanni nel suo Vangelo non esita a scrivere che neanche i fratelli credevano in lui. E Gesù invita a liberarsi, per causa sua e del Vangelo, anche dai vincoli familiari più stretti quali quelli tra marito e moglie, genitori e figli>.

Quali sono le principali discrepanze che evidenzia fra l’insegnamento attuale della Chiesa sulla famiglia e quanto trasmette la Bibbia?

<Non credo che la Chiesa abbia l’autorità di mettere il naso nelle faccende familiari. Una Chiesa, che ha impiegato ben duemila anni per ammettere che nel matrimonio è importante anche l’amore dei coniugi oltre che la procreazione dei figli, sarebbe bene che tacesse su questioni per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo>.

Nessun mandato? Vuole dire che quello di ottobre sarà un Sinodo illegittimo?

<La legittimità la dona lo Spirito Santo. Tanto più gli orientamenti, le scelte e le decisioni del Sinodo saranno all’insegna di una profonda umanità tanto più in queste si manifesterà il divino che alimenta e mantiene in vita la Chiesa>.

Intanto, sui mezzi di comunicazione il dibattito pre sinodale è tutto concentrato sul nodo dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Come se lo spiega?

<Perché è lampante la contraddizione di una Chiesa che rivendica giustamente il mandato del Cristo di poter perdonare i peccati, ma poi è incapace di concedere il perdono a chi, fallito il primo matrimonio, tenta una nuova unione. La Chiesa assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati! Spero che in questo anno della misericordia ci siano gesti concreti a favore di tre categorie di persone umiliate ed emarginate dalla Chiesa: i preti sposati, gli omosessuali, i divorziati. Non è solo una questione di misericordia ma di giustizia>.
                                                                                                                            Giovanni Panettiere




quasi 600 preti americani chiedono aperture su gay e divorziati

 

gay e divorziati risposati

572 preti americani chiedono aperture

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 È da pochi giorni scaduto il termine per la consegna delle risposte al questionario voluto dal Vaticano in vista del Sinodo ordinario di ottobre, ed entro l’estate – quando sarà pubblicato l’Instrumentum laboris – sapremo se e come hanno influito sul documento di lavoro gli interventi di quanti tra vescovi, congregazioni religiose, comunità e singoli fedeli, in questi mesi hanno voluto dire la loro in materia di famiglia, accogliendo l’invito della Segreteria Generale del Sinodo (v. Adista Notizie nn. 1, 6 e 13/15; Adista Documenti n. 8/15; Adista Segni nuovi nn. 1, 9, 11, 13 e 15/15).

gay

Se lo scorso mese ben 500 preti inglesi sono scesi in campo – con una lettera pubblicata sul settimanale Catholic Herald (v. Adista Notizie n. 13/15) – per esprimere l’auspicio che il Sinodo produca «una proclamazione chiara e ferma» a sostegno della dottrina della Chiesa sul matrimonio, il 10 aprile scorso altrettanti, ma a partire dall’altra sponda dell’Oceano, hanno fatto lo stesso, dando corpo però a una serie di suggerimenti che vanno nella direzione opposta a quella auspicata oltre Manica. Il documento diffuso dall’Association of U.S. Catholic priests (Auscp) raccoglie le risposte pervenute da 572 sacerdoti statunitensi (428 membri dell’associazione – che conta nel suo complesso più di mille aderenti – e 144 esterni) cui è stato chiesto, oltre che di rispondere alle 46 domande del questionario, di ordinarle per importanza.

Il primo posto se l’è conquistato la domanda n. 20 – «Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?» – nel rispondere alla quale i preti Usa preannunciano il tenore di tutto il documento: «Non presumendo che chi è nella Chiesa sia nella ragione e chi ne è al di fuori sia nel torto»; «accogliendo anziché rifiutando e discriminando i cattolici divorziati risposati e omosessuali»; «rispettando il primato della coscienza in caso di dilemmi morali», vi si legge tra le altre cose.

Al secondo posto i 572 piazzano la domanda sulla questione ritenuta più delicata, quella relativa alla pastorale rivolta alle famiglie che hanno al loro interno persone con «tendenza omosessuale». Per i preti Usa la comunità cristiana può assolvere a questo compito «offendo una teologia della sessualità nuova e sana»; «apprezzando il valore delle unioni civili gay»; riconsiderando l’idea che il sesso sia legato per forza alla procreazione; trattando gli omosessuali come sorelle e fratelli «con lo stesso desiderio di amore, impegno e cura dei bambini»; «usando una terminologia moderna», per esempio, suggeriscono, utilizzando “orientamento omosessuale” al posto di “tendenze omosessuali”. I sacerdoti sono ancora più netti nel rispondere alla domanda relativa a come «prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo»: «Istituendo un rito specifico per le unioni dello stesso sesso», è uno dei suggerimenti forniti, corredato dall’invito a «mettere in discussione l’assunto per cui Dio desidera solo l’unione uomo-donna» in risposta alla domanda seguente («Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?»). 

Altrettanto nette le risposte relative alla pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati, come lasciava prevedere il primo blocco di risposte: i 572 suggeriscono infatti, tra le altre cose, di riammetterli all’eucarestia, «nutrimento per vivere vite fedeli e di amore da parte di coppie in un nuovo matrimonio».

I preti Usa suggeriscono poi di «prendere coscienza del fatto che il dogma della Chiesa in materia di matrimonio e famiglia è troppo rigido», consigliando addirittura di «imparare dai protestanti che fanno un lavoro migliore nell’applicare i valori scritturistici alla famiglia»; di «favorire un grande coinvolgimento dei laici nella catechesi e nel ministero»; di «assicurarsi che coloro che vengono ordinati capiscano che non per questo sono automaticamente qualificati per l’attività pastorale relativa al matrimonio»; di far comprendere ai ministri che coppie e famiglie in serie difficoltà devono essere affidate a specialisti; di «ordinare uomini sposati al sacerdozio e donne sposate al diaconato: potrebbero meglio esercitare il ministero con le famiglie»; di «non cercare di incasellare relazioni amorose e feconde nel modello dottrinale della Chiesa».

«Dio dalle nostre vite non si aspetta la perfezione», è uno dei commenti raccolti dall’Auscp e proposto in calce al documento insieme ad altri. «Noi viviamo con i nostri punti di forza e di debolezza. Facciamo degli errori. La grazia è la misericordia di Dio che ci circonda, con il perdono e la forza di muoverci in una direzione che ci avvicina a Dio. Dobbiamo incoraggiare questo movimento, piuttosto che punire le persone che non raggiungono la perfezione!». (ingrid colanicchia su Adista)