A. Langer vedeva molto lontano e parlava con rispetto anche dei sinti e dei rom che tutti si sentono in diritto di disprezzare

I sogni senza limiti di Alexander Langer

Alexander Langer. - Giovanni Giovannetti
Alexander Langer

“la convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”

Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita”. (…) “La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.

Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, uno dei suoi testi più profondi e generativi che, fosse per me, lo ripubblicherei di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.

In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le regioni dell’ex Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei a impegnarsi, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita con altri al Verona forum per la pace e la riconciliazione nei territori dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.

Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel 1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica.

Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua prima rivista, Offenes Wort (parola aperta) e, più tardi, Die Brücke (il ponte): un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per tenere su l’arco.

Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita

Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto Adige-Südtirol lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.

Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a “ripristinare, nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.

Quando studiava nella Firenze di La Pira e della comunità del dissenso cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una professoressa, scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani. La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero buffo, al tempo della sua tournée in Germania.

Alex era profondamente convinto che una “storia” unica e condivisa da tutti non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione plurietnica lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.

Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il suo campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa, al di là di ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a fianco di chi era più fragile e vulnerabile.

Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita.

Ascoltate per esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti:

Popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno.

La distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati

Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini” di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual era.

Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i sei miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi privilegi.

Eppure, “perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, spiega Langer in un altro suo scritto, “è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza)”. Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.

Continuare in ciò che è giusto

Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto apprezzato per il suo lavoro nel parlamento europeo, in quel luogo sentiva di essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno, attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.

Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di Berlino.

E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario perché le idee di trasformazioni radicali, sentite come necessarie, avessero il tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.

Quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta

Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta.

Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze.

Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.

Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole: “Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”.

Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica, un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8.372 musulmani di Bosnia commesso dalle truppe di Ratko Mladić.

Vent’anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici, ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’egomania collettiva più diffusa oggi”.

i sogni ‘ad occhi aperti’ di papa Francesco

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“sogno un’Europa in cui essere migrante non sia delitto”

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il discorso di Francesco alla cerimonia di conferimento del premio Carlo Magno: «L’identità europea è sempre stata dinamica e multiculturale»

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di A.Tornielli

«Sogno un’Europa dove essere migrante non sia delitto» e dove sposarsi e avere figli sia «una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile»

Francesco riceve in Vaticano il premio Carlo Magno. Un’eccezione per Bergoglio, che in vita sua ha sempre rifiutato questo tipo di riconoscimenti. Un’eccezione che gli permette di trasformare la circostanza in un’occasione per chiedere «uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente». Alla presenza del cancelliere tedesco Angela Merkel, del presidente del Parlamento Europeo Martin Schultz, del presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, del presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, del re di Spagna Filippo VI, del presidente del Consiglio dei Ministri italiano Matteo Renzi e dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza Federica Mogherini, è stato consegnato al Pontefice il riconoscimento attribuito ogni anno dalla città di Aquisgrana a personalità che si siano contraddistinte per il loro ruolo in favore dei valori europei. La motivazione è legata all’impegno di Francesco nel costruire un’Europa di pace, fondata su valori comuni e aperta ad altri popoli e continenti. Bergoglio ha dedicato «il prestigioso Premio» all’Europa, che, ricorda ha sempre avuto un’identità multiculturale e «la creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti».

La tentazione dell’egoismo

Nel suo ampio discorso, Francesco ricorda i padri fondatori del progetto europeo che dopo la Seconda Guerra mondiale «gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio» costruito da Stati uniti non «per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune». Una «famiglia di popoli» diventata «più ampia», che però «in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai padri». «Siamo tentati – osserva il Pontefice – di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari». È un’Europa «che si va “trincerando”». «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?», domanda Francesco.

Trasfusione di memoria

Il Papa chiede di non dimenticare. Cita lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è di capitale importanza realizzare una «trasfusione di memoria». È ciò che «ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre una rendita politica facile, rapida ed effimera». I padri fondatori dell’Europa, spiega il Papa «osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni».

Ritornare alla solidarietà

cosa ti è successo

Francesco ricorda le parole di Robert Schuman, l’Europa «si farà attraverso realizzazioni concrete». E osserva che «in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale». I progetti dei padri fondatori «ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri» e invitano «a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate». Un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione», come diceva Alcide De Gasperi.

Per l’integrazione

Francesco sottolinea tre caratteristiche dell’Europa: la capacità di integrare, di dialogare e di generare. Le radici dei popoli europei, spiega, «si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale». Per il Papa la politica «sa di avere tra le mani» un compito «fondamentale e non rinviabile», quello di «promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia». Una solidarietà che «non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità» perché tutti «possano sviluppare la loro vita con dignità». Così la comunità dei popoli europei «potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”». Il volto dell’Europa «non si distingue nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure». Francesco cita queste parole di Konrad Adenauer: il futuro dell’Occidente è minacciato «dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io».

La cultura del dialogo

Il Papa invita «a promuovere una cultura del dialogo». Una cultura che «implica un autentico apprendistato» per riconoscere l’altro come «un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato». La pace «sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione». La cultura del dialogo «dovrebbe essere inserita in tutti i curricula scolastici», per «inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose». Per mettere in evidenza che, «dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici» e «difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro».

Capacità di generare

Bisogna offrire ai giovani «una reale partecipazione» nel cambiamento. E come «pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei è in aumento?», si chiede il Papa. La «giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale». Servono «nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale», spiega Francesco, citando «l’economia sociale di mercato». Se vogliamo «un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».

I sogni di Francesco per l’Europa

«Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede – conclude Bergoglio, nato in una famiglia di emigranti italiani – sogno un nuovo umanesimo europeo».

Il Papa sogna «un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo». Un’Europa che «ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto». Un’Europa «in cui essere migrante non sia delitto bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano». Un’Europa «dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo» e «dove sposarsi e avere figli» sia «una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile». Infine, il Papa sogna «un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni». «Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia».
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