il natale è nonostante tutto festa di speranza

 

la speranza del Natale

di Enzo Bianchi

 

Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.

Nel sapiente e poetico testo di Antoine de Saint-Exupéry, la volpe dice al principe: “Ci vogliono i riti, ovvero ciò che rende un giorno diverso da altri giorni, un’ora diversa da altre ore”. Proprio per questo, vicini al Natale, la festa più celebrata nel nostro occidente, nelle notti più lunghe dell’anno noi cerchiamo di rendere luminosi questi giorni con migliaia di luci che dovrebbero creare un’atmosfera “altra”, gioiosa, nelle nostre città e nelle nostre case.
Le luminarie erano già presenti al tempo dei romani, prima che il cristianesimo si impadronisse di questa ricorrenza del “sole invincibile” per farne la memoria della nascita di Gesù, il Salvatore dei
cristiani, confessato come “sole che non tramonta” e “luce del mondo”. Natale è festa della luce che vince le tenebre, simbolo di un evento desiderato da gran parte dell’umanità: accendere molte luci è
affermare che le tenebre non riescono a sopraffare la luce, è invito a fare festa insieme.
Si diceva nei mesi scorsi che quest’anno, a causa della crisi energetica, non ci sarebbero stati i soliti addobbi luminosi nelle città anche come segno di solidarietà con quelli che soffrono il freddo, soprattutto in Ucraina. Ma poi tutto è stato predisposto come gli altri anni forse perché non sappiamo essere conseguenti con le emozioni che proviamo, e forse perché far festa anche nei giorni cattivi ci può aiutare ad aprire l’umile speranza di un orizzonte luminoso.
Questo Natale arriva come un Natale di guerra, nel quale ci sono tutti i segni che la pandemia non è sconfitta, in un’ora di grave crisi politica nel nostro paese per la mancanza di uomini e donne che abbiano senso di responsabilità, siano esperti dell’arte del governare, nutrano una visione sul futuro della nostra società e testimonino un’etica che sia in grado di contrastare ogni forma di corruzione.
In questi giorni non è facile festeggiare, a meno di restare superficiali, non vulnerabili dalle situazioni di sofferenza che sembrano cancellare ogni speranza. Ubriacati dal clima festoso non ci indigniamo più per la guerra in Ucraina, per i migranti che continuano a morire nel Mediterraneo e sulle fredde rotte europee, per l’oppressione delle donne in Iran, per i maltrattamenti subiti dai carcerati nelle nostre prigioni. Come si può celebrare Natale senza essere consapevoli di queste
realtà delle quali in certi casi siamo anche responsabili?
Mi rincuora il fatto che il Natale, per i cristiani, non dovrebbe essere la festa della nascita di Gesù: si festeggia il fatto che lui è il Veniente che viene a portare giustizia, liberazione, pace per tutte le vittime della storia, per tutti quelli che desiderano, invocano, attendono un cambiamento ! Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.




i ‘due esodi’ alleati in fuga da due ‘sud’ creati dalle nostre ingiustizie – il popolo della speranza

la dura omelia del vescovo di Palermo sull’«alleanza dei due esodi» 

in “il manifesto” del 16 luglio 2017

dura e coraggiosa omelia del vescovo di Palermo Corrado Lorefice durante la messa per la patrona della città, santa Rosalia, su migranti e migrazioni

“abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno”

«Le pesti, le grandi, dilaganti emergenze siciliane del nostro tempo si presentano stasera davanti ai nostri occhi. La prima, la più importante credo, è il rischio diffuso della mancanza di futuro. Rischiamo di essere una Città e una Regione senza futuro, il futuro – ricordiamolo – di una storia gloriosa, perché la mancanza endemica di lavoro rischia non solo di gettare in una crisi irreversibile la nostra economia, ma soprattutto rischia di sottrarre la speranza di un domani ai nostri giovani». «L’esodo dalla Sicilia sta diventando una necessità storica terribile, che priva la terra del suo nutrimento decisivo. E ad alimentare un territorio, una Città, sono i desideri, i progetti, la voglia di fare, le idee e le aspirazioni delle giovani generazioni che si avvicendano nel corso dei decenni e dei secoli. Senza la linfa ideale e rinnovata di questo ardore, senza il sapore di questo sogno, non c’è domani – dice il vescovo – Ma senza lavoro vero, dignitoso, costruttivo, teso a cambiare il mondo, non c’è domani».

E ancora:

«Mentre si compie quest’esodo doloroso, Palermo e la Sicilia tutta sono il porto ideale di un altro esodo, di dimensioni planetarie, quello dei popoli del Sud del pianeta – dei nostri fratelli africani e del Medio Oriente – che giungono in Europa in cerca di rifugio e di opportunità di vita – prosegue – Non dobbiamo nasconderci però dietro i luoghi comuni o le visioni distorte di molta politica. La molla ultima di questo esodo biblico, al di là di ogni consapevolezza di chi parte, è il desiderio di giustizia. Perché abbiamo costruito e stiamo costruendo un mondo senza giustizia, dove in maniera insopportabile i poveri impoveriscono e aumentano, mentre i ricchi si arricchiscono e sono sempre di meno. Un mondo in cui il Nord – gli Stati Uniti, l’Europa -, tutti i cosiddetti paesi sviluppati, possono sfruttare e depredare le ricchezze dei popoli del Sud – dell’Africa, dell’Asia – senza alcuno scrupolo e senza alcun ritegno. È da questo squilibrio che affama miliardi di persone, da questo ordine politico che accetta e fomenta la guerra e quindi la fuga disperata dei civili, è da questo modo di ordinare (o di disordinare) il mondo che viene l’esodo disperato di milioni di persone che in definitiva vengono a chiederci giustizia e diritti. E Palermo e la Sicilia rappresentano la meta privilegiata di questi viaggi, il porto ideale dell’Occidente».

Poi:

frei Betto: vivere la speranza come atteggiamento critico

In forza della speranza

frei Betto

                     

In forza della speranza (Frei Betto)
fa sempre bene e riempie il cuore di speranza rinnovata rileggere (anche se un po’ datate) pagine come queste di frei Betto, da noi sconosciuto ma notissimo invece nell’America latina che nei decenni passati ha vissuto la ‘fatica spirituale’ – nel contesto della ‘teologia della liberazione’ – di coniugare la propria fede cristiana coll’impegno liberante in regimi politici di violenza strutturale: anche la virtù della speranza ha vissuto questo approfondimento e riscatto verso ogni possibile ‘spiritualizzazione’ e idealizzante onirica fuga dalla realtà:
“con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere”
“un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione” :
 

Un cristiano vive questa virtù come atteggiamento critico. Nessuna realizzazione umana lo può soddisfare pienamente e tenderà sempre verso qualcosa d’altro, da conquistare e da ricevere in dono.

  

La speranza, una delle tre virtù teologali, ha molto in comune con la fede. In brasiliano le due parole fanno rima (esperança = confiança); in altre lingue hanno stretti legami di parentela. Si spera ciò in cui si crede e si crede in ciò che si spera.

Per Gesù, la speranza è un atteggiamento virtuoso da giocarsi “qui” e “ora”, nel contesto del Regno di Dio che avanza come anticipazione della pienezza della storia, non in un “altrove” e “domani”, come vorrebbero coloro che negano o rifiutano la realtà di questo mondo.

Oggi l’espressione “Regno di Dio” ha una connotazione vaga, quasi metaforica. Ben diversa l’eco che queste parole dovettero avere al tempo dell’impero romano. Annunciare un regno che non fosse di Cesare aveva gravi ricadute anche politiche. Per questo Gesù fu messo a morte.

Oggi “speranza” ha una connotazione molto laica, al punto da preferirle la parola “utopia”. Con la desacralizzazione del mondo e la morte degli dèi (frutti del Rinascimento), si è fatta impellente la necessità di ipotizzare un mondo futuro. Con il progredire della modernità e nella misura in cui l’essere umano si è sentito padrone della tecnica e della scienza, si è imposta l’idea che si possa non solo migliorare la convivenza sociale, ma anche prefigurare un modello ideale di vita verso cui tendere. L’uomo moderno si concepisce come uno scultore che, davanti a un pezzo di marmo grezzo, ha già in mente il capolavoro che vuole creare e ha fiducia di poterlo realizzare. Nella sua opera monumentale, Il principio speranza, il filosofo marxista Ernest Bloch scrive che «la speranza è sostegno indispensabile della ragione umana».

Il marxismo è stata la prima grande religione laica in grado di tradurre la speranza in un ideale sociale. Grazie a questa visione del mondo, è entrata nella cultura occidentale la percezione del tempo come processo storico: l’uomo prefigura la propria esistenza come un divenire e una continua lotta contro ogni ostacolo che impedisce la realizzazione di ciò che spera di realizzare.

Per il cristiano, la speranza del Regno supera ogni altra utopia laica (sia essa politica, tecnologica o scientifica). Tale speranza porta il credente a credere che le promesse di Dio si realizzeranno in questo mondo (hic et nunc), fino a trasfigurare radicalmente tutta la realtà. Forte di queste promesse, magnificamente espresse nella Sacra Scrittura, il cristiano mantiene una costante posizione critica nei confronti di ogni loro parziale attuazione: non esiste un modello di sviluppo umano che lo possa accontentare del tutto.

La nuova persona e il nuovo modello di mondo “sperati” dal cristiano sono, al contempo, frutto dello sforzo umano e dono di Dio: sforzo che non termina mai e dono che non cessa di sorprendere. Esiste sempre un domani migliore dell’oggi. Chi spera in Cristo non assolutizzerà mai una data situazione acquisita o un modello da conseguire: ogni progresso fatto è relativo e, quindi, suscettibile di ulteriore perfezionamento. Il divenire (questo svolgersi della salvezza che Dio dona e che l’uomo realizza dentro la Storia) avrà fine soltanto quando l’universo tornerà nelle mani del suo Creatore.

La speranza ha bisogno della memoria. Chi spera, ricorda e commemora. Yahvé non è uno dei tanti dèi dell’Olimpo. È un Dio che ha una storia e che ricorda: egli è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Anche noi, che speriamo nella realizzazione del Regno, ricordiamo le grandi opere da lui compiute. Questa memoria alimenta la coscienza critica, cioè la consapevolezza della disparità tra l’oggi raggiunto e il domani da ricevere in dono e da costruire, della inadeguatezza del “già” e dell’infinitezza del “non ancora”.

Un’utopia che si radica nelle promesse di Dio non teme le negatività, le ombre e i fallimenti. Sa di essere una speranza “crocifissa”, ma non sconfitta, perché aperta alla prospettiva della risurrezione. Dice bene san Paolo: «Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Romani 8,24-25). Anche la Lettera agli Ebrei ci ricorda che «la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). Charles Péguy, scrittore, poeta e politico francese, scriveva: «La Fede vede ciò che è. / Nel Tempo e nell’Eternità. / La Speranza vede ciò che sarà. / Nel Tempo e per l’Eternità».

Sperare è camminare nella fede verso ciò che si spera e si crede. La fede ci dà la certezza che Gesù ha vinto la morte e la speranza ci dona la forza di superare ogni segno di morte (ingiustizie, oppressioni, preconcetti…). Il nostro cammino è punteggiato di dubbi e di sofferenze, di conquiste e di gioie. È vero che siamo prigionieri della finitezza. Ma fede e speranza riempiono il nostro cuore di infinito. E se camminiamo lungo i sentieri dell’amore, sappiamo di avere Dio come guida.

Frei Betto

(da Nigrizia, maggio 2009)




coraggio, si può!

amate la vita xché è bellaUn uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà della vita e se ne lamentò con un famoso maestro di spirito