‘oltre il campo’ per i rom ei sinti? un convegno della ‘migrantes’

Rom e Sinti

percorsi di inclusione, per andare “oltre il campo”

il convegno organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio, con la diocesi di Roma

il vescovo Ambarus: «È fondamentale la comunità»

la testimonianza di Hanifa e Marijo. Loukarelis (Unar): «Non si può lasciare nessuno indietro. Ne va della qualità della democrazia»

Passare da un campo rom a un appartamento è possibile. Desiderare un futuro diverso per i propri figli, permettere loro di vivere in modo decoroso in un luogo dove ci sono l’acqua e la corrente elettrica non è un’utopia. Sognare di avere un lavoro non è un’illusione. Lo hanno testimoniato Hanifa e Marijo che ieri sera, 13 settembre, hanno preso la parola durante il convegno “Oltre il campo. Superare i campi rom in Italia: dalle sperimentazioni di ieri alle certezze di oggi”, organizzato da Fondazione Migrantes e Associazione 21 luglio in collaborazione con la diocesi di Roma. Un incontro che non ha messo in luce la vita nei campi «in maniera pietistica ma ha mantenuto lo sguardo sulla dignità delle persone, che va salvaguardata aiutando i rom a non sentirsi schiacciati», ha affermato il vescovo Benoni Ambarus, ausiliare della diocesi di Roma che ha anche la delega alla pastorale dei Rom e Sinti.

Marijo si trasferì con la famiglia in un insediamento abusivo a Tor di Valle quando aveva 4 anni. Hanifa ha abitato in un campo per dieci anni. «Vivere in un campo rom è un disastro – ha detto -. Non hai pace ma solo immondizia ovunque». Entrambi da poco più di un anno si sono trasferiti in appartamenti con le rispettive famiglie. Hanifa sogna di lavorare per i diritti umani, Marijo di aprire un salone di parrucchiere per garantire un futuro ai figli e ad altri rom. Vive a Torre Gaia dove è stato «accolto bene», i figli vanno a scuola e hanno fatto nuove amicizie. Sul concetto di accoglienza si è soffermato monsignor Ambarus che tirando le fila del convegno ha spiegato che «non basta una casa, non c’è bisogno di un approccio puramente economico che porta a chiudere un campo perché si spende meno e il criterio non deve essere solo la sicurezza. È fondamentale la comunità, termine abusato ma che si fatica a vivere. Comunità significa essere consapevoli che tutti sono esseri umani». A tal proposito ha ricordato che come diocesi di Roma l’auspicio è quello di «vivere il superamento di campi rom facilitando la creazione di legami di comunità tra parrocchie, associazionismo, istituzioni e tutte le realtà di un determinato territorio. Una sfida che non si può declinare solo a parole».

Anche don Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, ha rimarcato che come Chiesa si deve rivendicare «la difesa della dignità di ogni essere umano in un momento in cui purtroppo alcuni, con sfrontatezza, ritengono che ci siano essere umani di serie A ed esseri umani che sono inferiori. Persone a cui spetta tutto, anche il superfluo, e altre per cui non c’è neanche l’indispensabile. La casa non è qualcosa di superfluo ma di essenziale».

Durante il convegno è stata illustrata una ricerca dell’Associazione 21 luglio pubblicata da Fondazione Migrantes che traccia un’analisi comparativa degli interventi messi in atto in dieci città italiane, con esempi virtuosi di comuni come Moncalieri, Palermo e Sesto Fiorentino, dove i campi rom sono stati chiusi favorendo percorsi di inclusione. La ricerca, per Triantafillos Loukarelis, direttore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) presso la presidenza del Consiglio dei ministri, «indica una possibilità e un nuovo trend da parte delle amministrazioni locali, che hanno compreso finalmente che non si può lasciare nessuno indietro perché ne va della qualità della democrazia. È la dimostrazione che l’esclusione delle persone non ha nessun senso logico se non quella di una visione distorta della società».

Illustrando le linee guida per superare i campi rom e costruire percorsi di inclusione, che a Roma riguardano 400 persone, Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, ha spiegato che tra le azioni da compiere una volta individuati gli interventi e definite le risorse è imperativo che si prendano in carico tutte le famiglie dell’insediamento. «Non si tratta di una sola questione etica – ha detto – è anche e soprattutto un parametro di efficacia. È fondamentale prevedere interventi di inclusione condivisi e negoziati con ogni singola famiglia».

superare i ‘campi-ghetto’ per i rom: ma come nel rispetto delle singole persone?

 rom

torna la stagione dei campi-ghetto

anzi, non si è mai fermata

 
Rom, torna la stagione dei campi-ghetto. Anzi, non si è mai fermata
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presidente Associazione 21 luglio
Il ritorno alla triste stagione dei campi rom è dietro l’angolo e diverse amministrazioni – le stesse che in campagna elettorale sulla questione avevano promesso una discontinuità con il passato – stanno cedendo alla tentazione di continuare a investire sui ghetti etnici.Secondo una mappatura che prossimamente verrà resa pubblica da Associazione 21 luglio, sono 149 in Italia, gli insediamenti per soli rom progettati, realizzati e gestiti dalle amministrazioni locali. Espressione architettonica di una politica fondata sulla discriminazione e sul disprezzo, rappresentano, per numero e diffusione, la stortura di un Paese definito, a partire dal 2000, “Campland”, il Paese dei campi. Sono dappertutto, da Nord a Sud e al loro interno sono concentrati cittadini italiani e stranieri, extracomunitari e rumeni, tutti accomunati dalla stessa origine rom.   

L’Europa dei diritti umani li ha chiamati “spazi di segregazione istituzionale”; noi preferiamo forme più colorite e bizzarre: “villaggi attrezzati”, “campi sosta”, “villaggi della solidarietà”, “aree sosta”, “campeggi”. Termini bucolici che addolciscono immagini di vite alienate di generazioni che hanno visto le loro esistenze consumarsi dentro non-luoghi. Buchi neri senza fondo che per anni hanno incanalano risorse pubbliche fuori controllo, frequentati da quanti hanno barattato illeciti guadagni con la violazione dei diritti umani.

La loro massima diffusione è avvenuta nel periodo della cosiddetta “Emergenza nomadi” quando, nel 2008, il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni paragonò la presenza di 12.000 rom in 5 regioni italiane a una catastrofe naturale e 100 milioni furono destinati a costruire nuovi ghetti dove concentrare esseri umani in nome della sicurezza nazionale. Quel triennium horribile finì sotto la scure della Consiglio di Stato che ne decretò l’illegittimità. L’Italia doveva uscire da quella vergogna e nel 2012, presentando la Strategia nazionale per l’inclusione dei Rom, si impegnò davanti all’Europa a raggiungere entro il 2020 il definitivo “superamento dei mega insediamenti monoetnici”. Ma da quel giorno si è assistito, in 22 Comuni italiani, alla costruzione di nuovi campi per una spesa complessiva di quasi 32 milioni di euro: circa 30.000 euro per ogni famiglia interessata. Invano l’Onu anche lo scorso anno, ha esplicitamente richiamato l’Italia, intimando la “cessazione di qualsiasi piano volto a predisporre nuovi campi segregati che separino i rom dal resto della società”.  

La Capitale, con i suoi sette “villaggi” e undici “campi tollerati” detiene il triste primato di città con il più alto numero di insediamenti. Nessuna giunta si è sottratta a mantenere in vita il perverso sistema. E’ dei giorni scorsi la notizia che l’amministrazione pentastellata realizzerà un nuovo insediamento per soli rom nel XV Municipio: un milione e mezzo di euro di soldi pubblici per discriminare. Perché questo sono i “villaggi romani”: luoghi di discriminazione istituzionale. Non lo dichiarano le associazioni per i diritti umani ma lo ha sentenziato un giudice del Tribunale Civile nel 2015. Anche il Comune di Napoli non è da meno e tra poche settimane inaugurerà l’insediamento in via del Riposo realizzato con una spesa superiore al mezzo milione di euro.

Nell’ultimo mese ho incontrato gli assessori alle politiche sociali delle due metropoli. “Non si tratta di nuovi campi – hanno tenuto a precisare all’unisono – perché la loro apertura comporterà la chiusura di altri. E poi, si tratta di campi provvisori fatti per evitare di buttare famiglie per strada”. Considerazione banale e ingenua perché dimentica del fatto che è sempre stato così: è la storia di un nomadismo forzato da un campo all’altro. Prima lo si faceva in nome della sicurezza, oggi si ha l’ipocrisia di invocare i diritti delle persone. E’ in fondo questa la discontinuità di amministrazioni governate da movimenti e liste civiche dalle quali ci si aspettava ben altro. Non è un caso che altre città, come Torino e Cagliari, anch’esse governate da forze politiche di rottura rispetto al passato, stiano seriamente prendendo in esame l’opzione di ripartire da nuovi campi per soli rom.

E’ questa l’altra faccia di un razzismo di Stato con cui dobbiamo abituarci a fare i conti. Non quello prevedibile che invoca sgomberi e promette ruspe, ma quello strisciante che costruisce gabbie per senso di bontà e solidarietà, che promette che sarà l’ultima volta perché i rom vanno inclusi ma gradualmente e senza fretta, perché “noi mica siamo come gli altri”. Di questo, purtroppo, ce ne siamo accorti.

il presidente dell’ ‘Associazione 21 luglio’ scrive al nuovo sindaco di Roma

Rom e Roma

 si cominci chiedendo «scusa»

di Carlo Stasolla*

«Gentile sindaca, come presidente di un’organizzazione che si occupa della tutela e della promozione dei diritti delle comunità rom e sinti in Italia le formulo i migliori auguri di buon lavoro. Un lavoro che non sarà facile, ma sicuramente affascinante per le sfide che lei sarà chiamata ad affrontare e per le tante domande che oggi, nella città di Roma, attendono risposte.

Era il maggio 2014 quando, presso la Sala del Campidoglio, fotografammo, con il rapporto ‘Campi Nomadi Spa’, quel «sistema campi» che nella città di Roma, da almeno due decenni, da una parte condanna le comunità rom in emergenza abitativa a vivere concentrate in ghetti etnici dove i diritti sono violati, dall’altra prevede l’erogazione di un flusso incontrollato di denaro pubblico che non raggiunge alcun risultato in termini di inclusione sociale. Fummo i primi a denunciare, nel solo 2013, la spesa di 22 milioni e mezzo di euro per mantenere il «sistema campi» attraverso affidamenti diretti a beneficio di vari enti, organizzazioni o uffici dipartimentali.

Oggi, a distanza di due anni, lo scenario è totalmente cambiato, in seguito al terremoto giudiziario che sta travolgendo più di cinquanta tra dirigenti e funzionari pubblici, cooperative e associazioni, sedicenti ‘rappresentanti rom’ e vigili urbani. Dalle inchieste degli inquirenti il quadro che attualmente emerge è desolante: i rappresentanti di 16 dei 31 enti che nel 2013 ruotavano attorno al «sistema campi» oggi sono agli arresti o sotto indagine e il 70% delle risorse destinate agli insediamenti per soli rom è stato per anni gestito da loro. La verità di Buzzi: «Gli zingari rendono più della droga!» sembrerebbe la stessa delle decine di persone che, utilizzando denaro pubblico hanno sino a oggi lucrato sulla pelle dei più deboli permettendo che migliaia di persone continuassero a vivere nel degrado, nella povertà, nell’emarginazione, indistintamente additati come asociali o criminali.

L’inganno è stato svelato e ora che è stata fatta tabula rasa è il momento propizio per iniziare un nuovo corso che ci auguriamo lei sappia incoraggiare, sostenere, portare a compimento. Una strada verso il superamento delle baraccopoli romane attraverso processi inclusivi, così come indicato dalle linee guida contenute nell’agenda ‘Oltre le baraccopoli’ che Le abbiamo presentato nel corso della campagna elettorale. Ma ancor prima di avviare un intervento in tal senso, riteniamo sia di fondamentale importanza da parte sua pronunciare una parola che aiuterebbe veramente a voltare pagina, una parola che sinora nessun amministratore ha avuto il coraggio di dichiarare pubblicamente: la parola ‘scusa’.

È fondamentale che la nuova Amministrazione da lei presieduta, possa e sappia riaprire il nuovo corso iniziando a chiedere ‘scusa’ per quanto compiuto dagli amministratori che l’hanno preceduta e per il «sistema campi» che con le loro scelte hanno fatto nascere e consolidato: scusarsi con quelle famiglie rom, discriminate e indigenti, che per anni sono state le ‘galline dalle uova d’oro’ utili per generare profitti illeciti; con quei cittadini e i Comitati di quartiere che hanno subìto la presenza di insediamenti abbandonati a se stessi, ormai vere e proprie baraccopoli; con quei dipendenti del Comune di Roma e quei lavoratori del sociale che hanno sempre operato onestamente, con passione e professionalità sulla ‘questione rom’ e che rischiano di vedere il loro lavoro gravemente compromesso dall’attività di colleghi senza scrupoli.

Chiedere ‘Scusa’ significa per un amministratore esprimere con fermezza la volontà che gli errori commessi nel passato non si ripetano, attraverso un nuovo rapporto di fiducia, fondato sull’onestà, la trasparenza e il rispetto dei diritti di tutti, che si potrà creare tra abitanti delle baraccopoli, cittadini delle periferie e istituzioni. Scusarsi è l’atteggiamento proprio degli umili e dei forti. E noi riteniamo che solo chi saprà essere umile e forte nell’amministrare questa bellissima città, potrà dare una risposta soddisfacente anche alle baraccopoli presenti nella città di Roma e a quanti le abitano, che potranno forse tornare a sognare in una città che li tratti diversamente, senza discriminazione. Auguri di buon lavoro».

*Presidente Associazione 21 luglio Onlus

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il rifiuto del rom impoverisce la nostra umanità

Rom

le nevrosi occidentali e il fantasma che iberna la nostra tolleranza

 
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Presidente Associazione 21 luglio

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Molti parlano di “rom”, “zingari”, “nomadi” senza avere mai incrociato lo sguardo di essi o aver scambiato una parola amichevole. Il moto del cervello va per inerzia e luoghi comuni, infarciti di pregiudizi anche assurdi e inverosimili, diventano il riferimento della nostra verità conosciuta. Ma quante sono le menti umane, si chiedeva Primo Levi, capaci di resistere alla penetrazione dei luoghi comuni?

Non sembra essere passata molta acqua sotto i ponti dal 2007, quando furono resi pubblici i risultati di uno studio commissionato dal ministero dell’Interno nel quale emergeva che in Italia l’immagine dei rom e sinti è segnata dalla non conoscenza. Il 56% degli intervistati dichiarava di non avere la minima idea di quanti siano i rom residenti in Italia; l’84% riteneva che questi gruppi siano prevalentemente nomadi; soltanto il 24% del campione manifestava di sapere che circa la metà dei rom è di cittadinanza italiana. Il giudizio, complessivamente negativo, si è cristallizzato sino ad oggi in una certezza: “Sono il popolo meno gradito agli italiani”. Ieri come oggi il quadro sembra sconfortante: un misero 0,1% del campione preso in esame dallo studio del 2007 dimostrava una conoscenza completa di rom e sinti.

Giudichiamo senza conoscere, senza aver fatto alcuna esperienza concreta e diretta preferendo il passaparola e il tam tam ripetuto sui social. In Italia i rom rappresentano solo lo 0,23% della popolazione e sono sparsi sul territorio nazionale in maniera disordinata. Eppure essi occupano un posto preciso nella nostra geografia mentale.

Dietro alla parola rom non c’è un volto umano. C’è piuttosto il ladro, il bugiardo, il truffatore, lo storpio della pre-modernità. C’è il fantasma di una rappresentazione collettiva ferita da ossessioni che spunta fuori all’occorrenza, che ci fa sprofondare nei bassifondi delle storia per poi riemergere con le ataviche paure infantili. La definizione del termine “rom” appare una costruzione artificiale che gerarchizza scale di una umanità inferiore.

I rom, allora, più che una categoria umana rappresentano una categoria mentale, un arcaico fantasma che sopravvive al nostro interno e che iberna la nostra tolleranza. La categoria “rom” sfuma mano a mano che ci si allontana dallo “zingaro brutto, sporco e cattivo” e il “campo nomadi” è il luogo in cui è forgiata in maniera esemplare.

Il mito della “zingara rapitrice dei bambini” è il più antico e consolidato. Ciclicamente riaffiora dal nulla e nel nulla scompare. Nel Medioevo si credeva che gli ebrei rapissero i bambini cristiani per ucciderli e bere il loro sangue. Anche i vagabondi erano visti come i rapitori dei bambini che utilizzavano per la questua. La convinzione che le vite dei nostri figli siano messe a rischio da donne rom di passaggio è invece successiva e permane nel pensiero comune malgrado l’evidenza di studi scientifici smentisca l’accusa. Il più recente lavoro ha per titolo “La zingara rapitrice” e rivela come, malgrado le convinzioni comuni, nel ventennio che inizia nel 1986 e termina nel 2007, nei diversi casi di cronaca analizzati, in nessuno di essi si è verificata in Italia da parte di una donna rom una reale sottrazione di un minore.

C’è allora qualcosa di irrisolto nel nostro inconscio collettivo occidentale che sembra trovare forma in un’umanità nella quale non ci riconosciamo e sulla quale proiettiamo fobie e nevrosi. Abbiamo dunque bisogno della categoria mentale dei “rom” come valvola di sfogo per le frustrazioni che ci attanagliano così come il popolo d’Israele utilizzava il “capro espiatorio” da consegnare alla morte dopo averlo caricato del peccato collettivo.

La parola “rom” è qualcosa che trascende persone in carne e ossa. Essa è vicina a noi, è parte di noi, è dentro di noi. “Rom” vuol dire “uomo” e nel rifiutare questa categoria rigettiamo inconsciamente un frammento dell’umanità che ci appartiene. Finiamo così per ritrovarci come un’umanità “parziale” – avrebbe ripetuto Ernesto Balducci – che va completata e ricomposta con l’umanità delle alterità. La nostra umanità ha un volto policromo e se non ci riconciliamo con noi stessi i fantasmi continueranno ad abitare i nostri incubi. E le nostre nevrosi sopravvivranno a noi stessi rappresentando l’eredità che consegneremo alle generazioni che ci seguiranno.

i centomila nomi di un campo nomadi

‘campo nomadi’

i 25 nomi di una realtà innominabile

 di
Presidente Associazione 21 luglio
Campo Nomadi

Secondo il Corano è impossibile arrivare a una definizione di Dio che lo contenga nella sua essenza. Ciò che resta è cercare una parola, necessariamente incompleta, che ne indichi una parte e che ne mostri un riflesso della realtà. I 99 nomi di Allah rappresentano quindi il tentativo umano, limitato e parziale, di codificare una realtà divina nella sua pienezza.

Nella nostra esperienza quotidiana sono molteplici le realtà, divine e umane, che rientrano nella categoria dell’indefinibile. Tra queste troviamo quella discussa e contrastata del “campo nomadi”, che nominiamo in maniera diversa a seconda dell’aspetto che di esso vogliamo sottolineare. Il “campo nomadi” è all’interno della visione simbolica del margine, esiste perché esiste un confine, fisico e mentale, che lo circoscrive, rappresentando uno strappo invisibile del tessuto urbano, una ferita aperta nella periferia delle nostre città. Giuridicamente è una zona grigia, un’enclave del non diritto dentro un quadro giuridico nel quale emerge come un buco nero. E’ progettato e gestito in nome della legalità, ma dalla legalità si allontana per i diritti che al suo interno vengono violati; è transitorio, ma poi si trasforma in permanente; è un camping attrezzato, dove però mancano i servizi essenziali; è un’area per concentrare gli “zingari”, ma poi al suo interno scopriamo esserci cittadini italiani.

Per tale ragione sono molti e inutili i tentativi degli amministratori di inchiodarlo ad una parola istituzionalmente riconosciuta adeguata. Ne ho individuate almeno venticinque; venticinque modalità con cui, da nord a sud, gli amministratori locali hanno cercato di dare nome a qualcosa di istituzionalmente sfuggente.

Il “campo nomadi” di Collegno, Vicenza e Barletta, altro non è che il “campo nomadi di sosta prolungata” di Tortona. A Cosenza l’insediamento sgomberato a Vagli Lise è stato nominato per anni dagli amministratori con un nome politicamente corretto: “campo rom”. Al di là della tipologia molte amministrazioni hanno ancorato il “campo” alla romantica visione del viaggio. Sul territorio comunale di Arezzo insiste un “campo di transito per popolazioni nomadi”, che a Torino diventa “area sosta per nomadi” e nella Provincia Autonoma di Bolzano “villaggio per nomadi”. Il medesimo luogo viene chiamato a Castelfranco “micro-area sosta provvisoria per nomadi”, a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, “area destinata alla popolazione nomade”, “area sosta per comunità di nomadi” a San Lazzaro di Savena e, a Verona, “area sosta attrezzata per nomadi/sinti”.

Alcuni Comuni hanno preferito sostituire il termine “campo” con quello più ibrido di “area” e quindi i rom della Bologna vivono in “microaree”. A Seriate una famiglia rom vive in una “microarea permanente” ideata da una giunta di centro-destra che per quella di centro-sinistra di Modena diventa più semplicemente “area sosta”, “area di transito” in alcuni Comuni dell’Emilia Romagna, per trasformarsi in “area di transito attrezzata per la sosta temporanea” nella maggioranza dei comuni padani.

Le macro definizioni restano quelle di “campo” – che a Roma può essere “tollerato” o “non attrezzato”, “consolidato” a Milano” e di “sosta” a Lecce – o di “villaggio”. Questo termine, particolarmente bucolico è diffuso a macchia di leopardo sul territorio italiano. Nelle delibere romane si parla di “villaggio della solidarietà” (con giunte di sinistra) o di “villaggio attrezzato (con giunte di destra) mentre a Torino, quando si costruì l’insediamento di via Germagnano nel 2004 il Comune parlò ambiziosamente di “villaggio residenziale”.

La fantasia degli amministratori trentini è ferma a “villaggio sinti e rom” mentre in Toscana, dove ci si batte il superamento, si è arrivati alla presenza di “micro villaggi”. A Nicastro, in Calabria, c’è un insediamento riservato a cittadini rom italiani presenti in Italia di cinque secoli. Sembra comprensibile che per loro il Comune abbia auto la lungimiranza di costruire un “villaggio di prefabbricati”!

Dietro questi venticinque nomi, tuttavia, si nasconde un’unica realtà. Quella del ghetto etnico racchiuso all’interno di una recinzione metallica che marca il confine visibile tra chi abita l’insediamento e chi vive al di fuori. Quella di una vergogna che è tutta italiana e che non troviamo neanche il coraggio di chiamare per quello che è.

“sulla pelle dei rom”

le ‘emergenze rom’ che i rom pagano ‘sulla propria pelle’


negli ultimi anni la “questione Rom” è stata agitata con particolare cinismo per raccogliere un facile consenso elettorale. Nel libro “Sulla pelle dei rom” di Carlo Stasolla un’approfondita analisi delle politiche promosse da amministrazioni di ogni colore, culminate in un colossale fallimento sociale ed economico.

di Ulderico Daniele

Al di là di qualsiasi valutazione politica o morale, e a prescindere, se mai possibile, dalla spessissima coltre di pregiudizi che ricopre la “questione zingari”, il libro che Carlo Stasolla ha pubblicato per i tipi di Alegre ha un pregio fondamentale: il volume descrive con dovizia di particolari gli interventi realizzati a Roma verso i “nomadi” negli ultimi quattro anni, rivelando, grazie ad un prezioso lavoro di indagine e di documentazione, gli ingenti stanziamenti economici e raccontando al lettore le conseguenze delle rituali emergenze che i rom pagano “sulla pelle”.

Se confrontato al quadro spesso deprimente dell’informazione nel nostro paese e alla difficoltà che la ricerca scientifica ha di essere riconosciuta come strumento utile all’elaborazione delle politiche, il volume merita una ampia visibilità e una attenzione non superficiale da parte della classe politica, chiamata a non commettere gli stessi drammatici errori del passato, e da parte degli elettori, che potranno quantificare i costi, economici e sociali, che la comunità paga quando cede alle ossessioni della sicurezza e del controllo.

Questa operazione culturale e politica, frutto del lungo lavoro di indagine che Stasolla e i suoi collaboratori dell’Associazione 21 luglio portano avanti da diversi anni, risulta ancora più meritoria perché permette di vedere sotto una luce diversa un tema come quello di “zingari” e “nomadi” che storicamente, come segnalato nell’introduzione dall’antropologo Leonardo Piasere, ha funzionato da terreno di esercizio delle peggiori forme di razzismo e che negli ultimi anni è stato innalzato, come racconta l’autore, a strumento elettivo per raccogliere un facile consenso elettorale.

Il tema principale di interesse è il Piano Nomadi della giunta Alemanno, elaborato e realizzato all’interno dello Stato d’Emergenza dichiarato dal governo Berlusconi e recentemente difeso anche dal governo tecnico di Monti & Riccardi. Di questo “rivoluzionario” piano di interventi, presentato dall’allora ministro Maroni come una “buona pratica a livello europeo”, l’autore rintraccia le origini in quella lunga “notte della ragione” che a cavallo fra 2007 e 2008 ha preparato le elezioni politiche e amministrative a suon di episodi di cronaca nera che vedevano sempre i rom come colpevoli di atti efferati e disumani: dal tentato rapimento di un bambino a Ponticelli, rivelatosi in seguito come un affaire molto più complesso che nascondeva interessi camorristici e piani di riqualificazione, all’omicidio della signora Reggiani a Roma.

A questi eventi sono immancabilmente seguiti incredibili episodi di razzismo popolare, la cacciata dei rom di Ponticelli e l’incendio dei campi festeggiato da schiere di cittadini, ma anche iniziative politiche di stampo sempre più repressivo: l’emanazione da parte del governo Prodi del decreto n.181 fortemente voluto dall’allora sindaco Veltroni che limitava il diritto al libero movimento dei cittadini rumeni e ne facilitava l’espulsione, e poi la dichiarazione dello Stato d’Emergenza da parte del neoeletto governo Berlusconi, a cui sono seguiti i famigerati censimenti dei rom e, a Roma, il Piano Nomadi di Alemanno.

A quattro anni dall’emanazione di questo Piano, il bilancio che il volume di Stasolla presenta appare drammatico, soprattutto in tempi di spending review: 60 milioni di euro investiti per poco meno di 8000 rom residenti in città; quattro vecchi campi-nomadi chiusi, al costo dell’aumento dei residenti in alcuni grandi insediamenti che hanno già attirato le attenzioni e le denunce di numerosi organismi e istituzioni internazionali perché collocati al di fuori del perimetro urbano ed in pessime condizioni igieniche; un nuovo mega campo costruito ancora fuori città, per una spesa di soli 10 milioni di euro; centinaia di operazioni di sgombero degli insediamenti informali, quelli dove hanno perso la vita 5 bambini negli ultimi tre anni, che, al costo di diverse centinaia di migliaia di euro per il contribuente, hanno portato semplicemente alla ulteriore moltiplicazione degli insediamenti; infine, nessun visibile miglioramento né sul piano della legalità e della sicurezza per la cittadinanza, né, se a qualcuno interessa davvero, sul piano dell’integrazione dei rom.

Ma accanto a questo importantissimo lavoro di indagine, che dovrebbe far riflettere sui costi e sulle conseguenze delle politiche elettoralistiche basate sulla sicurezza, il lavoro di Carlo Stasolla ha anche un altro merito fondamentale. Il testo mostra che la politica di allontanamento dei rom dalla città, la loro separazione e il loro concentramento nei “campi nomadi” rappresenta un elemento di forte continuità che lega senza differenze rilevanti gli interventi promossi da Alemmano a quelli dei suoi predecessori sullo scranno capitolino: i “buonisti” Veltroni e Rutelli, anche loro autori di piani risolutivi per “il problema nomadi”.

Il libro di Stasolla mostra come le ormai decennali politiche di espulsione e di concentramento dei rom nei campi-nomadi, mentre da un lato aggravano la condizione di segregazione dei rom ostacolando i percorsi di inclusione sociale, hanno creato, dall’altro lato, un sistema largo di interessi che si nutre delle risorse pubbliche investite e sopravvive nell’opacità grazie alle proroghe e alle procedure d’emergenza. Le transizioni per l’acquisto o l’affitto delle aree su cui vengono costruiti i campi-nomadi, l’acquisto e la manutenzione di container da 30 mq. dove vivono famiglie di 8 persone, l’acquisto della strumentazione per la videosorveglianza, i servizi di guardiania e di vigilanza e infine i progetti sociali che, anche questi a prescindere dalle diverse amministrazioni, si ripetono uguali a se stessi nei campi-nomadi, sono le principali voci di spesa di un modello di interventi che porta a spendere circa 250 euro al mese per ciascun individuo, senza alcuna valutazione dei risultati effettivamente raggiunti.

Di questo sistema che, come racconta l’autore, ha un fatturato paragonabile a quello di una media-grande impresa, non partecipano soltanto una serie di soggetti politici, imprenditoriali e associativi collegati a tutto il panorama politico-ideologico romano (dalla sinistra cooperativa, al mondo cattolico, fino alle neonate associazioni di destra), ma anche una fascia di rom “collaborazionisti”, pronti ad accettare qualsiasi inasprimento delle politiche in cambio delle briciole, a volte anche avvelenate, delle fette di finanziamento spartite sui tavoli delle amministrazioni.

In fondo a questo sistema si trovano, invece, le decine di operatori sociali, impiegati con contratti a progetto che durano pochi mesi, pagati, sempre in ritardo, molto meno di dieci euro l’ora, per un servizio di frontiera che raramente, date queste condizioni strutturali, può innescare cambiamenti. In fondo a questo sistema ci si trovano, soprattutto, le tante decine di rom che non partecipano della spartizione e che in alcuni momenti hanno dato vita ad inediti episodi di “resistenza”, come quello della Basilica di San Paolo durante la Pasqua 2011. Rom che si trovano immobilizzati da una rete di pregiudizi, di atteggiamenti strumentali e razzisti, di violenze simboliche e materiali, che li costringono a vivere, e a morire, all’interno di quel buco nero dei diritti e della cittadinanza che sono i campi-nomadi a Roma.

PREFAZIONE
di Leonardo Piasere, Università di Verona

Credo che il Piano Nomadi dell’amministrazione Alemanno entrerà nella storia dei rom, e non solo della storia italiana dei rom. Entrerà nella storia dei rom come uno degli esempi della capacità metamorfica dell’antiziganismo.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che ti confina in un lager proclamando che lo fa per il tuo bene. L’antiziganismo della tarda modernità non va per le spicce come si faceva in altri tempi, non ammazza rom e sinti a destra e a sinistra, non sputa loro direttamente in faccia chiamandoli “sporchi zingari”. No, li chiama “nomadi” e magari anche “Rom” (assolutamente con la “R” maiuscola), fornisce loro container e corrente elettrica, servizi sanitari e materiale scolastico. Assieme a vigilantes, telecamere a circuito chiuso e campi recintati. Ma guai a chiamarli “campi”, traduzione troppo letterale di “lager”: il termine bucolico di “villaggio” esprime meglio l’ipocrisia degli amministratori, e se poi sono “villaggi della solidarietà”, la coscienza segregatrice è proprio salva. In modo bipartisan.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che attua gli sgomberi per il bene degli zingari, non perché li odia, è quello che preferisce l’impiego dell’associazionismo all’esercito, dei volontari alle squadracce, anche se, a volte, quando ci vuole, ci vuole: e poliziotti, statali e locali, che sfondano povere baracche turandosi il naso schifati e con la paura di prendersi i pidocchi, e ragazzacci che lanciano molotov, non mancano e non si tirano indietro. L’antiziganismo della tarda modernità può essere ricco, molto ricco, e solidale, certo: mette a disposizione milioni di euro, milioni: per i campi recintati, per i vigilantes, per le associazioni che devono mantenere i propri membri altrimenti disoccupati, per opuscoli, video, conferenze, convegni, rimborsi. Ma anche per i rom: per tutti? Beh no, impossibile! Solo per alcuni, solo per i buoni, per quelli che fanno quello che dico io, io che in fin dei conti tiro fuori i soldi, per quelli che si vendono per cavare dalla miseria per lo meno la propria famiglia e i propri parenti, per i collaborazionisti disposti ad accettare un posto che ti fanno credere essere di prestigio, per cercare di dimenticare almeno per un momento di sapere che comunque sempre uno sporco zingaro sei considerato. I collaborazionisti sono sempre esistiti, non c’è da scandalizzarsi per la loro presenza. Ma è segno finalmente di maturità politica quando un’associazione di rom caccia il collaborazionista rom.

L’antiziganismo della tarda modernità è quello che si lascia vedere: non si realizza in lager segreti, da tenere nascosti (anche se non a tutti è permesso di entrare), ma in “villaggi” di cui ci si vanta, villaggi da esportazione. Fra gli altri, attirano gli sguardi di ricercatori postmoderni e postcoloniali giunti a Roma a frotte da vicino e da lontano (America, Francia, Inghilterra, Australia…), ai quali non sembra vero di trovare un esempio così trasparente di applicazione della foucaultiana biopolitica quale è insegnata nelle loro lontane Università, esempio bell’e pronto da spiattellare nei loro saggi peer reviewed, con un titolo pure preconfezionato ma accattivante per un’audience angloglobalizzata: “Rom in Rome”! Meglio di così! Ma sono puntualmente irriconoscenti: nessuno ringrazia, con l’usuale nota a piè di pagina, Veltroni o Amato, Pecoraro o Alemanno o Maroni d’aver dato loro questa insperata e al contempo facile opportunità di dimostrare le ragioni di Foucault…

La potenza di questo libro di Carlo Stasolla sta nella sua essenzialità, nella sua cruda esposizione, concatenazione e cronologia dei fatti. La potenza di questo libro sta nella sua dettagliata precisione, elencata da chi quei fatti li ha vissuti, li ha combattuti, ha avuto e continua ad avere il coraggio di denunciarli, cantando spesso fuori da un coro di associazioni colluse o zittite a suon di sovvenzioni.

Forse, solo il lettore più sensibilizzato leggerà con orrore il dispiegarsi di queste pagine, perché, come ha scritto Lorenzo Guadagnucci nel suo Parole sporche, “ciò che oggi condanna i rom, è la mancata elaborazione storica, culturale, sociale dell’antiziganismo”. E per cominciare ad elaborare questa forma di razzismo che abbiamo criptato nelle nostre coscienze, invito anch’io, come fa lui e come hanno suggerito di fare altrove il gruppo dei “Giornalisti contro il razzismo”, di mettere, nella lettura del presente libro, la parola “ebreo” ogni volta che compare “rom” o “zingaro” o “nomade”. Prima si legga il libro, e poi si rifletta sull’effetto che farebbe di sentire parlare del “Piano Ebrei”; del “Centro di Raccolta Ebrei”; dei “villaggi della solidarietà per ebrei”; delle “prime elezioni di un campo ebrei d’Europa”; che “la gestione della pulizia del ‘villaggio attrezzato’ di Castel Romano è stata destinata ai presidenti delle cooperative ebree per ripagarli di aver accettato il trasferimento”; che “nel 2006 il Comune di Roma ha speso per i 5.200 ebrei regolarmente presenti, 15 milioni di euro. Circa 250 euro a ebreo al mese”; di sentire le parole dell’assessore Belviso: “noi non ci siamo mai impegnati sul fronte case che sarebbero certo la soluzione finale migliore, ma non riguarda il Piano Ebrei di Roma capitale”, dove l’espressione “soluzione finale” fa da sola accapponare la pelle; o le parole di quest’”ebrea” che vive in un centro di accoglienza fuori città: “Ho sentito che vogliono toglierci i bambini (…) a me questo non potrà mai accadere, se ci provano scateno la fine del mondo”, forse sapendo che tante, tante, altre madri “ebree” in questi anni non sono state in grado di scatenare la fine del mondo, come ci aggiorna Carlotta Saletti Salza nel suo Dalla tutela al genocidio? – che effetto fa tutto ciò, appunto?

Se riusciremo a liberare le nostre coscienze dalla mancata elaborazione di quell’antiziganismo che abbiamo succhiato dal latte delle nostre madri, questo libro ci apparirà quale è: un monumento alla denuncia della democrazia razzista di tanti benpensanti e un monumento alla denuncia del razzismo applicato di stampo post-fascista.

“Sulla pelle dei rom” di Carlo Stasolla
con la prefazione di Leonardo Piasere
Edizioni Alegre, pp. 128, 2012

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