la cultura rom al di là degli stereotipi

“Il contributo dei rom alla cultura”

Associazione Marco Mascagna

Per molti questa frase suona strana: “E quale contributo hanno dato i rom alla cultura?”, penseranno. Lo stereotipo del rom è di accattone, ladro, nullafacente, impostore, vagabondo, nomade. Brutti, sporchi e cattivi e anche ignoranti.

Eppure tra pochi giorni (8 aprile) si festeggerà la Giornata internazionale del popolo rom, istituita nel 1990 e riconosciuta dall’ONU, per fare conoscere e celebrare la cultura romanì (il popolo romanì si compone di vari sottogruppi – sinti, rom, kalè, romanichal, ecc. – tutti accomunati dalla medesima lingua, simile all’antico sanscrito, da determinate tradizioni e da una lunga storia di discriminazioni e persecuzioni da parte dei “non-zingari” [1]).

Allora cerchiamo di conoscere qual è il contributo che i rom hanno dato all’umanità.

Cinema

Pochi sanno che il più grande cineasta di tutti i tempi (sceneggiatore, regista, montatore, attore, produttore e autore delle musiche) è un rom: stiamo parlando di Charlie Chaplin. Figlio di due attori girovaghi di etnia rom; nato su un carro; “conosciuto” dallo Stato solo all’età di 2 anni (all’anagrafe non risultava); vissuto per un paio di anni in un ospizio per bambini poveri (la Central London School, che in un enorme casermone “curava” oltre mille bambini); poi “attore comico” (alias pagliaccio) in un circo, insieme al fratello. Chaplin non ha mai detto in vita di essere un rom (forse aveva già avuto abbastanza problemi e non voleva averne altri). Solo dopo la morte (grazie anche a figli) si è conosciuta la verità.

Eppure lo si poteva immaginare perché la poetica di Chaplin è profondamente rom: Charlot è un vagabondo, uno che vive alla giornata, un discriminato, il perdente per antonomasia perché schiacciato da una società a lui estranea, uno non attaccato al denaro, generoso fino alla prodigalità, pacifista, sempre pronto a ricominciare, a fare baldoria, a ridere, cantare, ballare; il suo “nemico” è il poliziotto, la “gente per bene”, lo Stato, che non è il suo Stato. Insomma Charlot è lo stereotipo del rom per il popolo romanì.

Tra i rom che hanno dato un contributo alla settima arte vanno ricordati anche Michael Caine e Yul Brinner (entrambi hanno ricoperto la carica di presidente della Romanì Unione, l’associazione mondiale dei popoli romanì), Rita Hayworth, Antonio Banderas, Bob Hoskins. 

Musica

Una manifestazione nazionale di rom e sinti a Bologna, nel 2015
(LaPresse – Stefano De Grandis)

Il contributo dato alla musica da parte del popolo romanì è generoso e sotterraneo. Fonti storiche evidenziano che fin dal XVI secolo gitani, lautari, rom, kalè suonavano presso le corti (Spagna, Ungheria, Russia) e i palazzi nobiliari. Erano famosi per un modo tutto loro di suonare (in particolare il violino) e per l’arte dell’improvvisazione.

Molti sono i musicisti che si sono ispirati alle loro musiche o che le hanno trascritte, orchestrate “arrangiate”:

Haydn: il Trio in sol maggiore termina con un rondò in stile zingaro, il Quartetto n.4 ha un movimento alla zingara e il Concerto per pianoforte una danza ungherese (in realtà zigana).

Schubert: secondo alcuni musicologi la melodia del famoso Momento musicale n. 3 è rom.

Brahms: le famosissime Danze ungheresi sono in maggioranza danze zigane ascoltate da Brahms e “arrangiate” (di qualcuna oggi si conosce anche il nome dell’autore). La czarda, infatti è una composizione di origine rom, poi utilizzata da compositori ungheresi e anche italiani: per esempio famosissima è quella di Monti. Altre composizioni di Brahms spirate alla musica romanì sono i Canti zingari op. 103 e il rondò alla zingaresca del piano Quartetto n.1.

Listz: le rapsodie ungheresi sono piene di musiche zigane. Listz fu il primo che indagò i rapporti tra musica romanì e musica ungherese e scrisse anche un libro nel quale evidenziava che gran parte delle musiche popolari ungheresi erano in realtà rom [2]. Per questo suo scritto fu molto criticato dagli ungheresi.

Ravel, dopo avere ascoltato un violinista romanì lo interrogò a lungo per capire la tecnica e gli stilemi. Poi si chiuse in casa per alcuni giorni e compose Tziganeper violino e pianoforte (poi orchestrata).

De Falla ha compiuto studi sulla musica gitana e in particolare sul Cante Jondo (canto profondo), la forma più antica del flamenco (che è una danza gitana) e si è ispirato a tali musiche per varie sue composizioni (per esempio in El amor brujo, El Sombrero de tres picos e nelle 7 Canzoni popolari spagnole).

Bartok: una delle sue più popolari composizioni, Danze rumene, sono ispirate alla musica dei rom lautari.

De Sarasate ha scritto Arie zingare, Saint-Saens Danze zingare, Dvorak Melodie zigane, Debussy la Danse bohemienne, Ligeti il Concert romanesc.

Con una lunga tradizione di improvvisatori non stupisce che molti “zingari” siano diventati jazzisti e che esista un particolare tipo di jazz (jazz manouche) tipicamente romanì. Massimo esponente di questo stile è Reinhardt Django , musicista sinto dal precocissimo talento per il banjo (django nella lingua romanì significa talentuoso, geniale). Quando aveva 18 anni il carro sul quale abitava prese fuoco e si ustionò gravemente la mano sinistra, che, mal curata, riportò l’atrofizzazione e la fusione del mignolo e anulare. Con enorme tenacia e inventiva sviluppò una tecnica tutta particolare di suonare la chitarra e riprese la sua carriera arrivando a suonare con Duke Ellington e a esibirsi alla Carnegie Hall. Non avendo mai frequentato la scuola era del tutto analfabeta (imparò a scrivere il suo nome quando dovette firmare il primo contratto) e digiuno di conoscenze musicali (si racconta che una volta chiese ad altri musicisti che parlavano di scale: “ma cos’è una scala?”).

Nell’ambito della musica leggera vanno ricordati Elvis Presley (la madre era sinti e il padre romanichal), Ronnie Wood (il chitarrista del Rolling Stone, anche lui romanichal), i Gipsy King (kalò) e Goran Bregovich, bosniaco, ma la cui musica è per gran parte rom.

Pittura

Il più importante pittore “napoletano” del ‘400 è un rom abruzzese Antonio Solaro Lo Zingaro, autore del ciclo di affreschi sulla vita di San Benedetto del chiostro del Platano (chiesa dei santi Severino e Sossio). Otto Mueller, pittore tedesco inviso ai nazisti (bruceranno oltre trecento suoi quadri, sequestrati da musei, palazzi, case d’asta), era sinti e ritrasse spesso personaggi e scene di vita zingara.

La vita degli zingari è fonte di ispirazione per molti artisti ed è alla base del movimento dei Bohemien. Murger scrisse Scene della vita di boheme (da cui Illica e Giacosa trassero il libretto per la Boheme di Puccini); Merimée autore di Carmen (poi messa in musica da Bizet) conosceva bene la cultura rom (parlava anche un poco il romanì); Courbet viene considerato l’iniziatore degli artisti bohemien, avendo affermato: “Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. Devo rivolgermi al popolo per trarre ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente di bohémien”. Posizione che fu fatta propria da Touluse Lautrec, Modigliani, Van Gogh, Sisley, Utrillo, Monet e tanti altri artisti.

Augustus John, pittore gallese, prese talmente sul serio l’invito di Courbet che si unì a una carovana di zingari e poi si comprò un suo carro, dove visse girando per l’Europa (la bellezza dei suoi quadri convinse gli invisi accademici inglesi a nominarlo membro onorario della Royal Academy).

Letteratura

Tra i poeti chi maggiormente si è fatto influenzare dalla cultura romanì è Garcia Lorca: studiò l’originario flamenco gitano con De Falla, e con lui organizzò la Fiesta del Cante Jondo, 3 giorni di esibizioni all’aperto di danza, musica, poesia, teatro con artisti gitani e spagnoli; fondò La Barraca, una compagnia di teatro girovaga, per la quale scrisse i suoi drammi più famosi; i titoli delle sue raccolte di poesie esplicitano l’influenza della cultura zingara (Poema del Cante jondo, Romancero gitano); scrisse e musicò canzoni di stile gitano.

Tra i più importanti scrittori romanì va citata Mariella Mehr, che ha vissuto l’infanzia in diversi brefotrofi, perché in Svizzera dagli anni ‘20 agli anni ‘70 i bambini venivano tolti agli “zingari” (la Svizzera da pochi anni ha riconosciuto questa pratica come genocidio). Questa esperienza ha segnato tragicamente la vita sua e della madre. I suoi libri sono tradotti anche in italiano.

L’UNESCO solo nel 2015 ha invitato gli Stati ha riconoscere e tutelare la lingua e la cultura romanì.

La UE ha tra i propri principi la tutela delle minoranze e delle lingue minoritarie. In Europa gli “zingari” sono 12 milioni, molti più degli estoni (1,5 milioni), gli irlandesi gaelici (1,5 milioni), lettoni (2 milioni), sloveni (2 milioni), lituani (3 milioni), lingue che l’UE rispetta talmente che il sito istituzionale e gran parte dei documenti sono redatti anche in tali lingue. I rom sono cittadini europei ma non possono leggere nella loro lingua ciò che li riguarda.

L’Italia tutela 12 minoranze linguistiche (12.000 greci, 20.000 catalani, 24.000 croati, 35.000 ladini ecc.), ma non riconosce come minoranza linguistica quella rom composta da oltre 120.000 persone (di cui ormai solo 50.000 parlano il romanì), eppure sono cittadini italiani anche loro.

Più passano gli anni e sempre meno persone parlano il romanì e si va perdendo la cultura “zingara”.

L’UNESCO ha dichiarato patrimonio dell’umanità molte cose (il caffè turco, i pupi siciliani, la danza cocolo, i canti tenores sardi, le danze baltiche, il pugnale indonesiano, il flauto a 3 fori slovacco, la birra belga, la transumanza, la cultura del popolo Zapara e quella dei beduini, i canti pigmei, ecc.), ma, tranne il flamenco (ascritta però alla tradizione spagnola) non tutela niente dei popoli romanì (né la lingua, né genericamente la cultura, né musiche, danze, tradizioni, feste “zingare”).

Un appello di intellettuali e cittadini a Google perché inserisse nel suo traduttore anche la lingua romanì è caduto nel vuoto (eppure provate a vedere quante lingue sono contemplate in questa app).

Far scomparire una cultura è un crimine perché impoverisce tutta l’umanità e per sempre. Abbiamo visto come grandi capolavori sono nati dalla conoscenza di culture estranee alla propria.

Qualche Paese finalmente è “svegliato”: Svezia, Austria, Germania e Finlandia hanno riconosciuto i romanì come minoranza linguistica, tutelando lingua e cultura. In Italia nel 2015 è stata presentata una nuova proposta di legge dalle associazioni di rom e sinti (sottoscritta solo da 21 parlamentari), ma a oggi nulla è stato fatto. E’ un maledetto circolo vizioso: la gente non conosce la cultura rom ed è, quindi, piena di pregiudizi negativi su di loro; i politici o cavalcano e rinfocolano tali pregiudizi per avere voti o preferiscono essere defilati per non scontentare parte del proprio elettorato. In questa maniera nessun provvedimento viene preso per far conoscere e tutelare la cultura rom e superare i pregiudizi negativi su rom e sinti. Per questo, dobbiamo cercare di adoperarci noi, intervenendo quando qualcuno parla male dell’intero popolo rom o ripete luoghi comuni e accuse false, facendo conoscere la loro cultura e il contributo che hanno dato alla nostra.

Note: 1) Gli appartenenti al popolo romanì sono chiamati in vario modo dai non appartenenti a questa etnia: “zingari”, “zigani”, “gitani”, “bohemien”, “gipsy”, “nomadi”. Essendo eteronimi (come “terrone”, “negro”, “polentone” ecc.) e quasi sempre con valore dispregiativo, tali termini non dovrebbero essere adoperati. Per questo li scriviamo tra virgolette; 2) Des Bohémiens et de leur musique en




gli stranieri ci rubano il lavoro? la realtà smentisce gli stereotipi

stereotipi smentiti: gli stranieri non tolgono il lavoro agli italiani

di Linda Laura Sabbadini
in “La Stampa” 

Quando ci sono periodi di crisi, la paura aumenta. Cresce tra i settori più vulnerabili, tra quelli che si sentono più in pericolo. Paura di perdere il lavoro, timore di non ritrovarlo dopo averlo perso. E’ proprio in questi momenti critici, la storia ce lo ha dimostrato, ahimè, che la paura del diverso si accentua ed è facile cadere nell’ottica della ricerca del capro espiatorio. Ricerche condotte nel Regno Unito mostrano quanto ciò abbia influito anche sulla vittoria di Brexit. migranti

La propaganda di diverse formazioni politiche si è particolarmente soffermata su questi aspetti, gli immigrati sono un carico in più per il nostro welfare, ci rubano il lavoro. Ma è proprio così nel nostro Paese? Alcuni dati forniti dall’Inps e altri dall’Istat possono aiutarci a capire. Tito Boeri, presidente dell’Inps, presentando alla Camera l’interessante rapporto annuale ieri ha sottolineato che gli immigrati in termini di contributi sociali versano di più di quanto ricevono in pensioni. Infatti, versano 8 miliardi di contributi sociali in un anno e ne ricevono 3 se si considerano sia pensioni sia altre prestazioni sociali. Danno cioè al nostro Paese 5 miliardi di contributi netti. Certamente questa è una fotografia del presente, quando ancora gli immigrati che percepiscono la pensione sono pochi; un domani sarà diverso, quando ci saranno più pensionati tra gli immigrati. Ma la storia migratoria a livello internazionale ci insegna che in molti casi i contributi previdenziali degli immigrati non si traducono poi in pensioni, perché una parte di essi si spostano di Paese, oppure tornano nel loro, e spesso non arrivano a percepire una pensione nel Paese in cui hanno versato anni di contributi.
«Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci abbiano “regalato” circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro» dice Tito Boeri.
Altri dati di fonte Istat smentiscono un altro stereotipo. Non è vero che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Laddove calano gli occupati italiani non aumentano i lavoratori stranieri. Per esempio, gli occupati italiani nel corso della crisi sono diminuiti nell’industria, commercio, pubblica amministrazione, istruzione e sanità. Gli occupati stranieri sono aumentati nei servizi alle famiglie e negli alberghi e ristorazione, cioè in settori totalmente diversi. In agricoltura calano gli italiani e aumentano gli stranieri, ma i primi calano tra i lavoratori autonomi e i secondi crescono tra i braccianti. Il che significa che il nostro mercato del lavoro continua a mantenere un carattere duale, con una forte e netta separazione tra professioni italiane e straniere. In sintesi, non sono quindi gli immigrati la causa della perdita di occupazione degli italiani o della loro difficoltà a trovare lavoro. Tutto ciò non significa che ogni cosa vada bene. Ci sono problemi di degrado in zone ad alta concentrazione di immigrati, ci sono problemi di crescita di criminalità che vanno affrontati e risolti nell’ottica dell’integrazione. Ma se smettessimo di crearci fantasmi e affrontassimo le cause reali della disoccupazione che risiedono nella crisi economica e nella rivoluzione che sta attraversando la società globalizzata, faremmo già un bel passo in avanti. Così come ne faremmo un altro se riuscissimo a creare un modello virtuoso di integrazione dei migranti, valorizzando anche le esperienze meravigliose di solidarietà che esistono nel nostro Paese.migranti-tuttacronaca

Volenti o no le migrazioni saranno un fenomeno rilevante dei nostri tempi. I nostri nipoti ci ricorderanno con riconoscenza se troveranno persone di origine diverse come pari e amici, colleghi e compagni di lavoro, piuttosto che nemici astiosi e rancorosi rinchiusi in ghetti. Non mi posso dimenticare la bellissima immagine che l’indagine dell’Istat dava, richiamata dal Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno: la maggioranza dei bambini stranieri in Italia ha come migliore amico un bambino italiano.




i principali stereotipi sui rom

abbiamo preso i principali stereotipi italiani sui rom e li abbiamo verificati

appello per rom e sinti

di Claudia Torrisi

cfr il nostro documentario Romanì di Roma di VICE on SkyTG24.

Non serve seguire con una certa costanza la pagina Facebook di Matteo Salvini per capire che quello dei “rom” sia un tema capace di richiamare improvvisamente all’attenti il pubblico italiano. Ieri era il video della rom picchiata in tram a Milano dopo un presunto furto, settimana scorsa la bufala sul padiglione a Expo, oggi il dibattito sui finti poveri e gli sprechi dei fondi per l’assistenza alle famiglie da parte del comune di Roma.

E dagli autobus ai bar, ai giornali, ai social e ai talk show televisivi, c’è un copione che si ripete in maniera pressoché identica: gli zingari sono un problema e giustificano spesso qualsiasi affermazione.

Solo lo scorso marzo per esempio l’eurodeputato della Lega Nord Gianluca Buonanno ha definito i rom ” la feccia della società“, guadagnandosi numerosi applausi dal pubblico di Piazza Pulita. Intervistato ai microfoni della Zanzara, il sindaco di Albettone (Vicenza) Joe Formaggio, ha recentemente dichiarato che se ci fosse un’invasione di rom, li aspetterebbe “con i fucili spianati al confine del paese.”

Sempre poche settimane fa, durante la trasmissione Mattino 5, sono state intervistate due ragazze rom del campo di Castel Romano. Nel servizio le due confessavano di rubare “sulla metropolitana di Roma” e guadagnare anche mille euro al giorno, fregandosene delle vecchiette—”tanto poi muoiono.”

Pochi giorni dopo, la trasmissione Servizio Pubblico ha diffuso un filmato in cui una delle due ragazzine confessa di aver ricevuto 20 euro dalla giornalista di Mattino 5 “per dire queste cose.” La ragazza si è giustificata dicendo che, quando è stata fermata dalla troupe di Canale 5, aveva fumato erba. Vero o no, è innegabile la certa soddisfazione provocata dal primo video, che pubblicato sulla sua pagina da Matteo Salvini aveva scatenato una slavina di commenti razzisti (alimentati in parte anche dalle sue affermazioni sulla necessità di radere al suolo i campi).

Ma se questo è quello che ci propongono politica e media, è anche vero che nonostante se ne faccia un gran parlare gli italiani dei rom sanno poco o niente. Secondo i dati raccolti dal Pew Research Center e pubblicati a maggio del 2014, infatti, i rom sono la minoranza più discriminata in Europa e d’Italia.

Secondo l’indagine dell’Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione (ISPO) di qualche anno fa, però, solo lo 0,1 per cento degli intervistati ha dimostrato di avere una conoscenza base di rom e sinti. La maggior parte dei cittadini ha informazioni parziali o molto limitate, mentre il 42 per cento non sa praticamente nulla.

Il fatto che ci sia tutta questa disinformazione non è senza conseguenze. Come si legge in un’indagine dell’associazione Naga “c’è una connessione tra quello che dei rom non si dice e l’immagine che ne emerge. Più i rom sono lontani dalla nostra conoscenza diretta, più è facile pensare a loro in base a stereotipi”.

Per capire quanto questo sia vero, ho raccolto alcune delle incrollabili certezze che si sentono più spesso dire in giro quando si parla di rom.

“L’ITALIA È INVASA DAGLI ZINGARI”

Tra migranti, potenziali terroristi e stranieri di ogni provenienza, una delle più grandi paure nostrane è che il suolo italico venga invaso. Per quanto riguarda i rom, è radicata la convinzione che questi siano già “troppi”.

Secondo una ricerca del Ministero dell’Interno, il 35 per cento degli italiani pensa che i rom nel nostro paese siano molti più di quanti sono in realtà. L’8 per cento è convinto che il numero si aggiri intorno ai 2 milioni. La verità è che sono 10 volte di meno.

I rom sono la minoranza più consistente in Europa: nell’Ue vivono circa 9-10 milioni (il 2 percento della popolazione totale), anche se è difficile avere stime ufficiali. Nel nostro paese, però, ne vivono tra i 120 mila e 180 mila, una delle percentuali più basse..

“DEVONO TORNARSENE A CASA LORO”

Questa frase è un evergreen della “lotta allo straniero”. Solo che con i rom risulta un po’ complicato. Circa la metà ( 70mila) dei rom e sinti presenti nel nostro paese ha la cittadinanza italiana. Un dato che in Emilia Romagna arriva fino al 95,9 percento della popolazione rom. Ci sono gruppi romanì presenti in Italia da oltre sei secoli, soprattutto al sud, e sinti di recente insediamento, cittadini italiani, residenti soprattutto al centro nord. La maggior parte di loro, dunque, è già “a casa sua”.

La minoranza di rom di recentissima immigrazione è arrivata in Italia con le guerre balcaniche. Sono profughi senza documenti validi, per lo più apolidi, i cui figli sono nati in Italia. Altri, invece, sono romeni e bulgari, quindi cittadini comunitari regolari.

“SONO NOMADI E VOGLIONO STARE NEI CAMPI”

Secondo il rapporto dell’Associazione 21 luglio, solo il 3 percento dei rom presenti in Italia “risulta perseguire uno stile di vita effettivamente itinerante”. La quasi totalità vive stabilmente in un posto. Nonostante siano considerati il segno più visibile della presenza dei rom, solo in 40 mila vivono nei campi.

Il presupposto che non vogliano una casa non è così corretto e pacifico. Semplicemente, spesso non riescono ad averla, intrappolati nella dinamica del ghetto. D’altra parte, ogni volta che si paventa l’ipotesi di includere queste persone in politiche abitative, succede il finimondo.

“CI COSTANO UN SACCO DI SOLDI”

Questo è vero. Ma dipende dal fatto che l’Italia non riesce a uscire dalla logica dei campi. Secondo il rapporto Centri di raccolta s.p.a. curato dall’Associazione 21 Luglio, nel 2014 il Comune di Roma ha speso il 30 percento in più del 2013 per 242 famiglie rom, ma le prospettive di integrazione rimangono a zero. Oltre il 90 percento delle risorse investite ogni anno dal comune, infatti, riguarda i costi di gestione e amministrazione, mentre ben poco rimane per l’inclusione e le politiche sociali. Secondo alcune stime, ogni sgombero costa mille euro per persona.

Insomma, segregare costa e per qualcuno è un grosso affare che giova anche a cooperative e associazioni. Del resto, Salvatore Buzzi in un’intercettazione dell’inchiesta Mafia Capitale lo diceva chiaro: “Noi quest’anni abbiamo chiuso con quaranta milioni ma tutti i soldi utili li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero.”

“SONO SPORCHI”

Per quanto riguarda i circa 40 mila rom dei campi, il rapporto 2014della 21 Luglio sottolinea come buona parte di questi insediamenti rientri “nella definizione di ‘baraccopoli’ adottata dalla UN-HABITAT delle Nazioni Unite.” Sono luoghi spesso al di fuori del tessuto urbano con scarsi, se non assenti, collegamenti con il trasporto pubblico. “I già carenti servizi e infrastrutture presenti nei campi risultano spesso deteriorati dall’usura e/o dal dimensionamento inadeguato, traducendosi in condizioni igienico sanitarie spesso critiche, di cui topi e scarafaggi sono un inequivocabile indicatore.”

“PORTANO VIA I BAMBINI”

Esiste una leggenda che racconta di una bambina sparita in un centro commerciale e ritrovata in bagno con i capelli rasati sotto la gonna di una zingara. È una storiella universale, successa in tutti i comuni italiani a un’amica della cugina di una conoscente.

Una ricerca dell’università di Verona del 2008 ha dimostrato che sui 30 casi riportati dall’Ansa fra 1985 e il 2007 non esistono episodi di rapimento di minori a opera di un gruppo rom. Tra i casi più recenti, inoltre, non sono mancate le smentite.

Secondo il rapporto ” Mia Madre era rom“, invece, un minore rom, rispetto a un suo coetaneo che non lo è, ha 60 possibilità in più di essere segnalato alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni e circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità.

Alberto Prunetti ha riportato su Carmilla la storia di Elviza M., bambina rom del campo Casilino 700, che il 14 giugno 1999 “fu tolta ai genitori—sulla base del presupposto che l’avessero rubata: ‘troppo bella per essere una zingara’, dissero le autorità, guardando gli occhi celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro.” Il padre dovette correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per mostrare ai giudici di avere gli occhi azzurri. È una storia molto simile a quella accaduta in Grecia nel 2013, che in Italia ha scatenato un’isteria collettiva senza precedenti.

“HANNO UN SACCO DI AGEVOLAZIONI E PRIVILEGI”

Non esistono leggi che garantiscano un sostegno economico ai rom. Chi ne parla si riferisce in maniera distorta alla legge 390 del 1992, che permetteva ai Comuni che ospitavano persone in fuga dalla ex Jugoslavia di avere dei fondi da utilizzare per borse lavoro o gestione delle strutture abitative. Nessun profugo ha mai avuto accesso a questi finanziamenti, riservati ai Comuni.

Secondo un’indagine condotta dall’European Union Agency for Fundamental Rights un rom su tre è disoccupato, il 20 per cento non ha copertura sanitaria e il 90 percento vive al di sotto della soglia di povertà. D’altro canto, in Italia si è sviluppata anche una classe media, spesso costretta a celare o dissimulare la propria origine per evitare ripercussioni.

SFRUTTANO I BAMBINI”

Lo stereotipo vuole i minori rom sfruttati come mendicanti in metropolitana e picchiati se non portano abbastanza denaro. Secondo ParlareCivile, “quello che emerge è che l’isolamento delle comunità rom segregate nei campi conserva la vecchia mentalità.” Nei campi rom “esiste ancora l’uso dei minori in attività di acquisizione del reddito per la famiglia. Un esempio è chiedere l’elemosina, il ‘mangèl’(…) Quando una comunità rom si arricchisce questa pratica viene abbandonata, il che significa che la mendicità è senz’altro legata alle condizioni economiche delle famiglie.”

È anche un circolo vizioso: più li teniamo nella marginalità, più i bambini rom continuano ad avere solo l’1 percento di probabilità di frequentare la scuola superiore e il 20 per cento di probabilità di non cominciare affatto un percorso scolastico regolare.

“RUBANO E DELINQUONO PER CULTURA”

Circa due mesi fa, il tribunale civile di Roma ha condannato la casa editrice Simone, ordinando il ritiro dal mercato di un libro di diritto penale rivolto ad aspiranti avvocati in cui veniva associato il termine zingaro alla commissione di reati. Questo caso è, probabilmente, il punto d’arrivo di una delle convinzioni più ferme degli italiani sui rom: rubano, tutti. Recentemente, Daniela Santanché ha dichiarato di avere paura “quando si avvicina una zingara”, perché “il furto ce l’hanno nell’animo”.

Non esistono dati che certifichino una maggiore incidenza di furti e crimini nella popolazione rom rispetto al resto dei cittadini, se non il fatto che nella marginalità si delinque più facilmente. Ma è un discorso applicabile anche ai quartieri più disagiati delle nostre città. Esiste, piuttosto, secondo l’Unar, una “generalizzata tendenza a legare all’immagine dei rom e dei sinti, ogni forma di devianza e criminalità”.

L’associazione Naga ha realizzato tra il 2012 e il 2013 un monitoraggio dei 9 maggiori giornali italiani da cui è emerso che sulla stampa i rom vengono sistematicamente associati a fatti o eventi dannosi. Questo avviene riportando “comportamenti che possono essere considerati negativi, ma che non sono reati” (tipo lavarsi a una fontanella), o anche del tutto neutri (come semplicemente passare in un luogo) ma “associati a toni allarmistici come fossero eventi gravissimi”; oppure raccontando “fatti negativi a cui si associano i rom, anche se il loro coinvolgimento non è provato, non è indicato da indizi e neanche citato esplicitamente”.

Secondo l’indagine, “lo stereotipo è talmente radicato che ha raggiunto il livello ontologico: non serve compiere nessuna azione




al di là degli stereotipi

 

 

 

‘Sette Donne Rom’: un libro contro gli stereotipi

una testimonianza ‘dentro il campo’

sette donne

gli stereotipi sono difficili da contrastare, vivono di odio sottile e carsico, s’infilano nella nostra quotidianità e si basano spesso sull’ignoranza di entrambe le parti coinvolte. La paura “dell’altro” e “dello straniero” è vecchia come il mondo e in un mondo globalizzato come il nostro diventa sempre più difficile capire tutto ciò che richiede uno sforzo maggiore della semplice “visione di superficie”. Il libro “Sette donne rom” di Cristina Mattiello, con la prefazione di Moni Ovadia e le illustrazioni di Lorenzo Terranera, della casa editrice Cambiaunavirgola, prova a compiere questo percorso: andare oltre “il campo rom”, raccogliendo le testimonianze di sette donne che hanno partecipato al programma “Or.Me.” (Orientamento Mediatori), promosso dall’Arci Solidarietà Onlus per facilitare il legame tra la loro popolazione e le strutture socio-sanitarie del territorio. Un percorso a tappe che prevede un corso di alfabetizzazione della lingua italiana e di formazione sulle tematiche sanitarie, seguito da un tirocinio in strutture pubbliche e laboratori della Croce Rossa e, infine, la ricerca di un impiego. Abbiamo intervistato l’autrice per capire meglio alcuni punti critici di questo viaggio dentro una cultura “altra”, con le sue peculiarità, i suoi limiti ma anche le sue speranze.

 
 

Quali difficoltà avete incontrato nel parlare e nel relazionarvi con le donne di cui avete raccontato le storie?

Tutte le donne avevano già un rapporto personale molto stretto e “caldo” con Alessia Damiani, operatrice sociale nel campo della maggior parte delle protagoniste e coordinatrice del progetto di formazione di cui si racconta la storia. La fiducia era data per scontata e io sono facilmente entrata emotivamente in contatto con tutte loro, come dentro a un cerchio affettivo, ponendomi in una situazione “vera” di ascolto e comunicazione fra donne. Non ho gestito le interviste pensando alle “regole” precostituite del giornalismo o della ricerca socio-antropologica, o anche della storia orale. Ho cercato di essere “autentica” nel rapporto, il più informale possibile. Ho semplicemente detto loro: “Raccontatemi quello che è successo e vi aiuto a scriverlo: lo fate voi il libro! Perché è importante farlo!”. Il resto è venuto da sè. Il livello emozionale è stato sempre in primo piano. Spesso io e Alessia quasi ci commuovevamo per la corrente empatica che si veniva a creare. E’ successo anche nella prima presentazione. Lo scambio andava sempre ben al di là dell’intervista per il libro: entravano in gioco i loro problemi, i loro stati d’animo e io, noi, ci mettevamo veramente in gioco, pur mantenendo in qualche modo anche i nostri ruoli professionali. Ma le interviste erano sempre soprattutto un momento di scambio personale reale.

Nel libro molte di loro descrivono la vita del campo “come una gabbia”, uno spazio che le protegge ma che le rende anche isolate dal resto del mondo. È una condizione che avete riscontrato anche in altre occasioni e con altre donne rom?

Sì, è una condizione molto diffusa, in genere, però è il desiderio di una vita nuova che prevale. Ma che si scontra inevitabilmente con l’impossibilità di pensare davvero a “uscire”: manca il lavoro, la casa, tutto … Il “campo”, contrariamente a quanto si crede, è un’invenzione italiana, assolutamente non un modo di vivere tradizionale. E’ di fatto un ghetto etnico, un microcosmo chiuso che non può che alimentare la spirale del degrado, dell’emarginazione e della passività. Oggi le associazioni solidali chiedono con forza il superamento di tutti i campi e la riconversione dei fondi – molti, che l’Europa continua a darci – in progetti di vera inclusione. Sarebbe possibile, basta volerlo! .

Uscire dal campo per molte è anche un modo “per sentirsi utili” o per “svegliarsi e avere qualcosa da fare” come affermano alcune di loro (molte dichiarano “voglio fare qualcosa anch’io per i miei figli”). Quali sono le resistenze che avete incontrato da parte della loro comunità e da parte di quella “ospitante” (in questo caso italiana)?

Le donne hanno parlato con sincerità delle difficoltà incontrate a volte in famiglia per gli spazi anomali di libertà dai doveri domestici che il progetto comportava. Ma hanno anche raccontato come i mariti alla fine hanno accettato di aiutarle, gestendo loro i bambini quando era necessario. C’è da dire che tutti i componenti delle famiglie hanno un rapporto stretto con gli operatori del campo e questo credo che abbia giovato. All’esterno, invece, è stato del tutto positivo il rapporto non solo con i formatori, ma anche con tutte le persone incontrate durante i tirocini in ambiente sanitario, inclusi i pazienti stessi – cosa che non era scontata! Il servizio sanitario pubblico in particolare si è dimostrato molto accogliente. Le donne si trovavano bene, si sentivano accettate: è un aspetto che mi interessava molto e ho insistito con le domande per esplorarlo a fondo. Invece il libro mette in luce efficacemente, secondo me, le difficoltà con cui sempre i rom e le romnì si scontrano nella ricerca di un lavoro. E’ questo il momento in cui la discriminazione e gli stereotipi sono un ostacolo spesso insormontabile. Nel caso delle protagoniste del libro, però, per fortuna, ci sono stati anche risultati positivi e assunzioni.

Ci sono stati casi in cui il percorso di “ponte” tra le due comunità è stato traumatico e non ha portato a nulla e quali volete indicare invece come brillanti e pieni di speranza?

Un operatore della CRI ha raccontato il suo sgomento e la sua indignazione quando, accompagnando una delle donne a conclusione del percorso formativo ad un colloquio di lavoro, l’ha vista rifiutare, esplicitamente “perché rom”, nonostante lei avesse una “borsa lavoro” istituzionale (sarebbe stato quindi lavoro gratis per loro!). Credo che questo episodio dia un buon argomento per rispondere a tutti quelli che dicono che i rom non vogliono lavorare. Segnali di speranza, momenti di luce: molti, davvero molti. Penso a Doina, che ha il coraggio di andare a un colloquio senza “mimetizzarsi”, senza cioè nascondere l’identità di rom, e, bellissima nel suo abito bianco con la gonna a balze, viene assunta. A Elvira che alla ASL aiuta una ragazza poverissima e del tutto inesperta e le insegna come tenere il bambino, fuori da ogni protocollo. O a Mara, capace di parlare a tutte noi emozionandoci con la sua saggezza e sensibilità. O al coraggio di Simona, che, dopo mesi di ospedale, mentre lottava per riprendersi da una malattia che poi purtroppo l’ha sopraffatta, mi diceva: “Il sorriso resta sempre”. E faceva battute: “Mi fai sempre ridere e piangere quando facciamo le interviste”, dicevo io … E tanti altri episodi, tanti. E’ un libro di speranza, sicuramente.

Non solo essere rom ma essere una donna quali problematiche aggiuntive può avere nel percorso di avvicinamento alla comunità che li dovrebbe accogliere? Ci sono casi particolari che volete segnalare?

Essere donna comporta difficoltà in più per la resistenza che può fare la comunità rom rispetto a un percorso di emancipazione, o per i condizionamenti soggettivi, quelli che la donna vive dentro di sé a prescindere dalle pressioni esterne, i sensi di colpa, i legami affettivi familiari, ecc. Ma una volta che si sia reso possibile l’andare “fuori”, credo che l’essere donna aiuti invece molto nella comunicazione. Le donne sanno stabilire ponti e legami soprattutto attraverso il canale emotivo. Una volta aperto il contatto, è facile per le donne romnì renderlo intenso. E in genere sono molto coinvolgenti. Come dice Moni Ovadia nella prefazione, sono “donne che ascoltano il cuore” e la riposta quasi sempre arriva. Il libro è un libro al femminile, e sono tanti i casi in cui queste dinamiche positive fra donne sono evidenti: nella fase preparatoria, nel percorso di formazione, nei tirocini, nelle esperienze che le donne raccontano, e anche nelle interviste con me, arrivata da poco fra loro. Come il rapporto tra Elvira e l’anziana signora da cui lavorava, o il confronto sui temi della maternità e della contraccezione. Molto bella è anche la figura della d.ssa Leotta, che lavora alla ASL nel servizio per gli stranieri e le fasce a rischio: “più che un medico, un’amica, la madre di tutte noi”, la definiscono le donne del campo di Candoni, è un loro punto di riferimento costante, anche sul piano emotivo.

Quali sono i programmi messi in atto che hanno portato i maggiori benefici per la comunità? (nel libro si parla spesso di molti miti legati alla salute che vengono sfatati, aspetti legati alla gravidanza e all’assistenza di persone invalide). Quali sono invece quelli che andrebbero fatti con maggiore convinzione?

Tutto il contesto sociale crea e alimenta l’emarginazione di queste comunità, tutto “rema contro”. Un percorso di crescita come quello descritto, quindi, è di per sè molto positivo per tutti, perché dimostra che si può uscire dalla condizione passiva a cui spinge la vita nel campo. E che anche i rom, se se ne dà loro l’occasione, possono farcela ad esser qualcosa di diverso dall’immagine negativa che si trovano buttata addosso costantemente. Sono questi i progetti che andrebbero incentivati, generalizzati. Basta con i ghetti: bisogna aiutare le comunità rom a vivere una vita dignitosa, nel rispetto della loro specificità culturale, ma come tutti gli altri in quanto a diritti e condizioni sociali. L’esperienza descritta nel libro è stata una goccia nel mare, ma importantissima, perché può – dovrebbe – dare spunti per tante altre esperienze simili. Per quanto riguarda la salute, certo è emersa un distanza forte tra quello che le donne hanno imparato fuori e il modello tradizionale, soprattutto nel campo della contraccezione, e anche nella gestione del neonato. Ma l’obiettivo generale, che era quello di avvicinare la comunità alla sanità pubblica e ai servizi, e di fornire al campo figure interne di mediatrici che possano facilitare questo rapporto, mi sembra che sia stato raggiunto. Anche in questo caso, però: a mio avviso la formazione andrebbe offerta a tutti, molto più di quanto si fa.

Quali sono stati gli stereotipi che avete visto privi di fondamento nell’avvicinarvi alla loro comunità?

Tra tutti gli stereotipi, quello più ingiusto è quello terribile della “zingara rapitrice” di bambini. Secondo tutte le ricerche, non c’è un solo caso dimostrato! Ci sono stati nel tempo anche diversi processi, tutti conclusi con un’assoluzione. E entrando in contatto con queste comunità, davvero ci si chiede come sia possibile lanciare loro addosso un’immagine così pesante e infondata. Quando si entra in contatto con loro, ci si rende subito conto che sono persone come tutti noi, con pregi e difetti individuali, con personalità diverse fra loro, come tutti, insomma, cosa che gli stereotipi e la discriminazione ci vorrebbero far dimenticare. E si diventa facilmente loro amici. Sono però persone che vivono in condizioni disumane – anche senza acqua e senza luce, molte volte – condizioni che spesso rendono impossibile, ad esempio, non essere “sporchi”. Ma questo non vuol dire che i rom siano tutti “sporchi” per scelta o, peggio, per “natura”. Anzi, ci si sorprende di quanto curino la loro casa e la loro immagine, quando possono: alcuni ce la fanno anche in condizioni davvero difficili, dovremmo chiederci che cosa faremmo noi al posto loro. Vale per tutti gli stereotipi, ma nel caso dei rom, davvero, lo stereotipo è rafforzato dalle condizioni in cui li facciamo vivere: è un circolo vizioso. Più sono emarginati, più vengono loro negati i diritti minimi, più si rafforza l’immagine negativa, più vengono emarginati, ecc. E il campo da questo punto di vista, sì, è veramente una gabbia. Come ho già detto, bisogna dare loro l’opportunità di percorsi di formazione, una situazione abitativa decente, bisogna aiutarli a costruirsi occasioni di lavoro. In quei pochi casi in cui ciò si verifica, gli stereotipi si smontano da soli.




gli ‘zingari’ e i nostri stereotipi

 

«Così educata, non sembra proprio zingara»

riproduco qui una bella pagina che nei giorni scorsi Sergio Bontempelli ha pubblicato nel suo sito: il racconto, più o meno, di un’ordinaria giornata nella quale percepiamo e respiriamo in abbondanza le precomprensioni e i pregiudizi o stereotipi attraverso i quali ci rapportiamo agli ‘zingari’ che presumiamo di racchiudere tutti entro precisi atti, comportamenti, atteggiamenti, stili di vita e in base a questi identificarli con certezza, valutarli e condannarli:”I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire”

Donna rom che chiede l'elemosina

 

Per un attivista che “si occupa di rom” – come si usa dire – il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve all’«esperto».
Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono “esperti”, soprattutto dell’argomento “zingari”. «Te lo dico io, non si integrano, vivono di furti e di illegalità». Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla. «Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l’altro giorno mi sono entrati in casa e hanno rubato l’argenteria di famiglia…». Stop. Fine del ragionamento.

Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull’argenteria sarebbe interessante da approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre scappava. Era uno “zingaro”, dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici, dall’aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i castani, c’è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è basso…
Forse hai riconosciuto il “tipico abbigliamento zingaro”. Magari non era un ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata… Ora, ammesso (e non concesso) che la gonna lunga sia “tipicamente rom”, non ti viene il sospetto che la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d’altra parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così riconoscibile?
Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno che ha studiato troppo. «Il ladruncolo era uno zingaro, l’ho visto coi miei occhi, cosa vuoi di più?». Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a raccontarla, una storia. E’ una storia vera che mi è accaduta in questi giorni. E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le percezioni, quel che “vediamo coi nostri occhi”, quel che ci sembra oggettivo e irrefutabile.

Un viaggio da manager
E’ Martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno speciale, devo uscire dall’ufficio un po’ prima perché parto: mi hanno invitato a tenere un ciclo di seminari proprio sull’argomento rom, a Udine. Per arrivare dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato, con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo prendere l’Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi porta a Udine.
Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto, mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno…), consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull’Ipad e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l’aria di uno quegli odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla fermata dell’autobus come sulla panchina al parco… Intorno a me noto occhi curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.

La “zingara” del treno regionale…
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista: di solito chiede l’elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e sorride. Col mio rumeno un po’ maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non “rende” bene e lei non ha i soldi per mangiare.
Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro. Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che, finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. «Fa freddo laggiù», spiega, «adesso c’è la neve». Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli zingari. Già, perché Maria sembra proprio una “zingara”: ha l’aspetto trasandato, chiede l’elemosina e porta una gonna lunga e colorata…

… e la strana ragazza sull’Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per Venezia. L’ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma – appunto – i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da organizzare. La voce dell’altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezzora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si siede accanto a me. E’ vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli “soffiati” sul palmo della mano… Poi, quando il treno riparte, si mette a sfogliare una rivista.
Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha l’aspetto, non parla con la tipica gestualità “alla zingara”, non è vestita da rom… E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?

La romnì «invisibile»
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il telefono. E’ un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno. Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio: l’argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona documenti e carte.
Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. «Ma tu sei un avvocato?», mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: «ma che lingua era quella al telefono?». La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e farfuglia: «no, non era macedone… la mia lingua è…». Si ferma un attimo. Si vede che non sa proprio come dirmelo. «Ecco, in casa parliamo una specie di… di lingua sinta…».
«Una specie di lingua sinta» significa che la ragazza parla romanes. E’ una romnì macedone («romnì», per chi non lo sapesse, è il femminile di «rom»). Provo a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. «Se mi sposo a Pisa ti chiamo e vieni alla mia festa di matrimonio».

La morale della favola
La “morale” di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli “zingari”, e come sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: «tutti i nomadi chiedono l’elemosina, nessuno lavora» (come se l’elemosina fosse una cosa orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano…). «Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti». «Ero sull’autobus e c’era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce n’è una che rispetti le regole…». E gli esempi potrebbero continuare.
Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch’esso frutto di pregiudizi. Non ci viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo sull’ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la mia “compagna di viaggio”, elegante e ben vestita, era una romnì macedone.
I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». E’ una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire.

Sergio Bontempelli




uno degli stereotipi più frequenti nei confronti dei rom

 

i nostri giornali veicolano stereotipi pericolosi

gli esposti dell’ ‘Associazione 21 luglio’

ponte-mammolo-rom-ruba-bambino

L’articolo pubblicato il 13 novembre sulla versione cartacea del quotidiano Il Messaggero.

 

«Rapisce neonato davanti alla madre, nomade arrestata a Ponte Mammolo».

In seguito alla pubblicazione di un articolo così titolato, lo scorso 13 novembre, da parte della testata Il Messaggero, l’Associazione 21 luglio ha presentato un esposto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio per chiedere la verifica di eventuali illeciti deontologici a carico della giornalista professionista Laura Bogliolo.

Nell’articolo, secondo l’Associazione 21 luglio, l’autrice si è discostata dall’obbligo deontologico di attenersi alla verità accertata dei fatti, pubblicando non solo accuse aleatorie, ma anche congetture di carattere discriminatorio su base etnica capaci di alimentare un infondato allarmismo sociale nei confronti dell’intera comunità rom a Roma e in Italia.

Così la giornalista riportava la notizia del presunto tentato rapimento del neonato: «Chissà cosa si prova a essere strappati violentemente dallo sguardo della propria madre, a perdersi nel vuoto di un abbraccio di una sconosciuta che ti prende per una gamba, ti solleva, ti scuote stringendoti con violenza e corre verso l’ignoto di un’altra vita. Chissà quale traccia, profonda e dolorosa, rimarrà nella memoria di Marco (il nome è di fantasia), un neonato di 8 mesi che lunedì è riuscito a fuggire a un sequestro da parte di una nomade nel cuore delle viscere rumorose della metropolitana di Roma».

L’articolo in oggetto, pubblicato sia sul sito che sulla versione cartacea del quotidiano, anziché limitarsi alla mera cronaca dei fatti accaduti, insiste sulla presunta appartenenza etnica dell’aggressore («Marco è ormai in braccio a una donna, una nomade di 25 anni, bulgara, che in pochi secondi è riuscita a portare via il neonato e si sta dirigendo verso l’uscita») arrivando persino ad evocare in un clima sensibile sull’argomento a causa delle recentissime vicende che hanno visto protagonista la piccola Maria in Grecia, «una lunga lista di bambini scomparsi e mai più ritrovati».

Dando ampio e acritico spazio a dichiarazioni, di carattere congetturale e generalizzante, senza evidenziarle come pure e semplici supposizioni, l’articolo, secondo l’Associazione 21 luglio, contribuisce alla diffusione dell’allarme sociale nei confronti dei rom basato su ipotesi e pregiudizi.

Dal resoconto pubblicato dal quotidiano, peraltro, emergono alcune discrepanze rilevanti. La giornalista scrive infatti che «la nomade risiede in un campo nomadi a Striano, in provincia di Napoli» ma dalle verifiche effettuate dall’Associazione 21 luglio non risulta, nella cittadina campana, l’esistenza di alcun “campo nomadi”.

Nell’articolo, inoltre, si legge che a riprendere il neonato dalle mani della “nomade” sarebbero state due ragazzine di 16 anni intervenute in soccorso della madre. In un secondo articolo, redatto dalla stessa Laura Bogliolo e pubblicato sul sito de Il Messaggero il 14 novembre, la madre del bambino riporta invece un’altra versione dei fatti: «Mi ha strappato via mio figlio con forza, sono riuscita a riprenderlo mentre lei continuava a strattonarlo».

Alla luce di quanto riportato, l’Associazione 21 luglio ritiene che nell’articolo di Laura Bogliolo non appaiono rispettate le tre condizioni in presenza delle quali il diritto di stampa è da ritenersi legittimo:1) utilità sociale dell’informazione; 2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3) forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione.

Tale articolo si pone poi in contrasto con quanto stabilito dalla Carta di Roma la quale invita ad «evitare la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte» e richiama «l’attenzione di tutti i colleghi, e dei responsabili di redazione in particolare, sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e servizio».

«La diffusione di articoli di questo tipo – è il commento dell’Associazione 21 luglio in seguito all’invio dell’esposto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio –  reca un grave danno a tutta la comunità rom in Italia, finendo con il trasmettere un’immagine criminosa di un intero gruppo di persone. Ancora una volta, ci troviamo pertanto a chiedere ai media di agire in maniera consapevole, considerata la grande responsabilità che i professionisti dell’informazione hanno nella creazione di stereotipi e pregiudizi».

LEGGI ANCHE:



stereotipi sui rom

Rapporto “Antiziganismo 2.0″:

stereotipi sui rom alimentati da politici e stampa

COPERTINA-ANTIZIGANISMO

copertina rapporto Antiziganismo

Ogni giorno, in Italia, si registrano 1,43 casi di incitamento all’odio e discriminazione nei confronti di rom e sinti, per lo più attraverso dichiarazioni di esponenti politici diffuse da giornali, siti web e social network. Stereotipi e pregiudizi verso tali comunità, del resto, sono alimentati da una media giornaliera di 1,86 episodi di informazione scorretta ad opera di giornalisti di testate locali e nazionali.

Sono questi i dati che emergono da “Antiziganismo 2.0”, il rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’incitamento alla discriminazione e all’odio razziale dell’Associazione 21 luglio, presentato questa mattina a Roma nella sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana.

Dal 1 settembre 2012 al 15 maggio 2013, il monitoraggio dell’Osservatorio 21 luglio, effetuato su circa 140 fonti, ha rilevato 370 casi di incitamento all’odio e discriminazione e 482 casi di informazione scorretta in grado di alimentare il cosiddetto fenomeno dell’antiziganismo, definito dalla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza come «una forma di razzismo particolarmente persistente, violenta, ricorrente e comune che viene espressa, tra gli altri, attraverso violenza, discorsi d’odio, sfruttamento, stigmatizzazione e attraverso le più evidenti forme di discriminazione».

Dei 370 casi di incitamento all’odio e discriminazione, 281 (il 75% del totale) sono riconducibili ad esponenti politici, 58 a privati cittadini e 20 a giornalisti. I giornali si sono rivelati il principale strumento di diffusione (234 casi), seguiti da siti internet (51),Twitter (23) e Facebook (10).

Dal rapporto emerge che il 59% delle segnalazioni si riferisce ad iscritti ad un partito di destra e di centro destra. In 90 casi, l’autore di una dichiarazione discriminatoria e incitante all’odio è stato un esponente della Lega Nord; seguono il Popolo della Libertà (74), La Destra (30) e Forza Nuova (11). In 9 casi l’autore è stato invece un esponente del Partito Democratico.

Dal punto di vista della collocazione geografica delle segnalazioni, al centro-nord va il primato relativo, con una percentuale del 52% delle segnalazioni, con il 22% nella sola Lombardia, mentre il centro-sud si attesta al 43%. Il dato più significativo appare quello relativo alla città di Roma, che da sola copre il 32% circa delle segnalazioni, praticamente un terzo di tutto il territorio nazionale.

Per quanto riguarda i casi di informazione scorretta, ovvero quelle notizie, diffuse in maniera acritica, atte ad alimentare e rinforzare stereotipi e pregiudizi nei confronti di rom e sinti, tra le testate monitorate il rapporto evidenzia che il Corriere della Sera, nelle sue numerose edizioni locali, oltre a quella nazionale, raggiunge il numero più elevato di segnalazioni (12,9%), mentre il Tirreno si attesta su una percentuale dell’11%.

Seguono Il Messaggero con il 7,5%, il Tempo (6%), La Repubblica, soprattutto nelle edizioni milanesi e romane ((6%) e il Giornale d’Italia (4%). Il territorio lombardo, accumulando le percentuali di Libero, Il Giornale e Il Giorno raggiunge una rappresentatività sul campione di quasi il 20%.

In seguito ai casi descritti, l’area legale dell’Associazione 21 luglio ha intrapreso 135 azioni correttive, tra cui 75 segnalazioni all’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), 29 lettere di diffida, 10 esposti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti, 7 segnalazioni all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori di Polizia di Stato e Carabinieri (OSCAD).

Tra i riscontri positivi ottenuti, la chiusura di due blog che diffondevano contenuti lesivi della dignità delle comunità rom e la rettifica dei contenuti di un paragrafo della guida National Geographic su Roma che criminalizzava indistintamente i rom.

«Il fenomeno dell’antiziganismo assume oggi in Italia dimensioni preoccupanti. Ai rom si associano indistintamente ed automaticamente degrado, incuria, malvivenza, pericolosità sociale, incapacità genitoriale, inadeguatezza sociale, rifiuto consapevole delle regole e una “genetica” attitudine alla delinquenza e alla non-integrazione», afferma l’Associazione 21 luglio.

«È necessario contrastare questi stereotipi e pregiudizi, alimentati da dichiarazioni di esponenti politici che intendono parlare alla pancia del proprio elettorato e da notizie giornalistiche incapaci di approfondimento e di analisi complessa, attraverso tutte le forme possibili, istituzionali e governative, attraverso il diritto e la produzione intellettuale, nella lotta politica e nel lavoro nei territori, nei media, a scuola e in strada. Si potrebbe cominciare dal linguaggio: i termini “nomadi” e “zingari” denotano una connotazione negativa e pertanto non andrebbero più utilizzati, né dai politici né dai giornalisti».