intervista a Teresa Forcades
a cura di Antonio Gnoli
in “la Repubblica” del 11 giugno 2017
Non si immagina facilmente cosa sia la vita di una suora senza pensare alla condizione in un certo senso di emarginazione in cui per lo più versa. Perciò quando ho incontrato la prima volta Teresa Forcades e l’ho sentita parlare non di Dio ma di uomini e donne, non di anime ma di corpi, non di astinenza ma di sessualità ho provato una sconcertante meraviglia. Era come se nel ciclo di parole religiose si nascondesse una coscienza concretamente amorosa.
Teresa Forcades è una monaca benedettina, di origine catalana. Ha poco più di cinquant’anni e osserva le regole della clausura, con alcune aperture dedicate alla socialità. È medico (ha studiato negli Stati Uniti), teologa (dottorato a Barcellona e a Berlino); si interessa di psicoanalisi e di femminismo.
Come è passata dalla medicina alla teologia?
«Avrei fatto volentieri il medico condotto in qualche piccolo paesino della Catalogna, dove il contatto con la gente è più forte. Ma quando finii l’università ho avvertito un bisogno di raccoglimento. Per circa un anno mi ritirai solitaria in una casa di campagna».
Come passava le giornate?
«Le ore erano scandite da un ordine semplice: mangiare, dormire, meditare. Avevo con me gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Ma non ero pronta a una vita diversa. Ero giovane, desiderosa ancora di approfondire lo studio della medicina. Preparai così l’ammissione a una università americana. Fui accettata e trascorsi un certo periodo in un ospedale di Buffalo. Sembrava una carriera assicurata. Ma il destino aveva in serbo altre cose».
Quali?
«Conobbi Elisabeth Schüssler Fiorenza, teologa e femminista cattolica romena naturalizzata americana. Fu lei ad avvicinarmi alla teologia e al femminismo. Ma era complicato tenere insieme l’ospedale e i nuovi interessi. Avevo anche fatto domanda per Harvard e l’università aveva accettato il mio curriculum. Mi ritrovai in una situazione complicata: non volevo rinunciare ai miei studi di teologia».
Doveva scegliere tra la Chiesa e l’Università?
«Più esattamente tra un colloquio finale che mi avrebbe in seguito consentito l’ingresso nei migliori ospedali oppure…».
Oppure?
« In quel periodo, era il 1995, tornai per breve tempo in Spagna, presso il monastero di Montserrat. Ero confusa e inquieta. Ma sentii che quel luogo aveva per me un senso familiare».
Era un monastero benedettino?
«Per monache di clausura. Passai alcune settimane in preghiera. Un giorno la badessa mi convocò dicendomi che aveva saputo dei miei trascorsi di medico, in particolare di esperta di malattie infettive. Chiese se potevo spiegare a lei e alle sorelle cos’era il virus dell’Aids che in quegli anni mieteva molte vittime. Organizzammo l’incontro in un pomeriggio durante il quale volli parlare anche dell’omosessualità e del modo in cui nell’immaginario della gente era passato il messaggio sbagliato che la malattia fosse da attribuire al peccato di essere gay».
Come reagirono le monache?
«Con mio grande stupore benissimo. Ci furono molte domande e la discussione continuò durante la cena. Mi sembrava di aver trovato il mio mondo. Il giorno dopo manifestai alla badessa l’intenzione di entrare in convento. Si mise a ridere. Non se l’aspettava. Dissi convinta che preferivo Monserrat ad Harvard. Lei cercò di frenare il mio entusiasmo. Mi consigliò di andare ad Harvard e, se dopo i due anni di borsa di studio avessi sentito ancora la “chiamata”, ne avremmo riparlato».
Il tempo non ha scalfito quella decisione.
«Infatti, nel 1997 presi i voti».
I suoi genitori come reagirono?
«Mio padre era incredulo, mia madre arrabbiatissima. Solo mia sorella appoggiò fino in fondo la
decisione. Quanto ai miei amici, quasi tutti mi diedero della pazza. Lasciare la prospettiva di Harvard per il convento era una scelta inconcepibile».
La sua è una famiglia borghese?
«No, mio padre era un agente di commercio e mia madre infermiera. Si separarono che avevo undici anni. Ero la prima di tre sorelle. Un giorno mio padre, mentre ci accompagnava a scuola, ci informò che si era innamorato di un’altra donna».
Lei come la prese?
«Restai in silenzio. Fu una reazione strana. Mi sembrava un gesto enorme ma al tempo stesso temevo per lui».
Che anno era?
«Era il 1977. Il caudillo Franco era morto da un paio d’anni, dopo una lunghissima agonia. La Spagna appariva un Paese immobile. Isolato da tutto. Ricordo che quando nel 1978 con le sorelle e mia madre andammo a Parigi, provai una sensazione di libertà e un’emozione per tutto quello che lì percepivo».
Ha qualche memoria della dittatura franchista?
«In quanto catalani, i miei non erano favorevoli al regime. In famiglia circolava la storia dei due nonni. Quello paterno aveva militato per la sinistra. Quello materno era medico e durante la guerra civile venne arrestato dai repubblicani. Non aveva sentimenti franchisti, ma il fatto che fosse una delle autorità del Paese, convinse i “ rossi” che il nonno era un nemico del popolo e come tale andava fucilato».
Ci fu l’esecuzione?
«Mia nonna pianse e implorò il comandante. Consegnò i gioielli di famiglia e disse che aspettava un figlio (era incinta di mia madre) e che se il padre fosse stato fucilato nessuno avrebbe potuto badare al loro sostentamento. Fu questo a salvargli la vita».
Come visse il suo ruolo di novizia?
«All’inizio ci fu entusiasmo. Poi cominciarono i dubbi. Accompagnati da un senso di oppressione, noia, assenza di prospettiva».
Si stava accorgendo della durezza di quei voti?
«Avvertivo il conforto della preghiera e la semplicità di quel mondo, governato da un silenzio armonico. E tuttavia mi sembrava di sprofondare nella disperazione. Era come se non avessi la forza, la convinzione, la tenuta per sostenere quella scelta. Mi chiedevo se Dio mi avrebbe aiutata. Vedevo intorno a me gente felice e provavo per contrasto un senso di profondo disagio».
Aveva capito cosa non andava?
«Non coglievo intorno a me nessuno stimolo culturale. Avevo girato il mondo e discusso con le menti più aperte, imparato lingue. Improvvisamente mi ritrovavo in una specie di calma piatta».
Dubitò della sua vocazione?
«Ero in crisi. Non avevo ancora preso i voti. Accadde in quel periodo che mi innamorassi di un giovane medico. Fu un mettere alla prova i miei veri sentimenti. Dovevo scegliere tra Dio e il mondo. Fu a quel punto che avvertii fortissima l’esigenza di diventare monaca».
Cosa significò essere chiamata? Glielo chiedo perché magari in quella “voce che chiama” ci può essere suggestione, fraintendimento, proiezione di sé.
«Può esserci tutto questo, solo il tempo decide il grado di autenticità di quella voce».
Non avverte il peso dell’emarginazione?
«Al contrario, mi sento al centro di tutto quel che faccio».
Cosa intende per centralità?
«Non intendo dominio o controllo di un ambiente. Penso semmai a una radicalità senza dogma. Ogni volta che si cerca un centro si cerca un vuoto».
Non rischia di essere un’illusione?
«Immagino il centro non come un principio di stabilità ma di rottura ».
Forse occorrono entrambe.
«Stabilità e rottura si possono anche alternare. Come l’ordine e il disordine. La storia lo insegna. Ma penso che la mia vita riposi in un centro invisibile che non si può definire. E che per questo chiamerei esperienza mistica».
Ho letto nel suo “Siamo tutti diversi” (edito da Castelvecchi) che lei riconduce l’esperienza del vuoto al pensiero di Lacan.
« Può sorprendere che una monaca legga Lacan e tragga dal suo pensiero qualche utile suggerimento. Mi sono occupata di psicoanalisi e in particolare della nozione di “ soggetto inconscio”. Freud sostiene che l’autenticità interiore di una persona sia stata repressa».
Che può dunque essere liberata?
«È il ruolo che dovrebbe svolgere la psicoanalisi. Stiamo parlando di un ideale moderno: liberare le forze dell’uomo! Nel momento in cui si è sostituito a Dio, l’uomo ha sviluppato un desiderio infinito di sé. In teoria pensa di poter fare tutto».
E in pratica?
« La società, lo Stato, la Chiesa sono le istituzioni che lo opprimono. È così che il soggetto scopre di non avere nessuna autentica interiorità. Ecco perché Lacan dice che l’interiorità è un vuoto e che questo vuoto lo si può rappresentare come la morte del soggetto».
La morte del soggetto viene dopo la morte di Dio?
«Non vi sarebbe quella senza questa».
Eppure desideriamo diventare persone autentiche.
«Nell’orizzonte mondano la nostra identità ci arriva dall’esterno, come i desideri, è indotta. Nell’infanzia è data dal rapporto con la madre. Pensiamo che da questa relazione originaria scaturisca la nostra autenticità. Ma non è così. La madre passa e cerchiamo una nuova identità, che troveremo in qualche altra cosa o situazione. È ciò che spinge Lacan a dire che non c’è nessuna autenticità in noi. Siamo abitati soltanto da un vuoto».
Anche il desiderio è una forma di vuoto?
« Il desiderio che si realizza nel vuoto è appunto ciò che chiamo misticismo. Ma si tratta di un desiderio senza determinazioni».
Il desiderio nasce sempre come una forma di assenza.
«Ma quasi sempre è indotto da ciò che ci manca del di fuori: un paio di pantaloni firmati, una giacca elegante, una macchina fuoriserie. Non è in questo senso che intendo il desiderio. Agostino si era spinto fino a dire che tutti desiderano Dio, ma non tutti danno lo stesso nome alla cosa».
Cosa significa desiderare Dio nell’epoca della sua morte?
«Per me significa difendere la verità».
Tutti sostengono, religiosamente, di volerla difendere, perfino con l’uso delle armi e dell’omicidio.
«Quella non è verità: è soltanto fanatismo. D’altro canto, la verità non può essere un concetto relativo, per cui ciascuno ha la propria brava verità pronta all’uso».
E allora?
« La verità per me è tutto ciò che essa non è. Ma il punto è che occorre argomentare ogni volta questo “non è”».
Non si sente una privilegiata?
«In che senso?».
Penso alla semplicità delle sue sorelle; al fatto che non posseggono né usano strumenti sofisticati; che non si occupano di filosofia e di omosessualità; che rispettano la clausura.
«Ho molta invidia per le sorelle che vivono permanentemente la loro clausura. Non parlerei di privilegio; ma di una disposizione a compiere alcune azioni. Quanto alla clausura dopo il concilio di Trento fu introdotta quella parziale. La comunità del monastero decide la dispensa, come applicarla e quando revocarla».
Com’è la sua vita nel monastero?
«È divisa in proporzioni uguali tra il lavoro e la preghiera».
Per lavoro cosa intende?
« Svolgo soprattutto un’attività intellettuale: faccio traduzioni, scrivo articoli, insegno. Quest’anno la mia lezione è divisa in due parti: sulla necessità dell’anima, che prende spunto dal libro di Simone Weil La prima radice, e sulla teologia femminista nella storia».
Lei ha parlato di una “teologia queer”. Cosa significa?
« Queer è un termine che cominciò a circolare negli anni Novanta. Può voler dire “attraversamento”, “passaggio”, “transizione”. Poi ha preso il significato di bizzarro, strano, stravagante».
È stato ricondotto all’universo transgender.
«È vero e si tratta di una declinazione possibile. Quello che intendo è affrontare una teologia fuori dagli schemi precostituiti. La teologia non è la difesa concettuale dell’esistenza di Dio. Il che potrebbe creare parecchi malintesi. No. È una forma di co-creazione».
Cioè?
«Penso che Dio non si sia limitato a creare il mondo e noi in sette giorni. Co-creazione significa che noi continuiamo a svolgere il suo lavoro con altri strumenti».
Però non siamo perfetti.
«Creare è anche rischiare. Senza il rischio, dice Weil, non c’è libertà. Dio ha creato dei pezzi unici. Sta a noi continuare a esserlo».
Questo vuol dire per lei essere monaca?
«Vuol dire anche questo».
Si potrebbe accostarla a un pensiero eretico.
«Non sono mai stata indottrinata a un cristianesimo conservatore. Per ogni giorno che passa dovremmo essere disposti ad apprendere qualcosa di nuovo».
Non teme la scomunica?
«Sono preparata, non la temo. La scomunica è stata la cosa peggiore del cattolicesimo. Equivale all’ostracismo dei greci».
È felice?
«Lo sono ogni volta che rientro in monastero. Ogni volta che faccio qualcosa che aiuta a trasformarci. Agostino ha detto: “ Dio ci ha creato senza di noi, però non ci vuole salvare senza di noi”. Felicità è anche questa consapevolezza del nostro essere umani per e con gli altri».