«Il Sinodo è già in corso e assistiamo alla reazione di un settore ecclesiale contrario a qualsiasi intenzione di apertura, come se il rinnovamento mettesse in discussione non solo alcuni presupposti dell’insegnamento tradizionale, quanto la fedeltà e la dottrina autentica della Chiesa, nonché lo stesso Vangelo. In questo senso, con rispetto e dopo aver riflettuto, il presente documento intende fondamentalmente presentare la legittimità di un cambiamento»
Nasce da questa esigenza un lungo e argomentato documento inviato al Sinodo, nella persona del card. Oscar Maradiaga, e all’Osservatore Romano, da un gruppo di 18 teologi: Ariel Alvarez, Raul Lugo, Xabier Alegre, Juan Masia, José Arregi, Antonio Monclus, Fernando Bermudez, Guillermo Mugica, Frei Betto, Jesús Pelaez, Nicolás Castellanos, Xabier Pikaza, Benjamín Forcano, Manuel Reyes Mate, Manuel Fraijo, Julián Ruiz Diaz, Joan Godayol e Manuel Suances. Per questioni di urgenza – il Sinodo è, appunto, in corso – prima di diffondere il documento (intitolato “Gruppo teologico pastorale appoggia papa Francesco nella sua apertura e nelle soluzioni dei problemi urgenti”) non si sono attese le adesioni di altri teologi e, spiegano i firmatari, anche il confronto con alcune teologhe non è stato possibile.
Le premesse
Due le premesse da cui parte il documento-appello: in primo luogo, il fatto che, come si legge nell’Instrumentum laboris, «il fondamento dell’annuncio della Chiesa sulla famiglia è radicato nella predicazione e nella vita di Gesù». La sequela di Gesù, «norma semplice e universale, porta con sé valori propri che però oggi si sono diluiti nella marea ingovernabile di un neoliberismo consumista. Tale sequela presuppone l’adesione al progetto di Gesù, che è quello della fratellanza, del servizio agli altri, della dignità e della priorità degli “ultimi” rispetto ai “primi”. In secondo luogo, la sequela di Gesù comprende «l’etica umana fondata sulla dignità della persona, che «ci permette di camminare uniti condividendo valori, criteri e comportamenti vincolanti per tutti». In particolare, il fatto «innegabile della famiglia umana», fondata sul rispetto della «persona totale umana». Questa unità, tuttavia, «non nega le differenze tra i popoli», senza peraltro che si sovrappongano al valore fondamentale della dignità della persona.
Quello sfasamento tra dottrina e mondo
Come coniugare queste due premesse di fronte alle sfide poste dai problemi della famiglia di oggi è il passo successivo della ricerca dei teologi. Nel corso dei secoli, infatti, si sono aggiunte ad esse numerose altre norme, elaborate «a partire da circostanze e ragioni storiche concrete», molte delle quali, però, «divenute obsolete e impugnate perché ormai controcorrente, al margine della scienza, del sentire della gente, delle nuove proposte di teologi e moralisti e soprattutto del Vangelo». Cambiati i paradigmi culturali, la Chiesa ha il dovere di «condividere la verità del Vangelo sulla famiglia con la verità della scienza e della ricerca biblico-teologica». Invece, questa collaborazione non c’è stata, portando la Chiesa a «idolatrare spesso il proprio magistero pensando di avere il possesso di ogni verità». Da questo punto di vista, largamente disattese sono state le acquisizioni del Concilio Vaticano II e ampiamente sottovalutato il compito dei teologi, tanto da creare uno sfasamento tra dottrine e norme da un lato e relazione con il mondo attuale. Alla luce di tutto ciò, i teologi ritengono che si possano «trovare soluzioni a problemi finora ritenuti risolti in virtù di norme tradizionali inamovibili senza tenere in considerazione l’apporto delle scienze né i cambiamenti richiesti dal progresso dell’esegesi e della teologia (omosessualità, aborto, celibato opzionale per i preti, ordinazione sacerdotale femminile, divorziati nella Chiesa)». Papa Francesco «si muove in questo atteggiamento di rispetto, collaborazione e integrazione del sapere».
Omosessualità
È a partire dal XIII secolo che l’omosessualità «va rivestendo un carattere di vizio, orribile (nefandum, innominabile)», quale non è riconosciuto a delitti come il matricidio, il genocidio o l’incesto. La «costruzione biblico-teologica morale che giustifica la gravità di questo peccato», sostengono i teologi, «oggi si è dimostrata prescientifica e opposta al contesto e al senso dei testi biblici». L’Organizzazione mondiale della Sanità ha ormai depennato l’omosessualità dalle malattie e il Consiglio d’Europa ha sollecitato i governi a combattere le discriminazioni sessuali: non si può contrapporre a queste indicazioni «l’esistenza di un’etica cristiana che le contraddice e qualificherebbe l’omosessualità come disordinata e intrinsecamente perversa». Da un punto di vista teologico, «è ben fondata la posizione di coloro che sostengono che la sessualità umana non ha come modello naturale esclusivo l’eterosessualità ma che l’omosessualità esiste come variante naturale legittima, minoritaria». E se è positivo raccomandare rispetto per le persone omosessuali, tale raccomandazione «è carente laddove continua a ritenere che l’omosessualità e la relazione tra omosessuali siano deviate, intrinsecamente perverse».
Aborto
Benché sia un tema estremamente complesso, sull’aborto «riteniamo possibile un accordo comune su punti etici di valore universale», affermano i 18 teologi. In primo luogo: il diritto di ogni essere umano alla vita. Attenzione, però: «Difendere il diritto alla vita non significa difendere il processo embrionale dal suo inizio». Si tratta infatti di una questione aperta, scientificamente parlando. Se nella tradizione cristiana sono sempre esistite posizioni diverse sulla questione (San Tommaso, Sant’Alberto Magno, fino alla teologia postridentina), le teorie più moderne affermano «che l’embrione non è propriamente individuo umano se non dopo alcune settimane dal concepimento»: che i geni non siano una persona in miniatura, lo ha dimostrato la biologia molecolare. Dunque, «chi segue tale teoria può sostenere ragionevolmente che l’interruzione dell’embrione prima dell’ottava settimana non può essere considerata attentato alla vita umana, né possono essere considerati abortivi i metodi che impediscono lo sviluppo embrionale prima di quella data». Questa teoria, che «modifica notevolmente molti punti di vista e stabilisce un punto di partenza comune per capirci, per orientare la coscienza dei cittadini, per fissare il momento del diritto alla vita prima della nascita e per legiferare con un minimo di intelligenza, consenso e obbligatorietà per tutti di fronte al conflitto posto da una situazione concreta», pone le basi di un cammino comune, di una convivenza che nasce dall’accordo «tra il meglio e il più etico».
Celibato opzionale
Perché tanta acrimonia verso i preti sposati? Secondo la dottrina cattolica, il celibato non è una legge divina ma disciplinare della quale solo a partire dal XII secolo si stabilisce l’obbligatorietà. La sua continuità non è una prova di un carattere valido in assoluto e immutabile. Oggi si assiste alla crisi di questa forma storica perché, se il celibato continua a essere ritenuto uno stile di vita cui dedicarsi completamente, «legittimo e persino umanizzante», è e deve essere «un’opzione libera, assolutamente volontaria, che non parte da alcuna carenza, coazione o impotenza fisica, ma da una decisione morale, cosciente e gratuita». Oggi ad essere in discussione non è infatti il celibato in sé quanto la sua obbligatorietà, fondata su ragioni che oggi sono superate: la minore dignità della vita fisica e sessuale, ragioni «prettamente maschili e maschiliste», ma soprattutto l’ansia di «dominio e potere» che si esprime attraverso un sacerdozio maschile e celibe. Ma qui ci si allontana dal Vangelo: ciò che è fondamentale è seguire Gesù nel dono totale della vita, che prescinde dal celibato o meno dei suoi discepoli.
Ordinazione femminile
La “porta chiusa” alle donne per quanto riguarda il sacerdozio è un dato di fatto. E lo è da più di 20 secoli. Tuttavia, oggi «è il momento di chiedersi perché è chiusa e continua a esserlo». «Le differenze tra uomo e donna – scrivono i teologi – non sono ragioni per giustificare la sottomissione della donna al dominio maschile e per la sua esclusione da alcuni compiti ecclesiali». La lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II del 1994 «non porta nulla di nuovo» e quindi «non ha potuto essere proposta come una verità di fede né di magistero infallibile o ex cathedra». I suoi argomenti «sono più che deboli: il fatto che Gesù abbia scelto a quel tempo solo maschi non vuol dire che lo abbia fatto in modo esclusivo e per sempre. Questa esclusione perpetua non può essere inclusa nell’azione di Gesù. Molte teologhe e molti teologi hanno dimostrato che non ci sono obiezioni dogmatiche per l’ammissione della donna all’ordinazione sacerdotale». I teologi concludono la loro riflessione sul tema citando il teologo Domiciano Fernández, cui non fu permesso di pubblicare un libro sull’argomento, e che pervenne a queste stesse conclusioni: «Molti anni di studio non sono riusciti a convincere né i teologi né i biblisti che sia espressa volontà di Cristo escludere le donne dal ministero ordinato. I ministeri li ha creati la Chiesa secondo le necessità dei tempi e secondo la cultura dell’epoca. Che sono cambiate e stanno cambiando».
Divorziati nella Chiesa
Il tema dei divorziati risposati è forse quello che più di altri sta riscaldando il dibattito nel Sinodo in corso. Il matrimonio, osservano i teologi dal canto loro, «come realtà umana, esistenziale, può presentare difficoltà, crisi, incompatibilità, fino alla rottura». Gesù propone «il progetto del matrimonio indissolubile, come progetto ideale, una meta da raggiungere, la migliore. Ma senza perdere di vista la condizione umana che, per la sua fragilità e incorreggibilità, può in certi casi rendere impossibile il raggiungimento di questo ideale». «In tal caso, non si può continuare ad affermare – così i teologi – che l’indissolubilità è una norme sempre inderogabile. La situazione di migliaia e migliaia di cattolici divorziati e risposati civilmente, è un grido contro certe norme che li condanna a vivere fuori dalla Chiesa. La connaturale libertà e il rischio che accompagnano ogni matrimonio fanno sì che non lo si possa considerare assolutamente indissolubile e che, nel caso di un fallimento serio, lo si possa correggere iniziando un nuovo cammino». È un diritto «ovvio, benché relativo e condizionato. E, in questo caso, la Chiesa non può limitarsi a fornire una soluzione eccezionale per esseri eccezionali».
Già nel 1980 nove teologi spagnoli (tra cui alcuni dei firmatari dell’attuale documento) elaborarono un testo intitolato “Domande di alcuni teologi ai loro vescovi”, in risposta alle “Istruzioni” sul divorzio civile pubblicate dall’episcopato spagnolo, in cui affrontavano anche il tema dei divorziati risposati. In esso, ricordano i 18 teologi, osservavano che i vescovi «non avevano tenuto in considerazione il sentire reale della comunità cattolica; si erano preoccupati solo del divorzio come se si trattasse di una legge meramente politica e civile; avevano dato a intendere che per i cattolici non vi è nessuna possibilità di divorzio e che si trattava di una dottrina che doveva restare immutabile». E aggiungevano di non mettere in dubbio la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio proposta da Gesù, sottolineando però che «tale dottrina deve proporre un ideale e una meta verso la quale ogni coppia deve avvicinarsi, senza escludere rischi, equivoci e fallimenti e non come legge assoluta con cui ogni coppia, per il fatto stesso di sposarsi, si identifica automaticamente, senza possibilità di vivere rotture o incompatibilità o almeno incompatibilità che rendano impercorribile questa legge». Di qui le domande, ancora attualissime, che i teologi si ponevano già 35 anni fa: «Credete personalmente, ognuno di voi, che l’attuale disciplina della Chiesa su questo punto sia proprio quella del Vangelo, quella che risponde alla vita e all’insegnamento di Gesù? Non vi pare che la Chiesa dovrebbe qui fare i conti radicalmente con se stessa?». «Dobbiamo guardare – concludevano i nove teologi, ma anche i 18 di oggi – a ciò che accade nella nostra Chiesa, con la realtà di tanti matrimoni falliti, senza speranza di recupero, e perciò già passati attraverso il divorzio nella pratica, ma condannati dal punto di vista canonico».