“Poi toccò a me. Ormai ero terrorizzata.
– Quando avremo tolto questo “kintir” (clitoride) tu e tua sorella sarete pure.- Dalle parole della nonna e degli strani gesti che faceva con la mano, sembrava che quell’orribile kintir, il mio clitoride, dovesse un giorno crescere fino a penzolarmi tra le gambe. Mi afferrò e mi bloccò la parte superiore del corpo… Altre due donne mi tennero le gambe divaricate. L’uomo che era un cinconcisore tradizionale appartenente al clan dei fabbri, prese un paio di forbici. Con l’altra mano afferrò quel punto misterioso e cominciò a tirare… Vidi le forbici scendere tra le mie gambe e l’uomo tagliò piccole labbra e clitoride. Sentii il rumore, come un macellaio che rifila il grasso da un pezzo di carne. Un dolore lancinante, indescrivibile e urlai in maniera quasi disumana. Poi vennero i punti: il lungo ago spuntato spinto goffamente nelle mie grandi labbra sanguinanti, le mie grida piene di orrore… Terminata la sutura l’uomo spezzò il filo con i denti… Ricordo le urla strazianti di Haweya, anche se era più piccola, aveva quattro anni, scalciò più di me per cercare di liberarsi dalla presa della nonna, ma servì solo a procurarlo brutti tagli sulle gambe di cui portò le cicatrici tutta la vita.
Mi addormentai, credo, perché solo molto più tardi mi resi conto che le mie gambe erano state legate insieme, per impedire i movimenti e facilitare la cicatrizzazione (dato che c’è stata una perdita di sostanza, clitoride e piccole labbra, le gambe legate insieme permettono la cicatrizzazione, ma la cicatrizzazione avviene in retrazione. Non c’è più tutto il tessuto necessario perché le gambe possano essere divaricate completamente. Nessuna farà più la spaccata. Anche dare un calcio a un pallone può essere impossibile, come andare a cavallo o, nei casi più gravi, nuotare a rana. Nei casi più gravi, dove infezioni riducono ulteriormente il tessuto, le donne non possono più divaricare le gambe per accovacciarsi e urinare e, dove non esistono water, devono urinare dalla posizione in piedi con l’orina che scola tra le gambe, scola un filino alla volta, una goccia alla volta).
Era buio e mi scoppiava la vescica, ma sentivo troppo male per fare pipì. Il dolore acuto era ancora lì e le mie gambe erano coperte di sangue. Sudavo ed ero scossa dai brividi. Soltanto il giorno dopo la nonna mi convinse a orinare almeno un pochino. Oramai mi faceva male tutto. Finché ero rimasta sdraiata immobile il dolore aveva continuato a martellare penosamente, ma quando urinai la fitta fu acuta come nel momento in cui mi avevano tagliata. Impiegammo circa due settimane a riprenderci. La nonna accorreva al primo gemito angosciato. Dopo la tortura di ogni minzione ci lavava con cura la ferita con acqua tiepida e la tamponava con un liquido violaceo, poi ci legava di nuovo le gambe e ci raccomandava di restare assolutamente ferme o ci saremmo lacerate e allora avrebbe dovuto chiamare quell’uomo a cucirci di nuovo.
Lui venne dopo una settimana per esaminarci. Haweya doveva essere ricucita. Si era lacerata urinando e lottando con la nonna… L’uomo ritornò a togliere il filo dalla mia ferita. Ancora una volta furono atroci dolori per estrarre i punti usò una pinzetta. Li strappò bruscamente mentre di nuovo la nonna e altre due donne mi tenevano ferma. Ma dopo questo anche se avevo una ruvida spessa cicatrice tra le gambe che faceva male se mi muovevo troppo, almeno non fui più costretta a restare sdraiata tutto il giorno con le gambe legate. Haweya dovette attendere un’altra settimana e ci vollero quattro donne per tenerla ferma… Non dimenticherò mai il panico sul suo viso e nella sua voce… Da allora non fu più la stessa… aveva incubi orribili. La mia sorellina un tempo allegra e giocosa cambiò. A volte si limitava a fissare il vuoto per ore. (svilupperà una psicosi)… cominciammo a bagnare il letto dopo la circoncisione.”