l’arcivescovo Tutu chiede di poter scegliere una «morte dignitosamente assistita».

l’arcivescovo Tutu e l’eutanasia

“lasciatemi la scelta”Tutu

di Michele Farina
in “Corriere della Sera” dell’8 ottobre 2016

nel mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo

L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace 1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce» alla causa della «morte dignitosamente assistita». Un occhio alla festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia (vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna #ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le sue riflessioni in «fine vita». Non c’è contraddizione tra l’inno alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna del quotidiano americano The Washington Post : «Per tutta l’esistenza ho avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il diritto di morire con dignità». Su questo tema, l’incrollabile campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà l’ora». Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita. Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica, dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la violenza sulle donne… La dignità dei viventi è minacciata ogni giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.

la bibbia sovversiva di Desmond Tutu

la bibbia è un libro sovversivo

di Desmond Tutu

 

Tutu
in “la Repubblica” del 17 ottobre 2015

“bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”

“La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti. Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’ Imago Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante. Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente. Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva. Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid. Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso
trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio. Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te». Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.

D. Tutu contro i muri dell’apartheid

«i muri contro i più deboli sono il nuovo apartheid»

intervista a Desmond Tutu

a cura di Umberto De Giovannangeli
in “l’Unità” del 6 luglio 2015

Tutu

 

“Quei Muri non sono solo l’espressione violenta di un mondo che pensa di salvare i propri privilegi sbarrando la strada della speranza a milioni di esseri umani talmente disperati da affidare la propria vita a criminali senza scrupoli. Quei Muri sono anche il segno di una impotenza politica, di una bancarotta morale dell’Occidente e in esso della “civile” Europa. Quei Muri sono l’espressione contemporanea di un nuovo apartheid. I leader europei parlano di quote, ma mi appello a loro per ricordare che non siamo di fronte a dei numeri ma ad esseri umani, i più indifesi, quelli che non hanno voce e diritti. Aiutarli è un dovere per chiunque abbia ancora una coscienza e risponda al suo Dio”.

A parlare è colui che, assieme a Nelson Mandela, ha rappresentato il simbolo della lotta contro il regime dell’apartheid sudafricano: Desmond Tutu, arcivescovo anglicano emerito di Città del Capo, 84 anni, premio Nobel per la pace 1984. A lui ricordo quando, subito dopo la strage di migranti a Lampedusa, era il 2013, sempre dalle colonne de l’Unità lanciò un appello sostenendo la necessità di “una rivolta morale contro tutte le forme di schiavitù: dallo sfruttamento delle donne come schiave sessuali all’impiego dei bambini in condizioni inaccettabili per lunghe ore. Ma la piaga dei migranti illegali, e quel che accade loro, è una delle peggiori forme di schiavitù esistenti oggi al mondo. A quanti fuggono da guerre civili, conflitti tribali, pulizie etniche e da povertà disumane, occorre garantire protezione, riconoscere diritti, e il primo di questi è il diritto alla vita e a una vita migliore”. Da allora sono passati quasi due anni, e altre stragi di innocenti si sono consumate nel Mediterraneo, altre guerre si sono aggiunte a quelle allora esistenti, e oggi, secondo il recente rapporto Global Trends dell’Unhcr, ogni 122 abitanti del pianeta 1 è un rifugiato: “Purtroppo – riflette con amarezza Tutu – le cose sono cambiate, in peggio. Migranti disperati continuano ad affogare nelle acque del Mediterraneo, o a morire attraversando il deserto del Sinai, mentre in Asia sono state scoperte fosse comuni colme dei corpi di migranti. Ed ecco la ragione per cui la xenofobia e le migrazioni rappresentano oggi delle questioni urgenti a livello globale” Il mondo si “mura”. Dalla Palestina al cuore dell’Europa, passando per l’Egitto, la frontiera fra Stati Uniti e il Messico, e ancora Ungheria, Mostar, Cipro, Calais, Melilla… Cosa rappresenta per Lei questo moltiplicarsi di muri e barriere divisorie? “Quei muri non sono solo una vergogna, una nuova forma globale di apartheid. Quei muri, quelle barriere di filo spinato, sono anche il segno di una impotenza mascherata con l’esercizio della forza. E’ il voler chiudere gli occhi, oltre che i cuori e le menti, ad un mondo sempre più segnato da ingiustizie e da guerre, molte delle quali sono a loro volta il lascito di altre guerre scatenate dall’Occidente, in Iraq e in Libia, ad esempio. So bene che esistono problemi di sicurezza che non vanno sottovalutati, ma inorridisco di fronte a quanti, nella stessa Europa, cavalcano le paure verso il migrante per erigere altri “muri’ non meno pericolosi di quelli materiali: sono i “muri” dell’odio razziale, del pregiudizio portato all’estremo. Ma questi “Muri”, materiali e morali, non potranno mai arrestare una moltitudine di disperati che cresce di giorno in giorno. Leggo che molti in Europa si chiedono dove vuole andare questa gente. Ma la domanda vera da porsi è un’altra…”. Quale è questa domanda, arcivescovo Tutu? “E’ chiedersi da quali gironi dell’inferno questi esseri umani fuggano, da quali indescrivibili abomini cercano di liberarsi, cosa hanno visto i loro occhi, quali crudeltà hanno subito per decidere di mettere la propria vita, quella dei propri figli, nelle mani degli scafisti. La grande maggioranza di queste persone provengono dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla martoriata Siria: hanno diritto all’asilo e questo asilo deve essere europeo, perché è profondamente ingiusto, oltre che inefficace, lasciare soli ad affrontare quella che non è più una emergenza ma la “normalità” in un modo destabilizzato, Paesi di frontiera come è l’Italia. Ho avuto modo di scriverlo recentemente e mi pare importante ripeterlo con forza in ogni dove: nessuno sceglie di essere un rifugiato o un migrante. Trovarsi ad
affrontare la povertà, la discriminazione, la violenza, la guerra, la corruzione e la malnutrizione è un po’ come starsene chiusi in prigione, perché ti rende incapace di vivere a pieno la tua vita. E la migrazione rappresenta l’unica via di fuga. “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese” : non lo afferma Desmond Tutu, conterebbe davvero poco, ma lo sancisce l’articolo 13 (punto 2, ndr) della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Contribuire ad attuare questo principio è compito di ogni uomo di buona volontà”. Tra le tante frasi che l’hanno resa celebre nel mondo, ce n’è una che mi sembra che più di altre dia il senso a quella rivolta morale contro i costruttori di Muri, da Lei evocata: “Non mi interessa raccogliere briciole di compassione buttate dal tavolo da qualcuno che si considera il mio maestro. Voglio il menu completo dei diritti” “Sì, è così. Non si tratta solo di essere “insaziabili” quanto a libertà e a diritti, umani, civili, sociali, ma quella frase è anche la richiesta di un’assunzione di responsabilità da parte di ciascun individuo, non importa se potente o meno. Nessuno oggi può dire “non sapevo, non ho visto” ovvero “il problema è troppo grande non sarò certo io a poterlo risolvere”. La risposta è che affermazioni come questa rendono quei problemi insormontabili. In tanti incontri a cui ho partecipato in ogni parte del mondo, ho spesso sentito parlare della mancanza di una leadership politica all’altezza dei tempi. Mi sono permesso di affermare che ciò di cui sento spesso la mancanza è di una leadership etica…”. Come si pratica una “leadership etica”? “In tanti modi. Ad esempio, non stancandosi mai di rammentare come ci si senta a essere perseguitati o senza voce. Mantenere la dignità della vittima, ma anche mostrare indulgenza per le sfide della leadership come collettivo di persone che sono state liberate dai vincoli del ruolo ufficiale”. Quella siriana, ha affermato a più riprese il segretario generale delle Nazioni Unite, BanKimoon, rappresenta la più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi. “Oggi la Siria è un ammasso di macerie, teatro di una guerra che non conosce limiti. Quello siriano è divenuto un popolo di sfollati, alla mercé di bande di assassini che fanno mostra della loro abiezione. Non ho mai creduto che la guerra possa sconfiggere la guerra, e non sono tra quelli che hanno tacciato di vigliaccheria quei leader politici occidentali che si sono dichiarati contrari ad un intervento militare in Siria. Ma l’alternativa alla guerra non è, non deve essere la rassegnazionei

il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013

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