povero papa, per difendere i poveri e l’ambiente si trova contro i vescovi americani e spagnoli

Un papa di sinistra? Francesco non piace agli episcopati di Spagna e Stati Uniti

un papa di sinistra?

Francesco non piace agli episcopati di Spagna e Stati Uniti

tratto da: Adista Notizie n° 39 del 06/11/2021

 

 È oggetto di attacchi inusitati ultimamente papa Francesco. Sicuramente in Spagna, dove se ne è sentite dire di tutti i colori: non solo dopo che ha inviato al presidente messicano Obrador una lettera dove ricordava la richiesta di perdono per gli orrori compiuti durante la Conquista spagnola (con ciò meritandosi la definizione di «antispagnolo ») già pronunciata da lui e dai due papi che lo hanno preceduto (v. Adista Notizie, nn. 36 e 37/21); ma anche dopo che ha consigliato alle autorità politiche di ogni parte del mondo, nel suo discorso ai Movimenti Popolari (v. Adista Notizie, n. 38/21), di introdurre un «salario universale» e la «la riduzione della giornata lavorativa» e di impegnarsi a favore «dell’integrazione urbana, dell’agricoltura familiare, dell’economia popolare». È un «peronista», un «populista», «un uomo di sinistra», «una catastrofe per la Chiesa», è saltato su il direttore del giornale di destra La Razón, Francisco Marhuenda, durante il programma televisivo La-Sexta Noche (17/10), «dovrebbe capire che la vita reale non è un concorso di miss». «Come cattolico – ha aggiunto – resisterò fino a quando Dio lo chiamerà a sé e giungerà un papa che abbia la testa più in ordine»; l’attuale «non piace ai cattolici, piace agli atei e agli agnostici».  

Ma non va meglio, a papa Francesco, negli Stati Uniti: l’ex arcivescovo di Filadelfia, mons. Charles Chaput, in un articolo pubblicato il 21 ottobre su First Things, gli ha praticamente dato del bugiardo, peraltro restituendo al papa pan per focaccia. Era successo che Bergoglio, nell’incontro con i gesuiti in Cecoslovacchia, riferendosi – senza citarlo, ma riconosciuto da tutti – al network cattolico conservatore e anticonciliare EWTN (di cui Chaput è stato membro del consiglio di amministrazione fino al momento della pensione), aveva detto: «C’è una grande televisione cattolica che continuamente sparla del papa senza porsi problemi. Io personalmente posso meritarmi attacchi e ingiurie perché sono un peccatore, ma la Chiesa non si merita questo: è opera del diavolo. Io l’ho anche detto ad alcuni di loro».  

Nel suo articolo tutto di riprensione al papa e il cui titolo “Un po’ di saggezza da san Bernardo” suona come un suggerimento ad attingere a quel santo, Chaput elogia quanto più può EWTN: è «riuscita a servire il Vangelo ormai da decenni con abilità e perseveranza dove molti altri hanno fallito. Pertanto, è difficile leggere i critici della rete senza annusare anche la loro peculiare colonia di finta pietà, gelosia e risentimento. I risultati di EWTN meritano lodi e meritano orgoglio. Ammiro la dedizione dei suoi leader e del personale. Sono grato per il servizio della rete alla Parola di Dio. E – ecco l’affondo – qualsiasi suggerimento che EWTN sia infedele alla Chiesa, al Concilio Vaticano II o alla Santa Sede è semplicemente vendicativo e falso».  

I vescovi tacciono  

Se, in Spagna c’è chi si chiede come mai nessun vescovo interviene a difendere il pontefice – «è clamoroso il silenzio di questi pastori », leggiamo su Religión Digital (20/10), «non dovrebbe essere un’opzione per i vescovi stare zitti di fronte alla grossolanità delle squalificazioni di cui è oggetto questo papa» –, negli Stati Uniti la risposta al “come mai” è più evidente: la maggioranza dei vescovi nordamericani non sono d’accordo con un papa che non nega l’accesso alla comunione al presidente Biden malgrado questi sostenga la necessità di una legislazione sull’aborto e di una protezione federale dei diritti civili alle persone LGBTQ; con un papa che ritiene cosa sensata le unioni civili per le coppie dello stesso sesso; che combatte l’ingiustizia razziale e la povertà e protegge l’ambiente.  

Che siano in maggioranza conservatori i vescovi statunitensi e perché, emerge da uno studio pubblicato da Religion News Service il 19 ottobre. Lo studio è stato condotto da Daniel R. Di Leo, professore associato e direttore del programma di Studi sulla Giustizia e la Pace alla Creighton University; Sabrina Danielsen, professoressa assistente di sociologia alla Creighton, e Emily E. Burke, dottoranda nel programma congiunto di Sociologia e Comunità e Sociologia Ambientale presso l’Università del Wisconsin-Madison (la versione più estesa di tale studio gli autori l’hanno pubblicata su Environmental Research Letters). Oggetto della ricerca, il magistero ambientale di papa Francesco e l’accoglienza che ha negli Usa. Ne emerge, in controluce, che i vescovi non condividono le scelte di Francesco sul clima per lo stesso motivo per cui sono refrattari a tanto altro magistero bergogliano: in buona percentuale in linea con il Partito repubblicano, sono conservatori “dentro”.  

Anziani, bianchi e di destra  

Lo studio è stato portato avanti su 12.077 articoli apparsi su pubblicazioni ufficiali a firma dei vescovi di 171 su 178 diocesi nel periodo da giugno 2014 (l’anno prima dell’enciclica ecologica Laudato sì’) a giugno 2019. «Ci siamo chiesti: i vescovi americani hanno comunicato fedelmente gli insegnamenti della Chiesa sui cambiamenti climatici prima e dopo la ‘Laudato sì’?», scrivono i ricercatori. «La nostra ricerca mostra chiaramente che le comunicazioni dei vescovi cattolici statunitensi hanno sminuito collettivamente l’impatto dell’enciclica sul cambiamento climatico». «Gli articoli dei vescovi – si spiega – non sono solo una questione di punti di vista personali. I vescovi hanno il dovere di condividere la pienezza della fede, compreso l’insegnamento della Chiesa sui cambiamenti climatici, con la loro diocesi».  

«Solo 93 (0,8%) dei 12mila e passa articoli – riferisce lo studio – menzionano il cambiamento climatico, il riscaldamento globale o il loro equivalente» e «provengono da soli 53 dei 201 vescovi nel nostro set di dati. Gli altri 148 (74%) non hanno mai menzionato il cambiamento climatico» e, quando lo hanno fatto, «hanno preso le distanze dall’insegnamento della Chiesa su questo tema: 44 dei 93 articoli (47%) che menzionano il cambiamento climatico non si riferiscono all’insegnamento della Chiesa sull’argomento». Dei 49 articoli che lo fanno, «6 sminuiscono l’autorità del papa» sul tema e 9 riducono «al minimo l’attenzione sui cambiamenti climatici all’interno dei più ampi insegnamenti ecologici della Chiesa».  

Negazionismo ideologico  

«Quando i vescovi hanno menzionato il cambiamento climatico, hanno minimizzato le parti della Laudato sì’ che sono in conflitto con un’identità politica o un’ideologia conservatrice. Poiché i conservatori politici statunitensi – spiegano i ricercatori – hanno una storia di negazione e ignoranza, seminata di dubbi sui cambiamenti climatici, è ragionevole presumere che molti vescovi, riconosciuti come sempre più allineati politicamente con il Partito Repubblicano, possano aver sperimentato una tensione tra la loro ideologia politica e il loro dovere di comunicare l’insegnamento del cambiamento climatico della Chiesa». «Nella Laudato si’, Francesco ha condiviso l’analisi accademica secondo cui il capitalismo deregolamentato e basato sulla crescita è la causa predominante del cambiamento climatico. I vescovi americani, invece – proseguono gli autori – sono stati quasi in silenzio sulle cause economiche del cambiamento climatico. Cinquantaquattro dei 56 articoli (96%) che ne parlano come reale o in atto non ne descrivono le radici economiche, un fenomeno noto come “negazionismo ideologico”».  

«Il relativo silenzio dei vescovi sulla politica ambientale è particolarmente degno di nota poiché non hanno taciuto, nei loro articoli, sulle politiche relative ad altre questioni sociali, come l’aborto, che compaiono solo raramente nella Laudato si’. Mentre Francesco ha menzionato il cambiamento climatico 24 volte e l’aborto solo una volta, i vescovi hanno menzionato entrambe le questioni con uguale frequenza quando hanno discusso dell’enciclica». «I nostri risultati non mostrano in modo definitivo che il conservatorismo dei vescovi cattolici statunitensi sia stata la causa principale del loro silenzio sui cambiamenti climatici o degli insegnamenti distorti sulla Laudato sì»; ma quanti hanno scritto sul cambiamento climatico, «hanno ampiamente ignorato le politiche pubbliche»: il 78% degli articoli «menziona l’azione interna» per salvare il pianeta, solo il 39% parla di «eventuali azioni ambientali esterne» e un 9,7% cita gli Accordi di Parigi. E d’altronde, nel 2016, il 47% dei vescovi statunitensi, «generalmente anziani e bianchi, che hanno risposto a un sondaggio, ha affermato che il conservatore Fox News Channel era la loro principale fonte di notizie».

per i vescovi americani viviamo un bruttissimo momento

l’ira dei vescovi

«è un’ora buia»

 

di Mariaelena Finessi
in “Trentino” del 31gennaio 2017

I vescovi americani si ribellano al bando anti-islamici di Donald Trump che vieta l’ingresso negli Stati Uniti per quanti arrivano da 7 Paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.

«Il mondo ci guarda mentre abbandoniamo il nostro impegno verso i valori americani»

denuncia il cardinale di Chicago, Blaise Cupich. Il porporato, a cui papa Francesco nel nel 2014 ha dato la responsabilità della terza diocesi cattolica degli Usa, intravede in quest’operazione discriminatoria

«un’ora buia nella storia dell’America»

Indigeste anche le eccezioni riservate ai cristiani e ad altre minoranze religiose del Medio Oriente, senza contare, continua Cupich, che la decisione di non inserire nel bando i Paesi di origine di 15 dirottatori responsabili della tragedia dell’11 settembre è alquanto strana mentre ha come obiettivo gli iracheni, «perfino quanti hanno assistito le nostre forze armate in una guerra distruttiva». Se Trump era certo di far cosa gradita alla Chiesa, offrendo ai profughi cristiani in fuga da guerre e persecuzioni una corsia preferenziale, la protesta di leader cattolici e di altre denominazioni protestanti dovrà invece farlo ricredere. Quella costruita dagli Usa è una «trappola», sintetizza Louis Raphael I Sako, Primate della Chiesa cattolica orientale a cui appartiene la maggioranza dei cristiani iracheni.

«Queste scelte discriminanti – chiarisce – creano e alimentano tensioni con i nostri concittadini musulmani. I sofferenti che chiedono aiuto non hanno bisogno di essere divisi in base a etichette religiose. E noi non vogliamo privilegi. Ce lo insegna il Vangelo e lo ha mostrato anche papa Francesco, che ha accolto a Roma rifugiati fuggiti dal Medio Oriente sia cristiani che musulmani, senza distinzioni»

L’ordine di Trump, a cui si lavorava da mesi – come ha rivelato ieri il Wall Street Journal – ha però anche (pochi) supporter: tra questi, il reverendo Franklin Graham, figlio del predicatore Billy Graham, un evangelico che da tempo denuncia «il cancro» dell’Islam e prima ancora di Trump aveva proposto il bando dei musulmani alle frontiere: «Dobbiamo essere sicuri – ha spiegato, difendendo le misure ordinate dalla Casa Bianca – che le loro filosofie in materia di libertà siano in linea con le nostre». Un modo di pensare, questo, che non aiuta a superare la paura, anzi.

«Queste azioni – è il monito di Cupich – danno conforto a coloro che vorrebbero distruggere il nostro modo di vivere. Abbassano la nostra stima agli occhi di molti popoli che conoscono l’America come un difensore dei diritti umani e della libertà religiosa, non una nazione che ha come bersaglio le popolazioni religiose e poi chiude loro la porta in faccia. È tempo di unirsi per recuperare il senso di chi siamo e cosa rappresentiamo in un mondo che ha disperato bisogno di speranza e di solidarietà».

la paura dei vescovi americani di fronte alla Clinton ha favorito l’elezione di Trump

Trump e la miopia dei vescovi USA

di Massimo Faggioli
in “Settimana-News” – www.settimananews.it

 

l’episcopato americano ha avuto molta più paura di una presidenza Clinton che paura di Trump, si è posto contro la parte economicamente e politicamente debole della propria Chiesa, e ha rinunciato ad elaborare una parola alta di fronte ai messaggi più violenti della campagna elettorale di Trump, lunga quasi un anno e mezzotrump

Trump è stato eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, contro ogni previsione. Si apre una fase inedita e pericolosa per la democrazia in America, e specialmente per le Chiese americane che pretendono di essere ancora l’anima di questa nazione. Un paese profondamente moralista come gli USA ha eletto una persona come Trump che si gloria della sua immoralità non solo sulle questioni sessuali, ma anche fiscali e dell’etica del business, che – almeno nelle apparenze – è ancora importante in America. È un’elezione presidenziale che smaschera alcune ipocrisie della cultura americana e rivela la crisi sia della cultura progressista e secolarizzata che di quella conservatrice e religiosa, entrambe ossessionate dalla questione identitaria. Tre sono i fattori principali. Trump è stato eletto dal disagio economico e sociale dei dimenticati dalla globalizzazione, per protesta contro un sistema economico e finanziario di cui i Clinton fanno parte non meno di Trump, ma di cui i Clinton sono stati incolpati in quanto politici di professione. C’è poi una protesta dell’America profonda contro l’America delle élites culturali e secolarizzate e del sistema dei mass media dell’establishment. C’è, infine, una parte di risentimento contro il primo presidente afroamericano, Obama, che è parte di quella élite economica e intellettuale, ma è anche il volto dell’America futura, in cui i bianchi saranno presto una minoranza tra minoranze. La campagna di Trump ha sfruttato anche il risentimento razziale di quell’America profonda che non ha mai accettato Obama come legittimo presidente. L’America religiosa non coincide con quell’America profonda e reazionaria, ma ne è parte. Si apre un problema L’elezione di Trump apre un problema particolare per la Chiesa cattolica americana: di fronte alla sua storia, come Chiesa “importata” dagli immigrati in tempi più recenti rispetto ai fondatori; di fronte alla sua dimensione globale, con un papa come Francesco che rappresenta l’alternativa al sistema globale che una buona parte dei vescovi americani non ha voluto scegliere, preferendogli Trump. L’episcopato americano ha avuto molta più paura di una presidenza Clinton che paura di Trump, si è posto contro la parte economicamente e politicamente debole della propria Chiesa, e ha rinunciato ad elaborare una parola alta di fronte ai messaggi più violenti della campagna elettorale di Trump, lunga quasi un anno e mezzo. Molti vescovi hanno a lungo sperato in una vittoria di Trump temendo, non senza qualche ragione, una radicalizzazione delle politiche abortiste di Clinton (una radicalizzazione che ha rivelato la miopia politica di Clinton ed è uno degli elementi della sconfitta), e non considerando che durante i governi dei repubblicani ideologicamente pro-life il numero degli aborti aumenta, a causa dei tagli allo stato sociale. C’è stata paura da parte di molti vescovi e clero e intellettuali cattolici di denunciare clinton

la retorica di Trump nello stesso modo in cui è stata denunciata la cultura abortista della “identity politics” del Partito democratico. Si è trattato di un errore di portata storica che la Chiesa americana pagherà politicamente ma anche spiritualmente. I primi a pagare ½ saranno i poveri in America, più che con una presidenza Clinton. Quale dialogo e su quali questioni? La settimana dopo l’elezione di Trump ha visto l’assemblea annuale della conferenza episcopale, che ha eletto i nuovi vertici per il prossimo triennio: ha eletto il nuovo presidente nel cardinale DiNardo (uno dei firmatari della lettera dei tredici cardinali contro Francesco durante il Sinodo dell’ottobre 2015), e ha eletto il vice-presidente (e quindi, secondo tradizione, probabilmente presidente nel triennio 2019-2022) nell’arcivescovo di Los Angeles, Gomez, il vescovo più visibile della popolazione cattolica dei latinos negli Stati Uniti, presentandola come una risposta all’elezione di Trump. Quella di Gomez è una scelta che non assolve i vescovi americani dalla loro acquiescenza rispetto a Trump. Che i cattolici latinos negli USA siano in buoni rapporti coi latinoamericani dell’America Latina è un mito. Sono mondi diversi, come sono mondi diversi, ormai, la Chiesa di Francesco e l’episcopato americano: le nomine episcopali di Francesco incidono sulle Chiese locali ma non (almeno per ora) sulla conferenza episcopale. I vescovi dovranno
dialogare con Trump, ma Trump cercherà di accontentare i vescovi su una serie molto limitata di questioni. Tutta la cultura sociale e politica della Chiesa istituzionale negli USA esce danneggiata da queste elezioni per la sua manifesta incapacità di cogliere cosa stava succedendo nel paese. Le prime nomine di Trump, annunciate nei primi dieci giorni dopo l’elezione, mantengono quanto minacciato: il nazionalismo “white supremacy” entra alla Casa Bianca, alla faccia di chi ancora si ostina a leggere il risultato delle urne in termini materialistici di disagio economico. La torsione che Trump imporrà La Chiesa cattolica americana è spaccata, come e più di altre Chiese, tra identità culturali, politiche ed etniche diverse, e quindi le reazioni sono diverse. La campagna Trump ha capitalizzato queste spaccature facendo leva sull’identità bianca e conservatrice, usando in modo strumentale la questione dell’aborto per attirare il voto cattolico. Come nel resto dell’America anche nella Chiesa cattolica democratici e repubblicani vivono mondi diversi, da punto di vista esistenziale e intellettuale. C’è un cattolicesimo sotto shock: l’America è un paese che si percepisce come entità spirituale e l’elezione di Trump è percepita come un segnale di grave crisi spirituale. C’è chi può permettersi di vedere questa transizione di potere come una delle tante nella storia americana, ma non lo è. Specialmente per chi non ha la pelle bianca, è un momento di sbigottimento e di paura. La paura è evidente specialmente tra i latinos, gli arabi e i musulmani, gli asiatici, le minoranze sessuali. La questione non è avere o non aver nulla da temere dalla legge: è il timore del razzismo di alcune frange della società americana, che hanno sempre fatto parte della società americana ma che da cinquant’anni circa erano tenute ai margini della vita politica, pur godendo spesso della protezione della polizia e del potere giudiziario. Ora con Trump si sentono rilegittimate a riproporre con un linguaggio violento il loro disegno di un’America etnicamente pura. La presidenza degli USA ha una funzione simbolica evidente anche dal punto di vista religioso: la presidenza ha una funzione di pontifex. Con la presidenza Trump l’eccezionalismo americano muore. L’ecclesiologia politica degli Stati Uniti è inclusiva: Obama la incarnava, Trump la rinnega. La ricerca di un ralliement tra i vescovi e Trump non considera la torsione a cui viene sottoposta l’ecclesiologia cattolica: Trump interpreta in senso etnico-razziale un certo settarismo tipico del neo- conservatorismo cattolico americano contemporaneo.

i vescovi americani non sembrano in sintonia con papa Francesco

papa

 

Intervista allo storico Faggioli: il 20% dei vescovi Usa volta le spalle a Papa Francesco

EPISCOPATO USA, LO STORICO FAGGIOLI: <DUE VESCOVI SU DIECI SONO CONTRO IL PAPA>

Articolo pubblicato sul Resto del Carlino, edizione di Ferrara, il 16 novembre 2013

A Ferrara ha lasciato i genitori, lui è salito in cattedra Oltreoceano. Non in senso figurato, ma con tanto di lezioni e studenti pronti ad ascoltarlo. Indirizzo, l’Università di St.Thomas, a St Paul (Minnesota), dove Massimo Faggioli insegna Storia del cristianesimo. Classe 1970, autore di diverse pubblicazioni (fra queste Nello spirito del concilio. Movimenti ecclesiali e recezione del Vaticano II) il professore si è formato al prestigioso Istituto per le scienze religiose di Bologna, per decenni diretto dallo storico Giuseppe Alberigo, padre della monumentale e discussa Storia del Concilio Vaticano II. Negli Usa Faggioli ha messo su famiglia, una moglie e una figlia, e soprattutto si sta facendo apprezzare come osservatore di una delle Chiese in cui la polarizzazione tra conservatori e liberal è tra le più marcate del pianeta. Di questo dovrà tenere conto anche il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, monsignor Joseph Edward Kurtz (Louisville), fresco di nomina al posto del gagliardo cardinale Timothy Dolan di New York.

I vescovi a stelle e strisce tornano al passato e, dopo lo strappo del 2010, come tradizione, hanno eletto al vertice il vice in carica: professor Faggioli, era una scelta prevedibile?

<Alcuni l’avevano prevista ed era una delle opzioni probabili. La scelta di Kurtz al primo turno e con larga maggioranza testimonia che l’elezione di Dolan, che scavalcò l’allora numero due, il progressista Gerald Kicanas, fu un’operazione della fazione più conservatrice>.

Con quale obiettivo?

<Quello di tentare di uniformare l’episcopato Usa alla linea ratzingeriana. Ora la Conferenza episcopale degli Stati uniti sembra tornare a una normalità istituzionale violata tre anni fa>.

Che tipo è monsignor Kurtz?

<Un moderato, lontano dagli ideologi che hanno dominato la scena nell’ultimo decennio, tra il cardinale Francis George e Dolan. Dalle credenziali pro-life inattaccabili, è un vescovo che sta meno sotto i riflettori rispetto al cardinale di New York. Dolan ha lasciato molti cattolici, anche tra i vescovi, delusi dal suo triennio di presidenza>.

L’elezione dell’arcivescovo di Louisville è una vittoria della linea moderata di papa Bergoglio su Dolan che ha schierato l’episcopato in trincea contro l’Obamacare in nome della lotta all’aborto, senza dimenticare qualche frecciatina allo stesso Francesco?

<È una vittoria della linea ‘moderata’: quello che è chiaro, però, è che c’è un 20% dei vescovi che non è contento del papa. Sono gli 87 prelati che hanno votato come vicepresidente per Charles Chaput, l’arcivescovo di Philadelphia, una personalità ideologica e divisiva>.

Proprio il pellerossa in questi mesi ha alzato il tiro, criticando apertamente Bergoglio. Per il momento, comunque, come numero due è stato scelto l’arcivescovo di Galveston-Houston, Daniel DiNardo, un italo-americano.

<Sì, un cardinale. Questo è forse il sintomo della voglia della Chiesa americana di alzare il profilo della sua dirigenza internamente e nei confronti di Roma>.

 

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