un “paradigma post-religionale” per un “secondo tempo assiale” – a 500 anni dalla ‘riforma protestante’

 

Il tempo di una rottura radicale

il tempo di una rottura radicale

 Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste
 da: Adista Documenti n° 40 del 25/11/2017

 

Ricordo bene come, negli anni ’80, alcuni pastori protestanti miei amici mi confidassero il loro sconcerto di fronte ai cambiamenti registrati all’interno della Chiesa cattolica grazie al Concilio Vaticano II, perché avevano visto cadere critiche importanti da parte della Riforma Protestante verso la Chiesa cattolica (sui santi, sulle immagini, sulla “mariolatria”, sull’ignoranza rispetto alla Bibbia, ecc.). L’essenza di ciò che essi presentavano ai cattolici come “buona novella” della Riforma protestante era stata assimilata con entusiasmo dalla base della Chiesa cattolica, come stabilito direttamente dallo stesso Concilio Vaticano II. Non aveva più senso insistere su quella critica, mi dicevano. Ed effettivamente, riguardo a molto di ciò che prima ci divideva, ora eravamo d’accordo! Ma ci domandavamo: cos’è che poteva continuare a tenerci separati?

La risposta a cui arrivammo era che, in effetti, erano le nostre istituzioni ecclesiali a essere divise ed erano le nostre teologie tradizionali, le nostre celebrazioni, i nostri riti a continuare a percorrere strade separate, ma che, nella nostra condivisione quotidiana nel Centro Ecumenico Antonio Valdivieso di Managua, dove lavoravamo come una quasi-comunità ecumenica, tale separazione non esisteva: c’erano solo differenze in termini di teologia e di spiritualità che rispondevano alla ricchezza delle nostre distinte tradizioni, ma che non andavano considerate come una divisione o una separazione, bensì come una positiva diversità. La polemica tra Riforma e Controriforma era stata da noi superata.

Da allora, i nuovi dibattiti teologici si delineavano in termini positivi, come contributi che ciascuna delle nostre differenti tradizioni poteva offrire. Dal Concilio Vaticano II, così come dai movimenti riformisti paralleli vissuti nel seno delle Chiese protestanti, come Uppsala 68 o il movimento “Chiesa e Società” del Consiglio Mondiale delle Chiese, era derivato un cambiamento di paradigma grazie a cui erano cadute, come “per implosione”, considerazioni teologiche di rottura e di separazione che erano rimaste valide per più di 400 anni. Dovemmo reinventarci dinanzi alla nuova congiuntura e, di certo, in quegli anni ebbe inizio in tutta l’America Latina un nuovo ciclo di ecumenismo, un “nuovo ecumenismo liberatore”.

Ma dal Concilio Vaticano II sono passati più di 50 anni e, in questo lasso di tempo,  si è registrata – si sta registrando – quella che è forse la trasformazione religiosa di maggiori dimensioni degli ultimi millenni (sì, millenni, a partire dal famoso «tempo assiale» di cui parlò Karl Jaspers).

Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste.

Cambiamenti d’epoca e tempo assiale

È facile parlare di “cambiamenti d’epoca”: tutto dipende dal livello a partire dal quale decidiamo che un cambiamento debba essere considerato “d’epoca”. Per esempio, ogni decennio può segnare un’epoca (gli anni ’40, gli anni ’50…). Ma nella storia conosciamo anche cambiamenti che hanno segnato un discrimine tra epoche durate migliaia di anni.

Abbiamo appena menzionato il «tempo assiale», reso celebre dagli studi di Karl Jaspers: un tempo che ha segnato un prima e un dopo, come una radicale linea divisoria nella storia dell’umanità. In effetti, in questo tempo la coscienza dell’umanità si è trasformata a un punto tale da permetterci l’accesso a un nuovo livello di coscienza spirituale. Di fatto, secondo Jaspers, ancora alla fine dello scorso millennio stavamo vivendo in questo stesso livello di coscienza.

La dimensione di cambiamento a cui l’espressione “tempo assiale” si riferisce non è data dallo sviluppo delle tecniche di lavorazione della pietra o dei metalli, ma dallo sviluppo della coscienza spirituale. È (…) a questa dimensione spirituale che si riferiscono i molti studiosi secondo cui attualmente ci troveremmo in un secondo tempo assiale.

300 anni fa è apparso nel mondo un movimento nuovo che abbiamo chiamato modernità, il quale, in maniera costante e crescente, sta trasformando la società umana, penetrando a poco a poco nella maggior parte delle società del pianeta, a partire dalle più sviluppate. Sta emergendo una trasformazione della coscienza umana, degli stessi atteggiamenti spirituali che la costituiscono, una trasformazione provocata soprattutto dall’ampliamento vertiginoso della conoscenza (una rivoluzione scientifica che estende la sua portata già da vari secoli) e dalla trasformazione radicale dell’epistemologia (dai miti alla scienza, dagli argomenti di autorità al metodo scientifico sperimentale), il tutto accompagnato da tecnologie potentissime. Tale trasformazione spirituale dell’essere umano ancora in corso risulta assai profonda, e sta provocando e diffondendo un fenomeno significativo: la crisi delle religioni. In intere regioni del pianeta la pratica religiosa e le stesse istituzioni religiose sono entrate in un grave processo involutivo; in alcuni luoghi si potrebbe dire che sono vicine al collasso.

A questo riguardo, diversi osservatori parlano dell’apparizione di un “paradigma post-religionale”.

Cosa resta di quel dibattito cattolico-protestante?

È in questa attuale situazione di trasformazione e di tempo assiale che vogliamo porre in maniera seria la domanda sul senso attuale del dibattito – che ora ha compiuto 500 anni – tra la Riforma e quella che possiamo definire Cattolicità. Malgrado Lutero sia stato una di quelle figure in anticipo sui tempi e in grado di cogliere precisamente lo spirito della modernità, il sospetto è che il pieno sviluppo raggiunto dalla modernità (includendo in essa ciò che siamo soliti definire come postmodernità) abbia posto le cose in un contesto nuovo in cui tutto ha acquistato un altro senso e un altro significato. È quella sensazione di perplessità che esprimiamo dicendo che, “quando già avevamo la risposte, ci hanno cambiato le domande”. Dal XVI secolo ad oggi si è registrato un cambiamento globale così profondo che i problemi di allora, a cui si è cercato di dare risposta, oggi non esistono più: nel nuovo contesto religioso attuale scompaiono, perché sono diventati inintelligibili; e molte delle proposte e controproposte presentate e contropresentate appartengono a un immaginario e a un mondo concettuale che sopravvivono esclusivamente tra gli specialisti e i rappresentanti delle Chiese che ne hanno fatto il loro modus vivendi. I dibattiti precedenti all’attuale “nuovo tempo assiale” sono rimasti fuori dal contesto storico e, con ciò, privati di significato, inutili, inintelligibili e in definitiva impraticabili.

Applicandolo più concretamente al nostro caso, cosa rimane ancora di attualmente intelligibile, per un teologo o una teologa che abbiano come interlocutore l’uomo o la donna comuni, nel dibattito cattolico-protestante sulla sola Gratia, sulla sola Scriptura, sulla sola Fides o sul solus Christus o i dibattiti intorno alla Redenzione, alla Teologia della Croce o alle conseguenze del peccato originale in un mondo culturale in cui per buona parte delle cosiddette società sviluppate (società dell’informazione o della conoscenza, o come si voglia chiamarle) tutti questi concetti non godono più non solo di plausibilità, ma anche di intelligibilità?

Che accoglienza possono suscitare nell’attuale società emancipata le dimensioni profonde dell’esperienza religiosa di Lutero che hanno dato origine alla Riforma, quando oggi ci appaiono chiaramente riconducibili a un insieme di timori, pregiudizi acritici, concetti superati e credenze mitiche medievali premoderne che ci suscita più una comprensione compassionevole che interesse e ammirazione? Che senso può avere il dibattito “teologico” cattolico-protestante nell’attuale mondo culturale laico, quando in questo non è ormai più plausibile il concetto stesso di “teologia” come “scienza sacra che studia e medita i dati della Rivelazione divina”? Che senso hanno i vecchi dibattiti tra “confessioni cristiane” quando è ora qualcosa di più essenziale, la stessa opzione religionale, a dover essere dibattuta?

La nostra tesi – o, più modestamente, “ipotesi”, che stiamo umilmente ponendo alla considerazione del mondo teologico ecumenico – è che, a questo stadio dell’evoluzione umana (e del pianeta insieme a noi), sono rimasti senza una base e senza senso – per chi sia capace di coglierlo, logicamente – quei dibattiti intra-confessionali che ancora restano racchiusi entro le coordinate ormai superate dallo stato attuale non solo delle conoscenze umane, ma anche e soprattutto della coscienza spirituale umana che si addentra in questo “secondo tempo assiale”. A 500 anni dalla Riforma di Lutero, non ha più senso portare avanti un dibattito teologico che è saltato in aria e fatto a pezzi con la trasformazione radicale che la spiritualità umana ha sperimentato –  e continua a farlo – in questo nuovo tempo assiale. Almeno per chi abbia colto che il pallone è passato in un altro campo di gioco e che quella partita è terminata.

Entrare o meno nel nuovo paradigma

In questo senso, sono cosciente che tale posizione possa risultare strana e persino incomprensibile a chi parta dal presupposto che “in realtà non è successo nulla” e che le grandi questioni restano sul tappeto perché sono eterne, e che possiamo andare avanti con lo stesso tipo di risposte a partire dai presupposti di sempre (…).

Tutti noi che oggi ci collochiamo nella radicalità del cambiamento del nuovo tempo assiale, lo abbiamo scoperto da così poco tempo che ci risulta noto e comprensibile un modo di pensare che ignora la rottura che l’assialità implica.

Per chi guarda all’attuale realtà mondiale nei termini di una trasformazione profonda, con regioni intere – come dicevamo – che in appena qualche decennio hanno concretamente abbandonato la religione cristiana, il futuro del cristianesimo come religione è legato a un’unica soluzione: “Non più Riforma – né tantomeno Controriforma –, ma un’altra cosa: mutazione”. Nella mia umile opinione, l’unica soluzione è la “mutazione genetica” religiosa e spirituale che questo nuovo tempo assiale esige dall’umanità in questo passaggio storico-evolutivo.

Non accettare questa sfida – o, forse, semplicemente non coglierla – avrà come conseguenza l’estinzione di quelle realtà incapaci di adeguarsi alla nuova situazione. Gli osservatori stanno dicendo che le religioni, come nuova forma di configurazione della dimensione spirituale permanente dell’essere umano, sono apparse recentemente, con l’epoca neolitica. E che, con la grande trasformazione legata a questo nuovo tempo assiale, tale configurazione neolitica della spiritualità umana (le religioni appunto) sta volgendo al tramonto, nella misura in cui sta giungendo a termine lo stesso neolitico, superato dall’apparizione e dalla diffusione delle “società della conoscenza”. Alcune religioni – dicono gli analisti – possono ancora godere di un tempo residuale, in alcuni luoghi della terra, ma il loro kairós sembra che sia decisamente passato o che sia sul punto di farlo.

Cogliere questa dimensione profonda del tempo assiale in corso illumina la comprensione dell’attuale momento dell’evoluzione religioso-spirituale dell’umanità: non si tratta, ora, di “tirare calci al vento”, o di camminare in direzione contraria alla storia e alla bio-evoluzione, ma di lasciarsi portare, di cogliere la migliore direzione del vento e di affidarsi a questo, lasciando che germogli il nuovo e che muoia ciò che ha già compiuto la sua missione.

Richiamando un’altra immagine meno bio-evolutiva e più prosaica, dopo lo scontro con l’iceberg, il Titanic è già condannato e si inabisserà; possono volerci “due ore e mezza” o forse vari secoli, ma è ferito a morte e senza capacità di recupero, anche se noi possiamo negare la realtà e restare sulla poppa con l’orchestra insieme a coloro che non si sentono capaci di rompere con un passato che sprofonda e di intraprendere una nuova avventura, la quale si rivela precisamente come l’unica possibilità di continuare a vivere.

Soffermandoci sul tema dei presupposti profondi

So che questa tesi, nella sua gravità, non è facile da accettare per chi non si sia già confrontato qualche volta con questo tipo di ragionamento. È quasi impossibile accettare tale visione già a una prima lettura. Per questo si impone la necessità di spiegare meglio, soffermandosi sul tema dei presupposti profondi.

Per quanto sembri il contrario, le religioni sono in una continua evoluzione e trasformazione. Il susseguirsi di riforme le porta ad adeguarsi ai cambiamenti culturali legati all’evoluzione dei loro tempi. Cos’è una riforma religiosa? È una proposta di ricollocamento degli elementi che costituiscono una concreta fede religiosa, per darle una “nuova forma” (riforma) più praticabile. Quando la riforma è radicale, quando non si limita a ridefinire gli elementi della superficie, ma cambia i presupposti di fondo, i presupposti identitari, si sta producendo una “rottura”. (…).

Ebbene, come abbiamo detto, i cambiamenti sperimentati dalla nostra specie umana in questo nuovo tempo assiale che stiamo vivendo sono così profondi che molti dei presupposti fondamentali millenari originari delle religioni non trovano più posto nel quadro culturale della nuova società. (…).

Tutti gli elementi fondamentali più antichi della religione giudaico-cristiana, per esempio, datano la loro origine nella seconda metà del secondo millennio prima della nostra era, ma ciò che denominiamo come base “antropo-teo-cosmica” (la concezione delle relazioni tra Dio, la natura e l’umanità) era stata già stabilita nei tre millenni precedenti, in seguito, a quanto pare, alle violente invasioni dei popoli euroasiatici: kurgan, ari, dori… e anche dei semiti nel sud, un fenomeno oggi relativamente ben documentato da punto di vista archeologico. (…).

L’ebraismo e tutte le religioni del Levante, della terra di Canaan e della Mesopotamia, sorte in questi tre millenni, condividono lo stesso presupposto antropoteocosmico, bevono dallo stesso fiume spirituale (…). La Bibbia stessa, sorta piuttosto tardi, è cresciuta all’interno di questo stesso humus antropoteocosmico preesistente; è figlia di questo tempo religioso-culturale, del suo immaginario e del suo paradigma religioso, il quale è restato in piedi fino ad oggi. Gli sviluppi e le trasformazioni religiose che hanno avuto luogo nella storia in questi millenni hanno riguardato solo livelli più superficiali: nessuno di essi ha messo in discussione l’essenziale, il nucleo antropoteocosmico.

Al contrario, è questo nucleo così profondo il principale fattore della trasformazione in corso nell’attuale tempo assiale: il post-teismo, l’oikocentrismo, la critica alla desacralizzazione della natura, al dualismo cielo/terra, alla maschilità profonda di Dio, alla sua transcendenza… (…). Nei secoli precedenti nessuno ha messo in discussione ciò che sembrava ovvio, ossia i millenari presupposti antropoteocosmici. Attualmente, anche le persone comuni si sentono a disagio dinanzi a quelle “evidenze millenarie” che oggi hanno smesso di essere ovvie non solo per i filosofi, ma anche per il sentire comune, per lo “spirito del tempo”.

In questo contesto culturale e in questa situazione attuale, l’adeguamento delle religioni alla nuova epoca culturale e spirituale che si apre le obbliga ad assumere un cambiamento dei presupposti profondi che non si configura più come “riforma”, perché implica una rottura più grande rispetto a un paradigma in vigore per più di 5mila anni (e non 500). Per addentrarsi in questa nuova epoca inaugurata dall’attuale tempo assiale, le riforme, per quanto possano essere importanti, non bastano più.

Ciò che si richiede non sono “proposte nuove a partire dai presupposti di sempre”, bensì “proposte nuove, sì, ma a partire da presupposti anch’essi nuovi”.

Quanto stiamo qui esponendo è una questione molto seria, perché si tratta di un cambiamento di paradigma, che abbiamo denominato post-religionale. La tesi è quella a cui si è già fatto riferimento: le religioni, questo modo di configurare la spiritualità umana che è sorto con il neolitico e con la rivoluzione agricola e urbana, hanno reso un grande servizio all’Umanità – non esente da grandi contraddizioni e sofferenze –, ma forse hanno ormai esaurito il loro ruolo. La trasformazione culturale attuale è così profonda che la struttura basilare antropologica delle religioni (non della religiosità umana, bensì proprio delle religioni, della dimensione “religionale”) e gli stessi presupposti antropoteocosmici della spiritualità tradizionale non risultano più intelligibili nel quadro della nuova sensibilità spirituale a cui l’umanità sta accedendo.

Elementi essenziali della forma storica della “religione” e presupposti antropoteocosmici della spiritualità stessa non hanno più corso legale in grandi settori dell’umanità che hanno sperimentato tale trasformazione culturale-spirituale. A causa di un nuovo tempo assiale, l’umanità sta accedendo a un nuovo stadio bio-evolutivo, in cui la dimensione più profonda della sua coscienza non si esprime più in forma “religionale”. Da qui l’abbandono di massa che si è registrato e continua a registrarsi in questi settori dell’umanità.

La Riforma in un nuovo tempo assiale

Benché vi siano molti elementi di incertezza legati all’attesa di nuove scoperte che ci permettano di comprendere meglio il passato spirituale-evolutivo di cui siamo il frutto, se tutto ciò che abbiamo appena detto è globalmente valido, dobbiamo concludere che ci troviamo in un tempo e in un contesto totalmente differenti da quelli che hanno fornito il quadro al dibattito di 500 anni sulla Riforma. Nuove questioni sono emerse e vecchie preoccupazioni sono svanite, ancora prima di trovare una soluzione. “Quando ormai ci sembrava di conoscere le risposte, ci hanno cambiato le domande”. Non sarebbe realistico continuare a dibattere o a dialogare sulla Riforma negli stessi termini teologici e spirituali e con le stesse categorie di mezzo millennio fa, come se nulla fosse successo, come se effettivamente continuassimo a vivere in quel vecchio mondo che ormai non esiste più.

Bisogna domandarsi se si diano oggi le necessarie condizioni di senso per poter continuare quel dibattito di 500 anni fa su Dio, l’anima, la Grazia, il peccato, la Redenzione, la Croce… o se le questioni attualmente importanti siano altre (…).

Bisogna domandarsi se abbia senso continuare a portare avanti una polemica interna al cristianesimo, in un momento e in una società che stanno dando massicciamente le spalle al cristianesimo occidentale storico. Più concretamente:

Come ridefinire il senso del dibattito sulla Sola Scriptura, in una società della conoscenza che non accetta le credenze mitiche, né l’argomento dell’autorità della tradizione, né la divisione tra questo mondo e l’altro, né rivelazioni provenienti da un secondo piano, da un cielo che teniamo separato dalla natura da circa cinque millenni? Forse è meglio superare una volta per tutte ogni dualismo e tornare a unire ciò che è stato indebitamente diviso millenni fa, rinunciare a ogni “secondo piano” e vedere se nel nuovo contesto si possa continuare a parlare di rivelazione e in quale senso.

Come ridefinire la polemica sulla Sola Fides in una società avanzata che non crede più che Dio sia un Signore là sopra, là fuori, che si nasconde e che impone di credere in lui, in una società che pensa che non si tratti più di credere, di sottomettersi e di offrire il sacrificio ragionevole della fede?

Che senso può avere oggi la polemica sul Solus Christus in una società che pensa alle religioni al di là dell’esclusivismo e in Chiese in cui sempre più credenti superano l’inclusivismo cristocentrico, ritenendo sempre più ovvia l’uguaglianza fondamentale di tutti i cammini religiosi?

Che significa il dibattito sulla salvezza attraverso fede dovuta alla Sola Gratia, quando ciò che è in discussione non è più l’alternativa di una salvezza attraverso le opere, ma la natura stessa della salvezza?

Che cos’è la salvezza? Salvezza da che? I presupposti in base a cui si muovevano domande e risposte di questo dibattito cristiano in questi 500 anni sono crollati, trascinando con sé le domande e le risposte, nello tsunami dell’attuale tempo assiale.

È assai probabile che buona parte del discorso celebrativo dei 500 anni della Riforma offra il suo contributo sulla base degli stessi presupposti di sempre, millenari, ignorando il fatto che ci si trovi in un nuovo tempo assiale e che non si tratti più di riforme ma di una rottura globale. Finché rimaniamo all’interno del vecchio paradigma, il dibattito potrà continuare in aeternum. Il semplice ingresso, sincero, nel nuovo paradigma farà sì che sfumino le vecchie domande e i dibattiti a esse legati, e che si possano porre realmente le domande cariche di futuro.

John Shelby Spong, vescovo episcopale emerito di Newark, negli Stati Uniti, è uno degli autori cristiani riformati che più coscienza hanno della necessità di profonde rotture teologiche e spirituali, e che per questo ha esortato a una “Nuova Riforma”, le cui tesi ha “affisso” simbolicamente in internet, come le nuove porte della cattedrale di Wittemberg. Scrittore prolifico, ha insistito ripetutamente sul fatto che la sfida culturale-religiosa del nostro tempo è tale da esigere dal cristianesimo una Riforma molto più profonda di quella di Lutero, una Riforma che «farà sembrare piccola quella del XVI secolo, simile a un gioco di bambini». Non è più il tempo per riforme antiche; è l’urgenza di una Nuova Riforma a imporsi, quella di una differente, radicale, autentica “mutazione genetica spirituale” all’altezza della grande transformazione bio-evolutiva che il pianeta e il cosmo stanno vivendo in noi.

(…). Dopo 500 anni, resteremo seduti al tavolo dell’antica discussione, cercando risposte a domande scomparse dall’orizzonte di buona parte della società e sostituite da altre domande, attuali, in attesa di essere affrontate? Non basteranno 500 anni di divisione? Non sarebbe meglio unirci nel nuovo dibattito, quello del futuro?

* Foto di Sailko, tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

la prassi di Gesù mette in pratica Dio stesso

Gesù teoprassico

“dai loro frutti li riconoscerete”

di J.M. Vigil

Gesù è di quelli che pensano che “bisogna mettere in pratica Dio”. O, detto con linguaggio biblico, che si deve “conoscerlo”, sapendo però che nella Bibbia, questo “conoscere” è sempre pratico, prassico, etico, di comportamento, di intervento nella storia… Per Gesù, Dio non è un entelechia, una ragione suprema, una teoria, nè una dottrina o un’ortodossia. In continuità con la migliore tradizione profetica (Ger 22,16), Gesù proclama che Dio vuole la pratica della giustizia e dell’amore. Fuori da questa pratica, la religione, ridotta a confessione orale, a ortodossia dottrinale o a liturgie rituali, diventa inutile: “Non chiunque dice: Signore, Signore… ma chi fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21-27); “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27-28). La religione è “teoprassi”, messa in pratica della volontà di Dio. Questo sarebbe un criterio per misurare la veridicità di ogni religione, secondo Gesù. Vigil

Gesù pone nella prassi il criterio di verifica del nostro discorso su Dio e con Dio: quale dei due fratelli ha fatto la volontà del Padre, quello che da detto sì, ma in realtà si è eclissato, o quello che detto che non sarebbe andato ma in realtà vi è andato? (Mt 21,28-32). Quello che “è andato”, dice Gesù, non quello che “ha detto che sarebbe andato”. Ossia: Gesù giunge a dire che mentre rimaniamo nel terreno delle parole e dei propositi, non si può definire la verità decisiva; bisogna aspettare che arrivi l’ora della pratica, e lì ciò che importa è quello che si fa, non quello che si dice. E’ proprio della Verità l’essere principalmente praticata, e non semplicemente professata, dichiarata, ammessa mentalmente, creduta o riconosciuta. 
Non ha molta importanza ciò che una religione dice, la bellezza della sua teologia, l’elaborazione del suo credo o la brillantezza dei suoi dogmi, bensì la storia della sua prassi, il suo comportamento storico, il bene o il male che ha compiuto o tralasciato di fare. 
Gesù è deciso e afferma: “Dai loro frutti li riconoscerete… non può un albero buono dare frutti cattivi” (Mt 7,16-18; Lc 6,43).
J.M. Vigil, Teologia del pluralismo religioso
 

la chiesa e l’opzione per i poveri

 

 

l’opzione per i poveri è opzione per la giustizia,
e non è preferenziale
per un nuovo inquadramento teologico-sistematico dell’opzione per i poveri

una bella riflessione di José María VIGIL

Vigil


 

Situazione della questione

Abbiamo sempre detto che la OP ha fondamento in Dio stesso, nell’essere di Dio, e che ha pertanto natura “teocentrica”[1]: in certo modo possiamo dire che Dio stesso fa opzione per i poveri, Dio “è” opzione per i poveri. Ed aveva un consenso universalmente sentito che questa OP si basasse precisamente sull’Amore-Giustizia del Dio biblico e cristiano[2].

Tuttavia, con l’avvenimento della “crisi della Teologia della Liberazione (TL)”, alcuni autori ammorbidirono il loro discorso sulla OP, preferendo abbandonare la prospettiva dell’Amore-Giustizia[3] e sostituendola quasi completamente per quella della “gratuità” di Dio come fondamento della OP. In questa nuova impostazione, Dio, semplicemente “preferisce” i poveri, ha una “debolezza” misericordiosa, una “tenerezza” incontenibile verso di loro, e per questo fatto non dovremmo cercare molte ragioni, essenzialmente per il fatto di essere “gratuito”.

La OP risulterebbe essere una specie di capriccio di Dio, verso i “piccoli, i deboli, gli insignificanti”.

Questi sarebbero coloro di cui oggi dovremmo parlare, e non più dei “poveri” nel senso forte [4] del discorso classico, che oggi sarebbe già sorpassato. La teologia stessa della OP dovrebbe svincolarsi dal tema forte della Giustizia ed essere aggiudicata al tema gradevole della gratuità.

La mia tesi è che questo spostamento o scivolamento dell’accento dalla Giustizia verso la Gratuità di Dio come fondamento della OP deteriora e alla fine malversa detta opzione – coscientemente o incoscientemente – fino a convertirla in una semplice “preferenza”, in un “amore preferenziale”, una semplice priorità di ordine nella carità[5], smettendo di essere una vera “opzione”, una presa di posizione disgiuntiva ed escludente, come una opzione fondamentale, fondata per noi nella natura stessa di Dio.

Non nego che abbia qualche senso affermare che “Dio ha una preferenza gratuita per i piccoli e i deboli”; però sostengo che questa “preferenza” non può essere identificata in modo preciso con la OP, né molto meno può essere posta come fondamento della stessa. Confondere la OP con questa “preferenza di Dio verso i piccoli e i deboli”, o con il cosiddetto “amore preferenziale per i poveri”, e applicare a questo lo stesso nome di OP, significa essere vittima della confusione, o cedere davanti alla strategia di chi ha tentato di dare un nuovo significato e occupare il termine OP per spogliarlo del suo proprio contenuto. La OP originale e classica latinoamericana, quella tipica della teologia e della spiritualità della liberazione, la OP per la quale morirono i/le nostri/e martiri/e, e che anche noi consideriamo “decisiva e irrevocabile”, è altra cosa, e deve essere distinta da qualsiasi succedaneo. Una fedeltà coraggiosa e lucida deve rifiutare coscientemente ed esplicitamente questo preteso fondamento della OP nella “gratuità” di Dio. E’ questo che voglio aiutare a chiarire. Per questo, niente di meglio che tentare di inquadrare di nuovo, sistematicamente, la natura stessa della OP.

 

Prima tesi: In senso stretto, Dio ama senza preferenze né discriminazioni

Affermare il contrario sarebbe, in buona parte, un antropomorfismo.

Dio vuole bene e ama tutti/e come uguali, con un amore molto peculiare per ogni persona, e contemporaneamente infinito, tanto che questo amore non ha possibilità di essere quantificato né comparato. Ogni persona può sentirsi amata infinitamente da Dio, e nessuno deve sentirsi “preferito” o discriminato né positivamente né negativamente. Non è possibile parlare seriamente di “amori preferenziali” da parte di Dio rispetto ad alcuni essere umani in confronto ad altri. Lo esige la suprema dignità della persona umana e la equanimità infinita di Dio. E tutto quello che si allontana da questo può solo costituire forme inadeguate di parlare, “troppo umane”, antropomorfismi.

Dio non fa parzializzazioni né “accezioni di persone”. Non le ha per motivi di razza, né di colore, genere o cultura… Dio ama tutte le sue creature, con amore realmente “non quantificabile e incomparabile”, nel quale non entrano preferenze né discriminazioni.

 

Seconda tesi: Dio opta per la Giustizia, non preferenzialmente, ma piuttosto alternativamente e in modo escludente

C’è tuttavia un campo nel quale Dio è necessariamente radicale e inflessibilmente parziale: il campo della giustizia. Qui Dio si colloca dalla parte della giustizia e contro la ingiustizia, senza nessuna concessione, senza nessuna “neutralità”, e senza semplici “preferenze”: Dio è contro l’ingiustizia e si pone dalla parte di chi è “senza giustizia”, delle vittime dell’ingiustizia. Dio non fa né può fare una “opzione preferenziale per la giustizia”[6]: piuttosto opta per essa posizionandosi radicalmente contro l’ingiustizia e abbracciando in modo totale la Causa dei senza giustizia.

Questa opzione di Dio per la Giustizia non ha fondamento nella sua “gratuità” né è una specie di “capriccio” divino che potrebbe essere successo in altro modo o semplicemente non essere accaduto, come se la sanzione divina della giustizia obbedisse a un semplice volontarismo etico[7].

L’opzione di Dio per la Giustizia si basa nel suo proprio essere: Dio non può essere in altro modo, non potrebbe non fare questa opzione senza contraddirsi e senza negare il suo proprio essere. Dio è, per “natura”, opzione per la Giustizia, e questa opzione non è gratuita (ma assiologicamente inevitabile), né contingente (ma necessaria) né arbitraria (ma fondata di per sé nello stesso essere di Dio), né preferenziale (ma alternativa, esclusiva e escludente[8]).

 

Terza tesi: la OP è opzione per chi è “senza giustizia”

Il concetto “poveri”, come parte dell’espressione “opzione per i poveri”, ha causato una certa confusione. In effetti, se l’opzione è “per i poveri”, esplicitamente sopraggiunge la tentazione di situare nella “povertà” il fondamento di questa opzione, questo sia identificando falsamente povertà con santità (cosa che fu esclusa fin dal principio), o rielaborando metaforicamente il concetto di “povertà” in differenti direzioni[9], o deviandolo verso qualunque dei gruppi che nell’Antico Testamento paiono essere oggetto di una “preferenza” da parte di Dio (i “deboli e piccoli”…), o in molti altri modi[10].

Si potranno evitare queste deviazioni se si porta alla luce il ruolo teologico che il concetto di “poveri” gioca concretamente nella espressione “opzione per i poveri”. Teologicamente parlando, “poveri” suona qui esattamente come “senza giustizia”. Perché Dio non opta per i poveri in quanto poveri (materiali, economici), ma in quanto “senza giustizia”. La povertà economica non è di per sé una categoria teologica, piuttosto lo è l’ingiustizia che si può avere nella povertà economica. Teologicamente considerata, la “opzione per i poveri” è in realtà “opzione per i senza giustizia”[11]. Se si chiama opzione “per i poveri”, questo si deve al fatto che i poveri (economici) sono la prima espressione dell’ingiustizia e la sua espressione massima o per antonomasia.

Parlando con precisione teologica, i destinatari di questa OP non possono essere identificati più con i “poveri economici” per se stessi, né con i “poveri sono buoni”, né con quelli che sono “poveri in un certo senso”, o con quelli che hanno lo “spirito dei poveri”… (delimitazioni tutte queste molto labili, scivolose, a causa dei giochi metaforici del linguaggio), ma piuttosto i “senza giustizia”, che siano poveri economici o no, metaforici o no.

Al contrario: i “piccoli e i deboli”, ossia, tutti quelli la cui “povertà” non può essere misurata in termini di ingiustizia[12], non devono essere identificati come destinatari espliciti della OP, ma per estensione metaforica. Possono essere oggetto di una “tenerezza speciale” e gratuita da parte di Dio e nostra, però questo sentimento e questo atteggiamento non devono essere confusi con la OP.

Ogni problematica umana che sia convertibile in ingiustizia – benché non abbia a che vedere con la “povertà” nel senso letterale o economico – è oggetto della OP (perché questa è opzione per la giustizia). Così, la discriminazione etnica, di genere, culturale… come forme di ingiustizia che sono, e anche se non si verificano insieme a situazioni di povertà economica, oggetto della OP. Non lo sono per essere forme di povertà – perché non lo sono -, ma per essere forme di ingiustizia.

L’opzione per la cultura disprezzata, per la razza emarginata, per il genere oppresso… non sono opzioni differenti della OP, ma concrezioni diverse dell’unica “opzione per i senza giustizia”, che chiamiamo OP.

 

Quarta tesi: l’essenza teologico-sistematica della OP e il suo fondamento è l’opzione di Dio per la Giustizia

Teologicamente parlando, nel senso dogmatico-sistematico, la vera natura della OP è l’opzione di Dio per la Giustizia. La “radiografia teologica” della OP, il fondamento sul quale si sostiene, ciò che in realtà la costituisce, è l’opzione di Dio per la giustizia.

Se si ignora la sua relazione con la giustizia e la imparentiamo con una semplice “volontà gratuita” di Dio, la OP si perde per strade che le tolgono virtù, la mistificano e la snaturalizzano, finendo per convertirla in un semplice “amore preferenziale”, o in una opzione opzionale, facoltativa, gratuita, arbitraria, contingente, svincolata dalla giustizia, ridotta a “carità” o beneficenza.

L’Opzione per la Giustizia (OG) di Dio è più grande – e precedente – a ciò che la TL latinoamericana captò ed espresse come OP. La OP non è che una derivazione – importante ma non comprendente la totalità – di questa opzione di Dio per la giustizia.

La Op è una forma nostra di percepire, di esprimere e di accettare questa opzione di Dio per la Giustizia.

“Opzione per i poveri” è un nome pastorale, storico, scelto in funzione della sua intelligenza immediata. Però, teologico-sistematicamente considerata, ossia aderendo alla sua essenza teologica più profonda, la OP “è” opzione per la giustizia e il nome che meglio esprime la sua natura teologica sarebbe quello di “opzione per i senza giustizia”[13]. Non intercediamo per un cambiamento di nome; semplicemente richiamiamo l’attenzione sul fatto che il nome non corrisponde a quella che sarebbe una “definizione essenziale”[14] della OP.

 

Quinta tesi: come opzione per la giustizia quale essa è, la OP non è preferenziale ma disgiuntiva ed escludente. Al contrario, la OPP è semplicemente una priorità e non è nemmeno una “opzione”.

La OP è una presa di posizione spirituale, integralmente umana, e pertanto anche sociale e politica, a favore dei poveri nell’ambito del conflitto sociale storico, e per questo è una opzione disgiuntiva ed escludente[15].

La “opzione (non preferenziale) per i poveri” (OP) appartiene al campo della giustizia e si fonda sulla opzione stessa di Dio per la giustizia. Al contrario, la “opzione preferenziale per i poveri” (OPP) appartiene all’ambito della carità[16] e può porsi in relazione con la gratuità di Dio. La OP non ha applicabilità di fronte alle povertà naturali. La OPP, invece, ha valore solo per le povertà naturali.

La OP vede la povertà come un’ingiustizia da sradicare mediante l’amore politico trasformatore, mediante una prassi sociale, come atto di giustizia. La OPP, per sua parte, vede la povertà come qualcosa di spiacevole però forse naturale, come qualcosa che semplicemente si deve compensare con atti di generosità gratuita, assistenziali.

La “preferenzializzazione” della OP, ossia, lo spostamento o la sostituzione della OP mediante la OPP, agisce come un occultamento delle coordinate della giustizia per guardare la realtà solo dalla prospettiva della beneficenza o dell’assistenzialismo. O come la riduzione dell’amore cristiano a una misericordia privatizzata e una solidarietà spiritualizzata. Un cristianesimo con OPP ma senza OP è funzionale a qualsiasi sistema ingiusto. L’opposizione alla OP – e in generale alla teologia e spiritualità della liberazione nel cui seno quella nacque – ha funzionato come il principale obiettivo di coloro che hanno tentato di annullare il rinnovamento postconciliare della teologia e della spiritualità latinoamericana con Medellin e Puebla, e come il ritorno a una Chiesa che legittima il sistema capitalista e neoliberale che anch’esso fu frontalmente ostile alla Chiesa della liberazione latinoamericana e ai suoi innumerevoli martiri.

Applicato alla OP, l’aggettivo “preferenziale”, con l’implicare una relazione di semplice priorità fra termini esenti di disgiuntiva o mutua esclusione, snatura la OP, convertendola in una semplice priorità o preferenza di ordine e negando la possibilità di una opzione radicale per uno dei termini sottomessi a relazione di preferenza. Per questo, parlando rigorosamente, la OPP non è OP, ma, come hanno espresso i suoi teorici, un semplice “amore preferenziale” o una “forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana”. E’ una priorità, e nemmeno è una “opzione” nel senso forte della parola[17]. L’aggiunta dell’aggettivo “preferenziale” è servito in molti casi come “cavallo di Troia” che ha introdotto nella OP il germe del suo proprio snaturarsi. Fortunatamente, sono molti quelli che hanno adottato solo esternamente l’uso dell’aggettivo, per le pressioni all’intorno, senza abbandonare interiormente la comprensione e l’esperienza radicale di quella che è la genuina natura della OP, non preferenziale, ma esclusiva ed escludente.

 

Applicazioni e corollari

OP: trascendentale al livello della norma normans

Nel suo senso teologico-sistematico (prima dunque, o più in là della sua applicazione concreta a mediazioni non teologiche e ben distinte da queste), la OP è un trascendentale che supera e attraversa le dimensioni teologiche e appartiene essenzialmente alla immagine stessa del Dio biblico e cristiano. Il nostro Dio “è” – per il nucleo più profondo delle rivelazione biblica [18] e cristiana, e per se stesso – opzione per la giustizia[19], con assoluta precedenza e con totale indipendenza da ogni scuola teologica o di qualsiasi carisma o spiritualità nella quale ci muoviamo. Con questa qualità, la OP non è suscettibile di essere normata da dimensioni subalterne[20] (si situa al livello massimo della norma normans); e, percepita in coscienza, deve essere obbedita come in obbedienza a Dio stesso, con disposizione di spirito per la prova dell’amore più grande.

In questo stesso senso, la OP non è una “teoria” della teologia latinoamericana della liberazione, ma piuttosto una dimensione trascendentale del cristianesimo, dimensione che questa teologia ha avuto il merito di riscoprire – per il cristianesimo universale – come vincolata alla essenza stessa di Dio. Questa ri-scoperta è effettivamente “il più grande avvenimento della storia del cristianesimo negli ultimi secoli”[21], e segna un prima e un dopo, incancellabile e senza ritorno, per coloro per i quali la OP è stata una esperienza spirituale di conversione al Dio dei poveri. La OP deve essere considerata come “decisiva e irrevocabile” e come una “nota della vera Chiesa”.

 

Povertà, ricchezza e ingiustizia

Rispetto all’identificazione della OP come opzione per la giustizia, possiamo fare qualche aggiunta in un linguaggio più applicativo.

Se la povertà di una persona o gruppo è dovuta all’essere stati vittima dell’ingiustizia[22] – e in questa misura -, Dio sta dalla parte di questi poveri, e contro chi ha causato questa povertà-ingiustizia. E sta qui , necessariamente, in un modo “escludente” della ingiustizia degli ingiusti, e non semplicemente con una “opzione preferenziale non escludente”.Se si tratta di qualche “povertà” che non abbia a che fare con la giustizia (“povertà naturali”, di razza, di genere, di cultura…) Dio non fa discriminazioni a questo proposito, né “preferisce” qualcuno in questo senso. Dio non preferisce né trascura nessuna razza o genere o cultura per se stessa.

Se la ricchezza di una persona o gruppo implica ingiustizia – e in questa misura -, Dio sta decisamente contro questa ricchezza, contro lo stile di vita che la genera, perché Egli è dalla parte di quelli che soffrono le conseguenze dell’ingiustizia e contro coloro che la causano. Ed ha questo comportamento in un modo necessario e in un modo che esclude questa ingiustizia, e non con una opzione solo “preferenziale verso il povero”, però non radicalmente escludente del “modo di vita del ricco”[23] che produce questa ingiustizia. Se c’è qualche ricchezza che non ha a che vedere con la ingiustizia (qualità psicologiche, genere, doni corporali e/o spirituali, casualità…) Dio non fa qui discriminazioni: non preferisce né trascura nessuno.

 

Il concetto di giustizia come mediazione

Logicamente, i principi teologici sono obbligati a passare necessariamente per il filtro ulteriore di differenti mediazioni filosofiche, sociologiche e perfino politiche, nel momento di essere posti in pratica nell’arena della realtà.

Per esempio: il concetto stesso di “giustizia”, con tutte le sue implicazioni filosofiche, sociologiche, politiche e perfino culturali, sarà una mediazione influente specialmente nel campo di questa “opzione per i poveri”. C’è un concetto capitalista della giustizia, ce n’è un altro socialista, un altro neoliberale, un altro imperialista… Noi persone siamo influenzate dall’uno o dall’altro a seconda del “luogo sociale” che occupiamo o che scegliamo. Per coloro per i quali la giustizia è semplicemente “dare a ciascuno il suo”, un mondo di estreme disuguaglianze può sembrare giusto se – per esempio – da solo avvalora la attuale legalità della proprietà privata. assolutizzata. Questo non lo penserebbe nessuno dei Padri della Chiesa, né chi faccia suo il concetto di giustizia sociale distributiva e democratica della dottrina sociale della Chiesa, perché queste persone operano con un concetto di giustizia molto differente.

In questo senso, nonostante il fatto di riferirci teoricamente a uno stesso Dio, nonostante il fatto di accettare forse come evidente la sua opzione per la giustizia, la visione della volontà di Dio sul mondo può essere diversa o perfino contraria in alcuni cristiani e in altri. Dove è l’origine di questa discrepanza?

Potrebbe non essere nel concetto stesso che abbiamo di Dio né del suo Progetto o Volontà, ma nel concetto di giustizia col quale costruimmo i nostri giudizi morali. L’origine può essere nel giudizio morale che, dal concetto di giustizia di ognuno, facciamo sulla povertà e la ricchezza e sui meccanismi sociali o strutture che le generano o producono, sia che li giudichiamo come naturali o come storici, come fatali o come correggibili, come casuali o come causati, colpevoli o incolpevoli, strutturali o congiunturali, prodotto essenziale del sistema perverso o sottoprodotto accidentale negativo di un sistema sociale non necessariamente negativo…

Così, per esempio:

Chi ritiene “naturale” la attuale divisione così designale della ricchezza nel mondo (la famosa “coppa di champagne” dei documenti del PNUD), penserà anche – con buona logica – che Dio non si pronuncia su di essa, o che solamente ci esorta all’elemosina, alla beneficenza, alla gratuità generosa… come palliativi per queste deplorevoli differenze “naturali”…

Chi, al contrario, ritiene che questa divisione del mondo è ingiusta e peccaminosa, sosterrà – anch’egli con buona logica – che Dio è irritato con questa e che desidera ardentemente che sia abolita, e che vuole che li aiutiamo a combattere questo ingiusto disordine con un impegno radicale per la giustizia;

Chi pensa che questa situazione del mondo è il peggior dramma della umanità attuale considererà anche che il suo superamento urgente esprime la più grande e più pressante volontà di Dio;

Chi considera che il neoliberalismo è innocente, o che è il “minor male dei sistemi”… sosterrà che Dio vuole che lo appoggiamo, o anche che lo “miglioriamo” in alcune delle sue “deficienze accidentali”;

Chi, al contrario, ritenga che il neoliberalismo è ingiusto, o perfino la maggiore ingiustizia, la più strutturale, riterrà che Dio vuole che combattiamo questa struttura di peccato nel modo più deciso possibile.

Per questo, parrebbe chiaro che il problema teologico si indirizza verso la discussione e l’analisi delle mediazioni, e che le discrepanze si situerebbero non al livello propriamente teologico dei principi, ma al livello prudenziale delle mediazioni. Tuttavia, questa è solo la metà della verità, perché il nostro concetto di giustizia fa parte delle nostra scelta di Dio. “Dimmi cosa intendi per giustizia, e ti dirò qual è il tuo Dio”. Dimmi in quale giustizia credi e ti dirò quale Dio adori.

Siamo soliti pensare che il nostro concetto di giustizia ci viene dal Dio creduto, però anche il contrario è certo: crediamo solo nel Dio che entra nel nostro concetto di giustizia. E l’opzione più fondamentale della nostra vita può essere quella dalla quale optiamo per un concetto o un altro di giustizia, giustizia che è contemporaneamente la nostra utopia per il mondo. La nostra immagine di Dio è figlia della opzione dalla quale scegliamo il nostro concetto di giustizia e la sua corrispondente utopia per il mondo. E viceversa: molti non arrivano ad accettare un concetto utopico di giustizia perché previamente hanno fatto la opzione per il Dio dell’egoismo e delle sue ricchezze.

La OP è dunque contemporaneamente una opzione per Dio (dei poveri) e una opzione per la Giustizia utopica (del Regno). La “opzione per i ricchi” è contemporaneamente una rinuncia al Dio dei poveri e una opzione per una giustizia sottomessa all’egoismo. La opzione per i poveri o per i ricchi, la giustizia utopica e la giustizia sottomessa, e il Dio dei poveri o il suo rifiuto, sono mutuamente implicati in un circolo ermeneutico. L’obbedienza a Dio non la valutiamo in una relazione diretta verso Dio ma piuttosto nella scelta di un ideale di giustizia utopica o di una giustizia sottomessa. Principi e mediazioni sono più mutuamente implicate di quello che sembrerebbe. Dio è giusto, e la giustizia è divina. L’opzione per i poveri è contemporaneamente un atto di fede nel Dio dei poveri e una opzione etica e umanizzante per la giustizia (quella dei poveri e quella di Dio simultaneamente). Per sua parte, la opzione per l’egoismo è contemporaneamente una ingiustizia e un rifiuto di(del) Dio (dei poveri). E torniamo all’inizio: Dio e la OP non si possono separare, perché la OP si fonda in Dio stesso, nella Sua Giustizia. La gratuità di Dio è un altro tema.

 


 

[1] “Diciamolo con chiarezza: la ragione ultima di questa opzione è nel Dio in cui crediamo. (…) Si tratta per il credente di una opzione teocentrica, basata su Dio”. Gustavo GUTIERREZ, El Dios de la Vida, «Christus» 47(1982)53-54, México; La fuerza histórica de los pobres, Lima 1980, págs. 261-262.

[2] Nonostante che sia una ovvietà, si veda la tesi dottorale di Julio LOIS, Teología de la Liberación: Opción por los pobres (IEPALA, Madrid 1986) che studia la OP in vari dei principali teologi della liberazione del periodo classico.

[3] Un caso chiaro può essere quello di Gustavo Gutiérrez. In un discorso pronunciato davanti a Ratzinger, afferma: “La tematica della povertà e la marginalità ci invitano a parlare di giustizia e a tener presente i doveri del cristiano a questo proposito. Così è in verità, e questa prospettiva è senza dubbio feconda. Però non bisogna perdere di vista quello che fa sì che la opzione preferenziale per i poveri sia una prospettiva così centrale. Alla radice di questa opzione c’è la gratuità dell’amore di Dio. Questo è il fondamento ultimo della preferenza.”

A partire da questo momento non torna più ad apparire la parola “giustizia” nella sua dissertazione e tutta la OP gira intorno alla “gratuità”. Cfr. Una teología de la liberación en el contexto del tercer milenio, in VARIOS, El futuro de la reflexión teológica en A.L., CELAM, Bogotá 1996 pag, 111. Non si tratta di un testo isolato ma, nella mia modesta opinione, di una prospettiva ammorbidita comune nella teologia della OP di Gustavo da più di dicei anni; cfr. Pobres y opción fundamental, in Mysterium Liberationis, UCA Editores, San Salvador 1991, 303ss, 310.

[4] Poveri che erano una realtà “collettiva, conflittuale e socialmente alternativa”: C. BOFF, ¿Quiénes son hoy los pobres, y por qué?, in J.PIXLEY-C.BOFF, Opción por los pobres, Paulinas, Madrid 1986, 17ss.

[5] Un amore uguale per tutti ma che inizia dai poveri e che continua con i ricchi, senza fare fra loro nessuna differenza; un “amore ugualitario ma con un ordine di priorità”, semplicemente.

[6] Chi opta “preferenzialmente” per la giustizia, opta anche, benché meno preferenzialmente, per la ingiustizia. Nel dilemma di giustizia e ingiustizia non ci sono “semplici preferenze” possibili: l’opzione è fra alternative di una disgiuntiva escludente.

[7] Ricordiamo la posizione teologica medioevale (il “volontarismo etico”) di chi sosteneva che l’ordine morale attuale non era necessario ma contingente, e che obbediva a una volontà positiva e gratuita (arbitraria) di Dio. L’ordine morale – sosteneva questa dottrina – avrebbe potuto essere un altro, incluso il contrario dell’attuale, se Dio lo avesse voluto in un imperscrutabile disegno arcano della sua volontà.

[8] J.M. VIGIL, Opzione per i poveri: Preferenziale e non escludente?, in J.M.Vigil (org.), Con i poveri della terra. Studio interdisciplinare sull’opzione per i poveri, Cittadella Editrice, Assisi 1992, p. 70ss.

Colombia (Paulinas 1994), Ecuador (Abya Yala 1998), Italia (Cittadella 1992), Brasil (Paulinas 1992).

[9] Come quando si argomentava che i ricchi erano i veri poveri (poveri in ricchezze spirituali, delle quali i poveri erano molto ricchi)… Si arrivò a veri giochi di parole o acrobazie concettuali per non intendere l’ovvio. Casaldaliga dette testimonianza poetica di questo nelle sue Bienaventuranzas de la conciliación pastoral.

[10] Povertà di spirito, poveri di Jahvé, virtù della povertà, anawin, infanzia spirituale…

[11] “Opzione per i senza giustizia” è una espressione precisa, che rifugge dalla possibilità di essere mistificata o metaforizzata.

[12] Come è il caso delle povertà “naturali”, non storiche, senza colpa di qualcuno.

[13] Per questo i nuovi soggetti non necessitano di una “opzione” per la donna, l’indigeno/a, l’afro… ma è la opzione stessa per i “senza giustizia” che include tutti e tutte.

[14] “Definizione essenziale”, come dice la logica classica, è quella che non solo discrimina adeguatamente l’oggetto ma che lo fa in riferimento alla sua essenza (e non, per esempio, in base a un “proprio” o a un insieme di accidenti sufficientemente discriminanti).

[15] J.M. VIGIL, ibid.

[16] O di quelle classicamente dette “opere di misericordia”; per questo, la OPP può essere chiamata appropriatamente, in effetti, “amore preferenziale per i poveri”. Questo è tutto. La OP è un’altra cosa.

[17] L’atto per il quale una persona fa la sua OP o sceglie il suo luogo sociale partecipa del carattere antropologico esistenziale che ha la cosiddetta “opzione fondamentale”.

[18] Dio non fa favoritismi (Rom 2, 11). Il Sovrano di tutti non fa differenze fra le persone e non farà caso alla grandezza (Sab 6, 7). Un giudizio implacabile attende i potenti; il piccolo ha le sue discolpe e merita compassione, ma i potenti saranno castigati severamente. Egli creò i grandi e i piccoli di tutti ha cura allo stesso modo. I potenti saranno esaminati con più rigore. (Sab 6, 6.7b.8). Maestro, sappiamo che sei giusto e non fai differenza fra le persone… (Mt 22,16). L’essere umano guarda le apparenze ma Jahvé guarda il cuore… (1 Sm 16, 7).

[19] “La lotta per la giustizia è come un altro nome del Dio dell’Antico Testamento e del Dio di Gesù»: Rufino VELASCO, La Iglesia de Jesús, Verbo Divino, Estella 1992, 33.

[20] Ecclesiastiche o disciplinari per esempio.

[21] “Personalmente penso che con la opzione preferenziale per i poveri si è prodotta la grande necessaria rivoluzione copernicana nel seno della Chiesa, il cui singificato deborda dal contesto ecclesiale latinoamericano e concerne la Chiesa universale. Sinceramente, credo che questa opzione costituisca la più importante trasformazione teologico-pastorale accaduta dalla Riforma protestante del secolo XVI». L. BOFF, citato da Julio LOIS, in Teología de la liberación: Opción por los pobres, IEPALA, Madrid 1986, 193.

[22] E’ quanto si vorrebbe dire con la preferenza dell’aggettivo dinamico “impoveriti” (come dinamico è anche il concetto di “senza giustizia”) rispetto al nome statico di “poveri”.

[23] Per “modo di vita del ricco” intendiamo tutto quello che implica il ricco – eccetto la sua stessa persona -: il suo stile di vita, il suo ruolo sociale, la Causa che obiettivamente serve, il suo lusso, il suo sfruttamento dei poveri, la sua partecipazione al sistema che li sfrutta…

Notiziario della Rette Radie Resch» 64(giugno 2004)48-56. Quarrata PT, Italia.


 

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