25 novembre: violenza rosa a Lucca

Violenza sulle donne: a Lucca denunce in aumento. Manca una casa rifugio per le emergenze: i medici costretti a ricoverare le vittime per non rimandarle a casa

 

 

Brunella Menchini su ‘lo Schermo’ fa un apprezzabile punto della situazione a Lucca dove si registrano denunce in aumento e difficoltà di dare un efficace aiuto nel sottrarre le vittime alla violenza il più delle volte intrafamiliare

 

lacrima

 

 “Le donne maltrattate a Lucca vengono ricoverate. Per una notte, o anche di più. Se ci sono figli ricoveriamo il bambino in pediatria così la madre può rimanere ad assisterlo ed evitiamo che torni a casa”. A parlare è Piera Banti, dottoressa referente per il codice rosa di Lucca la quale, durante un convegno che si è tenuto giovedì scorso all’Associazione Industriali, ha lanciato un allarme serio e concreto: “Servono case per la prima emergenza. Posti letto in cui collocare le donne dopo che sono state medicate in attesa che si attivino i servizi sociali”.

La vittima è italiana, ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, spesso è diplomata. In 141 casi la violenza è psicologica mentre per 104 donne si è trattato di violenza fisica o addirittura sessuale (7 casi denunciati nel 2013). Autore della violenza è il coniuge (66 casi su 189) o il convivente (29 casi), ma non mancano gli ex mariti, che sono 14 o i compagni non conviventi (16 casi). Spesso i figli assistono a questi episodi (93 casi su 180) e per lo più sono minorenni (121 su 168). Questi sono i numeri in provincia di Lucca che conta in tutto 335 casi accertati.

violenza

 Il 25 novembre è giornata internazionale dedicata alla violenza contro le donne: sulla stampa locale e non, si sono rincorsi negli ultimi giorni articoli che hanno snocciolato numeri in sensibile crescita, dati e medie nazionali. Ogni Ente ha organizzato incontri e tavole rotonde.

Ma i numeri restano numeri se non facciamo lo sforzo di guardare oltre. Non siamo di fronte a un aumento di violenza ma a un aumento di denunce. Il fenomeno comincia a poco a poco a venire a galla perché le donne hanno iniziato a parlare. Il tam tam mediatico resiste, il confronto continuo fra medici, operatori sociali e forze dell’ordine funziona: il codice rosa attivo nella nostra provincia ormai da quasi due anni ne è un esempio concreto. Nel 2011 furono 11 i casi rubricati come violenza domestica, 250 nel 2012, primo anno della sua entrata in vigore, mentre ad oggi solo nel 2013 sono 291. Lucca ha la fortuna rara di avere due codici rosa attivi, uno per la piana e l’altro per la Versilia, con due magistrati dedicati e un team di professionisti che operano 24 ore su 24 in caso di emergenza.

La rete c’è. Mancano le strutture.                             

“Sono donne che arrivano anche in piena notte – spiega la dottoressa Banti – spesso senza niente, solo con quello che hanno indosso. Succede che arrivino con i figli in braccio: bambini che hanno assistito alla violenza. A Lucca esistono alcune case ad indirizzo segreto ma i posti letto sono davvero pochi e poi non possiamo mischiare chi ha già intrapreso un percorso con chi è appena agli inizi”.

Donne che scappano da casa e trovano riparo tra le mura di un ospedale, spesso l’unico posto disponibile dove trascorrere l’anestesia delle botte. Sentirsi sicure con i bambini nel letto vicino senza dover respirare in punta di piedi. Domani è un altro giorno, domani arrivano i servizi sociali. La verità è che spesso domani si torna a casa perchè il baratro di incertezze che si para davanti smorza ogni decisione. E via da capo. Come un incubo da cui non si riesce ad uscire. Fino al prossimo ingresso in ospedale, ogni volta peggiore della prima.

Già nei mesi scorsi Giovanna Cagliostro, prefetto di Lucca, aveva lanciato la richiesta accorata della costruzione di una casa rifugio. Ma ancora nessuno sembra aver accolto il suo suggerimento.

“Dicono che mancano soldi – spiega la dottoressa Banti -. Ma è vitale investire in questo settore. Servono persone non improvvisate, medici, psicologi, gente che con la competenza e la professionalità si guadagna il rispetto e la fiducia di queste donne. Perché alla minima mossa sbagliata, si chiudono in se stesse e allora non possiamo più fare niente”.

Vite compromesse. Vite segnate dalla vergogna proprio perché non sbandate ma inserite in un contesto sociale che le vede attive. Perché gli uomini che usano violenza sono ‘uomini normali’ e spesso all’esterno sono affidabili e pronti allo scherzo.

Proprio per loro, per gli uomini che maltrattano, sarà attivato a breve, anche grazie ai fondi del Rotary, uno sportello dedicato. L’esperimento è in corso a Firenze ormai da quattro anni e sembra che funzioni. Di primo acchito la sensazione è che si guardi ai carnefici invece che alle vittime: “Gettateli in galera e buttate via la chiave” viene da dire. Ma non è così che funziona.

Perché è importante un centro di ascolto di questo tipo? “Perché un marito violento è spesso anche un padre e con i figli dovrà rapportarsi in qualche modo – conclude la Banti -. La violenza poi molte volte è intergenerazionale oltre che seriale. Un uomo maltrattante ha spesso subito a sua volta violenza. E’ poi assai probabile che il suo atteggiamento non si fermi a una sola vittima ma una volta che questa se n’è andata, si manifesti anche nei confronti di altre donne. In ultimo poi, molte donne non vogliono lasciare il compagno di una vita. Vogliono solo che smetta di essere violento. E rivolgersi a uno di questi centri può essere un inizio”.

 Brunella Menchini

25 novembre: contro ogni violenza colorata di rosa

 

lacrima

 

25 novembre: giornata mondiale dedicata alla riflessione sulla violenza operata sulle donne

riporto qui sotto la ‘lettera’ che Cristina Comencini scrive ‘agli uomini che odiano le donne’:

 

Lettera agli uomini che odiano le donne

 

Noi donne occidentali siamo le prime madri libere dal destino della maternità: possiamo scegliere di essere donne senza figli. Nella madre antica, il primo anno di vita e quelli seguenti creavano nel bambino un’idea di donna che si prolungava nell’età adulta, in cui il destino della ragazza era quello di sposa e madre e quello dell’uomo di trovare la donna madre dei suoi figli.

Non c’era rottura, contraddizione, tranne quella che derivava dall’infelicità e dal sacrificio insiti nel destino femminile. A noi, madri nuove, viene richiesto un doppio salto mortale: dobbiamo essere pronte allo stato fisico e mentale che permette lo sviluppo del bambino, ma restiamo donne libere, ambivalenti nel desiderio di vivere pienamente il rapporto esclusivo a due col bambino ma di non esiliarci dal lavoro lasciato. Nel passaggio di testimone dalla nuova madre alla nuova figlia, la bambina ne osserva la vita: la libertà, il lavoro, la parità e comincia a cercare, a costruire la sua identità sulla nuova identità della madre. Il figlio maschio di questa nuova madre e la madre nuova di questo figlio affronteranno invece una relazione molto complessa: la sessualità, l’immaginazione, il desiderio, la sicurezza iniziano a formarsi in lui con la madre dedita dei primi mesi e dei primi anni, che si trasformerà poi davanti agli occhi intimiditi del ragazzino, in una donna forte, sicura di sé, piena di autorità, che va fuori nel mondo senza paura, concorre col padre, tiene testa agli uomini. Questo figlio cresce con l’idea che l’uomo non è sempre simbolo di forza, che il padre non ha l’esclusività del ponte col mondo, che non può riferirsi a lui per ogni aspetto della sua virilità nascente. Il padre gli sembra a tratti impaurito e lui tenderà a difenderlo contro la madre, prendendo così le parti di se stesso, messe a dura prova dalla sicurezza materna. Il ragazzo vede fuori casa molte ragazze che somigliano alla madre nuova che ha scoperto crescendo e non sa assolutamente come dovrà affrontarle, amarle, farci l’amore, pensa che potrebbe prendere la scorciatoia e incontrarne una più fragile o tradizionale, che si faccia guidare e proteggere da lui. E qualche volta la trova, ma non sa che anche nella più tradizionale delle donne il germe dell’autonomia conquistato dalle nuove madri è fiorito all’insaputa della ragazza. Capiterà che la ragazza si senta incerta come lui, che odi la madre nuova, con tutta la sua sicurezza vincente. E allora specularmente al ragazzo in cerca di un passato impossibile, si fingerà sottomessa, materna, unica. Una felicità fragile che si fonda su una frase fondamentale: noi non ci lasceremo mai. E poi un giorno, lei o lui dirà la frase proibita: ti lascio. Solo che se la pronuncerà lui, lei piangerà e scriverà sul diario e ne parlerà con le amiche come nell’Ottocento. Lui invece potrebbe pensare di ucciderla, come si uccideva in duello nell’Ottocento per una donna, o farlo come avrebbe voluto qualche volta sopprimere la madre che quest’epoca gli ha dato. La violenza sulle donne — si celebra oggi la giornata mondiale contro il femminicidio — è frutto di questo nuovo, non un retaggio dell’antico. Usa forme antiche ma è del tutto nuova e legata alla libertà delle donne, delle madri, alle loro contraddizioni, al mutamento troppo lento degli uomini, dei padri di fronte a questa nuova libertà. Eppure è negli uomini, nei padri, nella loro riflessione, nella ripresa del loro ruolo centrale accanto alle donne che siamo oggi, che io penso possa compiersi la rivoluzione che le donne hanno iniziato. Le nuove donne devono continuare a essere differenti dagli uomini e fare valere in tutti i campi la ricchezza della loro storia, della loro intelligenza, dei loro pensieri, ma devono anche cambiare nel profondo e lasciare agli uomini la loro parte di responsabilità nel nuovo mondo. I ruoli dell’uno e dell’altra, rimanendo differenti, possono sovrapporsi e prendere l’uno dall’altra. E la madre può cedere la sovranità assoluta per una libertà conquistata che apre le porte di un mondo vasto, ricco della presenza di Due diversi ma pari. E penso che il padre possa insegnare la sua nuova forza al figlio: un dominio sovrano che deve trasformarsi nell’accoglimento della differenza delle donne, della loro parità. Può insegnare al figlio a non averne paura, a parlarne, sottraendo così il dialogo sui sentimenti all’impero delle donne. Forse la nuova forza degli uomini è fatta anche del pianto di Ulisse — uomo per eccellenza — che nell’isola dei Feaci ascolta il racconto della guerra di Troia e piange, coprendosi il viso col mantello purpureo, «come donna piange lo sposo che cadde davanti alla città». Forse l’uomo può piangere ora come uomo, senza coprirsi il viso, anche davanti al figlio, e aprirsi nel racconto all’altro da sé. E le donne al contrario possono diventare più lievi, manifestare la loro imperfezione, dare ai figli la manifestazione vera di quello che sono e la possibilità di tenere testa senza violenza alle giovani donne libere che incontreranno nella loro vita adulta. Abbiamo la fortuna di vivere uno dei cambiamenti più importanti della storia, il mutamento profondo del rapporto tra i due generi, questo mutamento può cambiare il mondo e in questo nuovo mondo le donne e gli uomini possono amarsi e comprendersi molto più di prima.

Da La Repubblica del 25/11/2013.

giornata mondiale della violenza contro le donne

 

Scarpette rosse

prendo dal sito di ‘patriziaportoghese.com’ questa foto per  Quantcastun piccolo pensiero per la giornata del 25 novembre , giornata mondiale dedicata alla violenza contro le donne

Rosse come le gocce di sangue

rosse come le lacrime cessate

rosse come le guance offese

rosse come le ciocche spezzate

rosse come le fiamme accese

rosse… rosse… rosse… rosse

Scarpette rosse simbolo delle donne violentate, umiliate, uccise.

(Pattyrose)

La sedicenne di Modena che ci svela il nostro abisso

nel bicchiere

un bel commento di Concita De Gregorio sulla violenza di gruppo su una sedicenne da parte dei suoi amici  avvenuto a Modena in un contesto di festa di gente ‘bene’:

Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco, non è nemmeno un gioco

di CONCITA DE GREGORIO

Ce l’avete, ce l’avete avuta una figlia di sedici anni? Che si veste e si trucca come la sua cantante preferita, che sta chiusa in camera ore e a tavola risponde a monosillabi, che quando la vedete uscire con il nero tutto attorno agli occhi pensate mamma mia com’è diventata, ma lo sapete, voi lo sapete che è solo una bambina mascherata da donna e vi si stringe il cuore a vederla uscire fintamente spavalda. Dove va, a fare cosa, con chi. Ve li ricordate, i vostri sedici anni? Quando Facebook non c’era e passavate pomeriggi al telefono fisso a dire no, sì, ma dai…, e poi quando vostro padre vi diceva ora basta, libera quel telefono vi chiudevate in camera, anche voi, a scrivere a penna su quaderno ché il computer non c’era, e se c’era era uno solo, enorme, sempre spento, inaccessibile. Ecco, fate lo sforzo di ricordare perché una ragazza di sedici anni è quella cosa lì, da sempre e per sempre anche se cambiano i modi e le mode, i vestiti e le canzoni, i modi di parlarsi perché con la chat si fa più in fretta ma è uguale, in fondo.
È come stare pomeriggi interi al telefono, a canzonare il tempo a prenderlo in contropiede e ingannarlo. Una ragazza di sedici anni è una persona a cui la vita deve ancora succedere e non lo sa, e ha un po’ paura e un po’ fretta, e molto desiderio che passi veloce il momento e che arrivi quello, alla meta dei diciotto, in cui “nessuno mi può obbligare, ora”.
Io non lo so, nessuno lo sa tranne lei e quelli che erano lì, cosa è successo alla ragazzina di Modena che  –  dicono gli investigatori, i parenti, ora anche gli adulti che rivestono incarichi pubblici – una sera d’estate a una festa di compagni di scuola è stata violentata da cinque, sei, non è sicuro quanti amici. Amici, attenzione. Nessun livido, nessun graffio, nessun segno di violenza che segnali la sopraffazione fisica in senso proprio. Erano compagni di scuola. Alcuni maggiorenni da poco, varcata l’agognata meta dei diciotto, altri, almeno uno, no. Aveva bevuto lei, avevano bevuto probabilmente tutti perché come sa chi si guarda intorno gli adolescenti, oggi, bevono. Superalcolici, moltissimo. Costano meno delle droghe, spesso si trovano nelle case già disponibili all’uso. Shortini, alla mescita. Pochi euro a bicchiere, nessuno chiede la carta d’identità. Bevono i quindicenni come i trentenni, uguale.
Io non lo so com’è andata, quella sera, in una casa della più rassicurante delle città emiliane, la Modena delle scuole modello degli imprenditori che non si arrendono al terremoto, delle donne imprenditrici che vendono figurine nel mondo, dei ristoranti celebrati oltreoceano. Uno faceva il palo, scrivono gli agenti di polizia, gli altri a turno nella stanza “avevano rapporti sessuali completi” con la ragazzina. Non c’è niente di più algido di una relazione, niente di meno adatto a descrivere il tumulto, il disordine, lo sgomento, la resa. Lei cosa pensava, come stava, cosa voleva, cosa diceva? Non si sa, nessuna relazione può raccontarlo.
Dicono, i verbali, che erano tutti ragazzi “incensurati e di buona famiglia”. Aggiungono, le cronache, che sono passati quasi due mesi dall’evento e che nessuno  –  nessuno  –  ha fatto un gesto o ha detto qualcosa, né a scuola né in famiglia, nelle molte famiglie coinvolte, che somigliasse alla presa d’atto di un reato, o quanto meno di una vergogna, di una colpa, di un dispiacere. Niente, silenzio. Il sindaco ieri ha detto che “inquieta che questi ragazzi non distinguano il bene dal male”. Inquieta, certo. Pone il problema della responsabilità. È loro, che geneticamente, naturalmente non sanno distinguere o è della generazione che li ha cresciuti, e non gli ha fornito i ferri essenziali per l’opera di elementare distinzione? È dei figli o dei padri, la colpa?
Anni fa, a Niscemi, Caltanissetta, un gruppo di minorenni massacrò di botte, strangolò con un cavo di antenna e gettò in una vasca di irrigazione una coetanea, Lorena Cultraro, 14 anni. Era incinta, rivelò l’autopsia. Uno degli assassini, quindicenne, chiese al giudice, dopo aver confessato l’omicidio: “Ora che le ho detto cosa è successo posso tornare a casa?”. A vedere la tv, a giocare alla play. Tornare a casa. Era il 2008, cinque anni fa. Si scrissero articoli sgomenti, intervennero psicologi di fama, dissero che certo in quelle zone del Paese, al Sud, è tutto più difficile. Zone d’ombra, povertà di mezzi e di sapere, l’adolescenza sempre un enigma. Ora, cinque anni dopo, siamo a Modena. Emilia culla di bandiera di democratica civiltà e di sapere. Certo questa ragazzina non è morta, per sua fortuna. Forse non ha nemmeno lottato per evitare quel barbaro rituale che chissà, magari era proprio quello che l’avrebbe fatta diventare grande, finalmente. Forse per qualche tempo ha pensato: è stato quello che doveva essere.
Però arriverà, deve arrivare, il momento il tempo e il luogo in cui qualcuno di molto molto autorevole senza essere per questo canzonato e dal coro irriso dica no, non è quello che deve, non è questo che devi accettare per essere accettata. Non devi fare silenzio. Verrà il giorno in cui questo tempo avariato scadrà e sarà buttato come uno yogurt andato a male e ricominceremo tutti, dalle case, dalle televisioni, dai giornali, dalle scuole elementari a dire alle bambine: quando ti chiedono di stare al loro gioco, digli di no. È un gioco sbagliato, non è il tuo gioco. Non è nemmeno un gioco.
Verrà il giorno in cui capiremo l’abisso in cui siamo precipitati pensando che fosse l’anticamera del privé del Billionaire, che fortuna essere ammessi all’harem, e sapremo di nuovo dire, come i nostri nonni ci dicevano: è una trappola, bambina. Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.

 

     

 


 

 

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