Boff ricorda A. Zarri

i papaveri, la mistica e la gatta

di Leonardo Boff
in “il manifesto” del 18 novembre 2020

La chiesa cattolica italiana ha rappresentato, nel corso della sua storia, una florida contraddizione.
Da una parte c’è la forte presenza del Vaticano, che rappresenta la Chiesa ufficiale con la sua massa
di fedeli tenuti sotto un vigile controllo sociale dalle dottrine e, soprattutto, dalla morale familiare e
sessuale. Dall’altra parte c’è la presenza dei cristiani, laici e laiche, non allineati, resistenti al potere
monarchico e implacabile della burocrazia della Curia romana, ma aperti al vangelo e ai valori
cristiani senza rompere con il papato pur criticandone le pratiche e l’appoggio che dà a regimi
conservatori, compresi quelli autoritari.
Così ritroviamo nel XIX secolo la figura di Antonio Rosmini, fine filosofo e critico
dell’antimodernismo dei papi. In tempi recenti incontriamo figure come Mazzolari, Raniero La
Valle, Arturo Paoli, l’eremita Maria Campello.
Ma, tra tutti, emerge Adriana Zarri, eremita, teologa, poeta ed esimia scrittrice. Oltre ai libri,
scriveva settimanalmente per il manifesto e ogni quindici giorni per la rivista di cultura Rocca.
Adriana Zarri era durissima riguardo il corso della Chiesa sotto i papi Wojtyla e Ratzinger, che
accusava esplicitamente di tradire i tentativi di riforma approvati dal Concilio Vaticano II (1962-
1965) e di tornare a un modello medievale dell’esercizio del potere e di presenza della Chiesa nella
società. Adriana è morta dieci anni fa, il 18 novembre, a oltre 90 anni.
Andai a trovarla diverse volte al suo eremo, vicino Strambino in nord Italia. Viveva sola in un
enorme e vetusto casale, pieno di rose e con la sua amata gatta Arcibalda. Aveva una cappella con il
Santissimo esposto, dove si raccoglieva in preghiera e profonda meditazione varie ora al giorno.
Durante le nostre conversazioni voleva sapere tutto delle comunità ecclesiastiche di base,
dell’impegno della Chiesa nella causa dei poveri, dei neri e degli indigeni.
Aveva una simpatia particolare per i teologi della liberazione, nel vedere la persecuzione cui erano
sottoposti dalle autorità del Vaticano che li trattavano, secondo lei «a bastonate», mentre usavano i
guanti di seta con i seguaci scismatici di monsignor Lefèbvre.
Il suo ultimo articolo, pubblicato tre giorni prima della sua morte, lo dedicò alla sua amata
Arcibalda. Con lei, come posso personalmente testimoniare, aveva una relazione affettuosa, come
può esserci tra amici intimi. Quella che la grande psicoanalista junghiana Nise da Silveira descrisse
nel suo libro Gatti come l’emozione di convivere, così confermata da Zarri: «il gatto ha la capacità
di captare il nostro stato d’animo; se mi vede piangere immediatamente viene a leccare le mie
lacrime». Raccontano che mentre Adriana moriva la gatta le era vicina. Nel vedere arrivare gli
amici per la veglia funebre si rotolava, nervosa, nella tenda della sala e, poco prima che chiudessero
il feretro, come se conoscesse il momento, entrò discretamente nella cappella.
Alcuni, sapendo dell’amore della gatta per Adriana Zarri, la presero per il collo avvicinandola al
viso della defunta. Lo guardò a lungo, sembrava piangesse. Poi si mise sotto il feretro e lì rimase in
assoluta quiete. Adriana Zarri ha lasciato scritto il suo epitaffio che vale la pena di riportare:

«Non vestitemi di nero. È triste e funereo. Né di bianco, perché è superbo e retorico. Vestitemi di fiori gialli e rossi, e con ali di uccellini. E tu, Signore, guarda le mie mani. Può esser che ci hanno messo un rosario o una croce.
Ma si sono sbagliati. In mano ho delle foglie verdi e sulla croce, la tua resurrezione. Non mettete
sulla mia tomba un freddo marmo con le solite bugie per consolare i vivi. Lasciate che sia la terra a
scrivere, a primavera, un epitaffio di erbe a dire che ho vissuto e che aspetto. Allora, Signore, tu
scriverai il tuo nome e il mio, uniti come due bocche di papaveri».

a proposito della quaresima e delle ceneri

 

 

tre riflessioni sul senso della quaresima e delle ceneri come preparazione alla pasqua: p. Maggi, A. Zarri, p. E, Bianchi

il grido disperato di Davide

 

QUARESIMA
Istruzioni d’uso
di padre Alberto Maggi

maggi

Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare.
  Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, da rinunzie e sacrifici e dalle mortificazioni.
  Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo” (Mc 1,15). Le prime parole pronunciate dal Cristo non sono un invito alla conservazione, ma al cambiamento. Gesù non viene a mantenere la situazione così com’è, ma a trasformarla: il cambiamento deve essere il motore della vita del credente, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e dando adesione alla buona notizia di Gesù.
  L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e capace di superare la morte.
  In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima.
 Mai Gesù nel suo insegnamento ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “MISERICORDIA IO VOGLIO E NON SACRIFICI” (Mt 12,7). La misericordia orienta l’uomo verso il bene del fratello. I sacrifici e le penitenze centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: “Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23).  
  Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche dirigono l’uomo verso un’ impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quanto grande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, che è immediato e concreto tanto quanto è grande la propria capacità di amare.
  La quaresima, pertanto, non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Si tratta di scoprire forme inedite, originali e creative di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria.

  Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi, verso la fine della brutta stagione, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra.
> Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere. Creati a immagine di Dio (Gen 1,27), il Creatore ha posto in ogni uomo la sua stessa capacità d’amare. La Quaresima è il tempo propizio perché questo amore fiorisca in forme nuove, originali, creative.
  Auguri!

croce

Il deserto, le Ceneri e la Risurrezione

una riflessione di Adriana Zarri

Nel primo giorno di quaresima mi giungono tra le mani alcune sollecitazioni interiori sulla preghiera di Adriana Zarri, raccolte una trentina d’anni fa ma pubblicate lo scorso anno da Rubbettino con il felice titolo di Nostro Signore del deserto. Meditazioni sulla preghiera. La Zarri, scrittrice, teologa ed eremita, voce originale e profetica del panorama cattolico scomparsa nel 2010, una vita spesa sul crinale di una fede sempre limpida e di una critica alle incrostazioni temporali che avvolgono lo Spirito, ci riporta, con questo libro, all’essenza stessa della fede e della mistica cristiana. Non c’è zavorra estetica nel suo pregare, né richieste petulanti o obblighi da assolvere, né tantomeno strizza l’occhio a riti o pratiche religiose.

In realtà, nell’universo mistico della Zarri, c’è quel connubio, sempre felicissimo laddove riuscito, tra cielo e terra. La fede, per mezzo della preghiera, si rafforza nel verso degli uccelli, nel ritmo della natura e delle stagioni che fa sbocciare i fiori e crescere i frutti, nell’amicizia tra gli uomini che sfocia in baci e abbracci. Perfino il pudore gestuale, il linguaggio gestuale, i messaggi espressivi del corpo, sono anticamera del sacro, dove il pregare non è chiedere le cose, ma è il chiedere il regno e il pane.Una preghiera quasi “carnale”, quella che ci viene proposta, quasi un erotismo della preghiera che non ammette ostacoli mistici e anzi, lascia al lettore e al cercatore di silenzi dell’anima, quel senso di approdo verso un desiderio di deserto, tipicamente femminile, perché la Zarri è fortemente teologa donna, dove l’amore (al femminile) contagia e rende liberi.

La preghiera è una questione ontologica, cioè del nostro essere, del nostro stare al mondo. E quindi è un fatto d’amore. Fede, amore e preghiera si confondono e si distanziano, si toccano e si lasciano, prendono forma insieme e si nutrono a vicenda. Su tutti, l’amore viscerale per Gesù di Nazareth, l’uomo figlio di Dio che ha saputo abbracciare l’umanità in una follia collettiva e individuale d’amore puro.

Le Ceneri di questo duemilaquindici dopo la Sua venuta, ci dicono che l’urgenza di tornare alle piccole cose della vita quotidiana hanno in sé qualcosa di divino. L’ultima goccia di amore del buon Dio che riversa su di noi, il popolo traditore, non meritevole di atto di fiducia sacra.Qui, di nuovo, parte la sfida. Una Quaresima che ci appare lontana, per consuetudini legate alla velocità e alla frammentazione del vivere, diventa anche per noi, umanità allo sbando, una possibilità concreta di appartenere al sacro. Per poche ore, per un attimo, per quaranta giorni.

Respirare con esso, sentirsi consumato da esso, e gioire con lo Spirito che pure è legato a frammenti di vita, rafforza, talvolta allieta la nostra anima e la spinge verso i territori più ardui e difficili della Risurrezione.

riflessioni politico-religiose indotte dalla morte di Andreotti

QUARESIMA

Mercoledì delle ceneri 
“Alla ricerca della verità del proprio essere”
di Enzo Bianchi  
“Ogni anno ritorna la quaresima, un tempo pieno di quaranta giorni da vivere da parte dei cristiani tutti insieme come tempo di conversione, di ritorno a Dio. Sempre i cristiani devono vivere lottando contro gli idoli seducenti, sempre è il tempo favorevole ad accogliere la grazia e la misericordia del Signore, tuttavia la Chiesa – che nella sua intelligenza conosce l’incapacità della nostra umanità a vivere con forte tensione il cammino quotidiano verso il Regno – chiede che ci sia un tempo preciso che si stacchi dal quotidiano, un tempo “altro”, un tempo forte in cui far convergere nello sforzo di conversione la maggior parte delle energie che ciascuno possiede. E la Chiesa chiede che questo sia vissuto simultaneamente da parte di tutti i cristiani, sia cioè uno sforzo compiuto tutti insieme, in comunione e solidarietà. Sono dunque quaranta giorni per il ritorno a Dio, per il ripudio degli idoli seducenti ma alienanti, per una maggior conoscenza della misericordia infinita del Signore.
La conversione, infatti, non è un evento avvenuto una volta per tutte, ma è un dinamismo che deve essere rinnovato nei diversi momenti dell’esistenza, nelle diverse età, soprattutto quando il passare del tempo può indurre nel cristiano un adattamento alla mondanità, una stanchezza, uno smarrimento del senso e del fine della propria vocazione che lo portano a vivere nella schizofrenia la propria fede.

Il mercoledì delle Ceneri segna l’inizio di questo tempo propizio della quaresima ed è caratterizzato, come dice il nome, dall’imposizione delle ceneri sul capo di ogni cristiano. Un gesto che forse oggi non sempre è capito ma che, se spiegato e recepito, può risultare più efficace delle parole nel trasmettere una verità. La cenere, infatti, è il frutto del fuoco che arde, racchiude il simbolo della purificazione, costituisce un rimando alla condizione del nostro corpo che, dopo la morte, si decompone e diventa polvere: sì, come un albero rigoglioso, una volta abbattuto e bruciato, diventa cenere, così accade al nostro corpo tornato alla terra, ma quella cenere è destinata alla resurrezione.
Simbolica ricca, quella della cenere, già conosciuta nell’Antico Testamento e nella preghiera degli ebrei: cospargersi il capo di cenere è segno di penitenza, di volontà di cambiamento attraverso la prova, il crogiolo, il fuoco purificatore. Certo è solo un segno, che chiede di significare un evento spirituale autentico vissuto nel quotidiano del cristiano: la conversione e il pentimento del cuore contrito. Ma proprio questa sua qualità di segno, di gesto può, se vissuto con convinzione e nell’invocazione dello Spirito, imprimersi nel corpo, nel cuore e nello spirito del cristiano, favorendo così l’evento della conversione. … ” (Enzo Bianchi)
Leggi tutto:
http://pietrevive.blogspot.it/…/quaresimamercoledi-delle-ce…

 

ricrordando A. Zarri

zarri

Vita di una eremita

 

di Ilaria Napolitano

 in “Mosaico di pace” n° 2 del febbraio 2014

 

“Ogni vita comincia alla soglia di una tomba” scrisse diversi anni fa André Chouraqui all’inizio della sua stupenda autobiografia (Chouraqui, A., Forte come la morte è l’amore, Cinisello Balsamo 1994, pag. 8). Adriana, alla fine del suo resoconto di vita eremitica, conclude: “… appena il nome, per chi voglia cercarmi tra le tombe, e sotto: ‘Completa la sua resurrezione’. Ma non è necessario cercarmi. Mi basta il ricordo dell’erba che non mancherà di rinverdirmi. E non portatemi fiori: fioriranno le viole” (Zarri, A., Un eremo non è un guscio di lumaca, Torino 2011, pag. 197. Per tutte le successive citazioni si fa riferimento al medesimo testo).

Adriana Zarri: teologa, scrittrice, attenta osservatrice della nostra realtà politica ed ecclesiale, impegnata nelle grandi battaglie civili della storia recente del Paese, dal 1975 sceglie di ritirarsi in campagna abbracciando una forma di vita eremitica, coltivando la terra, occupandosi degli animali e, naturalmente, scrivendo. Informandone con una lettera “circolare” gli amici, sente il bisogno di difendere la sua scelta da due possibili malintesi: il primo che la preghiera, vissuta così radicalmente, possa essere vista come qualcosa di alienante, in antitesi a una piena partecipazione alle cose del mondo; il secondo, più legato alla sua storia personale, che il “ritirarsi”, dopo decenni di lotte e battaglie nell’arena pubblica, dato il “clima restauratore” del momento, possa essere letto come abbandono del campo per “delusione e stanchezza”. nel deserto . Niente di tutto questo: “Nel deserto si entra, si cammina, ci si immerge, assumendo la storia e i problemi di tutti. Impegnandosi e lottando contro le alienazioni di questo mondo, come ho sempre fatto e farò”. E ancora: “la preghiera, anzi, è la contestazione più profonda di questo nostro mondo utilitario, in quanto mette in crisi non già le forme d’espressione in cui si manifesta, ma il modello antropoculturale che le esprime: un modello essenzialmente efficientistico, privo di quegli spazi di fantasia, di poesia, di gratuità su cui si innesta appunto la preghiera”. Quanto alla stanchezza e alla delusione, Adriana chiarisce: “Ma nel silenzio non si entra per stanchezza. Per stanchezza ci si chiude nel mutismo, che è tutt’altra cosa. Né io sono delusa da  Dio, anche se posso esserlo di qualche uomo che tuttavia non può soffocare la speranza, alimentata dallo Spirito”. A distanza di qualche anno, avendo raccolto su richiesta dei suoi lettori in un libro le lettere dall’eremo già pubblicate ogni quindici giorni sulla rivista Rocca, dopo aver riportato la lettera di cui sopra, così commenterà: “Forse, oggi, quella lettera cercherei di farla più scarna, più pulita, forse addirittura meno monastica; e non perché sia diminuito l’amore per questa vita, ma perché è aumentate l’amore per la vita…”. Il resoconto di vita va da una stagione all’altra, da un autunno all’altro, seguendo e impastandosi ai colori, ai profumi, ai lavori in casa e fuori casa nell’orto e con gli animali, dove il “banale” quotidiano e il sublime si assommano e si compenetrano. La solitudine non esclude però i rapporti semplici ed essenziali con gli abitanti del luogo e gli amici ora lontani, perché “l’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro”. Non è tagliato fuori il mondo, grazie a giornali, riviste, corrispondenza: è proprio l’eremita che deve leggere, per non chiudersi ai drammi e al divenire della storia. A chi poi per caso arriva al Molinasso ed esclama: “Beata lei, che abita in questo paradiso, lontana dalla città e dalla cattiveria del mondo!”. Adriana chiede, non senza irritazione, ma anche un poco sorniona, se è disposto a tornarci d’inverno… l’invito è subito declinato all’apprendere che c’è umido, freddo, niente luce elettrica e diversi disagi. Anche all’eremo piove: “piove il cielo aggrondato e piove la vita, con tutti  i pesi e le fatiche che gravano su ogni dimora e su ogni uomo”. Eppure si è nella pace, quella pace simile a un lago profondo e appena increspato in superficie, che niente ha a che fare con la pace mondana del quieto vivere e dell’evitamento. Se all’eremo piove, la serenità non sta nell’aspettare, anche con pazienza, il bel tempo, ma credere che anche la nebbia è sereno e la pioggia sole. L’eremo non è però solo pregno di vicende e accadimenti umani ma, come ogni cascina che si rispetti, è piena di animali. Non mancano i corvi liberi di volare intorno e dentro la stalla, conigli, tacchini, paperi, polli. Fuori dalla stalla tortore, colombi, e naturalmente un cane e un gatto, anzi una gatta, Ottorina, che nelle gelide notti invernali si trasforma in una borsa calda sotto le coperte.

Chiede a un certo punto un lettore: “Come fa un monaco laico a mantenersi? Penso, infatti, che oggi la povertà non escluda l’indipendenza economica, che è dovere per tutti”. Semplice, lavorando. E il lavoro al Molinasso è duro: agosto insopportabilmente caldo, gennaio freddissimo, le zanzare torturano, l’attività della fienagione stanca sul serio, l’acqua spesso gela nella stalla e si è costretti a intervenire con il martello. Un lavoro tosto e scarsamente remunerativo, ma: “Il monachesimo, più o meno consciamente, forse ha intuito che, nell’armonia che si ritesse tra l’uomo e l’universo, il lavoro è un momento forte di dialogo. Perché uno dei frutti della vita monastica mi sembra proprio un grande senso di armonizzazione con le cose; e forse un altro è la scoperta e il gusto del lavoro”. la preghiera . Di fatto si lavora sempre con la fretta, proiettandosi alla fine del lavoro e poi ancora oltre, senza riuscire a stare veramente nel presente, a quello che ci occupa adesso. Una fuga più che un andare verso qualcosa: “Accade anche per il lavoro che l’erba del vicino (ed è magari l’erba del nostro ‘dopo’) ci pare sempre più verde; mentre è esattamente il contrario: l’erba più verde è la mia, quella che cresce nel mio orto, quella del mio ‘oggi’ del mio ‘ora’ perché soltanto quella è stata coltivata da Dio per me, e soltanto quella mi può nutrire di rugiada, di verde, di vita; non di illusioni e di velleità. La cosa più importante è sempre quella che sto facendo. Allora non debbo avere fretta”. È così che alla fine la preghiera stessa si fa indistinguibile dall’abitare il quotidiano: “E mi abbandono alla preghiera personale, senza formule fisse: parole che si smorzano spesso nel silenzio. Neanche sempre in cappella, sovente fuori, stesa sull’erba, immersa nelle cose e nella vita (e gli animali che mi camminano sopra, mi s’accucciano addosso, come un abbraccio caldo di pelo e di respiro). La preghiera non riesuma antichi testi ma è immersa nel mio oggi”. L’intellettuale “pura” di un tempo è divenuta un’intellettuale incarnata, “contaminata, sporca di vita materiale”, che non rinnega metà del suo lavoro, però può consapevolmente dire, giunta all’ultima stagione, che è più importante vivere che fare: “…La vita è una collana di possibilità perdute; e tanto più si fa densa, ricca di curiosità, di interessi, di spazi, tanto più le possibilità, le occasioni, le esistenze perdute aumentano. Ma esse non sono che modi del tutto secondari rispetto a qualche cosa che ci cresce e ci matura dentro, e che è appunto la vita”

La vita, semplicemente

 Adriana Zarri (San Lazzaro di Savena 1919 – Crotte di Strambino 2010) prende molto giovane i voti nella Compagnia di San Paolo a Milano. Ne esce dopo qualche anno, continuando ad approfondire gli studi di teologia, collaborando con riviste specializzate e tenendo conferenze in giro per l’Italia. È stata definita una teologa di linea conciliare molto prima del Concilio. Ha vissuto da eremita dal 1975 prima in una cascina del Canavese, poi a Crotte, paesino nei pressi di Ivrea. Tra gli scritti teologici: La Chiesa nostra figlia (1962); Impazienza di Abramo (1964); Nostro Signore del deserto (1978); Erba della mia erba (1981). Autrice anche di romanzi, tra cui Vita e morte senza miracoli di Celestino VI (2008).

*Ilaria Napolitano è laureata in filosofia, specializzata in educazione degli adulti e counseling clinico a indirizzo psicosintetico

 

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